Intervista a Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione femminile in Bolivia.

La femminista radicale boliviana Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione nell’universo femminile.

di Sheryl Green e Peter Lackowski

Articolo pubblicato da upsidedownworld Tradotto in italiano da TheHighPeak, revisionato da Feminoska, H2o e Alice89

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La Ekeka verso la libertà. Creazione di Danitza Luna

Mujeres Creando è un’organizzazione femminista radicale che  affronta la struttura patriarcale della società boliviana dagli anni ’80. Abbiamo parlato con una delle sue fondatrici, Maria Galindo, nel ristorante del loro piccolo hotel e centro culturale nella Capitale La Paz, mentre la stazione radio di Mujeres Creando, che trasmette/in onda dalla stanza a fianco, risuonava dagli altoparlanti in sottofondo.Quando Maria ci ha raggiunto era in compagnia di un altro nordamericano, Phillip Berryman, un insegnante e traduttore professionista e ci ha spiegato che poiché anche lui le aveva richiesto un’intervista avrebbe risposto alle nostre domande insieme.

Sheryl Green: La prima grande domanda è sull’amministrazione di Evo Morales: come sono state gestite le questioni specificatamente femminili? Sono stati fatti progressi? Il giornale di oggi dice che l’11% dei punti della Costituzione approvata tre anni fa è stato convertito in legge – che impatto ha questo sulle questioni femminili? Certo, l’obiezione è che tutte le questioni sono questioni femminili. Ma l’aborto ad esempio, e le altre cose che per te riguardano direttamente il benessere delle donne.

Maria Galindo: Allora, in generale il discorso su Evo Morales è molto complesso; in lui c’è stata una sorta di evoluzione. L’Evo Morales di oggi non è l’Evo Morales degli inizi. All’inizio c’erano molta speranza, molta aspettativa sociale e la relazione tra MAS [Movimiento Socialista] e il governo era davvero molto forte. In questo sesto anno invece di svilupparsi in modo positivo ha preso una brutta piega. Per esempio, Evo Morales, intendo il suo governo, dice “dobbiamo avere un grande controllo sulle organizzazioni sociali per rimanere al potere. Per sviluppare questo controllo dobbiamo comprare i capi di queste organizzazioni sociali.” E allora  adesso i/le dirigenti delle organizzazioni sociali sono controllat* dal governo. Ma non le basi. Significa che i/le dirigenti delle organizzazioni sociali hanno preso soldi dal governo e sono stati incaricati dei progetti, ma non significa che vi sia una reale aderenza delle organizzazioni sociali con le loro richieste. È una sorta di teatrino. Qui abbiamo con noi la gente, ma solo gli amici di Evo Morales e amici che ci sono perché ne traggono dei vantaggi. Il che impedisce una trasformazione sociale reale, perché non stanno lavorando sui problemi concreti di ogni parte della società, ma stanno lavorando solo per far pensare e sentire a tutti che Evo Morales sia l’unica soluzione per chiunque in Bolivia. E così abbiamo un processo di “caudillizacion.” Lui è il cambiamento, il cambiamento è lui, lui è tutto, è il difensore, e provoca un degrado nel processo politico e sociale.

SG: Quindi c’è una gerarchia…

MG: Non solo una gerarchia, ma lo dico in spagnolo: è un processo di “caudillizacion” [la creazione di un “caudillo” o leader carismatico]. La figura di Evo Morales è al centro di tutto. Ed è veramente un grosso errore. Per le donne è molto contraddittorio ed è ben mascherato. Perché? La prima legge, che era la più importante, è stato lo stanziamento di una somma di denaro, la “bono Juana Asurdo” (chiamata come un’eroina della rivoluzione contro la Spagna del diciannovesimo secolo.) È un pagamento che viene fatto a ogni donna che fa un figli* – come è stato fatto da ogni governo fascista. Non è molto: mille ottocento boliviani (261 dollari statunitensi). Non ci si fa nulla. Ma d’altra parte, “donne” significa “bambini.” Le donne più povere in Bolivia – magari loro potrebbero aver bisogno di quei soldi. Ma per ottenerli devono andare dal dottore, che ti dà un foglio che dice che avrai un bambino, e poi devi andare in banca per prendere il sussidio dallo stato. Ma le donne boliviane più povere non hanno la carta d’identità da presentare in banca. Quindi è davvero assurdo. Ed è una specie di ritratto del modo di pensare di questo governo.

Dall’altro lato, a partire dagli anni novanta, per una politica delle Nazioni Unite, c’è una sorta di quota di donne in ogni partito politico. È una politica liberale, non socialista, questa politica della “parità.” Quindi ogni partito ha una percentuale di donne, che vengono in certa parte elette come deputate e senatrici. È un processo iniziato negli anni novanta, ed è copiato ovunque in America Latina, non è originariamente boliviano. Il movimento sociale delle donne qui non ha mai chiesto di avere una rappresentazione parlamentare. È venuto dall’ONU. Dagli anni novanta, i partiti, anche di destra, hanno detto “OK, siamo gentiluomini, approveremo questa legge.”

E quindi dagli anni novanta c’è una bassa percentuale di donne in parlamento, donne che vengono elette per rappresentare il partito. Non per rappresentare la società o le donne nella società. E questa percentuale di donne non costituisce mai una voce per le donne. Loro rappresentano una voce femminile per il partito, che fa una bella differenza. È un fenomeno consueto della politica in tutta l’America Latina. Evo Morales ha preso la stessa idea dominante e l’ha messa nella sua politica. Ora c’è una percentuale più alta di donne, credo che sia intorno al 40%, non sono sicura, in realtà non ci faccio molto caso. E la stessa politica si applica ai ministri di governo e ai giudici. Ma con le stesse regole: le donne del nostro partito faranno quello che vogliamo noi. Le donne che hanno responsabilità per la sanità, per molti aspetti non fanno in realtà nulla per le donne. Perché è sufficiente essere lì e dire, “Sono qui, sono una voce per le donne.”

E quindi fanno una selezione accurata delle donne per tenere fuori quelle che sono pericolose, che alzano la voce, che pensano con la loro testa. C’è un sacco di ostilità nei confronti delle donne ribelli nei movimenti sociali oggi in Bolivia. Non è responsabilità di Evo Morales, è semplicemente come stanno le cose in questo momento.

Perciò, quello che dicevi sull’aborto – è come andare con un autobus sulla luna. Siamo molto lontan* da quel punto. Ho intervistato tutte le donne del governo [Maria conduce un programma alla radio, trasmesso da Mujeres Creando], tutte le dirigenti di movimenti per le donne che sono con Evo Morales, Bartolina Sisa (un movimento chiamato come un’eroina Aymara del 1700 che combattè contro gli spagnoli) ho intervistato tutt* quell* che fanno parte di questi movimenti. Ho chiesto loro dell’aborto. Perché l’aborto è un problema di povertà. Le giovani donne bianche, se hanno 400 dollari possono ottenere un aborto. Le indigene, giovani povere che non hanno i soldi, abortiscono con grossi rischi, e muoiono. E sono molto spaventate.

SG: Ci sono dottori nel paese che praticano un aborto sicuro per 400 dollari?

MG: È tutta una questione d’ipocrisia. Prova ad andare al grande cimitero di La Paz – mentre cammini vedrai su entrambi i lati della strada piccole cliniche. E lo sai, una stanza non può essere una clinica. E tu vedi clinica, clinica, clinica, clinica… “Se hai una domanda, vieni qua, clinica femminile”. Tutti quei posti sono per gli aborti. Lo sanno tutti, non è un segreto.

SG: E il governo non interferisce?

MG: No no, non fanno nulla. Ma per esempio, lo scorso dicembre una giovane donna a Santa Cruz ha ucciso il suo bambino – il bambino è nato e lei l’ha ucciso. È finita in prigione per omicidio. E lei ha detto, “Sono stata violentata. Questo bambino non lo volevo.” La polizia non fa nulla. I dottori fanno soldi, non tanti, ma li fanno. Ma quando una donna è così sola, così vulnerabile, come quella ragazza, allora finisce in prigione. È un caso d’ipocrisia. Ma nessuna donna di questi movimenti sociali locali è favorevole a parlare positivamente del diritto – non il mio diritto, di femminista – ma del diritto di scelta di quelle ragazze della campagna. Non sono pronte – ho chiesto a ognuna delle donne presenti in parlamento dell’aborto. Sono tutte contro. Tutte. Non ce n’è una che dica, “OK, hanno il diritto di scegliere.” Dobbiamo combattere per questo diritto, che è molto concreto.

SG: E probabilmente la maggior parte di loro ha qualcuna nella famiglia allargata o conosce qualcuna…

MG: Oh certo, certo, certo… Perché l’aborto in Bolivia è un problema di massa, non è il problema individuale di una ragazza in particolare. Perché non c’è educazione sessuale nella legge e nelle scuole. C’è una sorta di cultura maschilista nella sessualità, che significa che ogni ragazzo vuole mostrare il suo potere su una ragazza. Quindi è davvero un enorme problema di massa. E si vedono molte donne giovanissime con figli, e nessun padre. Alla nostra radio facciamo una lista di padri che non pagano per i propri figli, ed è un grande successo. Trasmettiamo il loro nome, la loro età e dove lavorano. Cinque volte il giorno, e nessuna donna deve pagare per questo [servizio]. Ed è molto interessante perché non è diretto solo a quelli che vengono nominati, ma è un messaggio per l’intera società.

SG: Mujeres Creando – legame con il governo, influenza. Hai due ruoli qui – magari correlati – sei una giornalista e sei parte di questa comunità. Qual è il legame, la relazione, il riconoscimento dell’amministrazione verso Mujeres Creando?

MG: Riconoscimento assolutamente no. Ma penso che noi, Mujeres Creando, abbiamo influito profondamente sulla società, perché alziamo molto la voce. E non ci limitiamo a parlare, facciamo anche le cose. Esercitiamo una forte influenza, lo sento ovunque, costantemente. Questo governo di Evo Morales agisce come se noi non esistessimo, come se non ci fossimo, come se non facessimo nulla. Ma non significa nulla perché non siamo fissate sull’idea che la sola politica che ha successo è la relazione con lo stato. Lo abbiamo analizzato per molti, molti anni: cosa vogliamo dallo stato? Non vogliamo nulla dallo stato. Non solo le leggi – le leggi non cambiano nulla. Molti movimenti in Bolivia hanno in mente la formula, “Otteniamo la legge, otteniamo un cambiamento della situazione.” Ma noi non chiediamo una legge, non chiediamo di essere in parlamento, non chiediamo di avere soldi dal governo, ma prendiamo posizione su ogni politica di governo.

Noi non viviamo sull’Isola che non c’è, ma non pensiamo che ci debba essere un riconoscimento da parte dello stato. Per esempio, quando il processo costituzionale era in corso quattro o cinque anni fa in Bolivia, abbiamo sviluppato un’interessante teoria sociale. Abbiamo detto, “Non vogliamo la parità tra uomini e donne, questa non è la nostra prospettiva. Vogliamo una ‘despatriarcalizacion’ della società.” Non posso tradurlo perché è una parola che abbiamo inventato noi (de-patriarcalizzazione). E ora qualsiasi documento governativo che riguardi le donne contiene la “despatriarcalizacion.” Hanno preso da noi la parola. È la prova della nostra grande influenza sul loro pensiero, ma non è una realtà perché, ad esempio, non ci chiedono mai di discutere che cosa questa “despatriarcalizacion” significhi. È una relazione complicata.

SG: È un grosso dibattito anche negli Stati Uniti in questo periodo. C’è forte movimento esterno al governo, il cui obiettivo non è lavorare per il partito, per far eleggere le persone. È un periodo eccitante: vuoi lavorare dall’esterno, o vuoi provare a inserire qualcuno all’interno? E quindi le persone stanno facendo scelte davvero interessanti. Sembra che la tua scelta sia quella di lavorare all’esterno e di influire profondamente non solo sulle donne ma sulla società nel suo complesso, stimolando idee più chiare e analisi più approfondite e aiutando le persone a considerare i loro stessi modelli sotto una luce diversa.

MG: Esatto, non è che pensiamo di dire alle persone quale sia la verità, questo è molto importante. Sei andata dritta al punto. Per noi, le donne sono “soggetti politici”, protagoniste. Quindi lavoriamo in questo senso, considerando le donne soggetti politici, non “beneficiarie,” “oggetto di vulnerabilità, ” “Oh, povere donne!” e roba così. Non ci limitiamo a parlare. Noi agiamo. Per esempio, abbiamo piccoli programmi che hanno una metodologia molto interessante, programmi che funzionano e programmi che sono fatti per le persone. Ce n’è uno davvero interessante sulla violenza contro le donne che è molto pratico, e agiamo in ogni situazione in cui ci è possibile, abbiamo un programma per le madri che riguarda il pensare al ruolo di madre in un altro modo. Entrambi influiscono profondamente sulla società, ma non raggiungiamo molte donne perché lavoriamo su piccola scala. Ma sono esempi – non siamo solo pront* a parlare, siamo pront* ad agire.

Questa è la grande differenza, perché in Bolivia trovi molt* intellettuali, alcun* migliori, altr* che non sono granché — che sono brav* per quel che riguarda il pensiero critico e parlano, anche, ma si limitano a parlare. Noi pensiamo che sia un grosso errore. Ci sono così tanti anni di pensiero politico boliviano in cui puoi trovare i minatori, puoi trovare gli indigeni, puoi trovare i giovani e mai le donne. Tutti i movimenti sociali hanno una sorta di faccia maschile, e alle donne si pensa come a un pezzo vulnerabile di società, dobbiamo proteggere le donne, dobbiamo proteggere le donne in quanto madri e quella è l’idea dello stato. E quell’idea non è cambiata. Siamo allo stesso punto di sempre.

Phillip Berryman: Capisco cosa intendi riguardo alle donne in politica. Vedi donne infrangere i ruoli tradizionali in altre aree come quella degli affari?

MG: Penso che ci sia una grande confusione al riguardo in generale, non solo in Bolivia. Ad esempio qui in Bolivia ci sono donne nell’esercito. E’ una prova di ribellione? E’ una prova di un qualche miglioramento? Possiamo festeggiare? Le donne lavorano, ma in quali condizioni?

SG: Giusto l’altro giorno c’era un sacco di polizia vicino alla capitale, e c’erano delle donne. Per caso ho guardato in basso e una poliziotta indossava stivali a punta con i tacchi alti, e ho pensato, “come può fare quello che potrebbe dover fare con i tacchi alti?” Mi ha colpita, e l’ho trovato molto ironico.

MG: Ironico, ecco la parola. In molti di questi esempi c’è tanta ambiguità. Non è una vittoria  per la società boliviana se le donne entrano nell’esercito. L’esercito ha commesso un sacco di abusi nei confronti delle reclute. Molti sono morti. Ai tempi si pensava che ci fosse la possibilità che rifiutassero il servizio militare. Così il governo ha detto, “OK, per i ragazzi è obbligatorio, non possono scegliere. Ma le donne possono entrare, e possono scegliere.” E le donne stavano in coda dalle 5 del mattino per arruolarsi nell’esercito. Avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di entrare. Perché? C’è una grande contraddizione. Il neoliberalismo e il liberalismo in America Latina dicono che ne hai il diritto. Devi lottare per i tuoi diritti, ma li hai – sei uguale. Abbiamo ora, in tutto il mondo, un sacco di donne con un sacco di potere. Che cosa significa? E’ una grande domanda per noi anche come femministe, perché nessuna donna al potere, in Bolivia, Germania, o dovunque, è lì grazie al pensiero femminista. E’ lì grazie al pensiero patriarcale.

Non m’interessano molto Cristina Kirchner o Merkel, a me interessa la massa. Nella massa delle donne c’è un impulso ad occupare lo spazio degli uomini, e sono pronte a pagare lo scotto di assumere valori maschili – quali competizione, uso della forza, uso della violenza. C’è una massa di donne che la pensa così. E così qui in Bolivia ci sono donne che vogliono entrare nella polizia. Ma la più alta percentuale di violenza sulle donne nella vita privata è fatta proprio da poliziotti. E allora vedi l’ironia di cui parlavi. Loro arrivano lì, ma poi sono… le donne. A che punto siamo? Ma dall’altro lato, per rispondere alla tua domanda  si vede un sacco di ribellione sociale di massa delle donne. Per esempio, molte donne sono pronte a denunciare la violenza, e questo è un atto ribelle. Molte donne vanno all’università. Io ho insegnato all’università pubblica. Il 50% degli studenti in tutti i campi sono donne.  Non c’è un campo in cui gli uomini possano dire, “Questo è il nostro campo.” Ma nei campi delle donne non trovi uomini. Questa rivoluzione non è dal lato dell’essere uomo, dell’essere maschile.

SG: Quindi   ad esempio in educazione della prima infanzia, o in sviluppo umano o in storia delle donne, non ci sono uomini?

MG: Vi devo raccontare una cosa: la storia di Ekeko.  E’ un riflesso di quello che sta succedendo con le donne nella società boliviana ora. Questa statuina è stata creata da una giovane artista del nostro movimento. Ha vent’anni. Io ne ho quarantasette e lavoriamo insieme. Conoscete la storia di Ekeko? Ve la racconto. Ekeko è un dio andino dell’abbondanza. E’ un ometto piccolo e basso che si porta tutto sulla schiena. Cibo, macchine, apparecchiature elettriche, tutto quello che vuoi. Risale a centinaia di anni fa, almeno alla fine del Settecento. Se veneri l’immagine di Ekeko, avrai tutto quello che vuoi nella tua casa. E’ chiaramente la deificazione del padre che porta tutto quello di cui hai bisogno, ed è falso.

La statua di Ekeko si trova in un posto speciale della casa, e ogni venerdì la donna di casa deve dargli una sigaretta. Deve metterla in bocca alla statua e accenderla. Ha anche un simbolismo erotico – trovi molti Ekeko con il pene eretto. Quindi lui ti darà tutto, benessere e piacere. In molte case trovi quest’ometto nel posto migliore.

Quindi abbiamo messo una donna al suo posto. [Ci mostra una statuetta, circa venti centimetri in altezza e in lunghezza. E’ una donna con un fagotto grosso quanto lei sulle spalle, mentre dietro c’è la figura di un uomo stravaccato, che dorme con una bottiglia in mano.] Invece di lui, c’è lei. Nel fagotto che porta sulle spalle c’è il suo cuore, che non è danneggiato. E poi ha tutto il resto: una casa, e musica, cibo – tutto quello che serve. E ha le ali, perché vuole la libertà. Ha libri perché vuole imparare. Se andassi in una scuola serale, vedresti che ci sono molte donne, perché tantissime hanno dovuto lasciare la scuola, ma ora vogliono studiare. Lei ha anche una valigia, perché se ne sta andando. Questo è un altro sentimento ribelle che molte donne hanno: “Sono pronta a lasciarti.” E la valigia ha un’etichetta, lì dentro ci sono sogni, speranze, ribellione, e felicità.  Sta lasciando il piccolo dio Ekeko – ubriacone, pigro, macho. E la lettera che gli lascia dice, “L’Ekeka sono sempre stata io.”

Vendiamo queste [statuine] nel nostro banco al mercato. Venderle è un atto politico. Parliamo alle donne, e loro ridono di gusto. Ogni donna [ne] capisce [il senso]: la donna che vende il pane, la donna che lavora in ufficio, e la donna che è in parlamento.

SG: Vendono bene?

MG: Sì. Non costano poco, perché vogliamo che la ragazza che le fa ci ricavi qualche soldo. La cosa più importante è che vogliamo entrare nell’immaginario popolare, che ha un posto nel cuore delle persone.

SG: E cosa mi dici di quest’altra figura, un uomo con un* bambin* sulla schiena, una borsa della spesa in una mano e una scopa nell’altra?

MG: Quest’uomo è Evo Morales. Sta portando un* bambin* sulla schiena come una donna indigena. Nessun uomo porterebbe un* bambin* in questo modo, sarebbe contro la sua dignità. Ed è pronto per pulire la casa e andare al mercato. Questo è stato l’uomo più importante della rivoluzione boliviana (che in realtà non è stata una rivoluzione.) Queste  le abbiamo davvero vendute come il pane. Ora non più perché lui ormai non è così popolare. Una volta, quando era ancora all’apice del potere, sono andata a un grosso evento politico e gliene ho regalata una . Lui l’ha presa e l’ha lanciata a una delle sue guardie del corpo. Non l’ha presa ridendo, era ostile, disgustato dalla statuina. Quello era un segnale! Mi sono chiesta, “Perché non era disposto a riderne con noi, e dire, ‘Perché no?’ o ‘Interessante!’ o ‘Grazie mille,’ o chessò.”

Questo è lo stato attuale della ribellione delle donne. Senza capire potresti dire, “Ah, queste donne stanno dicendo che ogni uomo è un ubriacone….” Ma è molto più di così, è un simbolo.

SG: Riguarda più le donne…

MG: Sì. Prima di venire qua stavo intervistando una donna. Vuole separarsi dal suo uomo. Quando aveva quattordici anni, un membro della sua famiglia l’ha data in dono a un militare ventottenne, che aveva un figlio di cui qualcuno doveva occuparsi. E così lei è andata con il militare ed è stata con lui, ai miei occhi, come schiava. Ma agli occhi della società come una moglie. Stava piangendo al mercato e una donna le ha chiesto, “Perché piangi?” Quando lei ha spiegato il motivo, la donna le ha detto, “Vai da queste donne.” [Mujeres Creando]

SG: Quanti anni ha ora?

MG: E’ tra i cinquanta e i sessant’anni. Ha avuto quattro figli con il militare, pensando per tutta la sua vita, “Lo lascio.” Non diresti che queste storie possano essere vere ancora oggi, ma in realtà lo sono. Le nostre storie non sono tutte così. Quella non è la mia storia. Ma noi, come donne, siamo nella stessa situazione storica e sociale di quella donna. Se la consideriamo una sorella, lei era, o è, in schiavitù.

Ho lavorato parecchio con la prostituzione, e conosco davvero bene il problema, ho fatto molte cose in quell’universo. In Bolivia, ogni prostituta deve essere legalmente registrata. Significa che deve dare il suo vero nome, il suo indirizzo, il posto in cui lavora come prostituta, e poi le fanno una foto e un documento. Devi avere quel documento dal ministero della sanità per lavorare come prostituta. Inoltre, devi andare dal dottore una volta a settimana, solo per fargli controllare la  vagina. Solo quello. Se hai un problema agli occhi o qualsiasi altra cosa, non importa, ti controllano solo la  vagina. E ottieni un foglio che dice ‘autorizzata.’ Si preoccupano solo per la salute degli uomini. E questo succede ora, non cento o duecento anni fa.

Questa [indicando una foto appesa al muro] è la fotografia di una prostituta dell’inizio del 1900. La polizia faceva queste fotografie a ogni prostituta: due scatti, di fronte e di profilo. In quei giorni una donna doveva indossare un panno nero in testa per mostrare che era una prostituta. La polizia aveva quegli archivi. Dal 2000 la polizia non fa più fotografie, ora è il Ministero della Sanità che fa i controlli vaginali per dire che puoi andare con un cliente.

Ho fatto centinaia di seminari, progetti, lettere, qualsiasi cosa. Abbiamo creato un’organizzazione per lavorare con le donne. Per il nostro punto di vista tutto andrebbe fatto con la donna. Per esempio la donna in condizione di schiavitù: è lei quella a volerne  uscire. Non sono io a dire che deve farlo. E’ molto importante. Ogni donna deve dire che cosa vuole fare. Loro trovano in noi delle amiche, un gruppo politico, quello che volete, ma sono loro che devono scegliere.

PB: Vedi segnali di cambiamento negli atteggiamenti degli uomini?

MG: Non in Bolivia. Non vedo cambiamento nell’universo degli uomini. Vedo molto cambiamento in alcune parti dell’universo delle donne – perché non siamo tutte un pezzo unico, siamo complesse – ma non vedo quasi nessun cambiamento nel mondo degli uomini. L’uomo è in crisi profonda. Le donne stanno cambiando e gli uomini restano lì, non riescono a cambiare. Per esempio, qui c’è un grosso mercato della prostituzione. Chi si rivolge a quel mercato? Potrei mostrarti uomini giovanissimi e uomini vecchissimi che ne usufruiscono. Vedi minatori e professionisti che se ne servono, è solo una questione di prezzo. Puoi trovare una prostituta molto economica e una molto cara. Il mercato della prostituzione sta crescendo. Gli uomini vanno lì per comprare una donna. Non vedo alcun cambiamento in questo.

Che cosa succede agli uomini? Nel mio programma radio ho donne che parlano della violenza sulle donne. Ho aperto uno spazio per gli uomini per parlare della violenza sulle donne, ma nessun uomo vuole venire. Gli uomini vogliono parlare della rivoluzione, del prezzo della benzina o del gasolio, della rappresentanza politica, o della storia, ma non vogliono parlare di se stessi. E’ difficile chiedere loro di parlarne, come se fosse un’offesa, come una mancanza di rispetto.

PB: In Colombia ho visto un po’ di propaganda contro la violenza domestica – un cantante reggaeton o qualcosa del genere.

MG: Puoi vederlo anche in Bolivia, uomini famosi che sono pagati – non significa nulla. Il governo allestisce il suo teatrino con i soldi della cooperazione internazionale – non ci sono soldi dallo stato boliviano. Non è una cosa ben pianificata, solo una messinscena – molto facile a dirsi. Se si osserva l’uso delle donne nei mass media – mi fa schifo. Dovunque, per qualsiasi cosa, e senza limiti.

SG: Le donne in carcere – abbiamo parlato con una donna che lavora con le carcerate e abbiamo saputo che le donne possono tenere i figli con loro in prigione, che possono lavorare per guadagnare, che si autogovernano. Come vedi i programmi per le donne in prigione?

MG: Non ho una grande conoscenza delle prigioni. Ho iniziato una serie di programmi radio ogni quindici giorni da una prigione. Noi andavamo lì e le donne parlavano. Era fantastico, avevamo il permesso per dodici puntate, ma ne abbiamo fatte solo due. E’ vero, le donne possono tenere i bambini con loro in prigione. I bambini vanno a scuola e dopo tornano alla prigione. Dipende dalla loro età. Lavorano in prigione, ma non si tratta di programmi organizzati: il punto è che lo stato non ha soldi per la prigione e non vuole spenderne, vuole una prigione economica. Le donne lavorano perché, se non lo facessero, morirebbero di fame. Non potrebbero sopravvivere là dentro senza lavorare.

Il motivo per cui mi hanno tolto il permesso per fare più programmi è stato che le donne fanno il bucato, prendono nove boliviani ogni dodici pezzi. Da questi nove boliviani, la polizia prende qualcosa. Ma non avrebbe il permesso di farlo. Le donne ne hanno parlato alla radio e così tutti l’hanno saputo. Quindi hanno messo la donna che l’ha detto in isolamento, c’è stato un grosso scandalo, ed io ho perso la mia autorizzazione – basta programmi.

Potresti andarci. Se conoscessi qualcuno, potresti andare senza alcun permesso e dire che hai fissato una visita così e così e vedresti, hanno costruito una piccola società. Ma hanno due docce in centosessanta donne, e pagano per la doccia. Hanno due tipi di spazi. Uno spazio per dormire, per quello non devono pagare. Ma poi escono in un grosso spazio aperto tutto il giorno. In quello spazio hanno costruito posti per passare la giornata. Per averne uno devono pagare. Una donna che non ha un boliviano non ha un posto tutto il giorno. Tutto quello che hanno, è il prodotto della loro lotta.

Videla, quanta ipocrisia

Riportiamo con piacere questa lettera, pubblicata da Infoaut, di Hebe de Bonafini, presidentessa dell’associazione Madres de Plaza de Mayo, sulla morte del dittatore Videla. Hebe denuncia l’ipocrisia di chi oggi chiama dittatore colui le cui violenze ha sempre taciuto. Della censura dei media anche noi ne sappiamo qualcosa, anche noi conosciamo i legami tra “informazione” e potere, quindi non possiamo che condividere quanto viene dichiarato. Buona lettura!

Videla, quanta ipocrisia

desap1982È morto Videla. La notizia mi ha paralizzata. Ho pensato subito ai miei figli. Come facevo a pensare ad altro? La testa mi girava, volevo pensare a qualcosa ma niente. Pensavo a loro e alle torture che hanno subito. Vedevo i loro visi che gridavano, mentre mi chiedevano e chiamavano tutti, come hanno fatto tutti nei momenti terribili, quando erano soli, nei momenti di peggior tortura.

Leggi tutto “Videla, quanta ipocrisia”

Alla maniera sarda

moju manuli
Opera della street artist sarda Moju Manuli

All’interno del nuovo numero di A. Rivista anarchica compare una interessante intervista realizzata da Laura Gargiulo a Su Colletivu S’Ata Areste (“La gatta selvatica”), collettivo femminista e lesbico posizionato nel centro della Sardegna: A Sa SardA: “Alla maniera sarda”. Vita in comune, ecosostenibilità e legame con il territorio: la storia di un piccolo collettivo dell’entroterra sardo.

Qui potete leggere un estratto. Vi consiglio di sfogliare la rivista che trovate online per leggere l’intervista completa: Laura, attraverso le sue domande, ricostruisce  il percorso di questo collettivo che, a partire dall’esperienza migrante, ha sviluppato un progetto di lotta politica femminista con una ottica che unisce antisessismo e anticolonialismo.

Segnaliamo inoltre la nascita del progetto Arkivi@:

Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi, saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti, adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo, anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello internazionale…
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci qua: mojumanuli@autoproduzioni.net

Buona lettura!

Avete scritto un documento dal titolo “Dalla Sardegna un’alternativa lesbica e femminista” in cui parlate del vostro progetto: potete spiegarci come nasce e con quali obiettivi?
«Il progetto è partito dall’esigenza, come emigrate, di rientrare in Sardegna, si è legato a tanti discorsi a noi cari e mano a mano ha preso forma, evolvendosi. Abbiamo messo insieme l’idea di vivere in una piccola comunità tra lesbiche e persone che avessero voglia di lavorare a un sistema sostenibile, di solidarietà, scambio e rispetto. Siamo partite da presupposti anticolonialisti, antisessisti, antifascisti, antirazzisti, da un’idea di socialità differente, da un’idea di società diversa da quella eterosessista e patriarcale in cui viviamo, abbiamo pensato a forme di gestione orizzontale.
Inizialmente eravamo un gruppetto più numeroso, poi per una serie di cause siamo partite in tre, circa due anni fa. Abbiamo scritto la lettera/documento perché ci siamo rese conto che parlarne non bastava o non soddisfava né noi né le persone con cui avevamo un confronto.
Come abbiamo scritto, il progetto è rivolto a lesbiche, compagne/i, altre persone sarde emigrate, artiste/i, ecosardi… Abbiamo sempre cercato di parlare della cosa persona per persona, scambiando a piccoli passi».
Nel documento parlate di una prospettiva anticolonialista: ci potete spiegare cosa intendete e perché è per voi punto di partenza?
«Quando parliamo di prospettiva anticolonialista ricollochiamo il discorso sardo in un contesto più ampio, internazionale, ma ne analizziamo e riconosciamo la specificità.
Contestualizzando quindi il nostro progetto nella realtà isolana non possiamo prescindere da quelli che sono i problemi della Sardegna, non avrebbe senso teorizzare in maniera astratta senza riconoscere le caratteristiche, anche negative, della realtà in cui viviamo. Parliamo di colonizzazione (l’ultima da parte dello stato italiano) e di resistenza, della deculturazione forzata che abbiamo subito, della conseguente folklorizzazione della cultura, della perdita dell’autostima come popolo e come individue/i, del tentativo di estirpazione e cancellazione della nostra lingua, delle nostre identità, della mancanza di riconoscimento di percorsi politici anche da parte di compagne/i “continentali” e di altri parti del mondo, dell’alcolismo, dei suicidi, della costruzione di fabbriche come cattedrali nel deserto e dell’avvelenamento della terra, della militarizzazione a tappeto del territorio (sulla nostra isola è presente più del 60 per cento del territorio militarizzato appartenente allo stato italiano, siamo soffocati da caserme, carceri, radar, è un avamposto nel Mediterraneo, un territorio in prestito per il collaudo e la sperimentazione di nuove armi e proiettili a livello internazionale e per le esercitazioni di guerra)…e potremmo continuare…
Nel momento in cui cerchiamo di costruire qualcosa di concreto, di positivo, di “altro” non possiamo non tenere in conto tutto questo, dobbiamo riconoscere il problema se vogliamo cercare di risolverlo, ed è importante trovarsi con chi si muove in questo senso sul territorio per modificare lo stato di cose esistente».
Continua qui

Eva non verrà fuori dalla costola di Evo

mujeres-creando

Pubblichiamo un articolo – proposto e tradotto da Panta Fika – scritto da Maria Galindo di Mujeres Creando.

Il tema trattato è quello dell’approvazione, in Bolivia, della recente legge contro il femminicidio – dal punto di vista di Mujeres Creando, collettivo anarcofemminista da anni impegnato a La Paz sul tema della violenza di genere.

Buona lettura!

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Mentre Evo Morales Ayma, 20 anni fa, stava abbandonando la sua compagna e le sue “wawas” (bambine), noi stavamo fondando Mujeres Creando, con lo scopo di lottare contro la violenza maschilista verso le donne.

Il discorso pronunciato dal Presidente in occasione della promulgazione della legge di fronte a circa 200 “llunkus” (sostenitrici) che lo adulavano, mi ha provocato indignazione e pietà, per il panorama di ipocrisia e falsità nel quale ci troviamo a vivere. Leggi tutto “Eva non verrà fuori dalla costola di Evo”

Piazza Tahrir: La violenza sessuale come arma

tahrir-placardPubblichiamo la traduzione di questo articolo pubblicato originariamente in arabo sul sito di NOW e tradotto in inglese dalla stessa piattaforma.

Grazie a Elena C. per la traduzione (e la pazienza) e a Martina per la revisione.

Buona lettura!

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CAIRO. “Eravamo un gruppo di 20 donne dirette a piazza Tahrir per prendere parte al secondo anniversario della rivoluzione del 25 gennaio. Mi tenevo per mano con Rawija, una signora di 67 anni. Quando siamo arrivate vicino alla piazza un gran numero di uomini ha iniziato a tentare di separaci l’una dall’altra. Più andavamo avanti più il cappio si stringeva. Hanno trascinato Rawija lontana da me e ho visto il panico sul suo volto. Ero sola, circondata da cinque uomini con  altri dieci intorno a loro, che mi palpeggiavano. Avevano dei coltelli e mi stavano molestando fingendo al contempo di volermi proteggere. Uno di loro mi toccava mentre diceva: ‘Non avere paura, ci siamo noi con te’. Hanno iniziato a spingermi verso una zona buia e mi è preso il panico. La stessa scena accadeva dappertutto intorno a me con gruppi di uomini, circondati da altri gruppi più numerosi, e le donne al centro che gridavano. Mi sono fatta trascinare dal flusso di persone e sono riuscita a raggiungere una zona illuminata. Ho visto un mio collega che cercava di raggiungermi e finalmente è riuscito a liberarmi da questo circolo di follia. E’ successo tutto nell’arco di qualche minuto ma altre donne hanno subito aggressioni simili per un’ora o più mentre i loro vestiti venivano strappati con i coltelli. Quello che ho passato io è nulla a confronto di quello che è accaduto quel giorno a innumerevoli donne.” Leggi tutto “Piazza Tahrir: La violenza sessuale come arma”

La strada è di chi ci lavora: Lettera all’EZLN da parte della Brigata di Strada “Elisa Martinez”

   trabajo sexual Riceviamo e volentieri condividiamo questo comunicato che arriva dal Messico tradotto da Nodo Solidale:

Lettera all’EZLN da parte della Brigata di Strada di appoggio alla donna “Elisa Martinez”

Il blog della Brigata Callejera (su noblogs!) in spagnolo http://brigadacallejera.noblogs.org

brigadalogoLa Brigada Callejera en Apoyo a la Mujer”Elisa Martinez” è un gruppo indipendente dal governo e dai partiti politici che promuove l’autorganizzazione politica, sociale e il supporto medico autogestito da parte delle lavoratrici e i lavoratori del sesso in Messico. È stata promotrice della formazione della Rete Messicana del lavoro sessuale che riunisce vari collettivi e organizzazioni di lavoratrici e lavoratori sessuali della Repubblica e che aderisce alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’EZLN, convertendosi in parte attiva della Altra Campagna.

Il clima di violenza nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso si è inasprito gradualmente, i femminicidi non finiscono e la tendenza di intellettuali interni al regime, funzionari/e di governo e tecnocrati/e delle ONG è quella di qualificare tutte e ognuna di noi come vittime di tratta di persone o carnefici, per rendere più clandestino e più redditizio il business della prostituzione. Leggi tutto “La strada è di chi ci lavora: Lettera all’EZLN da parte della Brigata di Strada “Elisa Martinez””