Qualche giorno fa leggevo la storia di Enrico, un FtM che si è visto rifiutare dal giudice, a causa del suo basso reddito, l’autorizzazione per eseguire gli interventi di mastoplastica e di rimozione dell’apparato riproduttivo. Mi spiego. Il CTU, ovvero lo psichiatra incaricato dal tribunale per dichiarare se la perizia, fatta da altr@ suoi@ collegh@, fosse in regola o meno, ha pensato bene di chiedere un anticipo che il giudice gli avrebbe concesso mettendolo a carico del richiedente (Enrico ha diritto al gratuito patrocinio). A tali richieste l’avvocato di Enrico ha dovuto ricordare, manco ce ne si fosse dimenticat@, che chi si avvale del gratuito patrocinio lo fa perché non può sostenere certe spese, e che quindi la richiesta era assurda. Di fronte al rifiuto, lo psichiatra decide di non erogare alcuna prestazione, nonostante sia pienamente cosciente che ciò implica il blocco del percorso di Enrico, che dovrà a questo punto attendere chissà quanto altro tempo per ottenere l’approvazione del giudice. Trovo questo atteggiamento un vero e proprio ricatto, un abuso di potere che mai dovrebbe esser concesso a nessun@.
Questa storia mette in evidenza due elementi importanti: l’accesso alla sanità, diverso per classi, ed il potere che alcun@ specialist@/professionist@ hanno sulle nostre vite. Che la sanità pubblica stia subendo uno smantellamento a favore di quella privata è sotto gli occhi di tutt@. Che alcuni servizi siano esclusivi di alcune fasce di reddito anche. Conosco persone che, per una visita dentistica, soffrono le pene dell’inferno perché non hanno i soldi neanche per il ticket e quindi attendono di poterli racimolare, o che attendono mesi, prima di poter essere visitat@, perchè la lista di attesa è lunghissima. E’ palese come chi ha soldi può permettersi cure tempestive e migliori, rispetto a chi stenta anche a pagarsi il ticket – e non perché le prestazioni di chi lavora nel pubblico siano di minor valore rispetto a quelle dei privati, ma perché l’organizzazione, nelle strutture pubbliche, lascia molto a desiderare.
Chi ha soldi, chi appartiene a classi sociali cosiddette “alte”, non saprà mai cosa significa dover girare come una trottola in diverse regioni per ottenere un’interruzione di gravidanza, dato che potrà rivolgersi senza problemi ad un privato – che forse nel pubblico fa l’obiettore di coscienza; non conoscerà mai quella paura di non avere soldi a sufficienza per comprarsi la pillola del giorno dopo, perché si ostinano a non renderla gratuita oltre che a renderti un inferno tutto il processo per ottenerla; non conoscerà mai l’umiliazione di dover fingere di aderire a certi schermi preconfezionati perché, altrimenti, l@ psicolog@ da cui vai per la perizia che ti permette di accedere al percorso di attribuzione di sesso non ti rilascerà mai quella cavolo di approvazione; non conoscerà mai l’attesa di chi aspetta che il consultorio pubblico, a cui si è rivolti, smaltisca le visite e forse, se tutto va bene, tra due settimane ti permetterà di farsi una visita ginecologica; non saprà mai cosa vuol dire uscire da un medico privato con una cifra a tre zeri, anche a nero, e la rabbia di sapere che tutto questo lucrare sulla salute e il dolore degli/lle altr@ fa davvero schifo.
Ma oltre ad un accesso a due corsie nella sanità, c’è anche la questione del potere che viene concesso a quest@ specialist@/professionist@ che possono decidere se puoi o meno cambiare genere, se puoi o meno ottenere la pillola del giorno dopo, se puoi o meno abortire e scegliere il modo in cui farlo, senza mai chiedere il parere della persona su cui stanno legiferando. Se questa non è sovradeterminazione ditemi voi cosa lo è. Mai nessun@ dovrebbe avere il potere di decidere sul corpo e sulla vita di un’altra persona, mai nessun@ dovrebbe esser mess@ in grado di agire un abuso di potere, quindi un ricatto bello e buono, consci@ del fatto che, senza la sua prestazione, quella persona sarà in difficoltà. Quello che è accaduto ad Enrico, ma che accade quotidianamente sulla pelle di tante soggettività, dimostra come la medicalizzazione abbia permesso, a certe professioni, di avere il controllo assoluto sulle nostre vite, sui nostri desideri troppo spesso discriminati.
Ma questa storia parla anche di un iter legislativo autoritario, che, lungi dal concedere libertà, costringe le persone a subire il ricatto di specialisti operanti in diversi campi. Come la 194 ha al suo interno il meccanismo stesso del proprio sabotaggio, ovvero l’obiezione di coscienza, così la legge 164, che regola l’attribuzione del genere, costringe le persone trans a subire un continuo ricatto, da quello dell’approvazione di un psicolog@ – che attesti la tua sanità mentale e al contempo uno squilibrio – fino alla sterilizzazione forzata, condizioni indispensabili per poter vedere riconosciuta la propria identità di genere. Violenza, non c’è altro modo di definirla.
La storia di Enrico mi ha permesso, però, anche di conoscere questo sito su cui sono raccontate molte altre storie interessanti, tra cui quella di Diego, che parla di spese mediche e legali insostenibili e di un bisogno di cambiare la cultura prima ancora che la legge. Come dargli torto? Non si può più accettare questa psichiatrizzazione, basata su una dicotomia del tutto culturale a cui si è costrett@ ad aderire per vedersi riconosciuta la propria identità di genere. Per questo credo sia importante supportare questa petizione che chiede di poter ottenere l’attribuzione di genere senza sottoporsi alla mutilazione genitale, ma anche di iniziare un percorso che porti alla depsichiatrizzazione della transessualità e di tutto ciò che viene definito “deviante”, esclusivamente in base all’esistenza di un’idea di ‘norma’ che ormai non è condivisa né rappresenta un numero sempre maggiore di soggett@.
Non ho mai creduto che le leggi potessero generare un reale cambiamento, dato che esso è e sempre sarà proprio della cultura, ma per ora, nel sistema in cui viviamo – sistema che per altro non amo né supporto – possono permettere a molte persone di sopravvivere. Per vivere ci toccherà lottare per una rivoluzione molto più ampia e radicale.
La capacità del sistema di normalizzare le istanze radicali non è sicuramente una novità, e fa parte di quelle manovre biopolitiche volte a depotenziare e normare quelle soggettività che, perlomeno inizialmente, pongono la propria alterità come caratteristica fondante del proprio esistere e del proprio agire. Purtroppo, spesso, la fatica di trovarsi perennemente in lotta e il desiderio di potersi allontanare almeno parzialmente da quello che è per alcun* soggett* un vero campo di battaglia (che ha luogo sui propri corpi e sulle proprie vite) ha come amaro risultato che, a fronte di piccolissime concessioni dalla valenza apparentemente positiva, le istanze originarie e dunque la lotta in sé si snatura, non riconosce più il proprio obbiettivo, ed infine spesso rimane un vuoto involucro utilizzabile a mò di brand ogni volta si ambisca passare per rivoluzionarie le scelte più reazionarie che si possano immaginare. Per quanto riguarda il femminismo, avvicinandosi la ricorrenza dell’8 marzo e a seguito delle lodi sperticate al governo Renzi, definito in termini elogiativi come governo giovane e finalmente paritario, vorremmo fare una riflessione che possa restituire non solo quella che è la situazione reale, ma anche la necessità di una lotta femminista che ritrovi la sua radicalità, senza la quale anche il movimento delle donne si ritrova ad essere solo un marchio strumentalizzato a destra e a manca.
Le colpe di certo femminismo storico italiano il quale, ottenuti insperati successi oramai 40 anni fa, ha considerato la propria missione compiuta vivendo sugli allori di qualche battaglia vinta e diventando miope di fronte alle manovre del potere patriarcale, tutte volte a depotenziare quelle stesse vittorie (l’eterno braccio di ferro che si compie da 40 anni a questa parte sulla legge 194 ne è un chiaro esempio) o a dipingere, riuscendoci, il femminismo come fondamentalmente misantropo, superato, oramai relegato ad un passato remoto e appannaggio soltanto di donne brutte, indesiderabili e colme di odio per il maschio e desiderio di vendetta è cosa nota.
Negli ultimi anni poi, come se non bastasse, l’emergere di posizioni politiche femminicide propugnate da certo femminismo borghese ha dato il proprio imprimatur allo status quo, celebrando le quote rosa, l’italianità, la dignità delle donne da difendere ad ogni costo (anche calpestando l’autodeterminazione di altre donne) e il “diritto alla maternità” attraverso la conciliazione. Tutti ‘mostri’ nati dall’edulcorazione di un movimento le cui parole d’ordine erano quelle dell’autodeterminazione e della liberazione, non dell’emancipazione delle donne.
Il mostro del giorno è il governo Renzi, che, sdoganato da un discorso che preferisce di gran lunga il termine “femminile” – così moderato, così debolmente connotato, così maternamente accogliente e paziente – a “femminista”, è allo stato dell’arte per quanto concerne il pinkwashing, facendo bella mostra di donne che peraltro si prestano al gioco non solo adattandosi in maniera docile al loro ruolo di veline del solito uomo di potere, ma che, dalle prime dichiarazioni fatte, sono quanto e più sessiste di certi loro colleghi maschi; e il cui valore pare riassumersi in quella ‘donnità’ funzionale al riaffermare le solite politiche reazionarie che si realizzano sul corpo delle altre donne, quelle che ne fatti non rappresentano per nulla – anche se poi decidono per loro.
Giovani donne come Marianna Madia, che ricalcano visivamente e negli intenti l’immagine della ‘madonnina’ devota al Grande Padre Onnipotente, che col suo esempio – e purtroppo con le sue parole di fondamentalista cattolica che, senza alcuna vergogna, antepone con leggerezza alla laicità richiesta dal proprio ruolo istituzionale – rendono evidente che l’essere ‘donne’ in sè e per sè non presenta alcun valore aggiunto nè raggiunge alcun risultato positivo in un percorso il cui fine ultimo è quello della liberazione, non della concessione.
Mutuando un’immagine dall’attivismo antispecista: se, in quanto femministe, non desideriamo gabbie più grandi, ma gabbie vuote – e perciò donne libere e autodeterminate – non dobbiamo cadere nei tranelli che oramai sono sparsi a piene mani sul nostro cammino. E’ necessario e urgente pertanto ritrovare la radicalità del femminismo, che tuttora esiste e parla di intersezionalità, queer, non maternità, anticapitalismo, e soprattutto e sempre AUTODETERMINAZIONE.
E’ ora di svegliarsi da questo incubo dai colori pastello, rifiutare la conciliazione con questa Grande Madre e Madonna, felice e realizzata nel suo ruolo subalterno e vera propria kapò per tutte le soggettività non conformi… Altrimenti, continuando di questo passo, questo incubo diventerà il coma di un femminismo che si riconosce in tutto ciò che si ammanta di rosa.
Del linguaggio di Mario De Maglie mi sono già occupato in passato, qui e qui. Adesso che torno a parlare di lui, mi pare il caso di premettere delle cose che ritengo importanti.
De Maglie coordina il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (C.A.M.) di Firenze, e solo per questo si meriterebbe un monumento, dato che lo fa in Italia. Però nel suo blog su “Il Fatto Quotidiano” online usa spesso un linguaggio, e degli argomenti, molto discutibili, e ancor più incredibili dato il lavoro che fa. Leggere per credere.
Partita ed in fase costituente l’esperienza di Diversa-Mente Molteplice, Riflessioni a Passo d’Uomo, nonostante le difficoltà di coinvolgere attivamente gli uomini, sono sempre più convinto dell’utilità dei gruppi di autoconsapevolezza maschile come luoghi nei quali si possa realizzare uno spazio di confronto e ascolto reciproco in merito ai piaceri e alle criticità dell’essere uomo e del proprio rapporto con il femminile [approvo e sottoscrivo. Il post potrebbe finire qui]. Nessuno ci ha istruito in proposito, a rapportarci con il proprio e l’altrui genere (non solo maschile e femminile), sembrerebbe cosa così naturale e spontanea da essere portati a pensare che non ci sia niente da imparare, ma, se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali e sulle conseguenze di questi ultimi, sembra chiaro che qualcosa decisamente non vada [soprattutto non va parlarne così. Se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali, ci accorgiamo che questa modalità di rapportarci con il proprio e l’altrui genere non è per niente così naturale e spontanea. E’ un dato di fatto che non solo non è vero che nessuno ci ha istruito, ma che si posso facilmente fare nomi e citare sistemi culturali e sociali che hanno ben istruito al maschilismo generazioni di uomini. Ci sono fior di studi in proposito, perché non dirlo chiaramente?].
La mia impressione è che, dopo un periodo di conquiste e di rivendicazioni da parte delle donne, che forse ha avuto il suo apice con i movimenti femministi negli anni 70 [forse?], almeno in termini di consapevolezza, siamo in una fase di stallo in cui si oscilla tra l’andare poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati [EH? A parte che rimane da capire cosa c’azzecca la digressione sulla storia del femminismo, come sarebbe che dagli anni ’70 siamo in una fase di stallo? Scusate l’elenco di nomi, ma tanto per dire di cose fatte e dette dopo i ’70: Adrienne Rich, Monique Wittig, Angela Davis, Andrea Dworkin, Carol Gilligan, Riane Eisler, Donna Haraway, Teresa De Lauretis, Luisa Muraro… i primi che vengono in mente a me. E attualmente il femminismo è ancora, come sempre, un ribollire di forze e di esperienze politiche diverse. E queste sarebbero donne che oscillano tra l’andare poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati?]. Questo penso possa essere dovuto anche (se non soprattutto) al fatto che la capacità di autoanalisi e di autodeterminazione del femminile arrivano ad un punto morto, se poi il maschile non comincia a fare altrettanto, smettendo di fare “concessioni”, ma riequilibrando il potere in modo consapevole ed autodeterminato [cioè, per far andare avanti il pensiero femminista servono gli uomini? De Maglie, “you can’t be serious” (cit). Una cosa è dire che gli uomini devono partecipare attivamente allo smantellamento del potere patrarcale per demolirlo davvero – e ci mancherebbe che non fossi d’accordo pure io; un’altra è sostenere che nel frattempo il femminismo s’è fermato perché senza l’òmo non si va da nessuna parte: scherziamo?].
Il maschile si trova spesso arrocato in una posizione difensiva che gli è poco utile, ma questo perché ha paura e se ha paura è perché si sente in pericolo, il pericolo di perdere il proprio stabilito ruolo (quanta inconsapevole fatica starci dentro!) [si può essere d’accordo su questo – a parte lo spesso: a me pare perlopiù che al maschile, nella maggior parte dei casi, non gliene frega niente della crisi del suo ruolo, perché è ancora avvertita in troppo pochi casi limite].
Faccio un esperimento ed invito i lettori a leggere i commenti che seguiranno a questo post da parte di molti uomini. Se questi saranno i soliti, in cui a contenuti dai toni equilibrati, anche se non necessariamente condivisibili, perché la libertà di opinione non è un optional, seguiranno una serie di commenti ai confini con l’insulto, la minimizzazione, la denigrazione verso l’autore o l’autrice, avrò evidenziato le problematiche di cui parlo. Cose viste e riviste per i blogger de Il Fatto Quotidiano che parlano di violenza e questioni di genere e che diventano facile tiro al bersaglio dei soliti ignoti. [Sul commentatore medio dei blog de IFQ mi espressi anche io, e siamo d’accordo: ma questo che tipo di esperimento è? A cosa serve farlo? Per dimostrare una posizione difensiva di un intero gruppo sociale bastano i commenti a un blog? De Maglie, sei sicuro di agire sensatamente verso la tua stessa credibilità? Io mi sono limitato a contarle, le risposte a un post, e a dividerle per risposta: mi pare il massimo che si possa fare. Con quali strumenti se ne può invece ricavare con certezza un atteggiamento sociale di massa? Se ci sono, non sarebbe il caso di parlarne prima?]
Ovviamente il lettore può non essere d’accordo con il contenuto di un post e decidere di commentarlo, ma, a seconda di come esprime il suo disaccordo, si evidenzia se e cosa smuove in lui, non di rado una rabbia mista ad indignazione difficile da comprendere per chi mostra di possedere una certa sensibilità verso le nostre tematiche. Questo per fare un esempio legato alla vicina realtà per la quale scriviamo, il tutto è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi [De Maglie, stai proponendo analisi psicologiche dai commenti a un post. Anche questo tuo modo di fare e di parlare a vanvera è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi, temo, che è sintentizzabile in: fuffa. Ma tu coordini un CAM!!!].
Ben lieto di ricredermi, se i commenti saranno di diverso stampo.
Potersi permettere tra uomini di non dover parlare necessariamente di “figa”, “sesso”, “calcio”, “lavoro”, ma anche di donne, amore, passioni e tempo libero è un lusso che i gruppi di autoconsapevolezza maschile avvierebbero a trasformare in quotidianità. [Sì, ma detto in questo modo non si capisce il problema, che non è solo di ordine psicologico. Per la stragrande maggioranza degli uomini etero in Italia le donne sono “figa”, l’amore è “sesso”, la passione è “il calcio” e il tempo libero è un “lavoro”. E ci si trovano benissimo a parlarne tra loro, senza alcun necessariamente ma molto naturalmente. E’ in gioco un ordine culturale che proprio il femminismo, sia prima che dopo i ’70, contrasta con tutte le sue forze. Fase di stallo? Ma per favore.]
La strada è ancora lunga, me ne accorgo perché sto imparando quanto sia arduo coinvolgere gli uomini, ma si comincia. I cambiamenti epocali hanno bisogno di epoche intere per stabilizzarsi, il prezzo della conquista. [E’ lunga sì, se il coordinatore di uno dei pochi centri per uomini maltrattanti presenti nel paese si esprime in questo modo. Sigh. Questo modo di fare e di esprimersi, a mio modestissimo parere, può solo sintetizzarsi con un “darsi la zappa sui piedi”.]
Per quanto il lavoro con gli uomini maltrattanti sia importantissimo – soprattutto in assenza sia di un livello politico accettabile di consapevolezza del problema della violenza di genere sia, conseguentemente, di strutture pubbliche adeguate – e tenendo conto che non mi sogno nemmeno di contestarne l’utilità, rimane il fatto che le dinamiche legate alla supposta paura di perdere il proprio ruolo egemone non dicono tutto del sessismo vigente, e non credo siano le migliori leve per chiedere agli uomini di parlare tra loro.
Per esempio, quando leggo un pezzo come quello che segue, scritto dal redattore di un quotidiano online come risposta alla giusta indignazione di una donna per l’ennesima pubblicità sessista, mi pare ovvio che il paradigma della perdita di potere è ancora ben lontano dallo spiegare la tranquilla strafottenza con la quale un uomo si permette atteggiamenti sessisti che, scritti nero su bianco, sono da ritenere socialmente molto più violenti di qualunque cosa possa commettere un uomo maltrattante nel suo ambito privato. Questa è violenza che passa tra chiunque legge l’articolo. Le botte si fermano a una o poche più vittime. Se si vuole fare qualcosa per una massa di uomini, la chiave è la cultura comune e non la psicologia del singolo.
[già il titolo mette paura]
Cara Enrica, nel tuo sfogo tu proponi una serie di giuste osservazioni, eccellentemente argomentate, ma è stato il finale a farmi pensare un bel po’. Concludi dicendo Io non ci sto a far passare il mio corpo come oggetto sessuale. Non ci sto. Giustissimo, ma rifletti su una cosa: se la foto che ti ha fatto indignare esiste, è perché qualcuno l’ha fatta, ma anche perché una donna procace se l’è fatta scattare. [La colpa del sessismo è delle donne che lo permettono. Complimenti, Luca.] E perché se l’è fatta scattare? Per soldi, perché fa la modella, perché compra il pane e il latte facendosi scattare (anche) foto di quel tipo. È una scelta, deprecabile o meno, ma una scelta. Personale e sicuramente motivata. [Notoriamente, alle donne sono permesse, consentite e agevolate tutte le forme di lavoro; fare la modella è da sempre una libera scelta di una donna procace, no?] Il corpo è il primo strumento di cui ci avvaliamo per fare qualsiasi cosa [con questa bella frase il caro Luca mette insieme il gesto strumentale e lo sfruttamento lavorativo, ma sì, sono la stessa cosa, è tutto fatto col corpo] ed alcuni di noi, una minoranza, hanno un corpo così gradevole che suscita suggestioni tali negli occhi e nelle menti altrui da poterci guadagnare qualcosa. A volte molto [e certo, è il corpo che suscita suggestioni, mica esiste una cultura che ti insegna quelle associazioni e che ti inculca a cercarle, quelle suggestioni. E’ tutta natura].
Sono d’accordo sul fatto che ormai alcune pubblicità si riducono ad un bombardamento osceno teso a far cadere il gonzo di turno nella rete della bellona procace [notate: la responsbilità della trappola è della bellona procace, è lei che guadagna, mica l’agenzia, il produttore, il cliente dell’agenzia pubblicitaria, no no, loro non c’entrano niente] che vede per quei cortissimi e lunghissimi trenta secondi di durata media di uno spot, ma non sono d’accordo sull’appiattire tutto sul subconscio che assorbe le informazioni senza filtro [il subconscio? Quella c’ha le tette di fuori, ma quale subconscio!]. Esso è solo una parte della questione. Siamo noi stessi che, consciamente e non inconsciamente, moltissime volte ci lasciamo andare all’assimilazione passiva, perché siamo pigri e svogliati [si vabbè, ma noi stessi chi? Pure la bellona procace?]. L’inconscio lavora, ma lo spirito critico e l’umanità di ognuno possono lavorare altrettanto bene per farci essere persone capaci di valutare quello che vediamo e di rispettare chi abbiamo di fronte [certo, soprattutto dopo decenni di machismo pompato da tutti i media, da tutti i coetanei, da tutti gli ambienti quotidiani. Non sai che spirito critico che viene su, in una società sessista come questa].
Sono passati poco più di due mesi da quando ho visto uscire mia figlia dal corpo della mia compagna e ti posso dire che ho visto con questi occhi il corpo femminile divenire un santuario [ecco, appunto: il corpo femminile o è un santuario o è la bellona procace, o sante o puttane, siamo sempre lì, all’ABC del maschilismo] capace nello stesso tempo di manifestare una forza sovraumana e di creare una meraviglia.
Se non tutti gli uomini capiscono il rispetto che alla donna si deve, ti prego allora di essere clemente, nell’evoluzione delle capacità intellettive vi stiamo inseguendo, ma per prendervi ci vuole ancora un bel po’ [capito, Enrica? Praticamente Luca t’ha detto di aspettare, ancora non hai sofferto abbastanza, l’uomo ancora non c’è arrivato. T’ha fatto un buono: e che vuol dire?]
Allora: cosa distingue chi dice che il femminismo è fermo dagli anni ’70 da chi dice che il corpo femminile è un santuario? Cosa distingue chi dice che nessuno ha istruito gli uomini ai rapporti tra generi da chi dice che fare la modella è una scelta e che quindi la responsabilità di pubblicità sessiste è delle donne raffigurate?
Che cosa continua a far sì che chi ha i titoli e l’esperienza necessarie per fare antisessismo e parlarne come si deve, invece continui a darsi la zappa sui piedi?
Premessa: chiariamo bene che cos’è “La Nuova Sardegna”.
La Nuova Sardegna è il più diffuso quotidiano del nord Sardegna, fondato nel 1891 a Sassari da Giuseppe Castiglia ed Enrico Berlinguer, nonno dell’omonimo ex segretario del PCI.
Oltre che a Sassari ha redazioni a Cagliari, Nuoro, Olbia e Oristano e uffici di corrispondenza ad Alghero e Tempio Pausania.
Dal 1980 fa parte del Gruppo Editoriale L’Espresso.
Così Wikipedia. Quindi: parliamo di un giornale che esiste da più di un secolo e con i suoi bei nomi nella storia da mettere in vetrina. Non proprio carta straccia.
Poi dice che sono io che ce l’ho con i giornalisti. E’ vero, ma è molto riduttivo: perché se esce un articolo come questo sul sito di un quotidiano come La Nuova Sardegna, vuol dire non solo che il giornalista, ma anche il suo caposervizio, il caporedattore, il vice e il direttore non hanno idea di cosa sia il linguaggio sessista, di cosa vuol dire una cultura sessista, di cosa sia il minimo rispetto per le questioni di genere. E neanche chi si occupa – ammesso che lo faccia qualcuno – di mettere questi articoli nel loro sito. Sentite qua che meraviglia.
[Ci prova con l’amica a me fa incazzare anche se solo sentito, figuriamoci come titolo di giornale. Ci prova è l’esatta espressione di un sessismo ormai abitudinario, arrivato a considerare le persone, specialmente le donne, attrezzi, strumenti, aggeggi da testare per vedere se fanno al caso nostro.]
A un cinquantenne di Ossi inflitti un anno e 4 mesi e 8mila euro di provvisionale. Aveva cercato di baciare la donna, prendendole una mano e portandosela alle parti intime [complimenti per la logica: provi a farti baciare da qualcuna forzandola a toccarti il pacco? Non c’è qualcosa che non va in questo sottotitolo? Non manca qualcosa? Ricordate anche questo, per ora: nel sottotitolo lei è la donna]
di Luigi Soriga [abbiamo il nome, casomai servisse un altro articolo del genere sappiamo a chi chiederlo]
SASSARI. Ci ha provato, gli è andata male [complimenti: le prime sette parole sono un giudizio sulla vicenda. Lui è stato sfortunato. Gli hanno dato galera e multa per sfortuna. Poverino, “ritenta, sarai più fortunato”], e ora si è beccato [si è beccato; ambisce al Pulitzer, il Soriga] un anno e quattro mesi di reclusione e una provvisionale di 8mila 500 euro. Mai si sarebbe aspettato di pagare uno scontrino [uno scontrino? Ma che linguaggio è?] così salato per le avance nei confronti di una sua parente [e chi se lo aspetterebbe? Normalmente per le avance nei confronti di una parente c’è un premio, no? Intanto, da donna è diventata parente]. Certo, il suo approccio non era stato dei più romantici [AH AH AH, che ridere]. Prima ha tentato un bacio, e lei ha girato la faccia dall’altra parte. Poi ha afferrato la mano della donna [è tornata donna] e l’ha portata sui suoi pantaloni, all’altezza delle parti intime. Lei si è divincolata, lo ha respinto, ha urlato. Al macho maldestro [notate, maldestro: se ne sottolinea la scarsa perizia, non la violenza o lo spregio totale della considerazione per l’altra persona, no: è maldestro, è buffo, fa ridere] non è rimasto che andare via con la coda tra le gambe. Forse sul momento non ha realizzato, ma quell’approccio sconsiderato per la legge si configura a tutti gli effetti come un reato sessuale [ma guarda un po’ cosa capita ai maldestri!]. La storia accade a Ossi, è il ferragosto del 2010. Lui è un autista di bus, sulla cinquantina. Lei è molto più giovane [e tanto vi deve bastare, lei non lavora, non è nulla, è solo molto più giovane]. I due sono cugini di secondo grado, tra loro c’è confidenza, tanto che la donna, in crisi con il marito, chiama l’amico per raccontare i suoi problemi coniugali. Parlano a lungo, lui le dice che il marito non la merita, che dovrebbe lasciarlo, e tra i due scatta un abbraccio affettuoso. A quel punto nella testa dell’uomo si accende la scintilla sbagliata [ricordatevi, è sempre la scintilla, lo scatto, il clic. Non c’è una cultura patriarcale, sessista, no no, è che tutti i maschi girano con una bomba nel cervello. Sono tutti bravi ragazzi]. Forse è convinto che la donna provi attrazione nei suoi confronti [notate: lui si convince che lei abbia qualcosa, lui continua a essere normale anche se ha la scintilla sbagliata], e ci prova con decisione. Si becca un due di picche clamoroso [“bella rigà, se vedemio àaa redazzione, c’ho da scrive de un due de picche clamoroso, anàca”] e viene cacciato di casa. Però si rende conto che la sua amica [già donna, poi parente, adesso è la sua amica] è molto scossa, e visto che il marito stava per rientrare in casa, lui gli va incontro e lo invita a bere qualcosa al bar. Quando poi rientra a casa la moglie si è calmata, e lui non si rende conto di nulla [notate: la mano sul pacco è causata da la scintilla sbagliata, ma l’acume e la premeditazione necessarie per l’accorta condotta, a evitare che il marito sappia subito tutto, non viene sottolineata. La scintilla dello stronzo non esiste]. La denuncia ai carabinieri non viene presentata subito. Solo che poi l’episodio non scivola sulla donna come se niente fosse. Lei ha un carattere fragile [il giornalista è anche perito psichiatra, e sentenzia che lei denuncia perchè è fragile, mica perché quel gesto è da denuncia, no no], comincia ad accusare un disagio psicofisico, stati d’ansia, insonnia. Un’altra donna magari avrebbe liquidato l’episodio con uno schiaffone e una valanga di insulti [le donne con le palle, vero Soriga? Invece questa ha un carattere fragile, sono quelle così che denunciano, poverette, basterebbe uno schiaffone, no? Soriga le sa tutte, facciamolo ministro per le Pari Opportunità]. Lei invece tiene dentro per un po’, dopodiché esplode. Prima si confida con una zia, poi con un po’ di titubanza, racconta tutto anche al marito. Lui la convince a presentare subito denuncia [lui la convince, che eroe, lei è così fragile]. E il 6 settembre la donna si presenta dai carabinieri di Ossi. I problemi psicologici vanno avanti nei mesi successivi, e lei si rivolge al proprio medico di base. Lui certifica, testuale: «Affetta da tentata violenza sessuale». Comincia anche il processo in tribunale e ieri il pm Giovanni Porcheddu è partito dalla pena di due anni, l’ha ammorbidita con le attenuanti generiche e la minor gravità per non aver consumato l’atto [devo commentare? No, vero?], e ha chiesto 1 anno e 4 mesi. L’avvocato di parte civile, Maria Francesca Lorusso, nella sua arringa ha ripercorso tutta la vicenda e ha chiesto la condanna dell’imputato. Il legale della difesa, Caterina Mureddu, invece ha chiesto la piena assoluzione perché il fatto non sussiste [qui il nostro giornalista non se la sente di dire la sua. E’ psichiatra, è giovanile, conosce donne che avrebbero dato sberle, ma su il fatto non sussiste non ha nulla da dire. Ancora complimenti]. Alla fine il giudice Marina Capitta, che presiede il collegio, ha deciso di confermare le richieste del pm. La tentata violenza sessuale [su donna giovane e fragile, mi raccomando] si paga cara: 1 anno e 4 mesi (con la condizionale perché incensurato), 8mila e 500 euro da corrispondere subito più l’ulteriore risarcimento da stabilire in sede civile.
Qui, per come la vedo io quello che ci prova è il giornalista. Prova a minimizzare, prova a scusare il colpevole, prova a far apparire lei come una mezza deficiente, prova a ridere di tutto. Ma no, non è vero, sono io che ho un problema, sono io che vedo (e leggo) una cultura sessista.
Sono stato a lungo indeciso sul titolo da adottare per questo post. Di Andrea Scanzi in sé non me ne può fregare di meno, ovviamente, ma ha costruito un personaggio nella comunicazione talmente identificabile e noto che ormai solo a pronunciarne il nome potete vedere nei vostri interlocutori le smorfie di disgusto o l’aprirsi di un sorriso – ormai è nel mito, e pazienza se di questi tempi non abbiamo l’Olimpo ma il web e la TV. Rimane il fatto però che la sua retorica individua un metodo molto scorretto di argomentare e di proporre contenuti; un metodo vecchio come il cucco ma che ancora, stante l’ignoranza endemica accelerata dal ventennio berlusconiano, risulta vincente per fare proseliti, per attirare clic, per “convincere gli scettici”, per portare acqua al proprio mulino. Ve ne porterò due recenti esempi, più un altro in link. Mi scuso fin d’ora per la lunghezza – ma l’argomento la merita, credo.
Parlare del metodo retorico usato da Scanzi spero servirà a rendere intelligibile quest’uso della comunicazione anche in futuro e anche altrove: soprattutto spero che contribuisca a rendere meno automatica la lettura dei testi di figure di riferimento (una volta si diceva opinion leaders), in modo che prima possibile l’italiano medio perda il brutto vizio di essere d’accordo con X prima di leggere-controllare-criticare consapevolmente cosa ha detto X, e di insultare Y prima di leggere-controllare-criticare consapevolmente cosa ha detto Y. Dite che sono un illuso? Scrivo di questioni di genere in un collettivo transgenere in Italia, certo che sono un illuso.
Spero anche presto si diffonda una sana diffidenza per tutti quegli improvvisi salti di qualità fatti da sedicenti esperti di sessismo – quelli che “io lo so cos’è, ma per favore non perdiamo tempo” – che usano così tanto la tecnica dell’empowerment su se stessi da ergersi in breve tempo a censori, distributori di giudizi, consiglieri, testimoni e custodi dell’unica e sola verità. Se a un certo punto qualcuno comincia a sentirsi particolarmente bravo e sapiente soprattutto sui giornali e in TV, è perché fa bene il suo lavoro sui giornali e sulla TV: cioè sa raccogliere pubblicità. L’esperienza si fa, prima di tutto, di persona e con le persone. Web, clic e like sono solo strumenti che hanno un prezzo.
Un ultimo chiarimento: non m’interessa né difendere Boldrini, né esaltarla, lo sa fare benissimo da sola. Stesso discorso per M5S, che non m’interessa attaccare o ridicolizzare – sono problemi loro.
A me interessa difendere la mia intelligenza, la mia libertà, la mia cultura, la mia capacità critica; non perché queste cose mi servano a fare politica, ma perché queste cose sono la politica.
E’ davvero un bel momento per la democrazia italiana. Un’agonia conquistata a fatica. Svetta, per distacco, la Preside Boldrini [la Preside? Metodo Scanzi #1: usare un immaginario facile e ovvio per indirizzare una facile rabbia politica. Tutti siamo andati a scuola e tutti abbiamo sofferto per un* preside lontan* e autoritari*, no?]. Da ieri non è solo la donna con una voce che andrebbe vietata – come minimo – dall’Onu [Metodo Scanzi #2: la risata grossolana, la presa in giro alla Pierino. Boldrini ha una voce insopportabile, e chi nella vita non ha incontrato una donna dalla voce insopportabile?].
È anche la presidente che ha usato per prima la ghigliottina vile e orrenda contro le opposizioni [esiste da più di un decennio, lei l’ha usata per prima perché fa parte del suo lavoro, e questa è la sua colpa: notate come vile e orrenda siano solo in parte aggettivi attribuibili a un oggetto]. Vent’anni di berlusconismo ci hanno così disabituato all’opposizione che, se qualcuno la esercita, “giustamente” viene ritenuto anomalo. E dunque va zittito [Metodo Scanzi #3: o sei con me o sei contro di me, chiunque tu sia. Boldrini è una epigona di Berlusconi, se si oppone all’opposizione – non importa in quale modo, con quale funzione, per quale motivo. Ti sei opposto all’opposizione? Sei come Berlusconi. Punto].
Complimenti: del comunismo, evidentemente, la gentil signora [prima Preside, ora gentil signora: continua il tono canzonatorio privo di contenuti] pare aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale e l’intolleranza zdanovista per il dissenso [notate bene la tecnica: in venti parole Scanzi dice che: 1) esiste il veterofemminismo (falso, il femminismo è più complesso di un duopolio vetero/neo); 2) lo si impara dal comunismo (falso, il femminismo non è certo nato come parte del comunismo); 3) in quanto vetero, è caricaturale (e perché? Opinione di Scanzi, sempre ammesso che esista, il veterofemminismo) 4) agire da Presidente della Camera è equiparato allo zdanovismo sempre e solo in base al Metodo Scanzi #3; l’agire nell’interesse della Camera, che è il suo lavoro, passa per reazione di un regime, come se Boldrini fosse il dittatore. Per ora siamo a Boldrini=Berlusconi= Zdanov(Stalin). Non è finita qui.]. Proprio come Re Giorgio, infaticabile comunista migliorista di destra. [Ve l’avevo detto: Boldrini=Berlusconi= Zdanov(Stalin)=Napolitano. Tutti uguali.] Lei e i tre o quattro vendoliani rimasti [Metodo Scanzi #4: il nemico dev’essere sempre dipinto come solo e patetico, anche se potente], oltre ad alcuni noti resistenti piddini, hanno festeggiato cantando Bella ciao [non è vero, ma a ‘sto punto, chi ci pensa più?] (poveri partigiani, vilipesi ormai pure da chi dice di ispirarsi a loro. Se Fenoglio avesse saputo che un giorno le sue mirabili gesta sarebbero state fraintese da uno Speranza qualsiasi, avrebbe scritto al massimo Lo sfigato Johnny) [Metodo Scanzi #5: deduci da una falsità, se la conclusione è vera nessuno penserà più alla premessa falsa. Che i partigiani siano quotidianamente vilipesi ormai pure da chi dice di ispirarsi a loro, è vero, peccato che qui non c’azzecchi nulla]. In un certo senso i reduci (di se stessi) di Sel non hanno sbagliato a festeggiare: hanno appena celebrato la fine definitiva del loro partito [Metodo Scanzi #6: approfitta del richiamo non giustificato per colpire a destra e a manca, intanto. Non si capisce perché la ghigliottina doveva portare vantaggi o svantaggi a Sel, che ha i suoi grossi problemi del tutto indipendentemente da Boldrini; ma già che ci siamo…], regalando peraltro ulteriori voti a chi vorrebbero cancellare dalla scena politica (la loro miopia è pari alla loro arroganza). Sel era già morta con quelle risate al telefono di Vendola [appunto, e allora perché parlarne? Ah, sì, i clic e i like], e tutto sommato non c’era neanche bisogno del Troiaium [era da un po’ che non diceva nulla di sessista, gli è sembrata carina l’ennesima battuta alla Pierino] con la soglia di sbarramento all’8% per affossarli (Sel, al momento, se va bene supera il 2) [rileggete il titolo dell’articolo e ditemi che c’azzecca tutto ‘sto pippone su Sel. Credo che c’entri qualcosa Freud, ma non è di mia competenza e non insisto].
La Preside Boldrini [e dàje] ci ha comunque tenuto a disintegrare quel poco che restava di un partito che pure vanterebbe non poche eccellenze al suo interno (Fava, Airaudo) [Metodo Scanzi #7: il nemico, oltre che solo e patetico, si disgrega da solo e noi tendiamo la mano a chi merita – in modo da disgregarlo più rapidamente. Voi direte: noi chi? Sotto quale testata Scanzi scrive tutto ciò? Di chi è questa testata? Ecco noi chi]. Si può dire? Con quella vocetta da robot Super Vicky para-leninista [aridàje], la Preside(nte) Boldrini è una delle più grandi delusioni nella storia recente della politica italiana [ovviamente, no? Ve l’ha detto prima: Boldirni come Berlusconi, quindi come qualunque altro politico deludente, di qualunque epoca, sono tutti uguali, tutti contro di noi. Noi chi? Ve l’ho già detto, state più attenti]: supponente, sussiegosa coi potenti, per nulla imparziale e drammaticamente respingente [Metodo Scanzi #8: dedurre le caratteristiche dall’aggettivo, non dalla realtà. Queste quattro caratteristiche sono della Preside con la voce da robot Super Vicky para-leninista, non dalla reale conoscenza di Boldrini come persona o come politica. Basterebbe leggersi il suo CV]. Lei e le quasi-femministe [Scanzi, noto storico del femminismo, sforna categorie interpretative: dopo il veterofemminismo, c’è anche il quasi-femminismo] che hanno letto Erica Jong senza capirci una mazza [Metodo Scanzi #9: io non sono supponente, ma tu sei un* cretin* che non sa manco quello che legge], si rasserenino: non sono criticate in quanto donne, ma in quanto politiche disastrose. [Metodo Scanzi #10: ti cucino una merda ma te la impiatto come un profiterole. Secondo questo metodo, Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza sono critiche politiche, non in quanto donne. Complimenti per il profiterole.] Oppure – si parva licet – dovremo dire d’ora in poi che anche le Santanché, le Biancofiore e le Madia sono attaccate “poiché donne” (e c’è chi lo ha scritto, tipo Gramellini) [se succede davvero allora così va scritto, Scanzi, indipendentemente dalla persona. Ma immagino che non ti interessino queste distinzioni. Come le chiameresti tu? Ah, certo, roba da veterofemministe].
Che dire? Grazie a chi si impegna così alacremente per regalarci questo eterno crepuscolo morale [morale, notate bene: la condotta, discutibile ma secondo il regolamento, del Presidente della Camera è giudicata immorale. Questo invece sarebbe un giudizio politico? Come si chiamano le donne immorali? Lo sappiamo, vero?]. Ieri è stata una giornata tremenda, non come quella che portò alla uccisione politica di Rodotà e alla rielezione del monarca Re Giorgio, ma siamo lì [vi prego sempre di notare l’aggettivazione; sembra che Scanzi parli dell’uccisione di Falcone e Borsellino o della strage alla stazione di Bologna]. Complimenti dunque a chi ci regala tali emozioni: alla preside Super Vicky Boldrini, al simpatico questore Dambruoso che ha schiaffeggiato la deputata 5 Stelle Lupo (che fai Boldrini, lo cacci? Oppure l’espulsione con nota annessa per i genitori è solo per i discoli che salgono in cima ai tetti per difendere la Costituzione? [a parte il continuo uso della metafora scolastica, notate che questo fatto molto grave viene menzionato solo adesso, e solo per dire che anche in questo caso Boldrini è stata scorretta e amorale – peccato che Scanzi sia altrettanto scorretto: perché fa finta di non sapere che prima di cacciare Dambruoso serve la relazione dei questori della Camera? E poi, allora, qual è l’oggetto dell’articolo?]). Complimenti al Pd, che quando c’è da mostrare i muscoli (che non ha) a caso è sempre in prima fila [Dambruoso è di Scelta Civica, ma tanto il Metodo Scanzi l’avete capito come funziona]. E complimenti a quei meravigliosi renziani che, con il loro coraggio da Don Abbondio arrivisti, da una parte resuscitano il Caimano con una legge elettorale vergognosa [cosa c’entra adesso? Di che parla l’articolo?] e dall’altra regalano soldi pubblici alle banche private. [Oh, ci siamo arrivati! All’ultima riga del post finalmente si tocca l’argomento del titolo – e non se ne dice niente. Ah, già, il SEO, i clic. Complimenti.] Fenomeni mica da ridere. [Non solo loro, Scanzi caro.]
Nei giorni seguenti il Metodo Scanzi si è arricchito di un nuovo stratagemma, ma nuovo solo per lui: la “scusa SE è successo che”, come racconta Mazzetta qui. Come ho già detto anche io, il metodo “mi scuso se ma tanto è lo stesso” è tipico dei sessisti. Ma io sono un veterofemminista che ha letto letto Erica Jong senza capirci una mazza.
Comunque il nostro, nei giorni seguenti, continua col suo metodo, stavolta ergendosi a consigliere del M5S, lui che di politica e comunicazione, come abbiamo visto, le sa tutte. Per avere un’idea di quale sia “l’errore” che m’interessa evidenziare qui, vi lascio qualche link di altr* veterofemminist* che hanno letto Erica Jong senza capirci una mazza: Che cosa è diventato il Movimento 5 Stelle? (a proposito di equivalenze politiche); Insulti sessisti e auguri di stupro (a proposito di Erica Jong letta male); Il nuovo femminismo (per capire che aria tira in certi ambienti, diciamo così); Andrea Barbato a Beppe Grillo nel ’92 (un po’ di storia pre-web, illuminante anche sul Metodo Scanzi); Insulti a cinque stelle, non è soltanto Laura Boldrini vittima di sessismo e omofobia (tanto per ricordare che ce n’è per tutti, non sono cose casuali).
Alla luce di tutto ciò, dicevamo, il nostro si erge consigliere e attua il Metodo Scanzi #11: parlo di te per non parlare di me. Leggiamo ‘sto capolavoro. Lo interromperò di rado, confido in quanto finora detto senza ripetermi troppo.
Nella sua intervista a Daria Bignardi, a un certo punto il deputato Alessandro Di Battista ha detto: “Camminiamo su un cornicione, non possiamo sbagliare e quando lo facciamo dobbiamo chiedere scusa” [di come andrebbero fatte e dette le scuse abbiamo già detto sopra]. E’ un punto centrale: il M5S non può fare errori, perché gli altri (i “nemici”, cioè quasi tutti [di nuovo la logica duale: ci sono solo bianchi e neri, bene e male, belli e brutti – o stai con me o stai contro di me, non c’è spazio per il diverso]) non aspettano altro e perché ogni errore mina la fiducia di quei milioni di italiani che continuano a ripetere che quel movimento è l’unico anticorpo contro il potere. Una fiducia di cui dovete avere un rispetto sacrale [che bell’aggettivo, sacrale. Con una parola sola si passa dal politico al religioso, e tutt’intorno è silenzio]. Per questo:
1) Cari M5S, non potete dire “boia” o “boia chi molla“. Mai, mai e poi mai. Capisco la rabbia che porta il sangue agli occhi e induce a straparlare, ma queste frasi sono tremende ed evocano ricordi oltremodo foschi. Sono frasi imperdonabili, ancor più se dette da deputati solitamente bravi come Angelo Tofalo. E non venite a dirmi che in origine “Boia chi molla” non era uno slogan fascista: adesso è a quello, al fascismo, che fa pensare. Ed è un assist gigantesco per chi vuole – ora comicamente e ora in malafede – tratteggiarvi come nuovi Farinacci. Come no: Crimi camicia nera, Fucksia (un’altra che non ne indovina mezza neanche per disgrazia) balilla e tutti insieme eia eia elalà. Bugie totali. Ma c’è chi ci crede. Perché ci vuole credere. [Sì, io ci voglio credere, ma non perché qualcuno ripete slogan in piena incoscienza. Ci voglio credere perché, come hai sostenuto tu stesso tempo fa, M5S è “ecumenico”, cioè si allea con chiunque, e accoglie chiunque, voglia fare le stesse cose – anche i fascisti. Per me invece conta il motivo per cui vuoi farle e quale storia porti con te; perché se non guardi anche a queste cose, succede che le parole di Grillo diventino un riassunto di quelle di estremocentroalto, e tu non te ne accorgi. Dovrebbe bastare saper leggere, non si tratta solo di bugie o verità. Contano anche la storia, la memoria, e un sacco di altre cose.]
2) Cari M5S, non potete regalare l’alibi multiuso e multitasking del “sessismo” quando combattete una battaglia nobilissima come quella su Imu-Bankitalia (vi hanno dato ragione perfino Dragoni e Barisoni, certo competenti e certo non “grillini”). Le allusioni grevi ai “pompini” sono schifose, costituiscono un harakiri imbarazzante e regalano agli eterni soloni la giustificazione per scrivere lenzuolate di quasi-femminismo in cui “loro” sono democratici e gli altri poco meno che stupratori. Ovviamente quella stessa gente, di fronte allo schiaffone di Dambruoso alla 5 Stelle Lupo, minimizza o magari solidarizza (con Dambruoso). Due pesi e due misure, ma in Italia funziona così. E le parole di De Rosa sono indifendibili e irricevibili. [Un dibattito serio avrebbe argomentato come in questo blog la vicenda Imu-Bankitalia – ma servono persone competenti e che non urlano, e giornalisti disposti a divulgare senza fare slogan. E comunque, a proposito di due pesi e due misure: pompinara è un insulto sessista, mentre invece Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza, che cosa sono? Scanzi, piantala. Non sono sessiste solo le parolacce, non te l’hanno insegnato a scuola? No. E il fatto che ci sia chi solidarizza con Dambruoso fa schifo come chi attacca Boldrini per la sua voce o il suo aspetto. No?]
3) Cari M5S, non potete mandare in tivù uno come Becchi per difendervi. E’ come chiedere a Mike Tyson di andare in tivù per difendere la salute dei lobi. Di fronte a Becchi, parrebbe credibile persino Boccia. Di fronte a Becchi, ha ragione perfino la Moretti. Becchi è espressione sin troppo nitida del “grillino” caricaturale e sopra le righe, che ha torto anche quando ha ragione e che serve alla tivù per screditare il M5S. Nessuno al mondo, ascoltando Becchi, avverte poi la voglia di votare M5S (ed è per quello che va in tivù). Avete ragazze e ragazzi che sanno usare il piccolo schermo (ci siete arrivati anche voi, alla fine, dopo mesi di autismo mediatico e “noi nei talkshow non andiamo“). Errore dozzinale. Voi in tivù dovete andare: lo dovete a chi vi ha votato e vi vuole conoscere. E vuole che qualcuno difenda le loro idee. Mandateci le Sarti e i Morra, i Di Maio e le Lezzi, i Di Battista e le Taverna. Becchi, al massimo, speditelo nel remake del Drive In al posto di Beruschi. Checché ne dicano Beppe Grillo e Yoko Casaleggio, la tivù è ancora (sin troppo) decisiva nel veicolare notizie e consensi. O la si sa usare, o si sta a casa a coltivare i nidi di rondine tra le pieghe della barba da quasi-filosofo. [E meno male che saccente era Boldrini. E ovviamente Scanzi parla di comunicazione M5S evitando di citare Messora – mica scemo, lui. Di Battista, per dirne uno della lista di Scanzi, è quello che guarda in camera e dice «Fidatevi della rabbia sana che abbiamo in corpo. Chi guarda questi occhi sa che io dico la verità!». Davvero un gran comunicatore, originale soprattutto.]
4) Caro Grillo, post come quello su “cosa faresti se la Boldrini fosse con te in auto”, sono autogol che neanche Niccolai. Servono esattamente per poi poter sostenere castronerie vili tipo che i grillini sono tutti stupratori e insultatori [peccato che nessuno l’ha sostenuto, in primis Boldrini, come avete letto sopra nel link di Mazzetta] (come se in rete i renziani o i berlusconiani fossero tutti dispensatori di versi petrarcheschi [ma sì, se gli altri scrivono merda pure io rispondo merda, per Scanzi questa è democrazia diretta, evidentemente]). Quegli autogol servono a dire che, chi critica la Boldrini, lo fa perché è sessista (yeowwwn) [sbadiglia pure, ma se argomenti con Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza, c’hai poco da sbadigliare: è sessismo]. Non ci vuole uno scienziato per arrivarci. Grillo ha fatto e farà molto per il Movimento. Il giorno in cui capirà che è molto più convincente quando argomenta che non quando scherza senza avere ispirazione, sarà sempre troppo tardi [ma sì, ma lui scherza, è un comico, ah ah ah].
5) Cari M5S, Daria Bignardi ha tutto il diritto di fare domande critiche a un deputato che non condivide e mai voterebbe. E’ una giornalista, sa fare il suo lavoro, ha simpatie renziane dichiarate e a casa sua può chiedere tanto del padre di Di Battista quanto del suo passato da chierichetto. Non vi piace? Non la guardate. La Bignardi ha dato trenta minuti a Di Battista, che peraltro sa cavarsela benissimo senza che un attimo dopo mezzo web gridi alla lesa maestà. Non tutti la pensano come voi e, anzi, in tivù il 95% è sfacciatamente renziano. Funziona così [allora Scanzi, deciditi: la tivù è il nemico o no? E poi ricordatevi: se le può fare Bignardi le domande antipatiche, le può fare anche Scanzi. Non è chiaro? Mettete la frase “Scanzi in tv” su Google, e buon divertimento].
6) Cari M5S, Corrado Augias ha tutto il diritto di critcare duramente i 5 Stelle. E’ un intellettuale, ha le sue idee e le argomenta. La Bignardi ha fatto bene a chiedergli cosa ne pensasse (ben sapendo cosa ne pensava) e Augias ha detto la sua tanto a Le invasioni barbariche quanto su Repubblica. Fate bene a criticarlo, non a insultarlo o minacciarlo (glisso su chi ne ha bruciato i libri: non so se è realmente grillino o magari infiltrato, ma di sicuro è assai prossimo all’idiozia più vomitevole). Io non condivido nulla di quello che ha detto e scritto Augias sui 5 Stelle, e credo anche che Augias – come molti intellettuali engagé vecchia scuola vicini al Pd – parli di cose che conosce pochissimo e per sentito dire. Ma io, di uno come Augias, avrò sempre rispetto profondo. E’ uno di quelli con cui è bello confrontarsi e scontrarsi, proprio come l’amico Vauro (che avete insultato in maniera troppo spesso belluina). Non confondete gli Augias con i pigibattista: sarebbe come confondere un Barolo con una gazzosa scipita [aspetta, com’era Boldrini? Supponente, sussiegosa coi potenti, per nulla imparziale e drammaticamente respingente. De te fabula narratur, Scanzi caro, e di nuovo dovrebbe bastare saper leggere].
Gli ultimi giorni, per la politica italiana, sono stati tremendi. E’ avvilente l’arroganza del potere. E’ deprimente la pochezza degli Speranza. E’ esilarante la labilità di Matteo Peppo Pig: in quell’incontro che vi siete ottusamente rifiutati di fare al Nazareno, un Nicola Morra se lo sarebbe messo in tasca con facilità siderale. Lo avrebbe demolito, ridicolizzandolo con agio [c’avete fatto caso? E’ pieno di gente capacissima di mettere sotto “i nemici”, ma nessuno ci mette quelli giusti. E chiedetelo a Scanzi, no?]. Renzi è solo chiacchiere e distintivo, vende fumo e neanche del migliore. Basta crivellarlo con due frasi di senso compiuto e già non sa più come controbattere. Avete buttato via un match point a campo aperto: errore infinito. A volte, strategicamente, siete di un bischero che ne basterebbe la metà.
E’ sconfortante vedere come quasi tutti i media usino il napalm coi 5 Stelle e le carezze con chi usa le “tagliole” e ammazza la democrazia parlamentare (non lo dico io: lo diceva il Pd cinque anni fa, per bocca di Alessandro Soro, quando il Parlamento discuteva quello scudo fiscale che poi passò grazie – ooops – alle assenze decisive dei piddini).
I 5 Stelle stanno combattendo, pressoché isolati, battaglie preziose (quella sull’articolo 138 della Costituzione non se la ricorda già più nessuno?). Costituiscono l’unica opposizione reale e per questo verranno osteggiati in ogni modo. Ribadisco: in ogni modo. E’ proprio per questo che non devono sbagliare nulla, ma proprio nulla. Che senso ha vanificare mesi e mesi di (spesso) ottimo lavoro con frasi sbagliate e belinate da asilo?
Avete la fiducia di milioni di italiani, a cui ormai non siete rimasti che voi. Fate tesoro di questa fiducia, continuate la vostra crescita e non disinnescatevi da soli, regalando assist d’oro a chi – pur di mantenere lo status quo – non aspetta altro che farvi passare per fascisti, violenti, dementi, sovversivi e magari prima o poi pure stragisti.
In questa tirata finale – della quale non ho voluto interrompere il lirismo tutto reazionario, pare De Amicis – c’è tutta l’ambiguità del Metodo Scanzi. Chi parla come un sessista – dando agli uomini del ladro o del corrotto, ma alle donne della pompinara o della preside con la vocetta – non è veramente sessista: ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è sessista. Chi parla come un fascista e dice la cosa più fascista di tutte – non esistono più destra e sinistra – non è veramente fascista: ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è fascista. Chi parla da incompetente e ignorante – parlando di sirene, di chip sottocutanei, complotti informatici – non è incompetente e ignorante:ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è incompetente né ignorante.
Insomma, per fare politica basta il pensiero – ve lo dice Scanzi. In fondo, uno vale uno.
Lo so, è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Quelle come l’articolo che state per leggere sono cose assolutamente di routine sulla stampa (anche online), di questi tempi. Sono facili articoli di costume fatti per avere un facile consenso, acchiappare clic, roba che serve per vendere gli spazi pubblicitari, lavoro di redazione necessario alla testata per campare, tirare avanti, tranquillizzare i finanziatori. Marieclaire è un nome molto noto, ha un target di lettrici molto definito, e quindi come tutte le redazioni storicamente consolidate produce contenuti di sicurezza, assolutamente convenzionali, che rassicurano chi legge circa la sua identità, i suoi valori, il suo status quo. C’è la crisi, bisogna sopravvivere.
Il prodotto editoriale che state per leggere – io non ce la faccio a chiamarlo articolo, e neanche post – vale come esempio di un genere molto diffuso di scrittura, che io non esito a chiamare collaborazionista. E’ una scrittura che ratifica il potere patriarcale esistente, sostenendo una visione del mondo schiacciata sui luoghi comuni sessisti più ovvi e scontati, presentati però in maniera accattivante e “simpatica”. La maniera è quella di una donna che parrebbe stanca di quei meccanismi sociali sessisti di cui parla, e che invece li glorifica sollevando ipocrite risate circa la loro efficacia. Il risultato è quel pensiero non pensato, tipico di quell’esaminatore distratto che è l’ipocrita spettatore/lettore medio, sessista per abitudine più che per convinzione – ma comunque responsabile per quanto di sessista ancora succede. Un pensiero chiamabile tranquillamente pregiudizio.
Complimenti alla blogger, alla testata, al lavoro di redazione.
Capire gli uomini, cinque segreti [Tanto per cominciare, cinque parole e cinque sessismi: 1) capire gli uomini è il compito delle donne 2) servono i segreti, perché di solito le donne non ci arrivano da sole 3) questi segreti sono pochi, perché gli uomini non sono molto complessi come le donne 4) l’esperienza non serve, devi seguire delle regole che saranno infallibili con tutti gli uomini 5) sapute e applicate queste cinque norme, se ancora qualcosa non va il problema sei tu. Oppure è lui che non è un uomo normale.]
«Gestire un uomo è semplice perché ha solo due stimoli: la fame e l’eccitazione. Se vedi che non ha un’erezione, preparagli un panino». [Massima sessista paragonabile solo allo speculare, ma più sintetico, “cazzo e cazzotti” con il quale generazioni di maschioni si sono intesi circa il modo di risolvere i rapporti con l’altro sesso.] Cercando la fonte di questa (geniale) affermazione [non è ironica eh, la ritiene geniale sul serio, vedrete], ho googlato parole inglesi a caso e tra i risultati mi è comparso un titolo che prometteva di risolvere tutti i miei (nostri) problemi in un colpo solo:
Capire gli uomini, cinque segreti. [Dice che l’ha trovato googlando, ma il link non c’è. Sarà un file riservato, una roba da wikileaks? Oppure preferisce non assumersi la responsabilità di ciò che verrà detto? Mah.]
Fatima, fatti da parte. Eccoli.
1. Pensano al sesso in continuazione. [Frase talmente generica che va bene per tutte le ocacsioni. E poi, non sia mai lo faccia una donna, eh.Questo è il primo segreto per capire gli uomini: il moralismo quantitativo. Complimenti.]
Alla faccia del segreto. E lo mette anche al primo posto. C’è da dire, però, che ho sempre sottovalutato la cosa: uno studio del Journal of Sex sostiene che gli uomini abbiano pensieri a sfondo sessuale fino a 388 volte al giorno [un link all’articolo? Una spiegazione sui criteri di conteggio adottati? Ma in fondo siamo su Marieclaire, mica vorrai citare le fonti, no?], contro i dieci miseri pensieri della media femminile [sono solo dieci, quindi sono miseri. Magari lui pensa 388 volte al solito colpo d’inguine, lei s’immagina dieci orge con persone di una dozzina di generi e giocattoli fantasiosi, ma la misera è sempre lei perché 10 è minore di 388. Ma non erano gli uomini ad avere l’ossessione delle misure?]. Calcolatrice alla mano, vuol dire che pensano al sesso ogni due minuti, più o meno, se consideriamo le ore di veglia (e presumiamo di escludere i 90 minuti dedicati alle partite di calcio) [se esistesse un contatore Geiger sensibile alla densità di stereotipi, starebbe sfondando il fondo scala con la lancetta]. Ora mi è chiaro perché alle donne avanza tanto tempo per le pippe mentali – a sfondo sentimentale, e non erotico [eh, mi raccomando, a sfondoerotico mai per carità]. C’è da imparare [sempre perché debba rimanere assodato che le donne non pensano MAI al sesso come erotismo]. (Ma dimezziamogli lo stipendio, a ‘sti porci). [Capito? Se sei un uomo e pensi al sesso sei un porco – un po’ di specismo mettiamocelo, così facciamo tutti contenti – a prescindere dal resto. Quindi se sei una donna e pensi al sesso tante volte quanto un uomo sei una…]
2. Hanno bisogno di spazio.
Cito [da dove continueremo a non saperlo]: «Non è che non abbiano voglia di stare con voi, è che sentono la necessità – a volte (spesso) – di stare da soli. [Gli uomini, eh: le donne no. Le donne sempre in gruppo, mai da sole, le donne sole sono brutte, cattive, anormali.] Diciamo che hanno bisogno di ricaricarsi in solitudine per poter apprezzare la coppia [notate bene: ricaricarsi, perché la coppia li stanca tanto, poverini, è solo una dispersione di energie] (a cui comunque dedicano un sacco di tempo, vedi punto 1). A differenza delle donne, gli uomini non hanno l’impellenza di occupare le domeniche andando per mostre o per negozi: [quindi le donne hanno il gene dello shopping e/o dell’arte e gli uomini no – oh, gli stereotipi sessisti li sta veramente prendendo tutti] stanno bene sul divano, con la televisione accesa, una birra e l’attività fisica di Homer Simpson. [Donne che vi sbracate sul divano a riposare la domenica: siete indegne, siete delle donnacce, siete delle non-donne. In piedi! Allo shopping, al museo!] Questo non presuppone che ci sia alcun problema con voi» [specialmente se portate la birra fresca e non rompete, ndr]. Bòn: facciamo che io i miei spazi li prenderò a tempo debito nella scarpiera. [Eccola, la vendetta della shoppingara: comprarsi scarpe, e tutti i problemi di relazione vanno a posto. Io v’avevo avvertito che i luoghi comuni sessisti c’erano tutti.]
3. Sono ingenui. [Altro aggettivo che può voler dire qualunque cosa, e che serve come scusa per qualsiasi comportamento. E poi: tutti quegli uomini stronzi che ci sono in giro allora sono gay?]
«Se volete che qualcuno vi risponda di no, chiedetelo alla vostra amica se quel vestito vi ingrassa. [Le donne sono false e ipocrite. Altra tacca sulla cintura.] Noi risponderemo la verità, non quello che voi desiderate. Non per altro, ma non abbiamo idea di quale sia la risposta giusta» [Gli uomini sono così, c’hanno tutte le virtù, è semplice, che ci vuole a ricordarselo?].
4. Quello che dicono è quello che pensano. [Quindi quando ti senti presa in giro, donna, è un tuo problema ermeneutico.]
Questo punto va approfondito. A chi non è capitato (quotidianamente?) di cercare un significato diverso o nascosto in una frase detta o scritta da un uomo? [A me. Ah, già: io sono un uomo, io i miei simili li capisco perché ho il pisello. Mica perché mi sforzo di condividere un linguaggio.] Ecco, pare sia inutile. «Non siamo così profondi: quando diciamo qualcosa intendiamo proprio quello, che sia un sì, un no, un niente o un ok. [O per esempio uno “sta’ zitta”, oppure un “t’ammazzo di botte”. Non ci sono significati nascosti, chiaro? Intendiamo proprio quello] Solo e solamente quello, giuro». Mhm, sarà…
5. Non sono perfetti, ma nemmeno da buttare. [Leggi: te li devi tenere così, questo è il segreto. Non ci puoi fare niente, sono ineducabili geneticamente.]
«Se non volete essere paragonate alle bellezze irrealistiche delle riviste, piantatela di paragonarci con gli uomini perfetti che vedete al cinema. Non esistono. Quelle frasi dolci, le infinite attenzioni strappalacrime e i gesti eclatanti con cadenza settimanale sono atteggiamenti photoshoppati almeno quanto il culo delle vostre care modelle». [Già: peccato che entrambe le distorsioni giovino a un sesso solo. Capito il paragone? Una donna con un minimo di raziocinio non farebbe neanche terminare questa frase così violenta, ma qui “il (terribile) karma di una bionda” ha il potere di sdoganare qualunque stronzata. Attenti che adesso c’è la frase assolutoria a effetto.]
Sì, insomma, riassumendo potremmo dire che i grandi classici Disney stanno alle aspettative delle donne quanto i film porno a quelle degli uomini: occhèi. [MA occhèi COSA! Il porno commerciale è una componente fondamentale dell’immaginario medio maschile e ne plasma le aspettative, tanto quanto il classico Disney è una componente fondamentale dell’immaginario mediofemminile, e ne plasma le aspettative: il problema è proprio qui. Sono pietre di paragone prodotte dallo stesso potere patriarcale! Vogliamo parlare di questo? Mentre in media le ragazze sono educate ad aspettarsi il virtuoso principe azzurro per il quale sacrificarsi, i ragazzi si aspettano delle ebeti robot ninfomani che non hanno alcuna pretesa. Questo anche grazie a un’industria editoriale che non fa niente per cambiare questo stato di cose.]
Ah, nel tutto non ho scoperto chi abbia detto quella cosa lì del panino. Se nessuno la reclama finirò per farla mia. [Te la meriti tutta, quella genialità.]
Finisce il 2013, inizia il 2014 e si sa: è tempo di calendari. Quello per la violenza sulle donne “va un casino quest’anno” (cit.). Oh, finalmente si spendono tempo, energie e risorse per mettere in casa di tante persone qualcosa che, per tutto l’anno, ricorderà un’emergenza sociale così importante come la violenza di genere. Ma come si fa a ricordare un tema tanto spinoso per tutto un anno? Vediamo qualche esempio, tra i tantissimi.
Ecco come! Con la fica! D’altronde, si sa: i vecchi metodi sono sempre i migliori.
Divertitevi a cercare altri esempi. Le rappresentazioni, al di là delle parole di circostanza di tutti i professionisti interessati, sono del tutto aderenti ai consueti schemi visivi della fotografia di moda più conformista. Simboli e frasi svuotate di senso, patinature, trucchi ed effetti stancanti, pose e scatti già visti migliaia di volte. In tutti i casi, corpi di donna nelle posizioni e negli abiti preferiti dal machismo pornocommerciale: intimo variopinto, qualche sguardo torvo, strappi e tagli, aderenze, magrezze, frasi a effetto, sorrisi di purezza sotto il fard.
Il motivo di tutto questo è ormai noto, a chi si occupa di questioni di genere: la violenza sulle donne è un brand, e se ne sono accorti tutti, grandi aziende e piccole realtà, fotografi noti e “creativi” in cerca di visibilità. “There is nothing more alluring than a dead girl“, e il risultato lo vedete in quei tre esempi: parole ricopiate e messe in bocca – o sulla foto – senza alcuna cognizione di causa, tanto per decorare la solita posa softpornomainstream che placa la coscienza – e gonfia i corpi cavernosi – del maschio che assiste. A posto così.
A questa meravigliosa convergenza estetica tra softporno commerciale, ipocrisia politica, incoscienza sociale, ignoranza crassa viene dato il nome di “per la violenza sulle donne”; ed è dovuta, ovviamente, al gioco al ribasso tipico del marketing spietato. L’argomento trendy fa abbassare il prezzo e raccoglie i volontari, ed ecco che tutti fanno a gara per intitolare il loro (solito) spaccio di carne umana in lingerie alla “violenza sulle donne”. E’ il prezzo basso a decidere vicinanze ed equivalenze, passando sopra alle più evidenti assurdità.
La tristezza di queste operazioni commerciali è aumentata dal fatto che nessuno dei poteri in gioco viene minimamente messo in questione; in fondo è l’etimologia a ricordarci quel legame originario tra donne, sesso, denaro e potere (il potere di chi l’ha inventato, questo legame) che ormai si esprime nella vita politica, sociale e nel linguaggio di gran parte della nostra bella società. Pensare che la pornografia commerciale sia fatta solo di cazzo, fica, urla finte e grugniti macho è ormai davvero riduttivo, quando non difensivo e forse nostalgico di una felice era dell’incoscienza maschile. E purtroppo oggetti come questi calendari moralizzano ancora di più l’immaginario, evitando, tra le altre cose, di impegnarsi a stravolgere quel porno commerciale che ne avrebbe tanto bisogno.
Invece non c’è alcuna necessità di nascondere questo sfacciato potere maschilista e il suo continuo desiderio di macinare immagini e rappresentazioni di corpi femminili: fa vendere, quindi ben venga. E’ lavoro, occupazione, reddito, visibilità, di che vi lamentate? Zitti tutti e tutte, zerbini e femministe: è il mercato, baby. E il mercato lo sa bene cosa serve per vendere; fatelo il giochino online “Fashion or Porn“, è molto istruttivo. Attenzione, potreste vedere del sesso, mica come nelle immagini dei calendari degli esempi qui sopra. Quelle sono “per la violenza sulle donne”.
Rubo a feminoska:
Questi calendari sono normativi per i corpi, eterodiretti, il ‘mondo donna’ (così viene chiamato da molti addetti ai lavori) fa tendenza, per questo i soliti misogini e misogine lo sfruttano, utilizzando claim che reputano di richiamo, svuotandoli di contenuto, e legandoli al solito bieco sfruttamento dell’immagine femminile eteronormata e machopornizzata. L’operazione è scrivere nuove parole d’ordine sullo stesso vecchio immaginario, ed è fatto in maniera talmente idiota che non ci si chiede nemmeno quali siano le nuove parole d’ordine.
Altre parole, altre immagini e altre fantasie ci sono, eh. Basterebbe informarsi, non farsi prendere in giro e smettere di dare ragione a chi fa soldi speculando sull’immaginario sessista.
Costanza Miriano, nomen omen, continua col suo punto di vista, ed è giusto così: se parliamo di fede, ragionare è inutile. Non ha alcun senso voler “dimostrare” ragionando una fede. Vale per le religioni come per la maggica Roma: io credo ogni anno che possiamo vincere lo scudetto. Io però non sono mica così scemo da pensare di avere perciò ragioni per convincere gli altri, neanche se lo vincessi sempre. Lei invece sì.
Qualunque fede professi, se non sei un fanatico la prima cosa che fai è rispettare le fedi altrui, o anche l’assenza di fede. Se invece la tua la vuoi imporre, o la ritieni superiore alle altre, professi violenza – come tanti tifosi ai quali, in fondo, la fede serve solo per poter esercitare un potere sugli altri, tranquilli di avere ragione a prescindere. E giù botte e retorica della vittima, come tanti fascisti, ultras, e altri noti professatori di fedi.
Pensa che c’ero caduta anche io. Col fatto che da un mesetto rispondo a giornalisti stranieri che mi chiedono “perché sottomessa?” (in molteplici varianti tra cui “cos’è la sottomissione?” e, la più stupida, “chi lava i piatti a casa sua?”), e lo faccio in varie lingue (itagnolo, inglano) con abnegazione e grande padronanza di me, cercando di evitare alterazioni isteriche del tono di voce, mi ero ingenuamente convinta che fosse la parola sottomessa a disturbare nel titolo del mio libro. [Quindi, se qualcuno fa domande a Miriano sulle cose che scrive è perché è disturbato da quello che lei scrive. Un normale o professionale interesse è escluso. Retorica della vittima mode on.]
A far scomodare addirittura la ministra della sanità e delle pari opportunità, Ana Mato, che ha chiesto il ritiro in Spagna del mio libro “Cásate y se sumisa” dal commercio. [Credo che non sia una sola parola, Miriano: è proprio tutto il libro che fa una certa impressione.] A far parlare l’intero parlamento spagnolo (sono contenta di sapere che tutti i problemi più urgenti del paese siano stati finalmente risolti, tanto da poter mettere all’ordine del giorno il libro di una sconosciuta moglie e mamma italiana che scrive lettere alle sue amiche per convincerle a sposarsi: pare che il prossimo tema di discussione sarà la sfumatura delle casacche di Topolino nei fumetti degli anni ’50). [Non sia così modesta, Miriano. A parte che ciascun parlamento è sovrano e parla di quello che vuole, lo deve fare a prescindere dall’urgenza, altrimenti non sarebbe un parlamento. E comunque le casacche di Topolino non hanno lo stesso impatto sociale di una teoria cattolica sul miglior comportamento sociale delle donne.] A farmi finire in vari programmi della BBC (strano, in Italia nessuno si è accorto che un governo stava chiedendo la censura di un’italiana, ma in Inghilterra si sono scandalizzati) [se le interessassero davvero le donne, Miriano, saprebbe che qui in Italia le donne non c’è proprio bisogno di censurarle: le si elimina sistematicamente dall’agone sociale ben prima, non ci arrivano proprio all’onore della censura], tra cui le News Night, in cui mi sono buttata a spregio del pericolo col mio inglese da lesson number two (the book is on the table), tanto per la soddisfazione di citare John Paul the second sul programma di punta della terra anglicana. [So’ le sue soddisfazioni, beata lei.]
Pensavo anche, in un ingenuo attacco di comprensione, che la parola sottomissione potesse avere evocato, in qualche donna più grande e più insicura di me, lo spettro di antichi ricordi di tempi in cui si doveva lottare per affermare la pari dignità tra uomo e donna, [antichi ricordi, certo, adesso è tutto a posto] dignità che oggi nessuna ragazza europea normale sente realmente messa in discussione. [No, nessuna ragazza europea normale a parte le 170 milioni di donne europee che subiscono violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita, come dice quel rapporto Estrela che certo per lei non esiste. E poi Miriano, mi scusi ma glielo devo dire: che schifo quel “normale”.]
Poi ho fatto la scoperta. Ci sono diversi libri in vendita in Spagna con la parola sumisa nel titolo. Per esempio Aprendiendo a ser sumisa, o La formaciòn de la mentalidad sumisa, e molti altri ben più espliciti. [Espliciti, come se la parola ‘sumisa’ in italiano fosse ‘fregna’. Perché usare quell’espliciti, a parte solleticare gli scrupoli dei bigotti in ascolto?] Occhieggiano tranquillamente dagli scaffali delle librerie – e ci mancherebbe – senza che nessuno abbia trovato nulla da ridire. [Embè? Non ha idea di quanti ‘cazzo’ occhieggiano tranquillamente qui in Italia, nella stessa indifferenza generale. IBS mi dà ventuno titoli ancora in commercio, tra cui il recentissimo “Verrà la morte (e avrà il tuo cazzo)”. I titoli sono scelti dal marketing editoriale, non dicono niente. Come anche il suo, Miriano.]
Allora il problema, mi dico, non è quello. Gridano tutti che il mio titolo è offensivo. [Te lo spiego io, Costà: vogliono dire “il tuo libro è offensivo”, si tratta di una figura retorica. Non è solo il titolo, sono pure tutte le altre parole.] Deve essere dunque per forza la parola Casate, sposati. [Certo, come no. E già altre venti righe per fare la vittima.] Strano, perché il ministro che ne chiede la messa al bando per incitazione alla violenza sulle donne è del PPE, partito che una volta fu cattolico, anche se la signora [fare la vittima e fare la carnefice: che classe questo signorauna riga sotto il ministro, complimenti] non avverte la contraddizione di essere titolare di un ministero responsabile di centinaia di migliaia di aborti all’anno [no, non l’avverte, perché è una sua responsabilità solo nella tua visione delle cose] (uccisioni [anche considerarle uccisioni è una tua opinione, discutibile come tutte] almeno presumibilmente anche di bambine: ma quella pare non sia violenza sulle donne [infatti non lo è. Ma adesso s’è capito a che serve gigioneggiare sul titolo: serve a dire le tue cose come fossero verità, senza doverle argomentare]).
Dunque va bene sottomettersi, ma sia ben chiaro, solo sessualmente [a parte che nessuno l’ha detto che è solo sesso, ma a te fa tanto comodo pensarla così che lo dai per scontato, come fosse un gran peccato. Poi ci sarebbe da dire: fosse sesso o altro, l’importante a proposito di censure, cara Miriano, è il consenso, non cosa fai], a un amante [mai a un marito eh, chi sottomette sessualmente è solo un amante, mi raccomando], sottomettersi in cinquanta sfumature a un passante, a chiunque, anche all’idraulico che viene a controllare la caldaia [complimenti anche per l’immaginario erotico da porno commerciale anni ’90]. Libri così non vengono avvertiti come offensivi della dignità della donna [no, perché stiamo parlando – dato che citi le arcinote cinquanta sfumature – di racconti di finzione, non di saggi che vorrebbero insegnare la verità vera]. Proporre invece un atteggiamento interiore [appunto: tu discetti sulla morale, la psicologia e la vita altrui, i romanzi non lo fanno] (per la seicentesima volta: sì, le donne possono lavorare, e no, non sono una casalinga, ma una giornalista tv), una disposizione spirituale di dolcezza, di accoglienza, di obbedienza a un solo marito, sempre allo stesso, a un uomo che sarà pronto a morire, cioè a dare tutto alla sposa senza risparmiare niente [botte comprese?], questo invece viene percepito come offensivo per la dignità femminile [che strano, cosa ci sarà mai di offensivo nel decidere spontaneamente di rendersi schiave di uno pronto a morire? E’ così bello!], ma talmente offensivo da far ravvisare addirittura la possibilità di un reato: istigazione alla violenza sulle donne [sai com’è: sottomettere, dice Treccani, significa “Mettere sotto… far coprire la femmina dal maschio, farla accoppiare… Ridurre all’obbedienza, piegare ai proprî voleri”. Che dici, se c’intitoli un saggio e non un romanzo, chi se la prende con te è troppo permaloso? Secondo me no] (dove? In quale frase, parola, virgola, o retropensiero la violenza viene vagamente incoraggiata, giustificata, scusata, o anche solo nominata, nel mio libro? Dove? [Ovunque, te l’ho detto poco fa, a partire dal titolo. Ma tranquilla, non è reato, non ti preoccupare, è solo collaborazionismo col patriarcato]). Il punto è che la dolcezza femminile disinnesca la parte peggiore dell’uomo, e lo rende nobile [uh, come no. Quindi il femminicidio di media ogni tre giorni è dovuto a una mancanza di dolcezza. Aspetta che me lo segno]. Non ha nulla a che vedere con la violenza, anzi, al contrario. [Notate bene: secondo lei chi contesta il suo libro sostiene che la dolcezza femminile come stile di vita matrimoniale è violenza. “O sei con me o sei contro di me”, non esistono alternative. Tutto chiaro Costà, stai bene così.]
Parliamoci chiaro: è il matrimonio il vero obiettivo della polemica, che continua con sorprendente tenacia da settimane, sulle prime pagine dei giornali e sulla rete, in televisione e in radio. [“Come porto il discorso su quello che me pare a me”, lezione uno. Piaciuta?] E lo scandalo si allarga: i giornalisti ormai chiamano dalla Colombia, dall’Argentina, dal Messico, dalla Francia, dal Belgio, dall’Inghilterra, dalla Russia… [uh come mi piace vantarmi, signora mia…]
Cosa esattamente sconvolge nell’idea del matrimonio? Del matrimonio cristiano, precisamente? [Cristiano? Certo, se ci si vuole difendere è meglio stare dalla parte della maggioranza. Allora dico che la posizione che mi si contesta non è cattolica, ma cristiana. Così se tu la contesti sei per forza non cristiano, oppure un senzadio e senzagesù. Insomma una brutta persona.]
Fondamentalmente l’uomo contemporaneo può accettare tutto tranne l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stesso. [Lei le sue profonde analisi sulla psicologia di massa le spara così, per scienza infusa.] Non può accettare la possibilità che non sia sempre bene seguire le proprie emozioni, inclinazioni – i pensieri quando è già a uno stadio più progredito [grazie del complimento, è molto cristiano dividere le persone in più o meno deficienti] – la propria idea di bene e di male. È tutto lì il punto del cuore dell’uomo, dalla Genesi in giù: sono io che decido cosa è Bene e Male? [E voi che invece pensavate fosse la banca, il vostro capo o la casta: invece no, sei tu che decidi cosa è Bene e Male.]
Il vero nodo della questione è che noi cristiani siamo contenti di obbedire perché sappiamo a chi obbediamo [abbiamo imparato a fare a meno della libertà, capito il trucco? “Dàje, zompa de qua, Serena!” (cit.)]: abbiamo conosciuto, davvero, personalmente, un pastore buono, un pastore che pasce gli agnelli e non i lupi [poveri lupi, sempre ‘na brutta fine fanno, mannaggia a Walt Disney]. È per questo che ci piace ascoltare la voce del pastore [non fate i maliziosi, c’è scritto pastore e non padrone], non perché siamo repressi, ma perché siamo furbi [che bello: Miriano ci insegna come essere furbi. Molto cristiano anche questo, sì]. Abbiamo capito che quello è il meglio, che ci conviene seguirlo, perché lui è l’autore dell’universo, del dna, della fisica, dei movimenti degli astri. [Mi sa che avevate ragione, allora: è proprio il padrone.] Figuriamoci se non sa come funzioniamo noi, suoi figli (che invece non solo non abbiamo idea di come funzioni l’universo, ma abbiamo problemi anche col tostapane. E con l’uomo, mistero a se stesso). [L’uomo anche nel senso della donna eh, come nelle migliori tradizioni cristiane: e che stiamo a sprecare due parole? Quando dico uomo intendo pure la donna, ovvio. Lei viene da ‘na costola di lui, ma sono uguali.] Io capisco dunque l’odio che suscitiamo noi cristiani, [a me fai solo ridere, non so se vale lo stesso] stoltezza di fronte al mondo: è un mondo che non sa quanto è buono il Padre, e quindi lo vuole uccidere (lo ha idealmente accoppato già da tempo). Se togli l’amore di Dio, obbedire, sottomettersi, la croce, nulla di tutto questo ha senso. [Non dire se togli come se fosse assodato che già ci sia, e io lo debba togliere. E’ assodato – non ci sono solo i cristiani al mondo, eh, né ci sono stati da sempre – che ‘sto amore di Dio ce l’ha messo qualcuno e in un momento preciso, e non è che prima l’uomo il senso della vita non ce l’avesse. Ma no, certe cose meglio fare finta che non esistano, o che siano frutto di odio. Molto comodo, così.]
Qualsiasi cosa, anche morire (il mio secondo libro, Sposala e muori per lei, non ha fatto fremere di sdegno mezzo labbro) [e ti credo, erano tutt* impegnat* a fare scongiuri – a parte gli scherzi, è molto utile un libro che ratifica l’immagine di uomo monogamico fedele fino alla morte; chissà chi sono i nove milioni di clienti italiani della prostituzione?] può essere accettata. Ma obbedire a qualcuno che non sia me stesso, quello no. Non si può tollerare. [Ormai ha preso il via, adesso il problema sono quelli che non vogliono obbedire al suo stesso dio. Che in sostanza è pure vero eh, ma allora scrivi su questo e non menartela col tuo libro, Miriano, su.]
Eppure per noi quello è il primo comandamento: ascolta, Israele. Non fidarti di te. Ascolta una voce che non provenga da te stesso. [Ma non era “Io sono il Signore… non avrai altro dio…”, no? Boh] Sappi che il tuo cuore, ferito dal peccato originale, a volte è inaffidabile. Ascolta uno che ti ama e che spinge dalla tua parte più ancora di te stesso [EH?], che ti ama come un figlio unico. [Ma non dovevo amare il prossimo come me stesso? Ma non eravamo tutt* fratelli e sorelle? Adesso siamo figli unici? “Poi dice che uno si butta a sinistra” (cit.)]
Per questo la Chiesa propone agli uomini impegni definitivi che lo custodiscano da se stesso. [Capisco l’emozione, ma se come impegno definitivo intanto prendiamo quello di rispettare la grammatica?] “Il matrimonio cristiano – scrive per esempio papa Francesco nella Evangelii gaudium – supera il livello dell’emotività. Il matrimonio non nasce dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto”. Per noi cristiani il matrimonio è una via di conversione, un laboratorio in cui l’uomo e la donna affrontano i loro peccati – o, laicamente, i difetti – principali: il desiderio di controllo femminile e l’egoismo maschile, esattamente ciò di cui parla san Paolo. [Aspetta, ferm* tutt*: il matrimonio quindi è la promessa reciproca di un uomo e una donna che, al di là dei sentimenti (che non gliene frega niente a nessuno), dicono lei “prometto di non controllarlo” e lui “prometto di interessarmi anche a lei”, entrambi per sempre. E uno dovrebbe prenderli sul serio.]
Ma l’uomo contemporaneo, che ha dimenticato la visione giudaico cristiana della storia come lineare e non ciclica [EH?], è un bambino tutto emotività, assolutizza il comfort [questo sembra lo slogan di una casa automobilistica], il soddisfacimento dei propri bisogni immediati e superficiali, impedendosi di capire quelli più profondi. [Altra tesi che lei sa perché la sa, punto.] Impedendo per esempio alle donne di riconoscere che quello che le realizza profondamente è dare la vita per qualcuno, e darla facendo spazio, mettendo da parte la mania di controllo per affidarsi a un uomo solido e sicuro [Capito? Quello che realizza le donne è abdicare dalla propria autodeterminazione per affidarla a un uomo – no, non è istigazione alla violenza di genere, no, è proprio la rinuncia a vivere decentemente, tutto qui], riconoscendone la bellezza, rivelandola anche a lui stesso. [L’uomo cioè è bello ma non lo sa, finché una donna non gli dice: comandami in tutto e per tutto e lo scoprirai. Fichissimo, se sei un uomo.] L’uomo viene così restituito a se stesso – Dio affida l’umanità alla donna, scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem – e può così scoprire la bellezza di dare la sua vita per la sposa, morendo per lei, [ecco, lo sapevo che c’era la fregatura] seppur giorno dopo giorno, a fettine, [a dadini no? Per forza a fettine? E invece tutto intero, nella retina, tipo arrosto?] salvando il mondo una pratica alla volta. [Una pratica alla volta, da bravo impiegato. Cioè, questa sarebbe la narrazione che ha dato tanto scandalo? In effetti la censura è eccessiva. Questa roba va letta ad alta voce, tutt* insieme, in una serata spensierata con gli amici, per farsi quattro risate.]
La cultura dominante [che non è quella cristiana, quella patriarcale, no no, viviamo in un mondo dominato dai gay, e dalla loro ideologia totalitaria, sappiatelo] tenta in tutti i modi di abbattere il recinto del tempio della trasmissione della vita, [niente male la metafora, eh? Il recinto del tempio della trasmissione della vita, e tanti saluti alla retorica] e di tagliare tutti i vincoli che appunto legano il sesso all’unione indissolubile tra due anime che cercano per tutta una vita di diventare una sola carne (in unam carnem, moto a luogo) [tiè, pure l’analisi logica ci regala Miriano, pur di convincervi che il sesso per divertirsi non si fa, no no no]. È questo che dicono i loro corpi e questo dicono – con i loro corpi fatti di geni e cellule impastati inscindibilmente – i figli che nascono da quell’unione. Dicono che l’intimità sessuale è sacra, ed è ciò a cui Dio ha affidato la trasmissione della vita: una visione magnifica e sconvolgente [certo, più la fai strana e meglio è, tanto non dev’essere capita, dev’essere un mistero divino, quindi meglio farlo fitto e incomprensibile]. Può essere sublime o terribile, ma non potrà mai essere neutra, né per l’uomo né per la donna. Mai il sesso potrà dunque essere normalizzato, banalizzato, [ma chi ci pensava? Ma stai sempre a pensare a quello, Miriano? Il problema non era la violenza di genere?] ma avrà sempre a che fare con qualcosa di sconvolgente, con una dedizione che un giorno potrà anche sembrare non corrisponderci più, ma che ha toccato la nostra più profonda essenza.
Un uomo e una donna così sono reciprocamente sottomessi solo al loro cammino di conversione a Dio, e sono liberi dal pensiero dominante [sì sì, proprio liberi… ma non erano quelli contenti di obbedire? Proprio la definizione dei liberi], dal totem della laicità, [ah, adesso è la laicità a essere un totem, interessante] sono liberi e non manipolabili, e questo non è tollerabile dal pensiero unico. [Pensiero unico che non sarebbe il sostenere “noi cristiani siamo contenti di obbedire perché sappiamo a chi obbediamo mentre tutt* gli/le altr* non accettano l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stessi”. Questa sarebbe tolleranza. Ma vaffanculo va’. ]
È per questo che noi cristiani veniamo censurati [ma da chi? Ma dove? L’hanno fatto? No, mai]. È per questo che in Francia ogni giorno decine di ragazzi finiscono in carcere nel silenzio generale, perché hanno indossato una maglietta con l’immagine di una famiglia, o perché hanno recitato il rosario fuori da una clinica dove si uccidono i bambini nel posto più sicuro del mondo, sotto al cuore della loro mamma. [Complimenti per il tollerante trattamento della questione aborto.] È per questo che le persecuzioni e le uccisioni dei cristiani nel mondo vengono sistematicamente taciute. [Non è vero che vengono taciute, e poi non stavamo parlando di censura, di libri, di idee? Abbiamo bisogno di tirare fuori i morti, Miriano? Ancora complimenti.] È per questo che chi si oppone alle teorie del gender in alcuni paesi rischia il posto di lavoro, [AHAHAHAHAHAHAHAH, questa è la migliore] (forse leggendo l’incredibile decalogo che l’UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità vorrebbe imporre ai giornalisti, anche noi: esempio, dire “utero in affitto” sarà discriminatorio, occorrerà dire “gestazione di sostegno”) anche se le teorie di genere sono appunto teorie, e quindi andrebbero dimostrate, e comunque non imposte con la forza [nessuno le impone con la forza, Miriano, non faccia della retorica inutile non suffragata da fatti. I fatti sono che le teorie antirazziste sono state dimostrate da parecchio, quindi cosa vuole? Un teorema che le dimostri che non si deve discriminare? Forse non è un precetto cristiano? Un comandamento? Per non discriminare lei ha bisogno della dimostrazione geometrica? Ancora e sempre complimenti, e meno male che gli egoisti sono gli altri]. È per questo che una giornalista norvegese, neanche particolarmente fervente, è stata rimossa dalla conduzione del tg perché indossava una croce di due centimetri al collo. [Sa, ci sono dei paesi dove il rispetto per le altre religioni e per la libertà e la laicità dell’informazione sono cose serie.]
Noi cristiani invece non censuriamo. [Adesso, forse; ma fino a ieri sì. L’indice dei libri proibiti l’ha creato la chiesa cattolica, e dal 1558 al 1966 fanno 408 anni di censure. Per poi sostiutirlo con qualcosa di più “politically correct”, no? Lo stesso atteggiamento che imputate all’UNAR, che è un pochino più recente e meno potente.] Noi viviamo in una casa bella, pulita, divertente, libera, dove si respira una buona aria. [Noi cristiani, gli altri no. Ma noi non censuriamo, discriminiamo direttamente.] Dove tutto, persino il dolore, ha un senso. Noi se vediamo qualcuno che abita in un posto brutto sporco e triste [tutt* gli/le altr* che non sono cristiani, ndr] non è che ci arrabbiamo, casomai ci dispiace per lui. [Però, che carini.] Al limite [ma al limite, eh] lo invitiamo a casa nostra, per fargli vedere come si sta bene vivendo senza idoli, [quelli degli altri sono idoli, ma noi non censuriamo, no no] quando tutto sta al proprio posto. E se proprio siamo parecchio avanti nel cammino, ci offriamo anche di andare a casa dell’amico, a mettere a posto insieme a lui [noi cristiani non censuriamo, andiamo a casa altrui a mettere le cose a posto. Ricordate le Crociate?] (non guardate me, io ho già i miei, di calzini da raccogliere, con dodici piedi in giro per casa). [Lei c’ha da fare, è sottomessa.]
Prometto che qui non scriverò più nulla riguardo Costanza Miriano e il suo blog. Mi pare più che sufficiente quanto detto finora, nei secoli dei secoli. Amen.
“I/Le sex worker si trovano spesso di fronte a preconcetti radicati, per via dei quali se non divulghiamo le nostre storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut* da molte persone appartenenti al movimento femminista. E’ ora di finirla, perché non vogliamo mettere in scena il nostro ‘porno tragico’ a vostro beneficio”, scrive Elena Jeffreys.
Discorso tenuto da Elena Jeffreys, Presidente Nazionale di Scarlet Alliance, alla conferenza Feminist Future organizzata a Melbourne, Australia, il 28-29 maggio 2011, nell’ambito della discussione “L’importanza del femminismo”.
Scarlet Alliance è un’associazione di rilevanza nazionale formata da sex worker e organizzazioni di sex worker australian*, aperta alla partecipazione di tutt* i/le sex worker, passat* e presenti. Scarlet Alliance incarna oltre due decenni di storia di organizzazione formale tra pari in Australia, ed è formata da diversi collettivi di sex worker in tutto il paese.
Questi collettivi sono attivi nel campo della sensibilizzazione, sviluppo di comunità, promozione della salute, prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e HIV, sostegno alle persone colpite dalle politiche anti-traffico , sostegno per quanto riguarda rapporti di lavoro, giustizia economica e finanziaria, diritto alla casa, assistenza sociale, rinvii giudiziari e di polizia, salute e politica dei diritti umani – oltre 20.000 occasioni di erogazione di servizi diretti a sex worker in Australia ogni anno – e sono parte dell’associazione al fine di garantire che tutte queste informazioni si trasformino in potenti messaggi di rappresentanza a livello nazionale. In occasioni come questa.
Prendiamo molto seriamente la nostra attività di informazione, organizzazione, attivismo e politica da/per sex worker. Non è per noi uno scherzo. Non è indulgenza accademica. L’attivismo delle/i sex worker non è un percorso volto alla carriera. E’ volontariato: nessuno ci paga per essere qui. Non siamo qui per promuovere le nostre carriere e non stiamo cercando di riabilitare lo stigma che sopportiamo nella nostra vita di sex worker o di professionalizzare il nostro curriculum facendo attivismo.
L’attivismo non è una scusa per evadere dalla discriminazione che affrontiamo giorno dopo giorno in quanto sex worker. Il nostro attivismo per i/le sex worker potrebbe anche essere chiamato organizzazione del lavoro, perché senza di esso non avremmo alcun diritto. Tutto quanto le/i sex worker hanno ottenuto in termini di condizioni di lavoro, dignità, salute e accesso ai servizi, lo abbiamo ottenuto perché abbiamo lottato per noi stess*.
Credete a ciò che dico?
Ho la responsabilità, in quanto Presidente Nazionale della Australian Sex Workers Association, di comunicarvi il messaggio politico delle/dei sex worker.
Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.
Non date per scontato nulla delle/i sex worker che incontrerete alla conferenza di Scarlet Alliance questo fine settimana. Non date per scontato nulla sulle/i sex worker incontrat* su Facebook , nei media, e che si dedicano all’attivismo. Non date per scontato che non siamo stat* vittime di violenza, discriminazione, allontanamento dalla famiglia, abuso, violenza, pessime condizioni di lavoro, violenza domestica, povertà, corruzione della polizia o criminalità. Siamo persone, come voi, che hanno affrontato tutto ciò che nel corso di una vita affronta qualsiasi individuo. Ma, in quanto sex worker, affrontiamo anche preconcetti radicati, il che significa che se non condividiamo con voi le storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut*.
Questo è ciò che noi chiamiamo il “porno tragico”: un desiderio, nel movimento femminista, di ascoltare storie tragiche di disagio delle/i sex worker, e quando non lo accontentiamo, ci troviamo ad affrontare l’accusa di nascondere la “verità” sul sex work. Ad esempio, quando parliamo dell’assenza di incidenti relativi alla questione del traffico nell’industria del sesso, siamo accusat* di non riconoscere le condizioni di vita delle/i sex worker migranti. O quando presentiamo statistiche reali sul consumo di droga nell’industria del sesso, ci viene detto che stiamo ignorando o mentendo sul consumo di droga nel lavoro sessuale. Ci si aspetta che ‘mettiamo in scena’ una pornotragedia stereotipata per il pubblico delle femministe, e quando non ci stiamo, non veniamo prese sul serio.
Beh, sto per dirvi qualcosa che potreste non aver preso in considerazione. Non vogliamo recitare per voi.
Non dovremmo usare occasioni come questa come forma pubblica di counselling, o momento di sfogo per le difficoltà della nostra vita, allo scopo di convincervi quando diciamo che esigiamo i nostri diritti umani.
E non vogliamo che la comunità femminista si aspetti, ricompensi, o applauda una persona quando si lascia andare a descrivere tutte le esperienze negative che ha sopportato nella propria vita. Le persone che hanno realmente bisogno di counselling e sostegno per elaborare i propri traumi esistenziali non sono tenute a mostrarveli al fine di accedere ai diritti umani di base, assistenza o giustizia.
Se non credete a ciò che vi diciamo solo perché non vi mostriamo le nostre tragedie, allora siete parte di un circo malato, nel quale le/i sex worker rappresentano una forma di intrattenimento non consensuale.
Le/i sex worker non sono qui per questo. Siamo qui per sostenere la nostra battaglia, e chi non riesce a capirlo si è spostato qui accanto, perché non vogliono vederci vivere la nostra vita traboccanti di forza. [NB: la conferenza Feminist Futures si era divisa sull’argomento: Sheila Jeffreys e altre femministe radicali avevano affittato uno spazio per proseguire con quella che chiamavano la “vera” conferenza femminista, in segno di protesta contro le/gli attivist* pro sex work /pro trans invitat* all’ultimo momento].
Dunque, perché un gruppo di femministe si sente minacciato a tal punto dalle/i sex worker che affrontano energicamente le proprie vite? Beh, la risposta più semplice è che i/le ‘salvator*’ aumentano il proprio prestigio rendendo noi vittime e loro stess* salvator*. Non è una novità, è un fenomeno noto a partire dalla metà del XIX secolo, ai tempi rappresentò la via attraverso la quale molte donne di classe media sfuggirono dalla casa per entrare a far parte della vita pubblica nelle democrazie occidentali, tra cui anche l’Australia. Senza le Puttane Maledette non vi era alcuna necessità della Polizia Divina – le femministe che affermavano di essere la salvezza delle/i sex worker trovarono la fama, vennero celebrate, influenzarono le politiche ed ebbero voce in capitolo in Australia nel corso degli ultimi due secoli. A nostre spese.
Quell* tra voi impegnat* nelle organizzazioni della ‘salvezza’ , devono ammettere che a ‘salvare’ si ottiene privilegio. Posizionandosi nel ruolo di chi aiuta le/gli altr* si ottiene un ruolo nella società, che senza ‘vittime’ semplicemente non esisterebbe.
Questo è il motivo per il quale Scarlet Alliance sostiene una forma di educazione tra pari nel campo del sex work. Un approccio critico che vede le/ i sex worker sostenersi reciprocamente e autonomamente. Questo è il motivo per il quale sosteniamo le organizzazioni delle/i sex worker. Organizzandoci in maniera critica per noi stess*.
Questo è il motivo per cui non reciteremo la ‘nostra tragedia’ per voi. Perché per vivere la nostra vita con forza, è necessario che ci accettiate al nostro meglio. Vogliamo che il movimento femminista la smetta di punirci per la nostra forza, gratificarci per il nostro dolore, guadagnare privilegio alle spalle delle nostre esigenze, e vogliamo che ci ascolti quando parliamo. Noi continueremo ad alzare la voce per i nostri diritti e voi dovrete ascoltarci.
Perché chi nega la nostra esperienza , nega la nostra esistenza. Combattiamo già pessime leggi, non abbiamo anche bisogno di combattere metà della comunità femminista australiana.
Elena Jeffreys è Presidente di Scarlet Alliance. Articolo originale qui.
Direttamente dal sito cortedicassazione.it, leggiamo che le funzioni della Corte di Cassazione italiana sono così definite:
In Italia la Corte Suprema di Cassazione è al vertice della giurisdizione ordinaria; tra le principali funzioni che le sono attribuite dalla legge fondamentale sull’ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 (art. 65) vi è quella di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Una delle caratteristiche fondamentali della sua missione essenzialmente nomofilattica ed unificatrice, finalizzata ad assicurare la certezza nell’interpretazione della legge (oltre ad emettere sentenze di terzo grado) è costituita dal fatto che, in linea di principio, le disposizioni in vigore non consentono alla Corte di Cassazione di conoscere dei fatti di una causa salvo quando essi risultino dagli atti già acquisiti nel procedimento nelle fasi che precedono il processo e soltanto nella misura in cui sia necessario conoscerli per valutare i rimedi che la legge permette di utilizzare per motivare un ricorso presso la Corte stessa.
Cosa vuol dire “funzione nomofilattica”? Sostanzialmente due cose, come si dice in questa circolare:
– la Cassazione deve “garantire l’attuazione della legge nel caso concreto”;
– la Cassazione deve “fornire indirizzi interpretativi ‘uniformi’ per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza”.
Alla Corte di Cassazione possono ricorrere tutti i cittadini, contro i provvedimenti di un giudice in appello o in grado unico, secondo vari motivi (violazione di diritti, errori procedurali, mancanze insufficienze o contraddizioni nella motivazione della sentenze, e altri). Quindi
quando la Corte rileva uno dei vizi summenzionati, ha il potere-dovere non soltanto di cassare la decisione del giudice del grado inferiore, ma anche di enunciare il principio di diritto che il provvedimento impugnato dovrà osservare: principio cui anche il giudice del rinvio non potrà fare a meno di conformarsi quando procederà al riesame dei fatti relativi alla causa.
Quindi la Cassazione “è un giudice di legittimità chiamato a verificare che nei processi precedenti le leggi siano state applicate correttamente e che tutto si sia svolto secondo le regole. Per farla ancora più semplice, non deve mettersi a riesaminare le prove e sentire i testimoni; ma solo studiare le carte e ascoltare quanto pubblici ministeri e avvocati della difesa hanno da dire a riguardo. Dopodiché, si decide” (fonte Polisblog).
Fin qui è tutto chiaro. Quando però leggo un titolo come
è chiaro che il compito della Cassazione ha anche – inevitabilmente – un grosso peso culturale. Quando leggo anche che “comunque non può essere considerato futile un motivo fondato sull’onore della famiglia e sulla violazione del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persona di fede diversa”, mi sembra ovvio che la Cassazione, con le sue decisioni, non fa solo giurisprudenza, ma anche cultura. E come tutti i fenomeni culturali, se non è adeguatamente comunicato e divulgato, è facilissimo strumentalizzarlo. Guardate questa stessa notizia, e queste stesse parole, come sono usate da AGI, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Il Giornale.
Ma la storia della Cassazione sui quotidiani è lunga, soprattutto quando l’argomento delle sue decisioni riguarda questioni di genere – o, come preferisce il medio pensiero italiano, “la morale”. Ecco qualche esempio di come i quotidiani usano comunicare il lavoro della Cassazione:
sembrerebbe così che la Cassazione ce l’abbia proprio con le donne, e sia un covo di maschilisti incalliti e tronfi del loro supremo potere. Però ci sono anche questi titoli, da aggiungere:
Io credo che molto dipenda – e non è l’unico caso, quando si tratta di questioni di genere – da come i mezzi d’informazione decidono di dare le notizie. Perché la Cassazione tutto è tranne una cosa facile da gestire e semplice nelle sue espressioni, quindi è facilissimo sparare titoli sulle sue decisioni (sentenze e motivazioni) che con la volontà di riassumere e sintetizzare quanto a lungo motivato e scritto, finiscono col far dire alla Cassazione quello che non ha detto; e in più, non fanno capire perché lo ha detto.
Riguardo per esempio il caso di Catanzaro – il sessantenne e l’undicenne e il loro “amore” – la Cassazione ha detto che la Corte d’Appello ha scritto male le motivazioni della sua sentenza, cioè ha fatto male il suo lavoro (come spiega un penalista qui). Ci tengo a dirlo esplicitamente: io non difendo la Cassazione (non lo fa neanche il penalista in quel sito), soprattutto perché la cosa da difendere qui non è l’istituzione, ma la mia intelligenza. Nello spiegare in cosa la Corte d’Appello ha sbagliato, la Cassazione afferma che non si è tenuto conto dell’amore esistente tra un 60enne e una 11enne per determinare pene e attenuanti.
Spero di riuscire a spiegarmi bene. Le leggi, le sentenze e le motivazioni delle varie corti giudicanti hanno eccome un impatto sulla “cultura” pubblica e civile, ma non certo nei modi in cui vengono trattate nella maggior parte dei mezzi d’informazione. I quali, quando a loro fa comodo in termini di “choc” sul pubblico, ben si guardano invece dall’essere così sensibili alle decisioni di giudici e legislatori, anche al di là della Cassazione.
Il caso emblematico più noto, e ormai storico, riguarda come è stato ed è trattato dai media il “delitto d’onore“. Con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate; e da allora è fiorita in tutti i mezzi di comunicazione, e poi nel linguaggio comune, l’espressione “delitto passionale”, che ha ripreso in tutto e per tutto lo spazio semantico di quella denominazione uscita dai codici, ma non dalla cultura. E lì non c’è stato alcun intervento della corte suprema; la legge ha sancito la fine (meglio: l’auspicabile inizio della fine) di una cultura sessista, ma la comunicazione pubblica continua a tenerla in vita, con altre espressioni.
La sentenza e le motivazioni della Cassazione a proposito dell’operato della Corte d’Appello sulla vicenda della bambina di Catanzaro (potete rileggerle qui) sono certamente, anche tenendo conto della loro “esattezza” tecnica, quanto meno discutibili nel loro linguaggio; e altrettanto certamente sono condannabili nella loro manifesta irresponsabilità verso il pubblico che le legge, e nei confronti di ciò che indirettamente descrivono come plausibile fatto sociale (l’amore tra un 60enne e una 11enne). Ma queste, oltre a faccende di procedura penale, sono soprattutto questioni culturali e di comunicazione, sulle quali nessuna suprema corte ha giurisdizione. Rimane il fatto, conclamato anche in questo caso, che nessuno di quelli che ne avrebbe il potere e la competenza si è assunto il compito di spiegare che i linguaggi delle sentenze e delle motivazioni sono il riflesso di una cultura dominante eanche lo strumento con il quale la si continua a imporre. E’ la cultura – patriarcale, paternalista, “morale” – che fa dire a un organo supremo dello Stato che sono stati trascurati, nella sentenza d’Appello, “gli ulteriori e attenuativi aspetti della vicenda prospettati dalla difesa, quali il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza“. Non c’è più bisogno di capire se chi parla è o no un supremo organo di giudizio dello Stato, e se si esprime “tecnicamente” o meno: questo è il frutto di una cultura priva delle minime basi che riguardano le questioni di genere. E nessuno lo dice, né lo scrive, su quegli stessi strumenti d’informazione che raccolgono insulti, urli, falsità, calunnie – ma quasi mai critiche fondate. Perché? Quando ci occuperemo – quando mai la maggior parte di giornalisti e giornaliste si occuperanno – per esempio del fatto che il supremo tribunale del nostro paese fa giurisprudenza parlando come un qualunque irresponsabile sessista?
Giustamente, il blog #OgniBambinaSonoIo dice: “in particolare vigileremo affinché la Corte di Appello di Catanzaro, cui oggi spetta il compito di decidere, nomini la violenza e affermi con chiarezza un principio di giustizia per questa bambina, ma anche per tutte lealtre“. Nominare la violenza è esattamente quello che ancora i mezzi d’informazione ben si guardano dal fare. Della cultura che in questo modo continuano a costruire e perpetuare, gli effetti si vedono pure nelle parole usate dai più alti gradi di giudizio.