Deconstructing il faccipensiero

lammillyPSono sicuro che Filippo Facci vi è già noto per la sua amabile e fine retorica, che dispensa soprattutto da quel giornale dal titolo profondamente ironico che è “Libero”. Se non lo conoscete, qui ci sono alcune notizie fondamentali. Ci apprestiamo a commentare una sua ultima perla,  come si conviene a cotanto illuminato pensatore.

Facci: ci mancava la Barbie coi brufoli e le smagliature [il titolo è già tutto un programma, ma Facci è così: non nasconde nulla di sé, è molto generoso]

La Barbie coi brufoli no. La Barbie cessa, struccata e con le smagliature (si attaccano tipo cerottini) però no, vi prego. E invece sì, la vendono, qualche femminista invita a regalarla per Natale: si chiama Lammily – la bambola – e sembra una bulgara sfondata da dodici gravidanze [non ho voluto interrompere il climax d’immagini sessiste varie, concluso con un notevole virtuosismo: in bulgara sfondata da dodici gravidanze, per un totale di cinque parole, ci sono un razzismo e due sessismi]. Per 6 dollari c’è un pacchetto aggiuntivo con cellulite, tatuaggi, cicatrici, lentiggini, occhiali, bende, contusioni, graffi e punture di zanzara. È struccata, non sorride e ha i capelli castani anziché biondi come la Barbie, questa reazionaria, questa mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi: Lammily invece ha i fettoni piantati a terra e ci puoi appiccicare calli e duroni. I piedi non puzzano ancora, ma in futuro chissà. Mancano anche peluria e baffi. Le misure complessive sarebbero quelle medie delle ragazze di 19 anni: ma forse quelle americane, o del casertano, sta di fatto che nel complesso il modello è quello di – si diceva ai miei tempi – un roito, insomma una brutta [riassumendo, Barbie è imbecille e segregata a un ruolo subalterno, ma almeno bòna, Lammilly è brutta e tanto basta. Per dire questo – che non ha alcun interesse al di fuori della sua scatola cranica – Facci ha usato altri sessismi e razzismi: mogliettina, peluria e baffi, quelle del casertano, roito. Ok, ma c’è un punto da dire? O è un campionario di lessico adolescenziale?].

Che dire? in passato avevamo intravisto la Barbie vecchia e la Barbie paraplegica (in sedia a rotelle) e la Barbie calva (radioterapia) ma erano provocazioni, campagne shock che avevano una ragion d’essere ed erano il contrario del politicamente corretto [attenzione alla strategia del faccipensiero: distraendovi con le campagne shock ha detto che Lammilly è un esempio di politicamente corretto. Cosa che sta solo nella sua testa, ma essendo la base della sua argomentazione, il furbacchione la da’ per scontata invece di metterla in discussione, un po’ come fanno certi fanatici religiosi con la propria fede]: mica le vendevano davvero, erano l’immagine di una buona causa. Le Barbie nere e mulatte invece le vendevano già negli Anni Settanta, era una questione di mercato prima di altro [il faccipensiero si complica: nera sì ma “casertana” no, il razzismo lo comanda il mercato. Sempre più interessante]. Una coi piedi piatti – apprendo su internet – uscì nel 1971, ma vendette pochissimo [è informato, lui]. Ken – il marito o fidanzato col sorriso da coglione – lo fecero più o meno muscoloso e addirittura stereotipato [ah, il faccipensiero lo stereotipo lo riserva a Ken, a Barbie no. Il marrone ha mille sfumature] coi pesi da palestra, poi biondo, hawaiano, africano, di tutto. Ma, appunto, era una questione di mercato, non di pedagogie d’accatto [altra definizione “en passant”: una bambola non stereotipata è pedagogia d’accatto, e quando ne discutiamo? Mai]. La domanda è: sino a che punto si spingerà il politically correct? [E chi ha detto che lo sia? Chi ha scritto che una bambola con fattezze “normali” ha un significato di condotta politically correct? E chi sarebbe qualche femminista che invita a comprarla? Link, nomi… niente, il faccipensiero non ha bisogno di riscontri.] Le concessioni al sogno cederanno ai timori di un modello troppo anoressico? Imbruttiremo anche le principesse delle fiabe? La dittatura della verità [dittatura? Verità? Ma se è sul mercato, nessuno ha imposto nulla, seguirà le leggi del mercato. Perché il faccipensiero vi vede una imposizione? Qualche legge ha obbligato a usare Lammilly nelle scuole, o ne ha obbligato l’acquisto per Natale?] imporrà la Barbie morta o chiusa nel polmone d’acciaio? [Ci fosse pure un produttore tanto scemo, a te che te frega? Cosa ti turba in Lammilly, Facci, dillo apertamente. Paure ancestrali? Ricordi d’infanzia?]

Giulia Siviero, una simpatica ragazza che scrive per il manifesto e lavora al Post, non ha tutti i torti a sottolineare che esiste un sessismo anche nel mondo dei giocattoli [niente contro Siviero eh, ma so’ decenni che questo problema è noto]. Ed è un sessismo che risente delle latitudini: le femmine, nelle pubblicità o in un catalogo di giocattoli italiano, sono sempre circondate dal rosa e poi da bambole, carrozzine, lettini, piccoli ferri da stiro, fornellini, finti make-up, collanine e dolcettini. Nei negozi la corsia «bambine» sembra un negozio di casalinghi. Mentre i maschi, viceversa, ormai oscurate le armi giocattolo per scorrettezza politica [ah, io pensavo che ci si sparasse già abbastanza nella realtà per cui non servisse insegnarlo, invece è scorrettezza politica], sono comunque rappresentati mentre scimmiottano i mestieri dei grandi o s’industriano con treni e macchinine e costruzioni. Forse si esagera, perché bambini e bambine sono molto più elastici di noi [certo, lo si vede da adolescenti, la famosa età nella quale nessuno ha problemi con il proprio ruolo di genere, no no]: ma i cataloghi di giocattoli svedesi o danesi – che Giulia Siviero ha mostrato sul suo blog – forse ecco, esagerano in senso inverso [e te pareva. E perché mai, Facci caro? Spiegacelo]. Si vede un bambino che fa il bagnetto a una bambola: mi fa un po’ ridere [e chissenefrega, non ce l’hai messo? A te fa ridere, ma magari al bambino si mette in testa che se e quando sarà padre, sarà capace di farlo invece di scappare impaurito dal corpo di suo figlio. So’ problemi sociali, Facci, informati]. Si vede una bambina che gioca con un pipistrello e i soldatini. Nessuno vieta di farlo in ogni caso [invece sì: chi lo vieta si chiama “cultura patriarcale”, ed è l’acqua del tuo acquario, Facci, è normale che tu non te ne accorga. O che tu lo dica apposta], ma più di tanto io non lo vedo il problema di una «precoce e stereotipata separazione dei ruoli» [la sua spiegazione è io non lo vedo, una nota prassi scientifica], qualcosa cioè che possa impedire a una femmina di diventare un tipico maschiaccio, se crede: non siamo solo un sottoprodotto ambientale [tu non hai la minima preparazione in questioni di genere, quindi la tua opinione conta davvero poco. Però è interessante notare come tu non veda nulla di male se la femmina diventa un tipico maschiaccio, mentre il bambino che fa il bagnetto alla bambola ti fa ridere. Di nuovo, Facci: di che hai paura? Tutto bene? Rilassati…].

E comunque il mondo cambia, ma ha i suoi tempi. Noi siamo sempre un po’ in ritardo per le solite ragioni storiche e religiose eccetera, ma insomma, per farla breve: la barbie coi brufoli no [l’hai già detto, Facci, il problema è che l’articolo sta per finire e non hai ancora detto un civile perché]. Qualche concessione al sogno e all’irreale lasciatelo almeno ai bambini [ah, scusa: la Barbie che tu stesso hai descritto come mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi sarebbe la concessione al sogno per i bambini e le bambine? Complimenti (anche per la coerenza in poche righe)], ché per i bagni di realtà avranno tutto il tempo [no. Come potrebbero raccontarti numerose persone impegnate nei centri antiviolenza, spesso i bagni di realtà non arrivano mai o arrivano accompagnati dalla sirena dell’ambulanza – quando va bene]. Anche perché non vorremmo doverci ritrovare, poi, con un Ken stempiato, con le maniglie dell’amore e la canottiera macchiata di sugo. Il marito perfetto per quel cesso di Lammily [eh, certo, la cessa possiamo lasciarla al mercato e a qualche femminista, ma il maschio medio non sia mai vederlo rappresentato come giocattolo. Allora meglio il marito o fidanzato col sorriso da coglione, con il quale comunque giocano le bambine. E perché mai impedire questa differenza, Facci, se tanto poi ci pensa il mercato? Ce lo spieghi? No].

Eh no, meglio non lasciarle al mercato, certe possibilità, meglio impedirle prima. Perché se poi funzionano, mica puoi dire che non vanno bene. Sai che problema se avesse avuto successo la bambola coi piedi piatti: adesso niente tacchi e tutte con le ballerine. Che brutta cosa per i maschi!

Deconstructing la replica delle Malmaritate. Il marketing rosa e il ciuccio che vola

Asino perlesso.
Asino perplesso.

Riportiamo di seguito la replica delle Malmaritate alle critiche che abbiamo mosso loro in questo post. Di questa replica vi ringraziamo. Da parte nostra vogliamo rispondere con una decostruzione del testo, al fine di chiarire punto per punto la nostra posizione. In corsivo le parole di Serbilla [tra parentesi quelle di Lorenzo].

Facciamo seguito ad alcune critiche che ci sono state rivolte negli ultimi giorni.
Questa la nostra replica.

“Carissime amiche contrariate,

Neanche noi abbiamo mai avuto intenzioni belligeranti. Abbiamo mosso una critica politica a delle pubbliche affermazioni, riguardanti un lavoro pubblicato che ricade, per intenzione delle artiste, in questioni politiche di cui ci occupiamo. Di questo si tratta. Preciso che il mio articolo appartiene al collettivo e al collettivo appartengono più generi. Soprattutto, non sono contrariata, non dovete certo corrispondere a delle mie aspettative; le vostre dichiarazioni sono sconfortanti, preoccupano perché si inseriscono nel solco della retorica istituzionale che usa la vittimizzazione delle donne per opprimere e reprimere. La vostra azione – come quella di tanti soggetti che quotidianamente usano il brand “violenza contro le donne” – svuota di significato la lotta, che è una lotta politica. Politica, di impegno politico, di chi abita la polis per intenderci. Voi la abitate? se la abitate non potete sottrarvi dall’agire politico. Potete dichiararvi non femministe, ma questo è un posizionamento politico.

[«Amiche», perché se sei uomo non ti può neanche dare fastidio che qualcuna usi le parole a casaccio e te lo venga a dire, quando lo fai. Cominciamo bene.]

non essere femministe (sostantivo)

sostantivo

– non vuol dire ignorare, o peggio, disprezzare il femminismo (di cui tutte conosciamo i valorosi ed encomiabili trascorsi);

Non essere femminista significa non riconoscersi in nessun femminismo (diamo per scontato che attribuiamo a questa parola lo stesso significato), quindi non riconoscerli come validi strumenti di analisi e azione. Dunque come fate a parlare di encomiabili trascorsi? Ma, poi, trascorsi? Ora, adesso, in questo momento, ci sono nel mondo milioni di femminist@ che agiscono da femminist@ anche per voi. Chiaramente non essere femminista è una posizione legittima, che andrebbe però argomentata, data la volontà espressa di volersi impegnare nella lotta alla violenza contro le donne, cosa femminista.

– non vuol dire esimersi dal compiere azioni femministe (aggettivo)

..e aggettivo. Questa è un’arrampicata sugli specchi spaventosa. Non siete femministe ma fate cose femministe. E’ come dire: compio azioni antirazziste,  ma non sono antirazzista. Oppure: compio azioni antifasciste, ma non sono antifascista. Ti dissoci dall’antifascismo ma, allora, perché compi azioni antifasciste?  Potete anche esimervi dal compiere azioni femministe, se non vi riconoscete nel femminismo.
Va be’ io ho capito però, la traduzione sarebbe: noi siamo contrarie alla violenza contro le donne, però non ne capiamo niente ed è meglio che diciamo di non essere femministe. Sbaglio?

[Il duck test è un metodo di ragionamento molto semplice: se parli come una femminista, fai cose femministe e agisci per lotte femministe, sei femminista. Però le Malmaritate vogliono sovvertire anche la logica più elementare. Perché?]

– non vuol dire fare SCIACALLAGGIO sulle disgrazie altrui.

Parlate di violenza contro le donne e lo fate il 25 novembre, due cose femministe che non riconoscete come tali. E’ un’azione di marketing come lo sconto dal parrucchiere l’otto marzo. La musica nutre l’animo e l’intelletto, il taglio di capelli nuovo ti fa sentire più carina. Approfittare della festa della donna e del 25 novembre per vendersi alle donne è marketing, il marketing non è filantropico.
Immagino a questo punto che non abbiate nessuna consapevolezza di ciò che fate, sempre parlando di dichiarazioni e tempistica.
[Come detto sopra, se fai una cosa “per le donne” il 25 novembre, fai marketing. Che si può chiamare sciacallaggio anche se il vostro CD costa “solo” dieci euro.]

Detto ciò, dire di essere femministe, dal nostro punto di vista, significherebbe appropriarsi indebitamente di un ruolo che non svolgiamo al 100%, sminuendo e strumentalizzando di conseguenza il lavoro quotidiano di chi in questo “dignitosissimo movimento” impiega infinite risorse ed energie.

Avete presente quella volta in cui qualcuno vi ha fatto sentire a disagio, perché dedicavate troppo tempo allo studio del vostro strumento musicale e non abbastanza alle pulizie di casa? Avete presente quel senso di frustrazione? Quella rabbia perché voi volevate seguire la vostra passione e, maledizione, i piatti nella vaschetta possono pure aspettare! E se proprio nonno, papà, zio, li vogliono puliti, possono anche lavarseli da soli, che non ce le avetele mani?! Avete presente? Ecco, quella è rabbia femminista. Se avete pensato una sola volta “non è giusto che debba fare io questa cosa/debba rinunciare a questo, solo perché sono nata con la vagina” complimenti, dentro di voi siete femministe – ma non ve ne eravate accorte, a tutt@ capita così in principio, anche a chi non è nat@ con la vagina, ma è femminista lo stesso.
Essere femministe non è un “ruolo”, non c’è una patente che qualcuno vi dà dopo aver superato delle prove. Non c’è un partito, non c’è una chiesa. Si è femminista quando ci si comporta da femminista. Un’azione può essere oggetto di critica, ma nessuno può dirvi “non sei femminista”, perché la regola numero uno è: siete voi che vi dite femministe. Voi invece vi siete dette non femministe, per rispetto. Se vi dico che sapevo già che avreste risposto così, mi credete?

Il lavoro quotidiano di cui parlate, forse, è quello delle operatrici dei centri antiviolenza. Per quello ci vuole una formazione, ovviamente, ma essere femminista non si conclude in quello. I centri antiviolenza sono una delle espressioni del femminismo. Il femminismo non è un lavoro, è un modo di essere, questo modo di essere lo si porta in ogni azione quotidiana.

[Solo io noto che «appropriarsi di un ruolo» è una espressione molto “economically correct”? No, non solo io. E ci sarebbe sempre quell’anatra da sistemare: quel ruolo lo state svolgendo, se proponete qualcosa che andrebbe contro la violenza di genere.]

Ma forse questo è semplicemente un rispettoso scrupolo linguistico che ci siamo poste sin dall’inizio e che umilmente ci siamo adoperate a sottolineare in seguito.
Il nostro impegno si traduce
– nella lotta contro ogni tipo di violenza sugli esseri umani (e non)

Sì siete buone, anche se in questo momento non vi sembra così, pure noi lo siamo. Davvero!

– nel sostegno che, con non trascurabili sacrifici, offriamo incondizionatamente.

Mi fa sapere Jinny Dalloway che Thamaia, l’unico Centro Antiviolenza di Catania, è a rischio chiusura, potete devolvere il ricavato del cd a loro, questo sarebbe un gesto di sostegno concreto.

Forse ci sentiamo più genericamente FEMMINE UMANISTE, simpatizzanti femministe, irriducibili animaliste, inguaribili musiciste.

Io mi auguro che ci stiate perculando.  Perché “simpatizzante femminista” non si può sentire. Io simpatizzo blandamente per il Napoli perché sono napoletana, anche se non seguo molto il calcio. E sono antispecista, sempre perché mi posiziono. La mia non è una critica alla vostra musica, non mi permetterei. Da femmine+umaniste si genera facilmente femministe, state attente, non sia mai!

[Ciao, io sono molto trendy uscendomene il 25 di novembre con un CD e un progetto contro la violenza sulle donne, ma siccome c’è chi se ne occupa da qualche decennio e potrebbe vagamente sentirsi presa in giro, allora mi metto un bel nome nuovo che non significa niente così faccio vedere la mia unicità – delimitando perbene il territorio che non voglio spartire con nessun altr@: femmine umaniste. Che vuol dire? Niente! «Femmine» lo siete per forza, «umaniste» pure – e che volete essere “disumane”? “Non umaniste”? L’importante è che “femministe” no, mai, per carità.]

Con molta sorpresa e sgomento constatiamo un accanimento, forse un po’ esagerato, verso ciò che facciamo col cuore.

Due articoli non sono accanimento, sono niente rispetto all’eco delle vostre parole. Parole che viaggiano molto di più e molto più velocemente, accostate al nome di Carmen Consoli. Vi pare troppo severa la critica? voi fate le cose con il cuore, nessuno lo mette in dubbio, ma non basta.
Sottolineare più e più volte che non si ha niente a che fare col femminismo quando si tratta di violenza contro le donne produce l’effetto di delegittimare quelle persone che di antiviolenza si occupano da sempre, anche qunando il 25 novembre finisce. E questo crea un’onda di ritorno devastante, laddove è unicamente il femminismo che può fare qualcosa di concreto per risolvere definitivamente la questione.

[Le Malmaritate di femminismo forse sanno poco, ma di tattica politica sì: gli fai notare che stanno usando un linguaggio insensato, e loro chiamano le tue critiche «accanimento». A me pare lo stesso giochetto di certe sentinelle che, mentre vogliono soffocare i diritti altrui, gridano di essere in grande pericolo.]

Vi invitiamo a capire ed approfondire in maniera più appropriata la natura del nostro progetto e del nostro impegno prima di giungere (pubblicamente) a conclusioni affrettate e denigratorie.

Appare chiaro che non siamo noi a dover approfondire e riflettere. Nel momento in cui dite qualcosa pubblicamente, il pubblico che ascolta si fa un’idea ed esprime la propria opinione. Dato che qui ci occupiamo proprio di quello su cui vi siete espresse, noi abbiamo sentito il dovere di puntualizzare che depoliticizzare la tematica e fare marketing sulla violenza (anche involontario o “suggerito”), crea un danno. Dalla vostra risposta troviamo solo conferme.

[Ah, voi v’inventate definizioni e noi dovremmo «capire e(d) approfondire»? E come lo si dovrebbe fare poi, se non valutando quello che dite in pubblico? Complimenti. A proposito, c’è uno che sostiene che la d eufonica si mette solo tra due vocali identiche. Forse pure lui dovrebbe capire e approfondire?]

Vi aspettiamo, dunque, numerose al nostro fianco per continuare, ognuno con i propri mezzi e capacità, a camminare insieme come è giusto che sia.”
Malmaritate

Anche noi vi aspettiamo, gli strumenti sono a disposizione di tutt@. Ci auguriamo di trovarvi più consapevoli al prossimo giro.

[Numerose perché noi gli uomini proprio non ce li vogliamo, non siamo femministe, solo femmine umaniste e i maschi no, non possono continuare a camminare insieme.]

Serbilla e [Lorenzo]

A me dà fastidio l’ignoranza (Deconstructing Moretti)

estetistaMoretti2La recente intervista di Alessandra Moretti, e la stragrande maggioranza dei commenti a quella intervista, dimostra come in Italia siamo ben lontani dall’aver capito anche solo cos’è uno stereotipo, e uno stereotipo sessista in particolare. Un’europarlamentare candidata a presiedere una regione straparla di stile, bellezza, piacere come se fossero qualcosa di usabile per smarcarsi da altre posizioni politiche scomode – femminismi, donne dello stesso partito – e come se non fossero argomenti già molto usati da altri movimenti politici opposti al suo per identificarsi, fare fronte comune, creare consenso.

Qui il filmato, per chi non l’avesse ancora visto.

Già spiegare la scelta di una candidatura alle regionali – dopo l’elezione europea – con una similitudine calcistica evoca brutti ricordi retorici. Poi si definisce uno «stile femminile nel fare politica» come «la cura di me stessa, la voglia di essere sempre a posto», «questo è un quid in più». Lo stile maschile quale sarebbe? “L’òmo ha da puzzà”? L’uomo non ce l’ha questo quid? E perché no? «La bellezza fa notizia» – ma non stavamo parlando di politica? Non dovrebbero fare notizia altre cose? Ne dobbiamo dedurre che a Moretti stia bene che «la bellezza fa notizia»? E quale bellezza? «La bellezza non è affatto incompatibile con l’intelligenza» e non si capisce chi l’ha messo in dubbio, o rincorrere i luoghi comuni è uno dei punti del suo programma politico? «Rosy Bindi ha avuto il suo stile, diciamo che il nostro è diverso», sarebbe rispettoso chiederlo a Bindi. Poi, «il nostro» di chi? A nome di chi parla Moretti? Non lo dice. «Uno stile che mortificava la bellezza», abbiamo capito Moretti, ma quale bellezza? Secondo quali standard, semmai ce ne sono? Perché lo dà per scontato? «La capacità di mostrare un volto piacente» – mi sono perso. Stiamo parlando di politica o di comunicazione? E di quale politica e quale comunicazione? E «piacente» a chi? «Ho deciso per esempio di andare dall’estetista ogni settimana», e ce ne rallegriamo per lei Moretti, ma ciò cosa dovrebbe dimostrare? Che il suo stile è diverso, che lei non è Rosy Bindi? Non è necessario l’estetista, glielo assicuro, lo dice esplicitamente la carriera politica di entrambe. «Mi prendo cura di me», e non è una cosa banalmente fatta da chiunque? Rosy Bindi non si prende cura di sé, sta dicendo questo? O forse sta dicendo che esiste un certo modo di prendersi cura di sé che sarebbe migliore di un altro? E qual è? «Vado a correre», come altri milioni. E’ una caratteristica politica importante? C’entra con la comunicazione? Ci sta dicendo che il suo corpo non è quello di Rosy Bindi – e anche qui non serviva molto a notarlo, è tipico degli esseri umani essere diversi l’uno dall’altro. Quindi? «Devo venire con i peli, i capelli bianchi?» Perché, qualcuno glielo ha chiesto, c’è un regolamento? Ma non si accorge, Moretti, che è lei con questi discorsi a ratificare stereotipi ridicoli e penosi, pensando di opporvisi? «Perché io che ho un ruolo pubblico, che rappresento tante persone, tante donne, voglio rappresentarle al meglio». Bene – e questo «al meglio», per una candidata presidente a una regione, consisterebbe nell’andare dall’estetista ogni settimana? Nella tinta, nelle meches? Sta scherzando, vero Moretti?

«Ma che c’hai? Ma che t’ho fatto? Ma perché c’ho gli occhi blu? Perché sono anche bella, oltre che brava, ti dà così fastidio?» No, Moretti, a me dà fastidio l’ignoranza. La crassa ignoranza di chi fa finta di fare politica, comunicazione e di parlare di bellezza a un pubblico supposto nato ieri, evidentemente benedicendo quella mancanza di memoria che è un suo male devastante. Quello che mi da fastidio è vedere una candidata a presidente di regione che non ricorda – e non ha imparato nulla – dall’ultimo ventennio di politica in fatto di comunicazione e donne in politica. Quello che mi dà fastidio è vedere un’europarlamentare che non sa cos’è uno stereotipo sessista, e come lo si combatte. Quello che mi dà fastidio è vedere una persona alla quale si dà un microfono aperto sul paese che parla a vanvera di bellezza, non sapendo che la bellezza non è l’adesione a uno standard convenzionale di misure corporee e abitudini d’abbigliamento. Mi dà fastidio che tutto quello che so e che faccio da attivista antisessista e da dottore di ricerca in Estetica è stato travisato e denigrato da una professionista della politica che non ha il coraggio d’informarsi prima di parlare e non ha imparato nulla sulla comunicazione politica dopo quello che è successo in Italia almeno dal ’94 a oggi.

«La gente mica è scema, capisce», quale gente? Quella raccontata in percentuali clamorose di vittoria elettorale che si traducono in numeri sempre più piccoli di votanti? Il resto dell’intervista continua così, non vale la pena seguirla ancora.

Emanuela Marchiafava ha ragione da vendere, quando parla di donne intimidite da una pratica discriminatoria tipica di una politica maschilista: «se non sei attraente secondo i canoni maschili, ti sfottono dandoti della racchia, se sei bella come una bambola ti trattano come se lo fossi, se sei intelligente ti accusano di arroganza […] Sarebbe quindi assai più interessante concentrarsi ad analizzare i commenti alle parole dell’onorevole Moretti». La cosiddetta legge di Lewis è nota: “I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”.

Purtroppo quello che ha detto Moretti, però, non va affatto nella direzione di non farsi intimidire, ma in quella di aderire al maschilismo. Perché se ti proponi in opposizione all’immagine di Bindi dopo quello che è successo a Bindi e alla sua immagine, se non ti accorgi che parlare di “estetista settimanale” in questo momento suona come classista per molte donne, se non tieni conto nelle tue parole di un numero enorme di donne che fa e ha fatto un’ottima politica contro gli stereotipi, se non ti ricordi che in questo paese i femminismi hanno detto, scritto e lavorato decenni su questi temi (e che i luoghi comuni sulle femministe sono arcinoti), allora quello che stai proponendo col tuo sconclusionato modo di argomentare sono esattamente «i canoni maschili» e maschilisti. E Moretti lo dimostra più volte, di non tener conto di tutto ciò: essere contenta che «Boschi è una delle ministre più fotografate» significa non aver capito nulla di comunicazione, politica e questioni di genere in questo paese. Eppure anche Bindi, allora, la sua ottima risposta l’aveva data: «sono una donna che non è a sua disposizione». Sarebbe bastato capirne bene il senso, di questa risposta.

Perché è la stessa ignoranza di Moretti a spiegare per esempio come sono possibili gli insulti in rete a Samantha Cristoforetti, il primo esempio vicino che viene in mente, e tanti altri tipici atteggiamenti maschilisti – la sua si chiama “emancipazione negativa”. Tanto negativa che sembra quasi sembra che io abbia scritto per difendere Bindi, e non me stesso, dalla sua ignoranza.

Si dice che dall’estetista, mentre lavora, tempo per leggere ce ne sia.

Deconstructing le Birkenstock – MicroMega #5 (Giulia Sissa)

birkenstoksApprodiamo al quinto articolo su Micromega, dopo quello di Banditer “L’istinto materno non esiste”che è certamente discutibile, ma non per impreparazione dell’autrice.  

Si legge nell’introduzione di “Femminismo e godimento” di Giulia Sissa che dopo un primo (quello del “suffragio universale”) e un secondo femminismo (quello degli anni ‘70), ora ce n’è un terzo che

non ha paura del corpo e del piacere, un femminismo che si mostra, che è “osceno”, che rivendica non solo diritti sociali e politici, ma anche il diritto al godimento [SARA: Scusa Lorenzo forse mi sono sognata un famoso slogan che ho imparato fin da ragazzina, “il corpo è mio e lo gestisco io”? Mi pareva che ci fosse una cosa chiamata autocoscienza attraverso cui le donne in massa presero/ripresero il contatto con il loro corpo scoprendone proprio le potenzialità di “godimento”… aspetta mi sovviene anche uno strano opuscolo intitolato: “La donna clitoridea e la donna vaginale” datato 1971. FERMAMI. LORENZO: Sissa era assente. Non si spiega altrimenti questo riassuntino alla Bignami di qualche decennio di femminismi. Vabbè che devi fare un occhiello, come si chiama tecnicamente, ma si poteva anche evitare di tagliare con l’accetta una storia così complessa – e fare figuracce. Mi ricorda gli appunti di filosofia tipo “Talete: quello dell’acqua”.]

Sissa va nello specifico di cosa intende con questa contrapposizione storicista tra i femminismi, iniziando il suo articolo con una frase quantomeno enigmatica:

Il corpo delle donne non è più la stessa cosa [sarebbe carino sapere rispetto a quale cosa, non è più la stessa cosa. Detta così, la frase vale più o meno come “una volta qui era tutta campagna”].

Poi prosegue dicendo che le donne dai 40 in giù che sono nate in un mondo dove le rivendicazioni delle femministe sono diventate normalità (il che è tutto da vedere), elencando parecchi stereotipi così triti che manco i maschilisti li usano più, per poi concludere con un

queste donne non possono poi accontentarsi di acqua, sapone e Birkenstock [forse Alessandra Moretti ha letto Giulia Sissa? Paiono d’accordo sulla linea vincente delle donne che nella sfera pubblica applicano uno stile estetico curato. L’intervista è un lancio elettorale. Si candida in Veneto e parla della cura della sua bellezza, dei suoi gusti musicali e di quanto è brava in cucina – come se le politiche di genere del PD non fossero già tra l’inesistente e l’imbarazzante in quanto sempre più conformi ai dettami del cardinale Angelo Bagnasco].

Subito Dopo Sissa cita per la prima volta le Femen per contrapporle alle femministe baffone e pelose degli anni ‘70, alla fine della perorazione soggiunge:

Non ci sono, insomma, soltanto i diritti. Ci sono anche abitudini e corpi [ma che cosa c’era secondo Sissa alla radice delle battaglie su divorzio, aborto, libertà sessuale, contraccezione, asili nido eccetera? Forse non il bisogno di essere considerate come persone fisicamente esistenti con bisogni e desideri portatori di trasformazioni anche drastiche della società e della cultura? E’ a partire dai corpi, cioè da quello che non si può negare, che le donne hanno affermato il diritto all’esistenza, all’autonomia e all’autodeterminazione. A nostro parere è molto riduttivo vedere il movimento femminista in un modo così storicista senza prendere coscienza del fatto che essendo così plurale afferma nello stesso momento tante istanze diverse e contraddittorie].

Per farvi capire come argomenta Sissa, estrapoliamo una frase delle più significative:

L’esperienza del nodo formato da corpo, abitudine e legge si materializza nel pensare/sentire delle emozioni.
[EH? L’esperienza si materializza nel pensare/sentire? Ma qualcuno rilegge o anche a MicroMega i tagli al personale hanno colpito i correttori di bozze? Cosa è mai possibile materializzare in un pensiero/sensazione? Perché prendere le parole e fargli fare la qualunque, a piacimento? E mi spiegate come si fa un nodo con il corpo (materiale), l’abitudine (comportamento), la legge (principio astratto)? Ma veramente chi scrive così si aspetta di essere comprensibile? O punta all’ammirazione estatica, come di fronte a certa arte contemporanea?]

***

Tralasciando una lunga asserzione su come avverrebbero, secondo Sissa, i cambiamenti culturali, torniamo alla contraddizione tra femminismi. Se ripetiamo concetti alla Simone de Beauvoir oggi rischiamo di parlare solo a noi stesse, dice Sissa,

Ci trattano come oggetti sessuali. Aiuto! Ci riducono a mero corpo. Barbaro fato! Chirurgia estetica: lungi da me s’en vada! Pornografia: occultatemi quel seno… Prostituzione: sposa son disprezzata! [Mi pare che Sissa punti a scollare con forza il concetto di emancipazione e de-moralizzazione della società da quello di consapevolezza (educazione alla sessualità, matrimonio come scelta e non come dogma culturale, accesso ad un’autonomia economica) e coscienza di sè, sarà così che si diventa complici del neoliberalismo? Non è una novità, una persona col CV di Sissa dovrebbe saperlo.]

Il corpo sexy, volutamente e studiatamente erotizzato, insomma, non è più il segno o l’effetto collaterale di frivolezza e incompetenza. Anzi! [No, ma neanche di consapevolezza politica e sociale. Mai sentito parlare, Sissa, per esempio, di “emancipazione negativa”? Se ne parla da molto eh, in tanti libretti che si occupano di questioni di genere. Può cercare nelle biblioteche di UCLA o del CNRS di Parigi, dove lavora, siamo sicuri che qualcosina c’è.]

I diritti si conquistano e si possono sempre perdere [ah, ecco], come vediamo nelle battaglie americane contro l’aborto [ma perchè in quelle italiane no? Sono passati 40 anni e stiamo ancora a difendere la 194 ogni tre per due, ma dove vive Sissa? Ah già, a Los Angeles, ecco.] Stiamo all’erta, quindi su questo terreno [soprattutto tu da laggiù]. La perfettibilità delle relazioni sociali tra i sessi [“perfettibilità”, dice, ci viene solo da citare il rapporto Eures sulle vittime di femminicidio in Italia, nel 2013 sono state 179. Ma continuiamo a parlare di Birkenstock, dai], però, non deve farci dimenticare la plasticità dell’erotismo [SARA: giuro non me la dimentico… mo’ me lo segno, come diceva Troisi. LORENZO: a me frasi del genere farebbero domandare a Sissa: e com’è fatto un erotismo non plastico? Così, tanto per capire con quale ingegno si mettono insieme sostantivi e aggettivi. Sempre di moda la vànvera, eh?]

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Altro affondo sul femminismo degli anni ‘70, quando le donne hanno dovuto operare un rifiuto radicale dell’identità femminea [cos’è esattamente? E perché mai definire i termini problematici, meglio fare finta che tutti sappiamo di che si tratta, è più educato].
Se mi si costringe ad essere tutta corpo, allora io vi dico che ho un corpo. Il corpo è mio e lo gestisco io. [SARA: quindi questo corpo lo hanno negato affermando che ne avevano l’autogoverno? Mi sono persa un’assemblea fondamentale? LORENZO: Scusa ma sono ancora impegnato a capire come si potrebbe costringere qualcuno a non essere tutto corpo]. Oggi, poichè il corpo erotico non si lega più, legalmente e culturalmente all’esclusione [veramente in Italia si sta tornando indietro di qualche centinaio di anni anche su questo fronte…], l’autocensura non ha più senso [SARA: ma davvero non possono esistere donne differenti che si sentono acqua e sapone, ma magari non tutti i giorni – questa è autocensura? LORENZO: sì, ma dopo una riflessione sul termine autocensura. Non le va giù che una donna potrebbe proprio volerle le Birkenstock, eh? Forse c’è dietro una questione di spionaggio industriale che ci sfugge. Che Sissa sia pagata da Manolo Blahnik?].
E poco più in là: Se negli anni Settanta ci dissociavamo dal corpo per gestirlo, queste ragazze stanno nella loro pelle/pagina, in perfetta simbiosi: “il mio corpo è la mia libertà”. [Sissa, ma dove le ha sentite queste storie? Ci si dissocia dal corpo per gestirlo – che è, una specie di diagnosi? E adesso ci sarebbe la simbiosi grazie al tonico torso nudo delle Femen? Ma me li ricordo solo io, i torsi nudi in quegli anni Settanta che lei dice pieni di gente che si dissociava dal corpo? Boh. Giulia Sissa è del ‘54, nei Settanta lei c’era. E dove stava?]

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Le pagine 63 e 64 sono dedicate a parlare bene delle Femen. Nell’estate 2014, eh, quando certe cosette si sono già sapute.

Ci sarebbe molto da dire su questo nuovo femminismo, tagliato su misura per donne giovani e belle [ma tutte le altre? non possono essere femministe?] e che, anche per questo, suscita imbarazzo tra le femministe della mia generazione, o leggermente più giovani, che ancora denunciano la reificazione del corpo [eh, ‘sta cosa vecchia e non più attuale, ormai del tutto superata, vero? Sissa, lei vive a Los Angeles, ma di quale pianeta?] femminile e la mercificazione della desiderabilità. Queste ragazze giocano sul registro del pride. E’ tutta un’altra politica; tutta un’altra estetica [no, è sempre la solita, quella del marketing. E glielo hanno detto già in tante e tanti. Basterebbe informarsi].

Mentre Michela Marzano ripete che la televisione di Berlusconi offende le donne italiane, le Femen [ma perchè, ci chiediamo, insieme alle Femen e alla loro im-mediata prominenza corporea in senso performativo, Sissa non nomina mai le pussy Riot? Indovina un po’] si sono scelte un’altra scena – transculturale e transcontinentale e sul web, per mimare un’ipersessualizzazione e iperfemminizzazione da soft-porn [E con questo? Cos’è la gara a chi ce l’ha più lungo diventa la gara a chi “trasgredisce” di più? Certo, se il confronto è con Marzano, Sissa “ti piace vincere facile, eh?”. Sissa, non è che s’è fatta un po’ troppo impressionare lei da Femen tanto da non accorgersi di nient’altro?]

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La democrazia ha preso una svolta estetica [senza etica, ed è successo più o meno dagli anni ‘50 negli Stati Uniti, da quando sondaggi e tecniche di marketing sono state usate nelle campagne elettorali dopo i clamorosi successi nella gestione della pubblicità commerciale. So’ cose che alla UCLA le sanno, eh, se chiede qualche collega informato lo trova lì]. Questo femminismo ne fa parte [ma siamo sicuri che questo sia una cosa buona per le donne?]. Mette fuori gioco la cosiddetta oggettificazione del corpo [abbiamo vinto su tutta la linea, evvai!]. Non predica l’deale di una soggettività disincarnata da dipartimento di Filosofia vintage, bensì mima in maniera iperbolica e metonimica (la corona di fiori, la calza bianca o nera, il velo virginale) proprio il nostro essere oggetti corporei. Oggetto inteso come sinonimo non di “cosa”, bensì di “causa” [Sissa, non sappiamo più come dirglielo: E’ ROBA VECCHIA, la performance politica nel segno della mimesis metaforica non se la sono inventata le Femen – che adesso secondo lei sarebbero pure filosofe coi fiocchi]. “Io sono la causa del tuo desiderio!”, vediamo un po’ cosa sai fare! “Viol a volontè!”: stupro a piacere! Le Femen osano sfide inaudite [A Sissa, e mo’ te lo diciamo chiaro: se ti sei persa almeno trent’anni di femminismi, e certo che le Femen sono inaudite!]

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E la prova che Sissa non è – a essere generosi – aggiornata, la fornisce proprio lei: tutta pagina 65 è dedicata a fornire la derivazione filosofica dell’auto-oggettivazione da Kant. Embè sì, Sissa, rispetto a Kant indubbiamente le Femen stanno un pochino più avanti – ammetterà che ci vuole poco. Il problema è dove stanno le Femen nella storia dei femminismi, e quello non ci vuole molto a capirlo – il link è in alto – per chi sa anche solo un po’ di quella storia.

Ben venga il femminismo sensuale!

[C’è da un pezzo Sissa, se non se n’è accorta prima il problema è suo, non delle Birkenstock.]

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Deconstructing il mignolo alzato (Origgi) – MicroMega #3

mignoloalzatoEntriamo in una nuova sezione del numero 5/2014 i MicroMega. Nell’introduzione ci rendiamo subito conto che invece di avvicinarci di più all’obiettivo di declinare le specifiche dell’avere e del “portare” un corpo di donna, ci allontaniamo inesorabilmente. E’ evidente perché si parla in maniera generica di corpi:

Eppure molto spesso nel corso della storia il corpo è stato considerato il luogo della corruzione dello spirito, una “gabbia” che imprigiona e limita, invece che una “porta” che apre le porte della conoscenza.

[E non si parla della difficoltà che crea ad una donna la rappresentazione mediatica del suo corpo, il tentativo di controllo del suo corpo, con la pressione sociale che grava su di lei per avere dei figli, anche quando non li vuole, per avere come uno obiettivo quello di adeguare le sue fattezze a quelle volute dal maschio perché il nuovo/vecchio grande obiettivo delle vite delle donne è il matrimonio.]

Sempre nell’introduzione si cita il pezzo di Gloria Origgi ingiustamente, secondo noi, inserendolo in un discorso generico sul corpo, perché nello scritto di Origgi si parla di corpo in quanto corpo di donna. Ed è una cosa che riconosciamo all’autrice: il piacere di leggere finalmente un racconto di vita autentica che ci fa affacciare su una prospettiva in cui il corpo è attraversato da e registra emozioni di genere. Poi arriva il pezzo forte di questa introduzione:

Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato [dai che forse ci siamo…] una condanna: considerato alternativamente strumento del peccato o esclusivamente sede del potere procreativo ha per secoli costretto la donna alla secca alternativa prostituta/madre [Sara: cosa non si fa per non mettere il soggetto giusto al posto giusto: NON il corpo ha costretto la donna all’alternativa secca tra prostituta e madre MA il sistema economico/sociale/religioso dominato dal potere maschile, detto anche comunemente patriarcato. Lorenzo: e mica vorrai scrivere su MicroMega che esiste il patriarcato! Oh, questi so’ intellettuali eh, mica pizza e fichi].

La nostra poi continua presentando il testo di Giulia Sissa sui femminismi, parlando de i movimenti delle donne che – se nelle loro prime ondate, per necessità, hanno dovuto in qualche maniera mortificare il corpo [nell’Ottocento parliamo di necessità? Perché, avevano altra scelta per non venir semplicemente arrestate e internate, le femministe di allora? Non pare ci fossero molte alternative], per poter reclamare un cervello – oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico [evidentemente ce ne sono altri: quali? Quali sono i corpi non erotici? E poi anche nell’800 – sempre che le vaghe prime ondate siano quelle – di erotismo ce n’era, visti i dispositivi sociali per imbrigliarlo, no?] come strumento di lotta.

Il pezzo di Origgi, Corpo, dunque sono, (complimenti) comincia con questo cappello, che vi riportiamo senza interromperlo:
Il nostro Ego è il corpo: l’unità della nostra persona, che registra inesorabilmente ogni cambiamento, anche il minimo, della nostra vita. Piaceri e dolori vengono archiviati dal nostro sistema nervoso e si incidono nel nostro corpo, che diventa un libro su cui è scritta la nostra intera vita. L’autobiografia di ciascuno di noi si può leggere sul proprio corpo. Il nostro corpo parla di noi. Il nostro corpo siamo noi: il corpo è l’Ego.

[Ma che è, una preghiera? Perché questo stile iterativo, queste ripetizioni? E perché mettere insieme, in sette righe stampate, termini psicologici, fisiologici, semiotici, letterari, senza uno straccio di spiegazione, approccio? Tutto così, come una preghiera o un mantra: parole da ripetere che si autogiustificano per la loro musicale litania. E, attenzione, di donne – non è dei loro corpi che si deve parlare? – manco l’ombra.]

Poi comincia un racconto autobiografico che seppure coraggioso e che mette a nudo le emozioni e le scosse che hanno attraversato il corpo di Origgi, mette in evidenza anche i limiti dell’esperienza autobiografica utilizzata in un contesto che avrebbe la pretesa di coinvolgere un grande pubblico con intenti divulgativi e di riflessione collettiva.

Ne evidenziamo alcuni momenti salienti. Origgi è del ‘67, dice Wikipedia, e da piccola ha la madre che lavora in un ufficio, una casa a Milano con due bagni, uno per genitore: quello del padre con la moquette per terra, molto funzionale. Quello di mia madre più ampio, pieno di boccette di profumo e di spazzole, con una grande vasca nel quale facevamo il bagno anche noi bambine. Dopo il divorzio, il padre verrà a trovarla a Parigi, quando ero già ventenne. Non sappiamo se e quanto il corpo possa portare i segni del proprio ceto sociale di appartenenza, ma ci permettiamo di supporre che, da questi pochi dati, quei segni non siano tanto comuni a molte donne.

Poi una rivelazione:
il mio corpo è appena uscito da quello di mia madre, ha freddo, la notte i miei neuroni sognano di terremoti che ingoiano intere foreste e di cani rabbiosi che mangiano brandelli di un animale squartato. I sogni di neonata emersero durante una terapia psicoanalitica di molti anni dopo a Parigi, un esercizio orchestrato da Marguerite Derrida che mi permise un avventuroso viaggio nel tempo fino alle origini delle mie esperienze corporee. [Detto che andrebbe almeno circostanziata e spiegata l’utilità dei sogni di neonata, visto che l’esperienza di Origgi è stata presentata come esempio, una domanda: chi di voi può permettersi una terapia psicoanalitica a Parigi con la moglie di Derrida? Vogliamo continuare a pensare che tutte queste circostanze non abbiano condizionato né i famosi segni né il famoso corpo sul quale si sarebbero incisi? Cosa dovrebbe dire tutto ciò a tutte le donne, e agli uomini riguardo le donne?]

E ancora:
Ricordo che un pomeriggio d’estate in campagna, mentre Lina, la governante, leggeva per l’ennesima volta la storia di Alice nel paese delle meraviglie, il cane dei vicini mi morse il naso […] Per me fino a quel momento si era trattato di un dibattito politico di cui si discuteva a cena intorno all’approvazione della legge 194 […] Dovevo rientrare in Italia dopo anni di studi a Parigi, e invece il corpo decise di no, di restare dov’era e non solo: di lasciare il mio fidanzato italiano senza alcun motivo apparente, di dichiarare il mio amore a un uomo sposato che aveva il doppio dei miei anni e di inseguirlo durante un convegno in Inghilterra fino ad acquattarmi nell’armadio della sua camera per cercare di sedurlo! […] Lo seguii dappertutto, mi facevo trovare negli aeroporti all’imbarco dell’aereo, o nel luogo dove si recava per una conferenza […] Dopo molti anni, entusiasmi, dolori e peripezie, Dan e io ci trovammo in Messico sulle tracce del Nino Fidencio e della storia del fidenzismo […] Scrissi la mia autobiografia, ritornando sulle tracce della vita di mia madre e poi, come lei, lasciai il padre di mio figlio e rimasi incinta di un altro uomo. [Il problema non è la vita di Origgi, che è la sua, ha le sue specificità che rispettiamo e siamo ben contenti se lei è felice di essersela vissuta. Il problema è: perché proprio la sua vita – ovviamente diversa da qualunque altra – dovrebbe far capire a tutte le donne che il nostro corpo siamo noi se il racconto è una sfilza di esperienze davvero non comuni? Si può obiettare che, per dimostrare che la vita si registra sul corpo, usare una vita così eccezionale forse non è proprio la strada migliore?]

Anche perché questa che dovrebbe essere una mera piccola autobiografia, è condita da “massime” che lasciano abbastanza interdetti. Qualche esempio:
Il mio corpo parla di me. [E vedi ‘n po’…]
Di lì a poco, grazie alle pillole prescritte dal medico sessista, il mio sangue riapparve, provocandomi un totale stato di ebbrezza ormonale. [E come la mettiamo, allora, col fatto che gli elementi corporei posso essere modificati da azioni esterne? Come conciliamo questa evidenza con i segni che la vita lascia? Sono segni come gli altri, questi “provocati” deliberatamente?]

Perché se c’è una cosa inaccettabile – dal punto di vista della testimonianza – di questo brano di Origgi, è che a lei il corpo non sembra averlo messo in discussione nessuno. L’incontro col medico sessista, pare essere la messa in questione più critica che abbia mai subito. Un po’ pochino, per sperare in una condivisione efficace, per sembrare un minimo comun denominatore per tante e il loro corpo. In più, mentre si legge questa testimonianza, si ha la netta sensazione di essere inutilmente dei voyeur, perchè leggere la storia di una donna che mette a nudo le sue fragilità senza la possibilità di confrontarsi con lei, senza avere un contatto di qualsiasi tipo non ha alcun senso, anzi, è dannoso perchè è come un’esposizione, appunto. Ancora una volta un’operazione non a favore delle donne, delle loro lotte per l’autonomia e l’autodeterminazione del corpo e della persona tutta, ma un’operazione puramente di marketing editoriale, di dubbio gusto, pure.

Sarà l’ultima? Naaa…

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

(Qui le “puntate” #1 e #2)

Deconstructing MicroMega #2 – Nappi, Latella

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Questo secondo dialogo si svolge tra Valentina Nappi e Maria Latella e ha come titolo “Sesso, merce e libertà”, ovvero il corpo tra libertà e sfruttamento, quindi il corpo femminile nei media ma anche nella prostituzione e – udite udite – nella pornografia. Come i tre argomenti stanno insieme, non ci verrà detto. L’anonim* mediatore/trice – che c’è, parla e propone gli argomenti – proponiamo noi di chiamarla Loretta, come il personaggio di Brian di Nazareth. Lei ci spiega subito qual è il dubbio che attanaglia tutt* in quel di Micromega e che li spinge ad indagare:

Il tema generale di questo dialogo è «il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento» [è parecchio diverso dal titolo, come mai? Non ci è dato sapere]. Affronteremo quindi sia la questione dell’uso del corpo femminile nei media, sia nei fenomeni spesso direttamente associati – a torto o a ragione, a seconda delle opinioni [ah, è ancora una opinione che siano associati?] – all’idea di mercificazione del corpo, cioè la prostituzione e la pornografia, fenomeni che, al di là di come la si pensi, hanno una notevole importanza e pervasività nella nostra società [il problema non è come la si pensi, ma di che tipo di importanza e di pervasività vogliamo parlare. Vabbè].
Il dialogo comincia alla grande: Loretta presenta il punto di vista di Nappi, secondo la quale il problema della mercificazione del corpo della donna si risolverebbe ponendo fine alla disparità di accesso al sesso occasionale, accesso che sarebbe penalizzante per gli uomini. Una disparità in cui le donne, infatti, sarebbero in una posizione di forza, grazie al “potere sessuale” femminile, potere che “sfrutta” il desiderio maschile e contro cui lei (Valentina Nappi) come pornostar intende combattere, proponendo un’accessibilità universale al sesso occasionale pari per uomini e donne. Poche idee e molto confuse, come vedremo.

***

[Loretta ricorda che Nappi aveva sostenuto in un suo testo di voler offrire una masturbazione gratis a qualunque uomo la chiedesse, non per carità, ma per giustizia. Poi chiede chiarimenti a Nappi]
NAPPI: La masturbazione reciproca dovrebbe diventare normale, come prendere il caffè insieme. Ovviamente io non posso offrire un caffè a chiunque, non posso spendere le mie giornate offrendo caffè, però se capita [un se capita che mi fa pensare a questo pezzo di Lillo & Greg] lo faccio volentieri. Detto questo, è innegabile che fra uomini e donne ci sia un’asimmetria evidente, perché per le donne il sesso ha uno status speciale, non è considerato un’attività come qualunque altra, [e che vuol dire? Per me il sesso non è certo un’attività come qualunque altra: è molto migliore!] come invece dovrebbe essere [LORENZO: ma forse per te. Io tra fare sesso e togliermi un dente gradirei una differenza. SARA: Grazie, mi associo]. Da questo status speciale, le donne ricavano “un potere” che è il presupposto della mercificazione [capito? Siccome abbiamo un potere lo sfruttiamo per farci sfruttare. Interessante. Nappi avrebbe dovuto raccontare CHI ha conferito al sesso uno status speciale; mi pare di ricordare che una certa confessione religiosa, comandata da una rigida gerarchia maschile, abbia detto delle cose in questo senso. Poi ci sono stati secoli di “cavalleria” maschile che hanno insegnato qualcosa pure loro, mi pare. Così, per dire due cosette da niente che ci vengono in mente al volo].

***

[L’idea di dare agli uomini quello che è giusto si basa sul fatto che loro ne hanno bisogno oppure lo vogliono tanto. Ha un bel citare filosofi e cineasti, Nappi ha idee antiche e confacenti al discorso dell’oligarchia maschile dominante, per la quale le donne sono uno dei capri espiatori più performanti. Secondo questa visione infatti le donne hanno persino la responsabilità di subire violenze da un uomo, perchè non sanno individuare quelli buoni, oppure non sanno liberarsi di quelli cattivi quando “si manifesta” la loro cattiveria. SARA: Lorenzo, sarà un caso che Nappi nella vita faccia la pornostar? Sono polemica? LORENZO: Non so che dirti ma sto ancora aspettando la mia pippa quotidiana, allora me lo offri ‘sto caffè? SARA: Mi spiace ma sono allergica agli esercizi passivi!]

NAPPI: Qualche tempo fa Frank Matano [i link li mettiamo noi, Micromega non s’è degnato manco di mettere una nota – immaginiamo che il dott.Matano non sia proprio l’accademico che di solito si trova citato in questo prestigioso periodico. Qui e qui le due ricerche scientificamente attendibilissime cui si riferisce Nappi] fece un esperimento, che era già stato fatto in America: un ragazzo bellissimo chiedeva a 100 ragazze se avevano voglia di fare sesso con lui, e praticamente tutte risposero di no. Persino ragazze veramente brutte, alle quali difficilmente sarebbe mai capitato nella vita uno così bello! [Secondo i noti criteri oggettivi di bellezza, di cui Nappi custodisce i segreti, se sei un gradino più in basso di lui devi dire sì, altrimenti sei scema. Non è una visione sessista, no no] Solo una, su 100 interrogate, disse “forse”. Nell’esperimento al contrario, dove una ragazza carina ma non particolarmente bella [sempre secondo la scala Nappi] chiedeva a 100 ragazzi se avevano voglia di fare sesso con lei, più o meno la metà rispose di sì. Ecco, in questo consiste il “potere sessuale” delle donne. [Complimenti a Nappi: spiega una nota manifestazione del patriarcato come fosse una scelta delle donne. C’ha proprio le idee chiare.]

***

Dopo un discorso di Latella in cui si tenta di affrontare la complessità del fenomeno della prostituzione, con i vari approcci provati dai vari Stati, Nappi afferma:

NAPPI: Io credo che le vere vittime siano gli uomini. Le donne, nella maggior parte dei casi, scelgono di fare le prostitute [COSA?]. E molte di loro – basta parlarci per scoprirlo – sono molto consapevoli di questo loro “potere”, e parlano spesso di “spennare il pollo” [però, che analisi profonda]. Le prostitute sfruttano il desiderio maschile, sfruttano il bisogno dell’altro [E i pappa, non sfruttano niente? Ma no, gli uomini sono le vittime!]. Non forniscono un servizio che sono in grado di offrire in virtù di particolari doti naturali: è pura usura, perché sfruttano solo il differenziale di accesso al sesso occasionale tra chi ha la vagina e chi ha il pene. Non è che uno va a prostitute per avere un servizio particolare, ci va semplicemente per fare sesso [Ottima analisi, se non fosse che manca il protagonista principale. Nappi parla di prostituzione come fosse fatta solo da donne – mi risulta che ci sia qualcuno a “organizzarle”, o no? E poi, notoriamente, i clienti sono tutti semplicemente brave persone sfruttate da queste donnacce cattive, no?]. Questa sì che è una forma di mercificazione.

[SARA: mi voglio mettere nei panni di Nappi, per qualche secondo, ci provo. Il suo punto di vista da pornostar è che il sesso è uguale a tutte le altre attività; dopodichè è evidente che le donne hanno un potere e ne approfittano, quindi esse dovrebbero dare libero accesso al sesso in quanto fonte di piacere per gli uomini che ne hanno bisogno o ne soffrono la mancanza. Quindi basta che le donne non esercitino la propria volontà e il proprio diritto all’autodeterminazione nel decidere se, come, quando, dove, perchè, e soprattutto con chi fare sesso perchè scompaiano o vadano fortemente in crisi: prostizione e, come dice più avanti, il gossip sui giornali scandalistici basati sui nudi (ma, seguendo questo ragionamento, anche violenza, discriminazione, eccetera). Quindi donne, facciamo questo piccolo sacrificio, su. E poi dico non sia mai che si indaghi sul “bisogno maschile” che noi donne dobbiamo soddisfare: ma Nappi lo sa che questo argomento è vecchio come il cucco e serve a legittimare stupri e violenze da sempre? LORENZO: non mi importa tanto di sapere cosa Nappi sa – certo non s’è letta il libro di Serughetti, o non l’ha capito – ma sentire queste sue parole così simili a quelle che trionfano nei forum maschilisti mi basta. Nappi, semplicemente, non sa cosa sta dicendo e si appella ai luoghi comuni più maschilisti condendoli con qualche citazione. Purtroppo, pare che tanto basti a far passare una persona evidentemente impreparata per una valida blogger su MicroMega.]

***

D’altronde anche “Loretta” (la nostra mediatr* invisibile) afferma impunemente cose discutibili, tipo:

Viviamo oggi in una società che ha, almeno parzialmente, sdoganato la pornografia [EH? Appena vedrò trasmesso Gola profonda in prima serata su Rete4, allora ci crederò. Complimenti per il parzialmente, che non si sa che vuol dire]. Anni fa è esistito in America un movimento di femministe, con in testa Andrea Dworkin, che si scagliavano contro la pornografia. Oggi anche il movimento delle donne ha accettato il fenomeno [di grazia, QUALE movimento delle donne? Lo vogliamo capire una buona volta che il movimento delle donne non esiste? E quale fenomeno avrebbe accettato? Loretta chi sei? Palesati!!!]. […] Recentemente è nato in Italia un collettivo di donne che si chiama “Le ragazze del porno” […] che sta cercando attraverso un crowdfunding di finanziare un progetto di cortometraggi pornografici realizzati da loro stesse. [Manca poco che ci cada la mandibola: avevate capito che Torre stava girando cortometraggi pornografici, quindi nel primo articolo si stava facendo spudoratamente pubblicità per procacciarsi i dinè? Noi avevamo capito che stava facendo un documentario sulle ex pornostar pentite che erano tanto struggenti (quante volte ha usato questa parola? Almeno tre!). Poveri illusi. Ah, per completare la sua lucida disamina, Nappi aggiunge poco sotto che]
NAPPI: Ormai la cosiddetta industria del porno non fattura quasi nulla.
[Solo il porno online alza tremila dollari al secondo. Non è un segreto eh, sono stime commerciali come se ne fanno in ogni settore. Ma Nappi è una pornostar, come il collega Siffredi è dotata di competenza infusa e onniscienza divina.]

***

Non l’abbiamo trascurata eh, è che i commenti e le risposte di Latella sono tutte più o meno di questo tenore:

LATELLA: Il papa ha parlato di “avidità senza limiti” e mi pare evidente il legame tra questa ossessione per il possesso di beni e la mercificazione del corpo delle donne: è come se si fosse perso totalmente il senso della gerarchia delle cose importanti e dei valori, riconoscendone sostanzialmente uno solo. Il denaro, le cose. […] sono cresciuta nell’Italia in cui, fino agli anni Ottanta, la piccola come la grande borghesia aveva chiaro il senso delle regole. Se mio padre mi avesse mai visto parlare con un condannato per qualsiasi reato mi avrebbe preso a schiaffi per strada e rimandato a casa. [Ci pare superfluo ogni commento. Potremmo suggerire, per par condicio, a Latella Le ragazze di Benin City, tanto per chiarirle anche che intendere, come fa in un punto, la prostituzione come un servizio talvolta utile alla società perché aiuta ad allentare le tensioni sociali, è un concetto che si merita qualcosina in più delle sberle di papà.]

***

Il dialogo finisce comicamente con due post scriptum perché, per motivi che non vengono riportati dalla nostra Loretta, a un certo punto s’è interrotto. Ovviamente Latella scrive che forse la più disincantata è proprio la giornalista, tanto per ribadire che la pornostar è in fondo più bigotta di lei, mentre Nappi si fa forte dello scarto generazionale per chiedersi se le persone di cultura ragionano così, cosa ci possiamo aspettare dal genitore o dall’educatore medio? passando per rivoluzionaria voce delle giovani generazioni, stanche dell’atteggiamento di superiorità di certe vecchie parruccone.

Con chi sta MicroMega è facile dirlo: solo una delle due ha un suo blog nella testata, dove per esempio si può argomentare che fare i pompini è un’arte paragonabile a suonare il violino.

Complimenti a MicroMega. E al violino.

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Aspirare (al)la parità

Come certamente saprete, sul web si trovano da anni blog genitoriali: la maggior parte di loro è fatta da mamme e per le mamme, e parla degli argomenti più in voga tra le mamme, ma non mancano – oltre i rari veramente genitoriali – i “papàblogger”, uomini che raccontano la loro esperienza paterna e che cercano di far diventare questa loro attività un mestiere. Fin qui niente di male. Il problema nasce quando qualcuno di questi geni della comunicazione pensa bene di adoperare argomenti o temi dei quali evidentemente capisce pochissimo per i propri scopi.

Se questi ultimi sono senz’altro leciti, l’uso di alcuni argomenti è a volte – perlomeno – discutibile. Del brillante comunicatore di cui ci accingiamo a leggere le meraviglie eviterò di mettere il link, tanto vi basterà l’immagine, se proprio ci tenete. Qui, come sempre, non interessa tanto la sua persona quanto l’uso incredibile di parole e argomenti che andrebbero usati con ben altra sensibilità. Il grave danno provocato dal parlare di parità in questo modo, e pure in un blog di padre che parla ad altri padri, lo si misura poi quando in ben altri contesti emerge tutta l’insipienza politica e civile comune su questi argomenti. La condivisione di stereotipi, luoghi comuni e altri sessismi non è scusabile perché uno si sente padre spiritoso che parla di lavori domestici.

Uccello2
Un aspirapolvere per la parità [cominciamo bene, eh? Bel titolo davvero]

Io ci provo ad ottenere la parità in casa, ma non è facile. [Lui, uomo, aspira a ottenere la parità in casa. Oh, magari è un’eccezione, vediamo]

Vengo sempre messo in secondo piano e c’è un lento mobbing casalingo che mi spinge a rinunciare. [E la miseria, e chi ti sei sposato? E soprattutto, perché? Però una cosa: mobbing è una parola pesante, configura un reato, e si riferisce soprattutto a un luogo di lavoro. Forse che, invece che da padre, sta parlando da domestico contrattualizzato? E poi, rinunciare a che cosa? Non lo sappiamo. Il comunicatore, qui, si tiene sul vago]

Io però non mi abbatto e vado avanti sulla mia strada per ottenere la parità [un po’ di empowerment che non guasta mai].

La mia ultima battaglia è stata: L’aspirapolvere non ha bisogno di una mano femminile per fare il suo lavoro al meglio. [Avete capito bene: il nostro coraggioso difensore dei diritti degli oppressi, che lotta per la parità, combatte per diffondere qualcosa che le donne stanno dicendo da più di un secolo: non è necessario essere donna per pulirsi casa. Anche se l’aspirapolvere ha più di un secolo, le donne lo dicono da prima.]

Pochi giorni fa è arrivato a casa nostra il Dyson DC52: un aspirapolvere dal design futuristico, con un sistema di aspirazione che riprende la teoria del ciclone. [Sì, capita che i blogger facciano pubblicità nei post: devono pur campare, non c’è niente di male. Certo che se la butti sulla parità dei diritti, forse – ma forse eh – dovresti essere più cauto nell’usare argomenti che per qualcuno costano la vita.]

Insomma il fatto che non avesse bisogno di sacchetti da cambiare, che fosse ecologico perché la polvere la svuoti facilmente e il contenitore lo lavi semplicemente mi ha fatto pensare che fosse arrivato il momento giusto per essere d’aiuto in casa senza la supervisione al femminile. [Quindi ringraziamo il prodotto futuristico, sennò col quasi che alzavi il culo per pulire casa. Davvero simpatico come argomento per ottenere la parità in casa.]

Sono tanti gli uomini e i papà che mi scrivono, solidali, su questo argomento che ci confina in uno stato depressivo sul divano. [Poverini, milioni di papà che non vorrebbero soffrire, addirittura depressi perché nessuno aveva prodotto un aggeggio che li liberasse dalla schiavitù del divano. Ma adesso ci ha pensato Dyson a liberarvi, potete alzarvi e ottenere la parità in casa!!!]

La questione è sempre la stessa: Qualsiasi sia il lavoro domestico fatto da un uomo dopo ci sarà sempre una donna che passerà a controllare o a dare il suo piccolo contributo, proprio come un colpo da maestro. (E’ una cosa che sta nel DNA, quindi difficile da modificare) [COSA? Le donne avrebbero nel DNA il controllare le pulizie? O forse si tramandano da generazioni questa schiavitù, dato che da sempre si accompagnano a uomini che vedono nel fare le pulizie qualcosa di degradante per la loro virilità? E quindi t’incazzi se – data l’inesperienza – pulisci male e lei lo vede? Bel concetto di parità, complimenti.]

Sicuro di avere nel Dyson un alleato ho lanciato una sfida: “Cara, questa volta non potrai fare di meglio”. [L’olio di gomito costa meno, ma evidentemente è poco virile. Invece un bel tubo aspirante ti rinfranca la mascolinità? E, serve un alleato contro la crudele donna che passerà a controllare, armata del suo DNA? Da solo non ce la facevi proprio, ad avere la parità in casa?]

La mattinata è trascorsa a pulire pavimenti, materassi e divano grazie ai diversi attrezzi in dotazione che hanno delle spazzole speciali per ciascuna funzione.

Mi sono impegnato fino allo stremo e il “traino” mi ha seguito in maniera fedele senza nessun intralcio. Ho fatto un po’ fatica in alcune manovre perché non sempre ha raggiunto tutti gli angoli, ma per quelli ho usato una spazzolina piccola che si infila bene anche dietro le mille cose che ci sono sulla scrivania (veramente ho aspirato anche tra i tasti della tastiera del pc e il risultato è stato sorprendente. Adesso anche i caratteri sono più puliti). [Ah ah ah, davvero un simpaticone. Quanta elaborata prosa per quello che la compagna si smazza tutti i giorni, e senza produrci post nel suo blog.]

Ad un certo punto è entrata in scena mia moglie (MPS) [avete letto bene, lui la chiama come una banca] col suo aspirapolvere. Non si è fidata del nuovo arrivato [eh, che volete, ce l’ha nel DNA] e così per la sfida che le avevo lanciato ha voluto giocare tutte le carte [il 99% per cento delle donne gli avrebbe detto e fatto ben altro, ma la sua è difficile da modificare]. Ha cambiato il sacchetto ed è partita all’attacco. Alla fine della sua sessione, fatti i dovuti controlli, ha esclamato:

“Se utilizzi sempre il Dyson mi sento sicura perché aspira davvero tutto in profondità”. [Il mostro del mobbing cercava solo rassicurazioni, poverina. Adesso si sente sicura grazie al suo eroe che le ha cambiato il DNA.]

“Hai visto che non sempre c’è bisogno della tua mano?” [«Boccaccia mia statte zitta», si sarà detta lei, e la capiamo bene.]

“Beh il Dyson è comunque opera di una donna”. [Attenzione, parte una gag molto spontanea…]

“Ma quando mai. I Dyson sono aspirapolvere creati da un uomo”.

“Sì, ma dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, per cui…”

“Per cui hai ragione amore mio”. […che si conclude col più classico dei luoghi comuni sessisti.]

P.S: Per tutti quelli che hanno voglia di parità offro uno sconto del 50% [La parità con lo sconto, accorrete gente!!!]

su questi modelli

– DC52 Animal Turbine

– DC52 Allergy Care

– DC52 Multifloor

– DC63 Allergy

– DC42 Allergy

– portatile DC43H Mattress

(Attenzione il post non è sponsorizzato [no, certo, lui gli aspirapolvere da dare con lo sconto li ha trovati per caso in un TIR parcheggiato aperto nel suo cortile, una mattina]. Per quelli viene inserita una dicitura finale. Cioè io ci credo proprio al fatto che il Dyson aspira meglio degli altri aspirapolvere [e credi che la parità sia una questione di chi pulisce meglio, ci credi proprio, si vede])

P.S. [sarebbe il secondo, quindi casomai P.P.S., ma si vede che non sono blogger di professione, io] La dicitura di post non sponsorizzato è stata inserita in quanto per questo articolo non ho ricevuto nessun compenso economico [a parte la parità, ma quella è una gioia morale e un traguardo sociale, non è monetizzabile]. Questo regalo non è una sponsorizzazione, ma semmai una recensione [EH? No, davvero, non si capisce. Che sia un problema di DNA anche questo?]. Non ci sarà una vendita dell’oggetto in questione e quindi nessun ricavo economico [scusa, avevo letto “offro uno sconto del 50%”, pensavo ti riferissi a una vendita, come di solito si fa parlando di sconti]. Per tanto il post non ha dovuto rispettare nessun parametro indicato dall’azienda sia in termini di traffico che di contenuto. Inoltre sono stato contento di poter offrire a chi volesse dei coupon di sconto [anche quelli erano nel TIR, evidentemente], ma specifico che neanche per questo è previsto un compenso economico. Mi scuso se non è stato specificato che si trattasse di una recensione [allora potevi raccontarci come c’è capitato un Dyson a casa tua: andava in giro da solo? Che cercasse anche lui di ottenere la parità, depresso dal mobbing dei robot aspiratori?].

Deconstructing MicroMega #1 – Siffredi, Torre, Ardovino

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Cominciamo a parlare del numero 5/2014 di MicroMega nello specifico, dedicandoci al primo dialogo di quelli proposti. Esiste un porno al femminile? è il titolo, e dialogano Rocco Siffredi e Roberta Torre, con Adriano Ardovino a fare da moderatore/curatore.
Le parti citate del dialogo le prendiamo dalla rivista ma voi potete gustarvi
qui quasi tutto il dialogo – notevole che MicroMega sia riportato da Dagospia, vero? E poi, notate anche come questo sito abbia percepito il messaggio di diversità che l’articolo vorrebbe introdurre rispetto al porno tradizionale, si vede chiaramente dalle foto. Evidentemente hanno qualcosa in comune. Chissà. Comunque le difficoltà di non presentare per intero il testo che commentiamo – per motivi di copyright e perché non è salutare stare troppo davanti al video – le superiamo presentandovi delle parti salienti, le cose più divertenti e interessanti. Immaginate di leggerle, come certi vecchi sketch d’avanspettacolo, intervallate da un battito di piatti e dalle risate del pubblico; tipograficamente, con i tre asterischi.

***

Comunque la si giudichi (sul piano estetico e morale), la pornografia occupa nella nostra società uno spazio ampio e storicamente inedito. Sarebbe impossibile, volendo descrivere il mondo odierno così com’è, non tener conto di quanto la rappresentazione esplicita della sessualità attraversi buona parte della nostra cultura, non solo quella cosiddetta «pop» o quella legata alle arti visive e al cinema. Dall’immaginario privato al corpo esibito, dalla fruizione di contenuti in rete alle nuove forme di «dipendenza» e ai legami con la politica, la pornografia è ormai strettamente intrecciata con la nostra quotidianità [ok, lo diamo come dato di fatto, e facciamo finta che tutti sappiamo perché – mentre invece ci vorrebbe almeno un numero di MicroMega a parte per ricostruire il tutto. Pazienza].

E se il pensiero femminista, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, ha condotto battaglie cruciali (e purtroppo ancora attuali) contro la mercificazione e lo sfruttamento mediatico del corpo femminile, da qualche decennio a questa parte molte donne hanno formulato un approccio diverso al tema. Un approccio forse più «libertario», sicuramente meno persuaso che il problema sia soltanto la violenza maschile o il punto di vista «patriarcale» [le premesse di Ardovino esprimono il taglio politico di questo pezzo, perché di politica si tratta anche se gli attori chiamati ad esprimersi non esplicano un punto di vista definito. Sembrano stranamente i temi cari alla critica femminista all’industria pornografica. In questo caso avremmo l’impressione che si presenti quella critica come vecchia e superata, dalle stesse donne, senza però citare fonti e confutare posizioni].

Si inserisce qui, mi pare, il progetto intitolato Le ragazze del porno, al quale partecipano diverse registe italiane, la più nota delle quali è Roberta Torre. Ispirato alla cineasta indipendente Mia Engberg, che in Svezia ha usufruito di finanziamenti pubblici per realizzare alcuni cortometraggi sulla sessualità «vista e vissuta dalle donne», il progetto ne riprende il «manifesto». Vi si parla della «necessità», soprattutto in Italia (dove si «consuma» molta pornografia, quasi mai fatta da donne), di raccontare corpi e pratiche da un diverso punto di vista. Di liberare una diversa rappresentazione del desiderio e del piacere. Di dare visibilità a un immaginario che le donne stesse, talvolta, si troverebbero a marginalizzare o a negare. Come stanno realmente le cose? [Ardovino è un genio dell’ambiguità, perché questa diversità continuamente citata non si capisce bene da che tenda a distinguersi: dall’approccio maschile? Che non viene descritto, se non nel testo molto vagamente, oppure dall’approccio femminista (femminile, per carità) citato poc’anzi? Da tutte e due? In due casi su tre diremmo che secondo Ardovino la critica femminista al porno oltre che vecchia e superata è anche monolitica, oppressiva e censoria, niente male per un testo di approfondimento e di critica di “alta qualità”. Questo dubbio ci accompagnerà nella lettura. Forse lo saprà mettere in chiaro il noto esperto di pornografia femminile Siffredi, di cui Ardovino non ritiene necessario specificare il motivo della presenza nella sua presentazione – invece, per Torre, sì.]

***

SIFFREDI: Molte donne mi dicono ad esempio: «Entra nella mia testa, fa del mio corpo quello che vuoi» [Sarebbe stato carino capire quando e in che circostanza, ma forse è meglio non indagare].

TORRE: Questo è quello che ogni donna desidera [SARA: Lorenzo scusa, devo andare a comprare un prodotto di Siffredi perchè non posso sfuggire alla matematica, la quale si sa è una scienza e non un’opinione. LORENZO: Fai pure; posso accompagnarti io?].

SIFFREDI: È l’atteggiamento che adotto io [quale? Sapere in anticipo quello che ogni donna desidera? Fichissimo, siamo alla pornotelepatia. Attenzione, per chi lo avesse dimenticato: siamo sempre dentro un numero di MicroMega intitolato Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento]. Ma lo faccio in maniera naturale, perché a me piace vederle godere, le donne [che carino, è tanto premuroso]. Per fortuna la natura mi ha aiutato, nel senso che per natura sono una persona alla quale di godere per se stessa non gliene frega niente [ha la vocazione del martire, lui], quindi nel mio lavoro mi trovo bene, sia nei confronti delle attrici con cui lavoro sia nei confronti dei fan. Ogni mio film è rivolto fin dal principio a tutte le migliaia o milioni di persone che lo vedranno. E io cerco una connessione con una donna per realizzare qualcosa di particolare, che possa piacere a tantissime altre donne [sarà il caso di dirglielo, visto che invece comprano e scaricano soprattutto uomini. Ah, che destino cinico e baro]. Questo è un po’ il «sistema» che seguo, anche se non sempre viene compreso [tranquillo, ci pensa MicroMega].

TORRE: Lo capisco benissimo. Al tempo stesso, dobbiamo sempre rispettare le differenze. Ci tengo a ribadire, di nuovo, che questa è comunque una mia visione e che non voglio, né posso, parlare a nome di tutte le donne [Cara Torre, potevi dirlo alla frase precedente. Comunque, Siffredi invece non ha problemi a farlo, lui parla per tutte le donne perché le ha conosciute tutte. E niente battute, siamo su MicroMega]. Probabilmente, infatti, molte donne non la pensano come me.

SIFFREDI: Il novantotto per cento ti assicuro di sì… [lui non spara cifre a caso eh, dispone di un campione molto grande e ben selezionato secondo i migliori criteri delle scienze statistiche]

TORRE: In qualche modo, quello che tu «senti» [lei ci prova a insinuare che non può “saperlo” ma che al massimo lo “sente”, e ci vorrebbe un moderatore a farlo notare. Ardovino, dove sei?] conferma qualcosa che anche molte donne avvertono, me compresa. E in fondo è questo che mi spinge a raccontare e a rappresentare. L’ipocrisia non giova mai a nessuno [invece far straparlare Siffredi su MicroMega, sì?].

***

SIFFREDI: A volte ti trovi veramente davanti a dei pezzi di carne [del destino dei quali né Siffredi né MIcroMega sembrano volersi occupare]. Dal lato opposto, poi, vedi giovani donne che non sanno neanche come iniziare un approccio [scusa, lato opposto a quale?]. Il mio sesso vuol essere invece un sesso particolare, un viaggio con una donna per portarla su altri piani, per cercare di entrarle veramente nel cervello, in maniera profonda, per poi poter giocare insieme [com’era l’approccio femminile al porno? Ah, sì voleva esprimere un diverso punto di vista, liberare una diversa rappresentazione del desiderio e dare visibilità ad un immaginario che le donne stesse si troverebbero a marginalizzare o a negare. A me sembra che oltre al corpo qua si voglia dire che nel porno è possibile entrare e manipolare anche la mente di una donna, il che mi sembra sia da denunciare e non da celebrare – ah già, questo è quello che ogni donna desidera, ha detto Torre].

Quando agli attori viene mostrato un video e viene detto loro: «You have to do it like Rocco, Rocco style» (cosa che capita spesso e che vivo con «imbarazzo»), quando li vedi cominciare a sputarsi o a dare schiaffi ripetendo meccanicamente dei gesti che tu fai soltanto al momento giusto, con una persona che se l’aspetta, che vuole esattamente quella cosa in quel determinato momento, allora non è altro che una replica completamente meccanica [va bene, ma una replica DI COSA? Si tratta di due attori, no? Ma lo leggiamo solo noi che il caro Siffredi fa finta di non dover esplicitare che è in ballo un rapporto di potere giocato tra realtà e rappresentazione, sempre a scapito di uno solo dei protagonisti?].

E questo significa oltrepassare il limite, che è il contrario di quello che cerco di fare io, ossia essere sempre «al limite», senza mai oltrepassarlo [il limite DI COSA, dillo!]. Un limite al di là del quale si generano solo violenza gratuita ed esibizione (finta) di virilità (presunta).Quando vedo questi ragazzi che mi imitano in modo esteriore, mi rendo conto di quanto sia lontana la mente maschile dal comprendere le donne [ah.Tu vedi i ragazzi imitarti penosamente e pensi che non siano capaci di comprendere le donne. Il dio Siffredi non lo si mette in discussione, mai. Infatti Ardovino – che mi risulta essere filosofo schietto – avrebbe dovuto interromperlo già dieci volte almeno, per chiedergli di essere un poco più preciso e rispettoso delle parole, dato che tra realtà, finzione e rappresentazione Siffredi sta facendo un casino a suo comodo. Invece, niente].

E anche di quanto sia complicato cercare di «connettersi» sul piano mentale. Non si insegna in poco tempo, a certi ragazzi [ah, lo si insegna? E dove? E come?]. Soprattutto, gli uomini che non sono predisposti (e ti assicuro che sono tanti) non lo potranno mai capire [PREDISPOSTI? Esiste il gene della comprensione delle donne? ARDOVINOOO!]. Con questa finta erezione (forzata, chimica), oggi si sentono tutti leoni, e finiscono per utilizzare l’«attrezzo» molto male. Il che significa allontanarsi ancora di più [capito il problema? Bisogna saper usare bene l’«attrezzo» per entrare nella testa delle donne, dato che questo è quello che ogni donna desidera. Su MicroMega].

***

TORRE: … Il discorso è molto ampio e non riguarda solo le singole coppie. Quando c’è un problema, nel rapporto tra uomo e donna, indubbiamente viene vissuto dentro e fuori dalla stanza da letto [e fin qui non ci piove]. E mi pare che oggi non ci sia alcuna facilità di rapporti tra i due generi [un po’ vago ma può ancora andare]. Di certo le donne non hanno ancora ottenuto quello che volevano ottenere attraverso le battaglie femministe e spesso hanno perso fette d’identità molto cospicue [che cosa sono le fette d’identità? Che vuol dire?]. L’uomo, d’altro canto, si trova assolutamente spiazzato [embè, già c’ha i suoi limiti, te poi gli parli di fette d’identità… e comunque spiazzato in che senso?]. E di rimando lo è anche la donna [LORENZO: come sarebbe di rimando? Di rimando a cosa, e perché? Vabbè che è un dialogo, ma cerchiamo di renderci comprensibili! SARA: Come, Lorenzo! Ma allora non mi stai sul pezzo, è da prima che si parla di matematica: l’uomo è spiazzato? Di conseguenza lo è anche la donna, del resto le femministe hanno perso, ci rimane solo la matematica!]. E’ indubbio che tutto questo non possa non tradursi in una incomprensione [e te credo, spari parole a vanvera] anche fisica, sessuale. Sono sempre più convinta che alla fine il corpo è l’unica cosa che non mente [forse non mente – ammesso di capire cosa vuol dire che un corpo mente – ma certo è confuso, l’hai detto tu, è nella incomprensione. Non ne parliamo più?]. Me ne convinco lavorando con gli attori, lavorando in teatro, osservando le reazioni fisiche degli esseri umani [VA BENE, ti convinci che non mente, ma rimane il fatto dell’incomprensione, che non è un mentire. Allora?]. Senza voler fare voli pindarici, direi che oggi più che mai la sessualità e la sua rappresentazione possono essere un nodo importante, artisticamente vitale e rilevante, di raccontare quello che sta succedendo tra uomo e donna [ma succede da quando l’uomo fa i graffiti sulle grotte! E che ci voleva Torre per dirlo? E’ questa la misura del suo contributo al dialogo? Confermare a Siffredi che lui è il dio delle donne e dire ovvietà?].

TORRE: Oggi, a trent’anni di distanza [da Cicciolina e dal Partito dell’Amore, ndr], la posta in gioco è provare a parlare del sesso «insieme» alla politica [eh? E che vuol dire?], contrastando in ogni modo il punto di vista solo negativo e a tratti infamante con cui ancora se ne parla [di quale dei due? Vabbè, tanto…], tentando cioè di «far parlare» diversamente il sesso anche in termini di cultura e di rappresentazione audiovisiva [e io che pensavo che sarebbe dovuta essere la cultura e la rappresentazione a dover cambiare per parlare decentemente del sesso. Invece, guarda un po’, è il sesso che va fatto parlare diversamente. Ma non aveva detto poco prima che il corpo è l’unica cosa che non mente?].
SIFFREDI: Credo anch’io che dovrebbe essere così [come ha fatto Siffredi a capire cos’ha detto Torre? Ah, già, lui è “predisposto” di natura].

***

SIFFREDI: Non dimentichiamo comunque che si sta parlando di pornografia [ti giuro, Rocco, che l’avevo capito: non mi sembra certo di star leggendo MicroMega]. In una coppia «normale» [ci sono anche altri modelli, evidentemente], l’uomo non vuole una moglie «troia», perché anzi la desidera «a comando» [io so di molti milioni che vogliono una troia a comando, di che tipo sono?]. Se invece si accorge di avere una donna molto «performante» dal punto di vista sessuale, non la vuole più [il fatto che ne stia parlando come di un bene acquistato difettoso non smuove il nostro “predisposto” di un millimetro, né smuove il filosofo che assiste al dialogo]. La pornostar diventa una sorta di Anticristo per l’uomo normale, che la sogna, la desidera in quell’attimo, ma poi la vuole distruggere. Io invece sono uno [lui, il predisposto] che ama la donna con tutto l’«involucro», cioè per intero, con tutto il suo corpo [ma involucro di che? ARDOVINOOO dove sei? Manco l’Anticristo ti fa intervenire?]. Vedo tanti pornostar che laddove si sporcano a causa dei rapporti anali o con le mestruazioni, odiano le donne. Non si può dimenticare che il corpo della donna si porta dietro anche questi fardelli, che sono legati alla natura [sai che novità! La donna è corpo e natura da almeno tre millenni, quelli dominati dal patriarcato che la vuole inferiore all’uomo proprio perché le manca la razionalità! Veronesi poi lo ribadisce nel suo articolo centrale, come vedremo: la vedono nello stesso modo, ecco perché si scambiano i convegni!].

TORRE: È perfettamente vero, ed è un altro aspetto che distingue il maschile dal femminile [notate la delicatezza di Torre, un altro – gli altri, chissà, si sono persi con le fette d’identità.].

 ***

ARDOVINO: Un’ultima domanda. C’è posto, nella pornografia, per il pudore e la vergogna? [Assist finale di Ardovino. Pronti?]

SIFFREDI: L’ultimo ricordo che ho risale a trent’anni fa, dopo i primi sei mesi di porno, quando ho visto per la prima volta il mio sedere e i miei testicoli da dietro. Lì ho provata tanta, tanta vergogna. Ma dopo quell’immagine lì, mi sono abituato e la vergogna, per me, non è più nudità da almeno trent’anni [adesso qualcuno dovrebbe dire qualcosa sull’alienazione e l’uso dei media, ma ci vorrebbe un filosofo, mannaggia]. So che sembra scontato, che lo si ripete troppo spesso, però la vergogna la provo quando vedo i ragazzini che annegano o muoiono di fame [sì, è scontato]. Il pudore, invece, lo sento come qualcosa di molto più intimo. Non è sicuramente legato a un’immagine, altrimenti non farei quello che faccio. Direi che il pudore sono i sentimenti, sono il cuore. Tutto quello che ad esempio sento per mia moglie, Rosa, grazie alla quale sono riuscito a mantenere il mio equilibrio [e su, diciamolo anche su MicroMega: dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Cosa ridete? Vi vedo, eh!]. Una donna che ti capisce e che ti sorride e che ti lascia libero. Che ti fa andare a lavorare, appunto, con un bellissimo sorriso. E quando torni a casa, sai comunque che puoi contare su di lei [il declino conservatore di Siffredi è deprimente. Infatti prima parla male dei porno attori che si lamentano dei fluidi corporei di una donna sul set, poi all’ultimo si scopre marito soddisfatto di una donna che mentre lui fa il porno divo l’attende a casa, lo capisce e lo comprende. Che bel quadretto familiare. Visto? Il predisposto, il dio delle donne, alla fine è uno come tutti gli altri. Però non è «normale»: Rosa, sicuramente, non è né «troia», «a comando», vero?].

TORRE: Ancora una volta, credo che tutto sia relativo a una forma di consapevolezza. La vergogna, il sentimento di sentirsi ridotti a oggetto, non passa per il corpo [SCUSA? ], e di sicuro non è legata in modo necessario al tipo di situazioni che abbiamo descritto. Sono di nuovo d’accordo con Rocco: la vergogna mi pare qualcosa di legato a una mancanza di consapevolezza. Riguarda molti aspetti, ma di certo non può riguardare una condizione di nudità e men che meno il sesso [Torre, che dice, lo chiediamo a chi ha subito uno stupro?]. «Pudore», invece, mi pare una delle parole più dimenticate della nostra società. Nell’Italia di oggi non esiste alcun pudore. L’idea di non legarlo a un corpo nudo mi pare però necessaria e a tratti indispensabile [non lo è già di suo, basta il vocabolario]. Soprattutto, credo che entrambi i termini, vergogna e pudore, non si possano più associare, in nessun modo, alla sessualità e al corpo nudo, ai suoi gesti e ai suoi movimenti, anche a prescindere dal porno. Forse, in qualche modo, la vergogna resta legata alla violenza. Ci si può vergognare per una violenza, questo sì. Ma non per un corpo. Non per un atto sessuale [di nuovo, la invito a parlarne con chi ha avuto, o si occupa, di esperienze di violenza sessuale. Potrebbe esserle d’aiuto. Ma dopotutto, perché mai se ne dovrebbe accennare in un numero di MicroMega intitolato Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento, in un dialogo sulla pornografia?].

***

Insomma: “Le ragazze del porno” è un lavoro sulla sessualità e sul desiderio delle donne che hanno fatto porno e che ora se ne sono distaccate. Mentre Ardovino e Siffredi tentano di tenere il discorso sul porno, Torre insiste sulla sessualità e sul desiderio, al massimo sull’erotismo. Inoltre i suoi discorsi tendono sistematicamente a fare da sponda a quelli di Siffredi che essendo più “interno” all’argomento, risulta essere molto più competente di lei. Sarà un caso ma in questo articolo quella fuori posto e sprovvista di una sua legittimità sembra proprio Torre, l’unica donna. Ma non si voleva valorizzare qui il punto di vista femminile sul porno? Infatti Siffredi appare come l’esperto, colui che ha l’ultima parola per confermare quello che viene detto. Nei confronti di Torre e di tutte le donne ha un atteggiamento paternalistico, lui sa cosa è bene per le donne, lui sa cosa vogliono, il suo porno è assolutamente confacente ai desideri delle donne. Grazie alla moglie Rosa.

Questo è MicroMega 5/2014. E siamo all’inizio, eh.

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Deconstructing MicroMega #0

rembrandt-self-1-copertina1630-890x395Questa che segue è la presentazione del numero 5 2014 di MicroMega, dedicato a Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento. E’ passato un po’ di tempo, è vero, ma dovevamo pur leggerlo: e noi non siamo grandi intellettuali o lettori raffinati come in media ha MicroMega, quindi c’abbiamo messo parecchio a leggere e a renderci conto di cosa avevamo letto. Nei prossimi giorni faremo seguire degli appunti su ciascun articolo, ma è il caso di fermarsi anche su questa presentazione, tanto per dire qualcosa su quello che c’è in questo numero. E, soprattutto, su quello che non c’è.

Da giovedì 24 luglio in edicola e su iPad il nuovo numero di MicroMega, un monografico dedicato al “corpo della donna tra libertà e sfruttamento”. Ad aprire due dialoghi: nel primo uno dei più famosi attori porno italiani, Rocco Siffredi, e la regista Roberta Torre discutono della possibilità di un porno “al femminile” [ma avvertiamo solo noi, oltre l’impreparazione culturale dei due interlocutori, un loro vago “conflitto d’interessi”?]; nel secondo, la pornostar Valentina Nappi e la giornalista Maria Latella affrontano temi come la prostituzione, la mercificazione del corpo femminile, il rapporto tra giovani e sesso [anche in questo caso ci sfugge la correlazione tra interlocutori e argomenti: non era disponibile qualcuno delle associazioni che si occupano di prostituzione, di tratta? Qualche sociologo o studioso di questioni di genere? Un formatore, un educatore esperto di questioni sessuali? No perché, con lo stesso criterio, appena MicroMega si decide per un numero sulla fisica quantistica, noi ci candidiamo].

Un’intera sezione è dedicata alla pornografia [oh quale audacia: i signori perdono il monocolo, le signore svengono. Presto, i sali!]. La rappresentazione esplicita dell’atto sessuale continua a essere un tabù. Su queste ambiguità – e su queste ipocrisie – [quali? Ne è stata nominata a stento una] ha giocato Lars von Trier con il suo Nymphomaniac, che rappresenta l’ultimo tassello di un rapporto complicato e ambivalente del cinema con la rappresentazione del sesso, come riportato da Fabrizio Tassi. Un rapporto ambivalente perché spesso fondato su una netta separazione tra il sesso in film ‘normali’, se non addirittura d’autore, che si possono permettere solo di alludere e ammiccare [se non ricordo male – due esempi vecchi eh, tanto per dire – nè Pasolini nè Oshima ammiccavano affatto: sono registi di porno commerciale? Forse il problema è un altro, non quello che si vede e quello che no], e i film porno veri e propri, un genere a sé, la cui storia – raccontata da Pietro Adamo – è andata di pari passo con i cambiamenti tecnologici, dalle riviste a internet, passando per cinema e videocassette. Un fenomeno molto controverso, su cui intellettuali, filosofi e, soprattutto, femministe [toh, finalmente, eccole], si sono sempre divisi: il porno è uno strumento di oppressione delle donne, o un elemento di contestazione della moralità conservatrice e quindi di potenziale liberazione per le donne stesse? [Solo due ipotesi possibili? Tutto qui, MicroMega? Mentre del porno “al femminile” abbiamo fatto parlare Siffredi. Complimenti] Matthieu Lahure ricostruisce i termini della controversia.

In un iceberg su “corpo e tabù” Gloria Origgi ci ricorda che la nostra intera vita si può leggere sul proprio corpo. Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato una condanna ai ruoli stereotipati di madre o prostituta [meno male che ce lo ricorda lei, oggi non se ne parla più, vero?]. Ma persino quello che sembra l’istinto più naturale per una donna – quello materno – naturale non è affatto, come sostiene nel suo contributo Élisabeth Badinter [si sono sbagliati, il pezzo di Badinter sembra l’unico appropriato di tutto il numero. Gli è sfuggito, è evidente]. Mentre Giulia Sissa traccia la parabola dei movimenti femminili, che oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico come strumento di lotta [ma quindi tutti i movimenti, o solo questi ultimi?]. Eppure i tabù sono duri a morire [aridàje: quali tabù?], come dimostrano le straordinariamente variegate politiche di gestione della prostituzione descritte da Giulia Garofalo Geymonat [che lavora in Svezia: vogliamo parlare del tabù degli studi di genere in Italia? Dite che c’entra qualcosa? Ma no] e l’ostilità verso la figura dell’assistente sessuale per i disabili, tratteggiata da Alessandro Capriccioli [un giornalista, non un operatore del settore. Ma il tabù è chiamare le persone competenti?]. A chiudere la sezione un inedito dell’illustre oncologo Umberto Veronesi dal titolo “Il corpo delle donne dalla mortificazione all’emancipazione” [tema caro a ogni illustre oncologo, come certamente sapete; però, considerando che Siffredi lo sinvita a convegni medici e dice la sua sul cancro alla prostata, tutto quadra perfettamente].

Ma è compatibile la religione con l’emancipazione delle donne? [«Estiqaatsi», direbbe un grande capo indiano, ma qui siamo su MicroMega, quindi ci occupiamo di tutto il risibile con grande qualità] Carlo Augusto Viano delinea la storia del posto che le donne hanno occupato nella religione cristiana, dalle origini fino a papa Bergoglio: una presenza costante, ma sempre un gradino sotto all’uomo e non pare proprio che su questo fronte Francesco stia portando novità rilevanti [eh, meno male che ce lo dice MicroMega]. Il sacrificio del figlio e il ripudio della donna sono, secondo il giudizio di Rachid Boutayeb, due elementi essenziali di tutte le religioni monoteistiche, e dell’islam in particolare [altra novità sconcertante. Io me n’ero accorto perché le religioni monoteistiche con a capo una divinità femminile sono pochine, ma che volete che ne sappia io, mica scrivo su MicroMega].

Infine un saggio di Siri Hustvedt analizza l’idea di femminilità che pervade le tele di Picasso, Beckmann e de Kooning [prima di invocare ancora Estiqaatsi, una domanda: artiste di cui parlare non ce n’erano, vero?].

Quello che manca è una lunga lista di argomenti dal nostro punto di vista importantissimi quando si tratta del corpo delle donne. Dagli ambiti che concernono l’autodeterminazione come il diritto di scegliere la maternità o di rifiutarla, oppure al diritto alla vita che viene messo in pericolo dalla violenza domestica maschile e da quello che è a volte (troppe) l’esito di questa violenza, il femminicidio. Oppure ancora si potrebbe parlare di quello che attualmente è il dibattito sull’importanza di un’educazione a sentire il corpo, fin da piccoli, con il tocco materno, su quanto questo condizioni il nostro essere propensi alla dominanza o alla partnership. Per non parlare delle discriminazioni che il corpo delle donne subisce in quanto appartenente alle donne, fin dalle scuole materne con giochi, libri e atteggiamenti dei “grandi” tesi a far sedimentare stereotipi di genere fin dalla tenera età. Fino al terribile tema che vede il corpo di 60 milioni di bambine nel mondo essere oggetto di pedofilia da parte di “mariti” promessi che fanno buoni affari, a scapito spesso della vita di queste piccole, anche dopo la prima notte di nozze. E sono i primi esempi che ci vengono in mente.

Si potrebbe obiettare che queste discriminazioni, queste limitazioni, queste violenze e queste uccisioni coinvolgono anche il corpo maschile. A parte che non tutte queste ingiustizie sociali sono vissute dai corpi dei maschi, infinite storie e finanche infinite (ahinoi sempre poche) statistiche ci parlano di quello che invece viene agito dai corpi maschili nella stragrande maggioranza dei casi, e che solo per una minoranza di uomini possono definirsi delle circostanze in cui quelle vengono subite.

Si potrebbe anche obiettare che questi argomenti sono assenti, seppure importanti, ma che molti altri vengono invece sviscerati dalle molte testimonianze presenti nel testo. Però a questo proposito invece c’è una povertà da registrare già in partenza e dichiarata apertamente nel sommario: «un’intera sezione è dedicata alla pornografia». Contando anche le pagine iniziali in cui si interroga Siffredi e Nappi su sesso, pornografia e quant’altro, le pagine dedicate al porno – e dedicate in quel modo, di cui parleremo – sono 84 su 200. Troviamo che questo sia di un’aridità sconcertante. Anche perchè sono seguite a ruota da [numero] pagine sul sesso e [numero] pagine sulla prostituzione. Poi segue la religione, un articolo affidato a Umberto Veronesi di argomento indefinibile, e l’arte.

Non ho citato l’articolo di Giulia Sissa: è l’unico articolo che si interroga sui movimenti (udite udite!) “femminili” sul corpo della donna, ma anche qua, come vedremo, solo riguardo alle “pruderie” delle donne e non sulle conquiste importantissime che il movimento femminista in Italia e nel mondo ha compiuto.

Insomma: MicroMega fa un numero su Il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento e le femministe, i diversi femminismi, non ci sono. Non ci sono negli argomenti, non ci sono tra i nomi degli autori. Femministe? Mai esistite. Ah, no, veramente no, saremmo ingiusti. Se ne parla sì, a proposito delle diverse prese di posizione sul porno. Complimenti a MicroMega per la considerazione e il respiro culturale dato a questo suo numero.
Stay tuned – ne parleremo ancora.

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.