Ignoranza di genere #2

poracci

Diciamocelo: la recente manifestazione reazionaria e razzista messa in scena in Piazza San Giovanni a Roma, ironicamente chiamata dai diabolici organizzatori Family day, ha avuto l’indiscusso merito di far venire alla luce – non ce n’era gran bisogno, ma pazienza – un nutrito gruppo di intellettualoni capaci di sparare ciclopiche sciocchezze. Su cosa? Ma sui grandi sconosciuti della cultura italiana: gli studi di genere.

Visto che non vogliamo far torto a nessun*, rispetto alla prima puntata di “Ignoranza di genere” stavolta saranno perlopiù gli amici maschietti a tenere la scena, e scelti dal fior fiore degli intellettuali. Prima però d’immergerci nel simpatico clima di quel giorno, permettetemi qualche riga su un gustoso prodromo – tra i tanti sceglibili.

Nei giorni precedenti il famigerato giorno della famiglia c’era stato – vale la pena ricordarlo – il mitico Pietro Citati a dargli di fuffa, sfornando un favoloso articolo a proposito (?) del referendum irlandese sul matrimonio gay. Il suo appello agli omosessuali a “non essere banali” se la batte con qualcuna delle sue tremende quarte di copertina, che hanno gettato nello sconforto più generazioni di lettori. Il talento è quello, perché passare da un’affermazione come

Mentre conquistano i propri diritti, gli omosessuali pretendono di essere come gli altri: ciò che certo non sono

confondendo l’avere (i diritti) con l’essere (gay), a una perla come

I grandi omosessuali hanno un profondo orgoglio del loro ego: talora un disprezzo dei cosiddetti esseri normali, e della loro vita comune.

ci vuole solo la forza visionaria di chi pensa che tutti i gay siano come l’immagine di sé che raccontava Oscar Wilde, non a caso messo in foto. Va bene, direte voi che siete più buoni di me: ma Citati sta sempre lì nei libri, non è che ci possiamo aspettare una grande capacità di conoscere la realtà più quotidiana, o quello che studi sociali raccontano da decenni. Lui si occupa di letteratura. Epperò, dico io, tra le altre amenità è capace di uscirsene con una bella fascistonata tipo questa:

Nel caso degli omosessuali si aggiunge la coscienza della violazione e delle violazioni che essi impongono ai costumi di quella che resta la maggioranza.

Niente male eh? Secondo Citati i gay impongono violazioni ai costumi della maggioranza, cioè sono una minoranza che impone cose ai più: Citati crede, in sostanza, alla “lobby gay” che governa il mondo. Oh: questo è il pensiero di uno chiamato a fare il commento autorevole alla cronaca sul più diffuso quotidiano italiano. E non a caso: un’ammiccamento agli amici del Vaticano lo vogliamo dare? Eccolo:

In quasi ogni omosessuale, c’è qualcosa di demoniaco; ed è la coscienza di quella che molti di loro considerano la propria orgogliosa altezza spirituale.

E via con i gay demoniaci tra fumi di zolfo e zampe caprine, ché se ne vantano pure. Complimenti per l’autorevolezza e la preparazione.

Ma veniamo al giorno fatidico del 21 Giugno. Apre le danze Guido Ceronetti, che non ha voluto far mancare il suo augusto giudizio su Samantha Cristoforetti, chiamando in causa nietepopodimeno che il vecchio Sigmund:

Per un’analisi freudiana si potrà interpretare una donna fluttuante fuori gravità come desiderio soddisfatto di un rapporto incestuoso col padre, senza nozze tragiche, senza esplicazione, irrorazione e amorosa redenzione scenica.

Incestuosa in quanto astronauta donna: però, che profondità di analisi. Tanto Ceronetti aveva già deciso che una così non è neanche donna, ormai:

Di fisiologia ginecologica la sfidante intrepida non avrà certamente avuto più nessuna traccia, fin, credo dalla base, come in un evento patologico.

E insomma questo poeta caricato a cultura misogina è l’intellettualone cui dà spazio Repubblica. E adesso che ci siamo scaldati con gay e donne, passiamo alla famiglia.

Il Fatto Quotidiano vuole sbaragliare la concorrenza in fatto d’ignoranza e intellettualmaschilismo, e molla un pezzo da novanta: Diego Fusaro. Il quale, da vero filosofo, ci tiene a dire che

Non è mio interesse parteggiare per l’uno o per l’altro dei movimenti. Mi interessa, piuttosto, comprendere un ben più profondo fenomeno, che è oggi in atto, e che – ho cercato di argomentarlo nel mio studio Il futuro è nostro (2014) – coincide con la distruzione capitalistica della famiglia.

Questo è il suo pallino, oltre a quello di farsi pubblicità: i movimenti LGBT sono servi del capitalismo, che vuole disfarsi di Hegel per ragioni di vile danaro. Senti qua che roba:

Così, se la “destra del denaro” decide che la famiglia deve essere rimossa in nome della creazione dell’atomistica delle solitudini consumatrici, la “sinistra del costume” giustifica ciò tramite la delegittimazione della famiglia come forma borghese degna di essere abbandonata, silenziando come “omofobo” chiunque osi dissentire.

Capito? Destra e sinistra (che non esistono, ma quando serve sì) collaborano a bollare come omofobo chiunque tenti di difendere – da cosa non è dato sapere – la famiglia come forma borghese. Se non bastasse questa ben ponderata e profonda visione delle cose, c’è a testimoniare la sua preparazione negli studi di genere questa bella frasetta esplicativa:

Chi, ad esempio, si ostini a pensare che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e, ancora, che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre è immediatamente ostracizzato con l’accusa di omofobia.

Ma infatti, perché documentarsi? Meglio seguire le orme storicamente reazionarie, e non ci si sbaglia mai. Segue ammonimento a suon di Orwell. Peccato, un passo di Hegel ci sarebbe stato meglio. Per esempio, che ne so, questo?

L’uomo, quindi, ha la sua vita effettiva, sostanziale nello Stato, nella scienza, ecc. e, in genere, nella lotta e nel travaglio col mondo esterno e con se stesso, sì che egli, soltanto dal suo scindersi, consegue, combattendo, la sua unità autonoma con sé, la cui calma intuizione e la cui eticità soggettiva sensitiva egli ha nella famiglia, nella quale la donna ha la sua destinazione sostanziale, e in questa pietà il suo carattere etico. (Lineamenti di una filosofia del diritto)

Eccola, la famiglia hegeliana tanto amata da Fusaro: l’uomo fa il cittadino e il filosofo, la donna bada alla casa. Eh sì, molto naturale e poco capitalistico. Oh, per inciso, non è che poi i detrattori di Fusaro siano tutti meglio di lui, eh: tal Raffaele Alberto Ventura, citato da Minima&Moralia da molti per perculare Fusaro, è uno che nel suo post più noto in proposito, spara ‘na cosa come

… su Judith Butler e la teoria del gender, marginalissima moda intellettuale non più rilevante del balconing…

cioè chiama Judith Butler, filosofa coi fiocchi da qualche decennio, una moda intellettuale rilevante quanto una idiota moda giovanilistica, e chiama gli studi di genere col nome che gli danno i fanatici cattolici in vena di propaganda e fuffa: teoria del gender. Che sia facile smontare gli argomenti di Fusaro è noto, ma non ci si potrebbe documentare meglio sulle cose che evidentemente non si conoscono? A rifletterci ci sarebbe un problema, a tradurre spensieratamente l’inglese gender: cioè almeno cinquant’anni di studi seri che nel mondo anglosassone, com’è ovvio, hanno cambiato da un pezzo l’uso di quella parola. Se io la spendo qui in Italia senza minimamente avvertire chi legge, sto o no facendo una pessima operazione culturale? Sì, sto facendo una pessima figura – sempre supponendo la buona fede. Se no evidentemente mi fa comodo usare gender e “genere” come sinonimi, come se niente fosse.

Operazione che avrebbe dovuto fare Michela Marzano, la quale scrive con la volontà di fare chiarezza teorica sul problema. Prima di tutto non ci pensa nemmeno per un attimo a fare la cosa che andrebbe fatta sempre e subito cominciando discussioni o articoli su questi temi: dire che la “teoria del gender” non esiste, è un’invenzione fatta per motivi politici e propaganistici che ha autori precisi e noti come i suoi scopi – oppure dire che quella cattolica è una delle tante possibili gender ideology, e che la Chiesa la difende strenuamente spacciandola per verità naturale. Invece usa allegramente quell’espressione come fosse il solito sinonimo spendibile tranquillamente, e poi pensa bene di divulgare cose sostenendo che

C’è chi si è concentrato sugli stereotipi della femminilità e della mascolinità, cercando di mostrare che è da bambini che si introiettano modelli e comportamenti […] (si pensi alle ricerche di Nicole-Claude Mathieu, di Françoise Collin e di Luce Irigaray)

le quali sarebbero le prime a sorprendersi di vedersi attribuiti quegli argomenti. Marzano procede poi nominando un tale Jonathan Katz che è o un comico o il director of the Maryland Cybersecurity Center at the University of Maryland. Probabilmente si voleva riferire a Jackson Katz – ma chi volete che lo conosca, in Italia? Appunto: nessuno e pochi altri. Dopo queste altre approssimazioni, la conclusione è che

Si capisce quindi bene come non esista una, e una sola, “ideologia gender” ma un insieme eterogeneo di posizioni. Alcune più radicali, altre meno. Alcune talvolta eccessive, come certe posizioni queer di Teresa de Lauretis.

Grazie Marzano! Finalmente abbiamo detto non che l’ideologia gender non esiste, pensando al pubblico italiano, ma anzi che ce ne sono tante, pensando a tutto il resto del mondo; e qual è quella eccessiva? Quella delle gerarchie cattoliche, attive fin dagli anni ’90 nella loro propaganda anti LGBTQ? No! L’eccessiva è quella «queer di Teresa de Lauretis» – eccessiva solo per Marzano ovviamente, e non ci viene detto perché, anche se è facile intuirlo dalla citazione evangelica che chiude il pezzo.

Infine il 23, last but not least, arriva Paolo Ercolani (ve lo ricordate? E’ quello che l’otto marzo ha scritto alle donne di «restare donne», annunciando un suo libro in proposito). Il nostro pensa bene, o lui o chi gli fa i titoli, di lanciare un richiamo alla Antonelli appena morta tra i commenti sessisti di moltissimi, chiamando il pezzo “Sesso matto”. I primi complimenti sono per questa scelta di gran gusto. Poi anche lui si lancia a criticare Fusaro, cosa poi non tanto difficile, proprio sulle fonti, sui tanto venerati maestri che i due hanno in comune. Cioè, sulla questione “famiglia” Ercolani pensa bene di difendere Hegel, così:

Nel caso di Hegel la fami­glia deve essere supe­rata da una «società civile» in cui si eser­citi la piena libertà indi­vi­duale, non­ché da uno Stato che non si lascia rego­lare da dogmi ideo­lo­gici e men che mai reli­giosi nell’esecuzione del pro­prio governo e nella pro­mul­ga­zione delle leggi.

La citazione riportata più sopra spiega bene chi sono per Hegel i membri della società civile: solo gli uomini e le donne no. Aggiungiamo un’altra citazione hegeliana che spiega il perché le donne non possono essere cittadine come gli uomini:

Le donne possono, certamente, esser colte, ma non sono fatte per le scienze più elevate, per la filosofia e per certe produzioni dell’arte, che esigono un universale. Le donne possono avere delle trovate, gusto, delicatezza; ma non hanno l’ideale. La differenza tra uomo e donna è quella dell’animale e della pianta; l’animale corrisponde più al carattere dell’uomo, la pianta più a quello della donna; poiché essa è più uno svolgimento quieto, che mantiene a suo principio l’unione indeterminata del sentimento. (Lineamenti di filosofia del diritto)

Tutto ribadito abbondantemente anche nella Fenomenologia dello spirito, come vedremo. Niente male eh? Difendere la famiglia in Hegel contro Fusaro è davvero un’idea geniale. Bravo Ercolani. Il quale poi passa a difendere il caro Marx:

Ma è lo stesso Marx che con­si­de­rava la «fami­glia» come un ele­mento fon­da­tivo di quello stesso sistema capi­ta­listico, tanto da defi­nirla un micro­co­smo in cui si repli­ca­vano gli stessi rap­porti di forza e di sfrut­ta­mento (a danno della donna) tipici del macro­co­smo della società capitalista.

dimenticandosi – lui e per un bel po’ un sacco di pensatori sedicenti marxisti – che due cosette in proposito le aveva scritte anche Engels, che non ci crederete ma era capace di scrivere anche senza l’amico Karl. E scriveva roba così, in un testo intitolato, guarda caso, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato:

Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in un’industria sociale. La cura e la educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle “conseguenze”, la quale oggi costituisce il motivo sociale essenziale – sia morale che economico – che impedisce ad una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato.

Niente male per un testo del 1884, no? E tenendo conto che lui lo aveva già scritto nei Principi del comunismo (1847), e che ovviamente «Aboliamo la famiglia!» era già nel Manifesto – no il giornale dove scrive Ercolani, quello vero del 1848. Peccato che non sia mai stata realizzata, ‘sta cosa, da nessuna rivoluzione; e peccato non esserselo ricordato, apparentemente, né Ercolani né Fusaro (e manco Marx, c’è da dire). Infatti si continua allegramente con cose tipo

I cit­ta­dini, ci inse­gnava quell’Hegel citato a spro­po­sito da Fusaro, non pos­sono essere rico­no­sciuti, giu­di­cati e quindi discri­mi­nati rispetto al loro essere pec­ca­tori agli occhi di una morale specifica.

Peccato essersi dimenticati pure che per Hegel “i cittadini” erano solo quelli di sesso maschile, perché le donne non ce la potevano proprio fare, poverine (oh, se non bastassero i passi citati, c’è la mitica Fenomenologia dello spirito, § A.a. “Il mondo etico, la legge umana e divina, l’uomo e la donna”, in particolare pagine 17 della traduzione di De Negri che trovate qui; l’argomentata critica di Carla Lonzi, invece, è qui). Mi sa che la morale specifica invece c’era, e c’è ancora – anche se gli si dà un nome in inglese.

Siccome così si divertono, i due continuano a duellare a colpi di letture di grandi maestri.

Allora, alla fine abbiamo, pescati a caso in una breve parentesi temporale: Citati, Ceronetti, Marzano, Fusaro, Ercolani. Più o meno titolati, più o meno noti, più o meno professori, critici, scrittori, poeti. Tutti con il loro spazio fisso sui giornali, tutti produttori di numerosi libri – evidentemente ben venduti, se no non glieli stamperebbero – tutti con un largo seguito di pubblico. E quasi tutti, ipocritamente, a parlare di un capitalismo brutto e cattivo. Tutti chiamati a parlare di questioni di genere, e tutti che dimostrano così di saperne solo ciò che gli fa comodo. Quasi nulla. E intanto giù a straparlare di uomini, donne, generi, famiglia, inquinando una cultura già di suo storicamente manchevole proprio di solide basi e capacità di aggiornarsi in questi cruciali argomenti sociali.

Per fortuna, altrove da queste e questi, qualcosa succede.

La stalla sexy

calendario-fromgirls-2012-settembre

Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

Una cultura dello stupro, una cultura del raptus

150302-Non-chiamatelo-raptus_photo2

Lo sappiamo da tempo, e l’ultimo fatto di cronaca non fa che ribadirlo: il raptus è tanto usato perché fa comodo, perché impedisce a un discorso non svolto dalla parte dell’oppressore di genere di svilupparsi. Tutto qui. Quando è lo stupratore a dirsi “vittima” di un raptus, è ovvio che il cerchio patriarcale si è chiuso da un pezzo, per tenere ben chiuso dentro il suo abbraccio dispotico qualunque tentativo di evaderne.

Che il raptus fosse sostanzialmente la parola assolutoria nei casi di violenza lo sappiamo da un pezzo, e a conferma dell’ultimo caso di cronaca ci sono anche le parole della madre del reo confesso, che non giustifica ma spiega – così dice lei – la non mostruosità del figlio: con una serie di abbandoni da parte di donne. Altra vecchia storia: anche se subisce violenza, la donna non è mai innocente; almeno è complice, o in persona o come genere.

Per quanto si voglia spiegare, per quanto si voglia ricostruire, una cultura non si cambia neanche con l’evidenza, perché l’utilità di un costrutto sociale vincerà sempre anche sulla più evidente realtà: finché fa comodo al potere vigente, il raptus continuerà a esistere. Le competenze non contano. Chiunque sia minimamente impegnato professionalmente in questioni psicologiche sa che il raptus è anche questo: «impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti», come dice Treccani. Dico anche perché chiunque, come detto, ha un approccio professionale a questi problemi sa che è una definizione insufficiente, perché il comportamento è iscritto, anche quando appare improvviso, in una rete di pensieri sentimenti e questioni consce e inconsce che ne rende ragione, e perché si arriva a commettere un atto, anche non programmato e improvviso, dopo una serie di eventi psichici collegati tra loro.

Questo vuol dire che l’elemento mediaticamente interessante – e socialmente reazionario – del raptus è proprio quello più discutibile: la sorpresa, la sua parte improvvisa e inopinabile. Il patriarcato imperante tiene soprattutto a questo elemento imprevedibile, e per due ragioni: comunica efficacemente l’impossibilità di fermare la violenza (sulle donne, di genere), e ne comunica quindi anche la supposta “naturalezza”, il suo far parte di una inevitabile “animalità” dell’uomo – generalmente negata, ma poi tirata fuori esclusivamente nella accezione negativa di “bestialità”.

Queste due caratteristiche rendono il raptus spendibile in tanti argomenti della comunicazione di massa. Tutto un mondo si muove per raptus, anche se non è nominato ma solo descritto. È un raptus quello dello sportivo che perde la testa in campo; è un raptus quello del politico che in aula si avventa contro l’oppositore; sono raptus quelli sui quali si costruiscono talk show politici, spacciandoli per approfondimenti; è il raptus a permettere di non avere il minimo senso del ridicolo, arrivando a scrivere per un plurimoicidio-suicidio che «per capire come mai lui possa avere all’improvviso premuto il grilletto, potrebbe rivelarsi determinante il fatto che l’uomo da tempo soffrisse di una grave patologia intestinale»; sono descritti come raptus quei commenti sui social che augurano uno stupro a chi scrive qualcosa di antirazzista. Parentesi assolutoria e spettacolare, il raptus è breve, efficace, scioccante e intimidatorio: insomma, perfetto per tutti i media commerciali.

Per chi prova a riflettere e a far riflettere, per affrontare la complessità dei problemi sociali, non c’è speranza, perché il raptus è troppo allettante per un suo uso strumentale. Non a caso per il raptus di Kabobo non ci si è spesi tanto, ma per Simone Borgese – italiano trentenne e belloccio – la madre sostanzialmente lo scusa e nessuno ha da dire nulla, anzi, sui social si sprecano i commenti alla “povero ragazzo”. Quando una cultura intera lavora affinché i fenomeni siano sempre isolati tra loro, siano sempre episodi slegati e imprevedibili, alimentando sia il panico sociale sia il complottismo più becero (quest’ultimo degno contraltare di un potere sistematico), ecco che stupro e raptus sono felicemente alleati: l’uno è lo strumento e l’altro il comodo racconto per uno stesso odioso potere.

Alla cultura del raptus, cioè alla cultura dello stupro, ci si può opporre, ma non da soli. Altrimenti sembrerà un altro raptus.

A Gentleman’s Guide to Rape Culture

I maschi e la cultura dello stupro che avvelena tutti noi

Che cos’è la rape culture

Rape culture is when…

Deconstructing Aldo Busi e l’egoismo dualista

puzzlecunt_2Se c’è una cosa inutile e dannosa, in tutti i discorsi che si possono fare riguardo i generi e i sessi, è il dividere il campo in due fazioni: si/no, di qua/di là, con me/contro di me, bene/male, giusto/sbagliato, e così via. Per quanto la propria esperienza sia significativa, i propri studi profondi e le proprie intuizioni geniali, tutto ciò non potrà mai essere il metro di giudizio valido universalmente. Mai, perché nessun dualismo proposto come obbligo potrà mai dare conto della diversità di tutt*, e quindi rispettarne l’intoccabile libertà di scelta.
A quanto pare decenni di vita e pratica letteraria non hanno scalfito l’inossidabile egoismo di Aldo Busi. Chissà, forse gli è necessario per edificare la sua opera. Contento lui. Chi lo legge straparlare di corpi altrui, forse è un po’ meno contento.

Il corpo non si (ri)tocca
Al diavolo la chirurgia…

Guai a chi dà retta ai luoghi comuni su generi, ruoli sociali e sessualità
E soprattutto a chi si fa schiavo della holding della medicina plastica
[solo io leggo, già nel titolo, la volontà di mettere insieme discorsi che andrebbero ben separati e circostanziati? Cominciamo bene…]

Sarà che per me ogni persona umana è preziosa e bella e brutta e maschio e femmina e bianca e nera e colta e incolta per quel che è per come e dove nasce e, soprattutto, per quel che sente [tenete bene a mente questo inizio: per lui ogni persona umana è preziosa soprattutto per quel che sente, lo abbrevio con OPUEPSPQUCS] che non capirò mai perché si debba mettere una maschera industrialseriale a una faccia originale [perché sono affari suoi? Così, la butto là. Intanto, segnatevi la prima coppia: originale vs industrailseriale].

Per esempio, menomare il corpo con i tatuaggi [MENOMARE? Un tatuaggio è una menomazione? Ma è chiaro che significa, in italiano, menomare?] se non sei un Maori o un ergastolano con molto tempo libero da occupare, il piercing se non sei un Pirata dei Mari del Sud o la scarificazione se non sei un indiano Cherokee, con due seni femminili e addirittura una vagina se sei nato maschio [SCUSA? Tatuarsi equivale, o comunque è paragonabile, a cambiare sesso?], con un trapianto di fallo se sei nata femmina; non capirò mai che cosa significhi «sentirsi donna in un corpo di uomo» e viceversa [e chissenefrega se non lo capisci, il mondo è pieno di cose che non capisci che hanno tutto il diritto di starci e di non subire la definizione di menomazioni da te], e sono sicuro che chi dice di sé una tale enormità sta non solo sentendo ma anche pensando all’ingrosso e che, anzi, sia sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Invece di dare ascolto a se stesso, questa crisalide in divenire farfalla… e subito dopo blatta… [blatta è sicuramente un complimento per Busi, perché per lui OPUEPSPQUCS, ricordate?] dà retta ai luoghi comuni sui generi e sui ruoli sociali e sulla sessualità fino a lasciarsene invischiare e a voler modificare il proprio corpo per adeguarvisi [e se anche fosse tutto ciò non sarebbe affatto una menomazione, a casa mia, al massimo grave stupidità], guida al transito verso la mendace metamorfosi e salatissima operazione che, come la chirurgia plastica, sono diventate una vera e propria holding [e perché le distorsioni del mercato definirebbero l’essenza dell’operazione? Se invece di una holding fosse un “artigiano” a fare l’operazione, cambierebbe qualcosa? Aggiungiamo la coppia holding vs “fatto in casa”] che pochi osano sfidare e deridere e la presente considerazione [oddìo, Aldo Busi ci legge] non è una trovata del momento sulla scia di un movimento di opinione atto a porre dei limiti all’intraprendenza umana in fatto di genetica, lo scrivo da trent’anni (l’albina e insospettabile Geneviève d’Orian di Seminario sulla gioventù per darsi un’aria più muliebre si sarà fatta al massimo una tisana al Dente di cane, mai e poi mai un estrogeno) [anche trent’anni fa ci sarebbe sembrata una scemenza transfobica eh, la sostanza non cambia].

Ti senti donna e hai un pene? Ma lasciati crescere i capelli e portali pure con l’onda alla Doris Day o rapati a metà cranio e vestiti da donna (?) se ti va o non ne puoi fare a meno, ma intanto lascia stare il pene dov’è e sappi che la donna piatta, praticamente piatta quanto un uomo e l’uomo che ti ritrovi a essere, piace quanto una donna, ma meglio se donna all’origine, che porta la sesta di reggipetto [“meglio”: l’insindacabile unità di misura di Busi è il suo, di pene. Almeno dicesse perché, mentre vi ricordo che per lui OPUEPSPQUCS]. Ti stufi di sentirti donna e poi di non poter praticare nemmeno la masturbazione femminile? O ti stufi piuttosto di essere fatta sentire nient’altro che una chimera che invecchia e perde i pezzi e ritrova i peli? [Non sono un esperto eh, ma chi vive la condizione di non trovarsi a suo agio nel corpo nel quale è nato mi pare che si possa definire un pochino più che stufo. Giusto un tantinello più.] Tagliati i capelli, ora all’annegata per appuntire l’ovale ormai con una pappagorgia di troppo, anche se resta ancora il miglior ritrovato per camuffare l’impiallabile pomo d’Adamo [ah ah ah, che spiritoso sui corpi e sulle sensazioni altrui – però ricordiamoci che per lui OPUEPSPQUCS], alle minigonne sostituisci i pantaloni e al tacco tredici dei mocassini con la para e non è successo niente di niente a parte il beneficio per il tuo portafoglio [e non è successo niente, perché Busi ha il monopolio di ciò che provano gli altri, e lui può permettersi batuttacce sui tacchi mentre taccia il pensiero altrui di essere sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Complimenti vivissimi].

Perché la grande menzogna che ho sentito dire da tutti gli uomini operati è proprio questa: «L’ho fatto per piacere a me stessa». No, a me non la raccontate: l’avete fatto per piacere agli uomini e ai loro cliché sessisti; l’avete fatto per ovviare alla vostra omosessualità come altri vi ovviano entrando in seminario o nell’esercito [non mi pare proprio la stessa cosa, eh – e poi che senso ha dire che cambiare il proprio corpo è un rimedio all’omosessualità? Insomma, OPUEPSPQUCS, ma gli uomini operati no, so’ bugiardi e ipocriti, al massimo dei poveri imbecilli]; l’avete fatto perché nessuno vi ha fatto ragionare con il dovuto affetto intellettuale [che cos’è l’affetto intellettuale, e perché varrebbe più del comune rispetto? Ah, sì, quella cosa che OPUEPSPQUCS tranne quei poveri deficienti di uomini operati] quando ne avevate bisogno; l’avete fatto nel tentativo disperato di sfuggire a una barbara società di arcaico pregiudizio e siete caduti dalla padella alla brace, anche se la società maschilista, donne in primis [in primis le donne, per Busi, sono maschiliste], apprezza ben di più chi ha fatto il sacrificio di impiantarsi una maschera compromissoria [compromissoria? Ah, dunque chi si tatua o si opera ai genitali – cose che sembrano qui sullo stesso piano – dopo ha risolto? Dopo è “tuttapposto”, finito lì?] anziché affrontare il mondo a muso duro con la faccia, il corpo, i sentimenti che ha [un po’ difficile da fare se quella faccia e quel corpo non li senti i tuoi, Busi, ma a te questo piccolo particolare non interessa, per te è importante solo accettare la propria omosessualità come hai fatto tu, e tutti gli altri sono poveretti o cretini o bambocci manovrati]; l’avete fatto, e quasi sempre da bravi ragazzi siete diventati delle bestiole né-me-né-te da marciapiede, nel grande macello della carne con spaccio annesso [questo modo di giudicare, invece, non è un cliché sessista, vero? Complimenti].

Siccome ultimamente, dopo avere condannato la pratica degli uteri in affitto di madri succedanee, danno dell’omofobo e addirittura del papista a me… a me!… [in effetti bastava “ignorante e presuntuoso”, non c’era bisogno di scomodare parole complicate per chi condanna senza sapere ma dicendo che OPUEPSPQUCS], non parrà vero a questi faciloni venire a sapere ora che condivido nel modo più assoluto la definizione del cardinal Ravasi di «burqa di carne» [condividere un’immagine così delicata e rispettosa – non è un cliché sessista, vero? – con un cardinale dev’essere una fonte di piacere infinita, eh Busi? Contento lei…] per tutte quelle facce di donna e ormai di uomo devastate dalla chirurgia plastica [di nuovo, complimenti per il paragone, degno dei faciloni che sembrano essere il suo pubblico, Busi]. La questione è più pratica che morale, e tanto che diventa economica nel senso del bel risparmio: lavorate sulla mente e lasciate in pace il corpo [certo, perché qui c’è il corpo e là la mente; bentornato Cartesio. Oh, ‘sta moda vintage recupera proprio tutto eh? Terzo dualismo, corpo vs mente]. Tanto, con una mente così sballata che tutto concerta per farla sballare ancora di più, il corpo non potrà che andare a carretta e vi punirà amaramente, anzi, spietatamente e, ahivoi, irreversibilmente [siamo al corpo che si ribella contro la mente. Detto dall’autore di Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) l’anatema suona credibilissimo].

Il maschile e il femminile [quarto dualismo] non è un Giano bifronte dato una volta per sempre in una vita umana: cambiano i canoni esterni, anche del kitsch, figurarsi quello della bellezza, cambia l’età anagrafica e interiore, cambiano i desideri, le aspirazioni, le ambizioni, i fantasmi, la percezione di se stessi, le mode e la fonte stessa delle disillusioni, e cambia anche il dolore di aver fallito perché fallita era in origine la strada intrapresa per anestetizzarlo, ci si incaponisce invece di arrendersi in tempo e dargli ragione, e non si può prendere del cortisone contro un semplice mal di testa [il consiglio di Busi è: dare ragione al dolore di aver fallito. Poprio quello che ha fatto lui, notoriamente, tutta la sua opera è lì a dimostrarlo].

Siate e mantenetevi passeggeri, non impegnate il corpo al monte della pietà che susciterete [però che immagine, si vede che è uno scrittore], non datela vinta ai vostri persuasori interessati, subdoli, patenti o occulti che siano, e tenetevi pronti a scendere a ogni istante dal predellino [fate come Busi: imponete le proprie scelte agli altri accusandoli di non accettarsi e di essere menomati e manovrati, e fatelo dal pulpito di un giornale di destra. Vi guadagnerete tanti amici]. Certo deve essere quello di un treno, più locale è e più fermate fa meglio è, una volta in orbita nessuno vi tirerà più giù: dovreste solo buttarvi giù, e non ne vale né il pene né la tetta. Infine, se gli uomini che aspirano a diventare donna anatomicamente sapessero in anticipo quanto puzzano di fiori sfranti e acque stagnanti e di corsia di ospedale a causa di ormoni, iniezioni di porcherie varie, protesi, tralasciando il conformismo di massa cui si ispirano, se ne guarderebbero bene dall’adulterare il loro naturale, e al confronto tanto più femminilmente afrodisiaco, odore di caprone nato [ed ecco che, puntuale come nel più reazionario e conformista dei discorsi, spunta l’amico di tutti i sessismi: il naturale. Questo sì che spiega cos’hanno in comune Busi e un cardinale. Quarto dualismo: naturale vs artificiale].

Basterebbe far ricorso quando serve alla banalità più edificante per avere la morale della storia più indiscutibile e anche salubre: ma tieniti come sei [ah, il naturale, che bello il naturale], tanto non c’è niente da cambiare fuori se non cambi dentro [il naturale è dentro, l’artificiale è fuori, tu puoi ritoccare il fuori quanto vuoi, tanto non cambi dentro – ma quanto è gretto e violento il discorso dualista? Uomo o donna dentro e fuori, naturale e artificiale… un bel passo avanti per l’umanità, non c’è che dire. Intanto, il quinto e finale dualismo: dentro vs fuori], ti aggiri sempre dalle parti della stessa caverna, e la clava, prova una volta a dartela in testa, magari è la volta buona.

[A casa mia questa si chiama transfobia. Anche se per chi la pronuncia dice che per lui OPUEPSPQUCS. Ma tanto che ne so io, io sono un menomato che legge Oglaf.]

Ignoranza di genere

dilbert_ignoranzaOvvero: cos’hanno in comune Luciana Littizzetto, Susanna Tamaro, Marina Terragni e Luisa Muraro?

La storia degli studi di genere in Italia, si sa, è difficile e tormentata, e la situazione attuale non è certo delle più rosee. Le responsabilità dell’insindacabile arretratezza dell’Italia in questo campo sono diverse, a volte lontane nel tempo, e il risultato è molto particolare, come riassume Paola Di Cori in un suo articolo significativamente intitolato Sotto mentite spoglie:

Nelle università italiane coesistono e confliggono alternativamente iniziative di alto profilo e corsi assai modesti; e così ottimi programmi di ricerca e di formazione superiore, efficaci insegnamenti introduttivi su specifici aspetti di un universo conoscitivo ormai sterminato esistono accanto e insieme ai prodotti di una offerta didattica generica, frammentata, indefinita, spesso del tutto insufficiente a garantire una buona strumentazione di base, entro la quale insegnamenti di argomento affine sono spesso scollegati l’uno dall’altro e privi di un indispensabile momento di raccordo generale; in alcuni casi sono soprattutto i periodi di studio all’estero a offrire un rimedio alle croniche défaillances della formazione in Italia.

L’articolo racconta anche cos’ha significato e cosa ancora significa provare a fare gender studies in una palude patriarcale e paternalista com’è l’università italiana. Questo penoso stato di cose a livello “alto” non è casuale: gli corrisponde, in un intreccio di cause ed effetti, un’analoga situazione nella scuola e nella società italiane, e il risultato è sotto gli occhi di tutti: un paese sessista, patriarcale e paternalista apparentemente in maniera cronica. Ciò che sconcerta non è la leggerezza o l’indifferenza con la quale l’opinione pubblica tratta questi argomenti, ma il fatto che una diffusa ignoranza su queste questioni non generi curiosità o desiderio di approfondimento, quando necessario, bensì una manifestazione sempre più evidente d’ignoranza. Ignoranza che però è di molte specie, e vorrei qui mostrarne qualcuna, ben incarnata in esempi noti e notevoli.

1) L’ignoranza crassa: Luciana Littizzetto

In questo suo intervento a “Che tempo che fa” (dal minuto 8:54), sostanzialmente ripetuto anche su La Stampa, Luciana Littizzetto dimostra che del pur noto argomento “linguaggio sessista” non sa e non ha capito nulla:

Qualche giorno fa c’è stato un incontro a Montecitorio organizzato dalla presidente della Camera Boldrini con i responsabili dell’Accademia della Crusca che non è un’associazione vegana che si occupa del transito intestinale, ma l’Istituto per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana. Si sono incontrati per parlare di questo tema pressantissimo: il sessismo nella lingua italiana. Loro dicono che c’è una discriminazione della donna nella lingua italiana. La lingua italiana non rispetta la parità perché ci sono delle parole declinate al femminile e altre no.

Non è proprio così, “Lucianina”, avresti potuto informarti. Ma in fondo, perché farlo? Tanto fai ridere anche così – se non facessi un danno grave, a pensare di fare ironia su qualcosa che non hai capito. Il risultato è che fai ridere altri ignoranti come te. Contenta? Evidentemente sì.

Fino a qualche anno fa le professioni dove non è in uso il femminile erano soprattutto maschili mentre adesso li fanno anche le donne. C’è stato un cambiamento grosso nella società e piano piano cambierà anche la lingua. La nostra lingua è fichissima, mobile, ci fa stare dentro un sacco di roba, anche tante parole straniere, piano piano ci metterà anche i femminili… non mi farei venire tutta sta para, Boldrini.

A una spiegazione apparentemente corretta – le donne che svolgono professioni tradizionalmente maschili sono ancora poche quindi molte parole suonano ostiche perché ancora poco usate – Littizzetto manca di dire due cose fondamentali, che ne inficiano tutto il discorso. Uno: la Crusca non c’entra nulla, la grammatica è lì e da sempre dice quali parole sono corrette e quali no. Il problema dell’uso è dei parlanti, cioè culturale, e qui sono dolori, perché la cultura diffusa in Italia è una cultura tradizionale, reazionaria, sessista.

Io penso che sarebbe tanto bello lottare, e fare convegni, e incazzarsi, per la sostanza, non per la forma. Stesse possibilità di lavoro, stessi stipendi, e rispetto – invece che annullamento – delle differenze. Io che sono donna voglio essere rispettata perché sono DIVERSA da te, non UGUALE a te. So che mi sono attirata le ire dell’Accademia della Crusca.

Due: il problema del linguaggio non è secondario – come lei sostiene con un classico del benaltrismo – a quello del reddito, perché finché le donne non saranno neanche nominate correttamente, cioè riconosciute socialmente e culturalmente come pari, sarà ben difficile convincere chi paga a dare loro quanto un uomo di analoghe mansioni e capacità. Non ti sei attirata le ire di nessuno, “Lucianina”: al massimo fai pena. Per questo, invece, Boldrini si fa “venire tutta sta para”: lei il problema di “uguale” e “diversa” l’ha capito, tu no. Lei chi vuole davvero “l’annullamento delle differenze” l’ha capito, tu no. Queste sono acquisizioni di base per chiunque si sia interessato seriamente alla faccenda: la tua è, “Lucianina”, ignoranza crassa delle questioni in gioco, tutto lì.

2) L’ignoranza colta: Susanna Tamaro

Chiamata a dire la sua sulla triste vicenda delle scuole triestine dove si sarebbero insegnate cose zozze e roba da sporcaccioni ai bambini, Tamaro parte dalla constatazione che ormai le donne, nella società, ce l’hanno fatta:

Il tabù delle professioni solo maschili è caduto ormai da tempo nella nostra società. Ci sono donne nei pompieri, nelle forze dell’ordine, donne che guidano navi da guerra e che pilotano caccia.

Adottando il metodo tipico dell’elite intellettuale (leggi: stronz*) di prendere le eccezioni per regole consolidate, Tamaro prosegue con lo step due della stronzaggine, proponendosi come modello e esempio di bambina qualunque:

Io, ad esempio, ho sempre provato un vero orrore per i costumi femminili, detestavo le principesse, i pizzi, il colore rosa, se c’era un ruolo che rivendicavo per me era quello del comandante di Fort Alamo o di un capo indiano, e in queste attribuzioni – che avvenivano cinquant’anni fa – nessuno mi ha mai preso in giro né represso in modo tale che io me ne ricordi come di una ferita. Non solo, ma giocando mi facevo sempre chiamare con un nome maschile, perché quella era l’energia che sentivo di avere addosso, e tutti intorno a me stavano al gioco.

Quindi siccome certe cose a lei non sono successe, non le crede possibili; e dato che a nessuno che conosce lei sono capitate, allora non esistono. Complimenti per la simpatia e per il paragone azzeccato con la realtà di tanti. Proseguendo nell’ostinata intenzione di non informarsi, perché evidentemente lei si sente depositaria del sapere, Tamaro continua a parlare di un mondo di fantasia:

Ma in che cosa consiste l’educazione sessuale, e soprattutto che cos’ha davvero prodotto in tutti questi anni di diffusione scolastica? Dovrebbe essere servita a far conoscere il corpo e le sue esigenze affettive, oltre naturalmente ad evitare malattie e gravidanze indesiderate. È stato davvero così? Se ci guardiamo intorno, non possiamo non notare che il degrado relazionale è purtroppo molto diffuso tra gli adolescenti.

Quindi secondo Tamaro l’educazione sessuale, in Italia, è diffusa da molti anni. Se vi va, continuate a leggere; finirà con l’elogio del silenzio su certi argomenti, quel silenzio tanto benefico per migliaia di ragazzi e ragazze che poi trovano finalmente in Youporn o Ask il corretto canale informativo per fare esperienza del loro corpo. Complimenti anche per questa ignoranza, nata da una smisurata presunzione intellettuale e dannosa socialmente ben più della precedente.

3) L’ignoranza sbandierata: Marina Terragni

Nel linguaggio sportivo è ormai consuetudine da alcuni anni definire “ignorante” il gesto compiuto senza troppo riguardo né per l’avversario né per la tecnica, quasi per sfogarsi: c’è il tiro ignorante, il sorpasso ignorante, il colpo ignorante. Ecco, per quanto riguarda le questioni di genere, questo tipo di ignoranza è perfettamente rappresentata dalla prosa di Marina Terragni. Che a proposito di educazione sessuale argomenta così:

Fa parte di suddetto cretinismo anche un certo concetto di “educazione sessuale” per infanti e adolescenti, espressione che è quasi un ossimoro perché il sesso è tutto fuorché educato. Basterebbe leggersi un bigino di Michel Foucault per inquadrare la questione: detto alla buona, meno parole si fanno sul sesso e meglio è, per il piacere. Perché poi lui avverte che la sessualità non esiste, esistono i corpi e i piaceri.

Capito? Frasi lapidarie, citazioni fatte “alla buona” perché è come dico io e basta, e chissenefrega della coerenza o di usare parole più adeguate. Evidentemente, anche chissenefrega di informarsi: Terragni sinteticamente fa gli stessi errori madornali di Tamaro, ma lei non ha tempo da perdere con le belle parole e ci tiene a dirlo.

Mi viene la pelle d’oca, quindi, all’idea che dei formatori appositamente formati (il business della formazione oggi è colossale) pretendano di spiegare a dei ragazzini-e come dovranno regolarsi nelle cose di sesso, addirittura come ci si masturba e altre idiozie del genere.

Complottismo, falsi moralismi (nessuno parla ai ragazzini di come ci si masturba): la pelle d’oca viene a chi si spende e spande per diffondere un po’ di coscienza e conoscenza su certi argomenti, e poi si trova deliri del genere sui media senza che nessuno le rida in faccia. Giustamente: quale diffusione dovrebbero avere certi argomenti per far sì che chi scrive amenità di questo calibro venisse istantaneamente seppellito dalle risate? Quella di un altro paese, non certo di questo. Beccatevi il succo del discorso:

Anche il sesso, come i temi eticamente sensibili, vuole il minimo indispensabile di parole.

Quindi in sostanza sbrighiamocela con il classico del potere paternalista: “io so’ io e voi nun sète un cazzo”, e passiamo al prossimo argomento.  Grazie Terragni, è sempre un piacere parlare con lei.

4) La falsa ignoranza: Luisa Muraro

Ulteriore e più raffinato tipo d’ignoranza è quella volutamente costruita da chi scrive di proposito testi distorti in modo da perseguire nient’altro che i propri interessi. Luisa Muraro infarcisce questo articolo di esempi, richiami e citazioni, e dopo un bel po’ si arriva a quello che le sta a cuore:

La differenza sessuale è un imprevisto che falsifica le teorie, ultima la gender theory. Nella prospettiva disegnata da Feyerabend descrivendo la cosmologia greca, la gender theory dei cinque generi ha qualcosa di doppiamente aberrante: perché solo cinque? Potrebbero essere tanti e tante, quanti e quante siamo su questa terra. […] Finalmente, nel suo Undoing gender (2004), recentemente riproposto in italiano con un titolo più vicino all’originale, Fare e disfare il genere (Mimesis, 2014), Judith Butler, nota proprio come teorica della gender theory, intitola così un capitolo: «Fine della differenza sessuale?» E così lo conclude: questa rimarrà una questione persistente e aperta.

Embè? Sono cose arcinote, com’è arcinoto che “la gender theory dei cinque generi” non è di Butler né di nessun* filosof* minimamente degn* di questo nome. Perché Muraro mischia a bella posta il nome di Butler non con la gender theory ma con la “teoria del gender”, quella roba inventata dal Vaticano per i propri meschini interessi di propaganda?

Pensato per gli scopi della ricerca storica, il cosiddetto «genere» è dilagato come uno pseudonimo di «sesso», o come un eufemismo: il «genere» non fa pensare al femminismo e ha l’ulteriore vantaggio che si può adottare nel linguaggio ufficiale e accademico senza suscitare imbarazzanti associazioni sessuali. In breve, la differenza sessuale si avviava ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé, disegnato dalle mode e funzionale ai rapporti di potere. Insomma: l’insignificanza della differenza e l’indifferenza verso i soggetti in carne e ossa.

Ah, ecco. Muraro s’è sentita di dover difendere la roba sua, il femminismo della differenza, da chi la pensa diversamente, cioè Butler – indubbiamente un pochino più letta di lei anche in Italia. Peccato però che lo faccia usando la pseudo-interpretazione di Butler che ne fa anche Bagnasco: «Il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità». La sua conclusione, dopo questa acrobazia d’ignoranza (c’è proprio la volontà d’ignorare quello che Butler sostiene) è questa:

Ad ogni buon conto, se il nuovo regime politico-economico usa le invenzioni del femminismo per plasmare la soggettività umana, non prendiamo la postura della critica contro, quel NO ripetitivo e sterile, e riprendiamoci quello che è nostro con la spada in mano, se così posso esprimermi.

Muraro riassume così tutte le ignoranze viste qui: di alcune cose non sa, di altre è troppo superiore per occuparsene, su altre ancora comanda lei e basta – ma tutto ciò in maniera più consapevole di Littizzetto, Tamaro e Terragni. Alla stessa che ha tradotto e divulgato Speculum di Irigaray e ha scritto Dio è violent non si può concedere la scusa di scrivere a vanvera.

In sostanza, lei continua a ribadire quello che diceva vent’anni fa in un articolo (Questione di naso, occhio e orecchio, 26 marzo 1996) su «Il Manifesto»: per Muraro gli studi di genere non servono, basta il femminismo. Il suo, però. Complimenti anche alla falsa ignoranza “con la spada in mano”.

Tutto ciò nei media generalisti, e quasi contemporaneamente, in Italia, nel 2015.
Buona giornata.

Deconstructing Veronesi – l’estetica spiegata con la biologia (Micromega #7)

piccola_veronesi Lo ammettiamo: tutta questa lunghissima esegesi (o pippa) sul numero di Micromega l’abbiamo fatta solo per parlare del pezzo di Veronesi, intitolato “Il corpo delle donne dalla mortificazione all’emancipazione”. Che meritava di essere inserito nel suo degno contesto, per essere veramente apprezzato come merita.

Intanto la scelta dell’autore. Dopo tutto il porno e la prostituzione di cui non avevamo bisogno, arriva questo articolo, centrale, anche nella posizione, con una sezione tutta per sé intitolata “Memoria”, insomma è il più importante, quello che ci dà la “cifra” di Micromega sul tema del corpo della donna. E lo affidano a Veronesi, beh, sì certo. Ci sembra logico.

Ma d’altronde se ci ritroviamo un patriarcato ancora in piedi dopo 4.000 anni non è mica perché uno ha sbagliato una virgola, piuttosto perché oggi la politica ha estromesso tutte le istanze sociali ed economiche importanti dal discorso pubblico (Salvini a Roma e Renzi posta la vittoria dell’Italia sulla Scozia ma è tutto a posto) e una rivista come Micromega non ha più senso di esistere, quindi per vendere e fare rumore si affida al nome di grido con dietro il vuoto (su tutti Nappi e Siffredi) oppure alla pura conservazione, alla restaurazione dell’ancient regime.

Il gioco è fatto, dalla fine dell’impero all’inizio della monarchia, il nuovo senso di micromega

è quello di dare una veste “onorevole” a vecchi e ammuffiti retaggi che con tutto il resto erano stati cacciati giustamente nelle fogne dal femminismo.

***

L’introduzione:“ha dedicato tutta la vita a curare il tumore femminile per eccellenza, quello al seno” [Sara: sono paranoica, lo ammetto. A me scatta già un campanello di allarme, c’è un tunnel davanti a me con un bel titolo gotico: “Il tumore femminile per eccellenza” ho i brividi, mi sento condotta verso il buio] “un corpo che è strumento di seduzione e il cui uso disinvolto non è in contraddizione con l’emancipazione delle donne” [perché chi l’ha detto, chi lo sostiene? Mhm, non sarà mica l’ennesima bordata alle femministe, quelle che hanno rinunciato al corpo… bla bla bla?] “il più grande oncologo italiano spiega perchè è convinto che il mondo  va verso un potere tutto al femminile [interessante] e perchè il proibizionismo, su tutti i fronti – prostituzione compresa – non funziona [ah ma allora è un ritornello che non si può smettere di cantare. Sembra che le uniche due attività libere che sono concesse alle donne dopo anni di lotte siano la prostituta e la pornostar, dovevano spiegarglielo prima!] non funziona [prima frase buttata là: il proibizionismo con la prostituzione non funziona, dove andrà a parare? Visto che abbiamo letto Nappi a monte, un dubbio che si vada in quella direzione ci viene.]

***

Nella prima parte del breve articolo il professore racconta della sua scelta di medico, di come abbia aperto la strada alla via conservativa del seno colpito dal tumore a differenza della tendenza dominante allora. Il rispetto per le donne è nato dalla figura materna, guida assoluta dopo la morte del padre. Qui la prima pietra teorica della sua convinzione: “il corpo femminile è simbolo della procreazione, della continuazione della specie, in altre parole è il simbolo dell’umanità e lo scempio di questo simbolo era per me inaccettabile” [quindi il corpo della donna è un corpo simbolico simbolo dell’umanità e questo come c’entrerebbe con l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne? A noi sembra tutto un piedistallo e un destino costruito dalla parte maschile dell’umanità].

***

Nel paragrafo successivo il professore ci illustra la concezione del corpo della donna contro cui ha dovuto combattere mettendo a punto la sua tecnica conservativa. Gli allarmi sorti in noi quando ha inizialmente parlato della biologia come destino della donna si placano al suono di queste parole (nel brano sono scambiati vecchio e nuovo testamento): “Nel Nuovo Testamento la donna è quasi assente perchè considerata un essere secondario, a metà strada fra l’uomo e l’animale, senz’anima, era un gigantesco utero, un semplice strumento per la riproduzione”[Sara, lo ammetto, ho sospirato di sollievo], [addirittura, come professore da par suo egli ci indica le motivazioni di storiche di tale secondarietà della donna nell’antichità]: “L’ossessione del popolo ebraico era, infatti la propria possibile estinzione, visto che si trattava di un piccolo gruppo sempre esposto a guerre, carestie eccetera, per cui procreare era un dovere divino. Procreare ad ogni costo, anche con l’incesto se necessario” [Beh, finalmente un uomo colto che come uomo di scienza, usa la sua autorevolezza e la sua sapienza per spiegare che il presunto destino procreativo della donna è un concetto inventato per le esigenze di un popolo vissuto migliaia di anni fa che oggi non ha nessun fondamento e che viene strumentalizzato contro le spinte emancipazioniste e di miglioramento della condizione femminile infatti ecco che aggiunge]: “ Di tutta questa cultura della donna ridotta a strumento di procreazione è rimasto ancora oggi qualche residuo, per esempio il femminicidio, che è un sintomo del disagio maschile davanti all’emancipazione del genere femminile. Ormai però la strada è segnata.”

Ma perchè il professore è così ottimista? perchè lui ha vissuto con le donne, conosce la psicologia femminile “come forse nessuno al mondo” [ma non fa l’oncologo? Mah] e sa che sono migliori degli uomini in molte mansioni e a parte  singole eccezioni “amano la pace, non uccidono” [Sara: possiamo tradurlo con “sono depositarie di un istinto conservativo?” Lorenzo: io tradurrei con un mitico “sono buone di natura”] per cui gli uomini si devono rassegnare perché semplicemente “Siamo metà uomini e metà donne e al potere ci devono essere metà uomini e metà donne” [Ah, ecco]. Ma è un’altalena di emozioni però, che fatica fino a quando poche righe subito sotto arriva la mazzata che fa perdere tutta la logica dell’articolo e svela senza troppi giri di parole il senso del pensiero schizofrenico di Veronesi:] “Certo, questo percorso di emancipazione porta con sé anche delle contraddizioni, perché la donna si ritrova a dover conciliare la sua funzione principale, che è quella di procreare e allevare figli, con il desiderio/diritto di lavorare e impegnarsi nella gestione della collettività” [Sara: personalmente ho dovuto rileggere il pezzo più volte perché pensavo di aver letto male. Questa “contraddizione delle donne” non è nulla rispetto a quella che il professore ha espresso con tranquillità in questo articolo. Lorenzo: e pensando di dire loro qualcosa di straordinariamente intelligente: ricordiamoci che lui conosce la psicologia femminile come forse nessuno al mondo]. E questi vostri desideri/diritti, badate bene donne, secondari rispetto alla vostra funzione principale che è procreare e allevare i figli, “crea dei problemi sociali non indifferenti: le donne si sposano sempre più tardi, [e non è perché le donne sono sole davanti ai loro impegni a casa e in famiglia no, è perché hanno questi desideri/diritti che creano un sacco di problemi], si diffonde l’infertilità femminile [questo esattamente che connessione ha con “lavorare e impegnarsi nella gestione della collettività? Ad essere buoni va almeno spiegata, così pare una specie di virus], aumenta il ricorso alla procreazione assistita [Sara: ma non sarà  anche perché prima non si poteva fare? Lorenzo: e poi, anche nella procreazione assistita, non sono sempre donne a procreare? O Veronesi sa qualcosa che noi non sappiamo?] e si fanno meno figli di un tempo [quindi l’emancipazione femminile è la causa della caduta della natalità. Complimenti!]. Ma, altro fiore di follia, a rallentare questa spinta, che comunque è inarrestabile secondo Veronesi, chi potrebbe essere? “L’immigrazione islamica, perché il mondo islamico è ancora cauto su questo fronte”. [Sara: Complimenti, davvero complimenti vivissimi. Lorenzo: Veronesi, e le scie chimiche? Niente sulle scie chimiche?].

***

Atterriamo nuovamente nel terreno della prima personalità di Umberto Veronesi: “L’emancipazione della donna si fonda sul principio – in cui io credo fortemente e che guida tutte le mie riflessioni sui temi etici e sociali, dalle droghe all’eutanasia – dell’autodeterminazione di ogni singolo individuo” [“Autodeterminazione: Atto con cui l’uomo si determina secondo la propria legge, in opposizione a ‘determinismo’, che assume la dipendenza del volere dell’uomo da cause non in suo potere. L’a. è l’espressione della libertà positiva dell’uomo e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione”, Enciclopedia Treccani], anche sul proprio corpo la donna ha diritto di scegliere in propria autonomia e libertà [anche se la sua funzione principale è quella di procreare e di allevare i figli, dovete soffrire come noi!!!].

A cosa si riferirà per esempio qui il professor Veronesi, per esempio al diritto di poter abortire? Assolutamente no, subito dopo aggiunge: “L’abbellimento del corpo femminile ha un fondamento biologico, perché la seduzione è la parte preliminare della procreazione [Lorenzo: ha detto solo “femminile”, confermando scientificamente che l’òmo ha da puzza’. Grazie Veronesi] e dunque l’attenzione al proprio corpo fa parte degli istinti biologici primari per la conservazione della specie” [sì amiche, avete capito bene. Vestiti, scarpe, calze, trucco TUTTO ciò che usate per guardarvi allo specchio, piacere e piacervi è tutto finalizzato non a sentirvi ammirate, non a sentirvi bene con voi stesse, non a trovare una persona che vi apprezzi, ma a procreare, è più forte di voi].

Di qui la riflessione che, capirete, è spontanea: “Dov’è il confine  tra libertà di disporre a piacimento del proprio corpo e mercificazione dello stesso? Difficile dirlo. La prostituzione femminile, per esempio, è quasi inevitabile vista l’assurdità biologica per la quale la donna ha poche decine di ovuli  e li conserva per la vita [sta stronza] mentre l’uomo ha una potenzialità procreativa enorme e inutile: ogni masturbazione manda fuori mililoni di spermatozoi, quando ne basta uno per procreare. Da questa asimmetria biologica deriva un diverso bisogno dell’uomo di fare sesso, che sta alla base della prostituzione [giusto e quindi poi la donna se ne approfitta, no? Ah, già ma quella non era la tesi di un luminare della medicina, era quella della pornostar Valentina Nappi, sì, dai quella che ha anche un blog su micromega da settembre 2014]. E qui il nostro valente medico cita fior di filosofi a supporto delle sue tesi: “Persino sant’Agostino accetta la prostituzione [come se avesse potuto, lui da solo, impedirla], considerata come un male minore, visto che nella famiglia l’uomo non poteva trovare soddisfazione alle sue esigenze sessuali. E’ una posizione comprensibile, se si tiene conto di questo assurdo potenziale procreativo dell’uomo”. Capito? La prostituzione, quindi, è al naturale conseguenza di una caratteristica naturale: l’uomo eiacula come un geyser, poverino, e la prostituzione è la cura sociale a questa sua disgraziata condanna naturale.

***

Pensate che il nostro abbia finito? Poveri illusi. La sua megalomania è inarrestabile: “Io conosco bene il mondo delle prostitute, perché da ragazzino per andare a scuola passavo in una zona dove ce n’erano parecchie. Loro mi vedevano passare, mi accarezzavano, mi davano le caramelle, poi quando sono cresciuto sono state loro che mi hanno istruito sul sesso”. [Sì, lo ha detto proprio Umberto Veronesi, ex ministro della sanità, tra le tante cose. La sua statura di studioso gli permette anche paragoni audaci, metafore ardite:] “Quanti sono gli uomini che si prostituiscono davanti ai propri superiori per fare carriera? Durante il fascismo tutti gli italiani si prostituivano: il 90 percento aveva la tessera in tasca senza credere nel fascismo” [biologia, storia, femminismi, psicologia: ma quante ne sa, ma quante ne dice di scemenze? Tante, e tutte di squisita fattura. Non per niente siamo su Micromega].

***

Pronti per i fuochi d’artificio finali? No. Nessuno può essere pronto.

Tornando al tema dell’uso del corpo, quante donne sposano un uomo solo per la sua ricchezza? Anche questa è una forma di prostituzione, e anche questa con un suo fondamento biologico perché i soldi permettono di allevare meglio i figli: la donna sfrutta il proprio corpo, la propria bellezza, per sedurre l’uomo che le consentirà di allevare al meglio i figli.

E voi lì a rompervi la testa e le scatole col patriarcato, e Lonzi e Braidotti e Haraway – tutto inutile: sposare uno ricco è biologia. Sei cessa? Sei povero? Cazzi vostri, la biologia vi condanna.

E questo accade anche in politica: molte donne hanno dimostrato di essere brave in politica, al di là di come hanno iniziato la loro carriera. E’ inutile fare gli ipocriti: le donne hanno una marcia in più, che non è necessariamente legata ai canoni standard della bellezza, perché la seduzione può trovare mille vie [scusate allora: se sei cessa qualcosa la puoi fare, ma se sei povero niente, ti rimane il caro vecchio Onan]. Per cui non vedo contraddizione tra l’uso anche spregiudicato del proprio corpo ed emancipazione femminile.

E via così, l’oncologo che costruisce l’ontologia berlusconiana. E perché mai dovresti vederla, Veronesi, una qualsiasi contraddizione?

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Come riconoscere un anarcomachista

6008918971_06a74b3240
Illustrazione di Suzy X

L’anarcomachista è aggressivo, competitivo fino all’eccesso. Elitario, paternalista; più puro dei puri e più forte dei forti. Riesce misteriosamente ad essere dogmatico pur professando il suo odio per ogni dogma. Persegue la coerenza in maniera totalizzante e obnubilante, ignorando che in un mondo di contraddizioni sociali tale perfezione non può esistere. Insegue l’alienazione delle politiche che porta avanti nella stessa maniera in cui egli pensa di porsi di fronte all’esistente: senza compromessi.

L’anarcomachista è misogino ma può non sembrarlo. La sua pericolosità è direttamente proporzionale alla sua capacità di mimetizzarsi come “bravo compagno” o come individuo non stereotipicamente maschilista. Può essere qualunque uomo. E di tanto in tanto, persino qualunque donna.

L’anarcomachista rincorre la logica del martirio e pensa che sia giusto e necessario che chiunque faccia altrettanto. Non tutt* vogliono o possono essere picchiat* e incarcerat*, ma a lui non importa. Perché pensare all’orizzontalità e all’incolumità altrui quando si può godere di un trip testosteronico con lo scontro di piazza fine a sé stesso, tatticamente inutile? Non si pone mai il problema di aver sovradeterminato le decisioni e le voci altrui: non lo farà né per il destino di una manifestazione, né per altro.

L’anarcomachista pensa di vivere in una bolla di sapone al di fuori della società, immune alle influenze aliene dei contesti oppressivi da cui emerge, pertanto sente di non avere alcuna responsabilità nell’aumentare la consapevolezza dei suoi privilegi e oppressioni e men che meno quella di combatterli. Ove necessario, ne nega l’esistenza – o peggio ancora, si proclama fintamente suo nemico, ingannando compagne e compagni di lotta. I quali non se ne accorgeranno per molto ancora: si dice che i fatti contano più delle parole, ma se i fatti contraddicono l’immagine idealizzata che si ha dell’ambiente sovversivo e dei suoi abitanti, allora le parole pare proprio vadano più che bene.

L’anarcomachista è emozionalmente impedito, e arroccato nella sua corazza di cinismo e distanza emotiva, prova una profonda paura di ogni cosa che non sia lineare, razionale, e risolvibile con due punti sull’ordine del giorno. Non sbaglia, non si scopre e non si mette mai in discussione: la sua lotta è sempre e comunque votata alla superficialità.

L’anarcomachista non si fida di nessuno, specialmente delle esperienze delle persone su cui ha potere, alle quali risponde in maniera dismissiva e trivializzante.

L’anarcomachista è un capolavoro di narcisismo. Si sente legittimato a colonizzare ogni discorso, ogni spazio, ogni sentimento, ogni corpo. Vuole essere ascoltato, ma non è disposto ad ascoltare: non è infrequente vederlo palesemente scocciato e annoiato quando gli si parla di questioni che crede non lo riguardino. Basta una vaga avvisaglia di critica politica per farlo andare sulla difensiva.

L’anarcomachista dimostra spesso, nelle sue interazioni sociali, una propensione a battute e linguaggi sessualizzanti (nei confronti delle donne) e omotransfobici. I gruppi, collettivi, organizzazioni a cui partecipa sono caratterizzati da un altissimo ricambio di persone, le quali fuggono esauste e infastidite da lui, dai suoi comportamenti e dai silenzi collettivi che ne consolidano la posizione. Talvolta i componenti di questi gruppi, collettivi, organizzazioni si domandano il perché di questi esodi, ma sembrano non accorgersi del fatto che essi sono compiuti principalmente da persone svantaggiate in qualche asse di privilegio.

L’anarcomachista prende posizione: o sei la soluzione o sei parte del problema. Questo soltanto finché il problema è fuori dalla sua portata. Se un suo amico, parente, compagno abusa verbalmente, emozionalmente, psicologicamente, fisicamente o sessualmente di qualcun*, questa sua capacità improvvisamente sparisce e lascia il posto a una silenziosa, pacifica, violenta equidistanza. Non comprende che non credere alla vittima significa in automatico abbracciare la versione di chi l’ha resa tale.

L’anarcomachista riesce a riempire intere ore assembleari di lotte intestine, discussioni inutili e lunghe digressioni inappropriate piene di fuffa. Parla di teoria quando serve agire, e di azione quando serve pensare.

Riconosci ed estirpa l’anarcomachista che è in te e negli altri!

Deconstructing il faccipensiero

lammillyPSono sicuro che Filippo Facci vi è già noto per la sua amabile e fine retorica, che dispensa soprattutto da quel giornale dal titolo profondamente ironico che è “Libero”. Se non lo conoscete, qui ci sono alcune notizie fondamentali. Ci apprestiamo a commentare una sua ultima perla,  come si conviene a cotanto illuminato pensatore.

Facci: ci mancava la Barbie coi brufoli e le smagliature [il titolo è già tutto un programma, ma Facci è così: non nasconde nulla di sé, è molto generoso]

La Barbie coi brufoli no. La Barbie cessa, struccata e con le smagliature (si attaccano tipo cerottini) però no, vi prego. E invece sì, la vendono, qualche femminista invita a regalarla per Natale: si chiama Lammily – la bambola – e sembra una bulgara sfondata da dodici gravidanze [non ho voluto interrompere il climax d’immagini sessiste varie, concluso con un notevole virtuosismo: in bulgara sfondata da dodici gravidanze, per un totale di cinque parole, ci sono un razzismo e due sessismi]. Per 6 dollari c’è un pacchetto aggiuntivo con cellulite, tatuaggi, cicatrici, lentiggini, occhiali, bende, contusioni, graffi e punture di zanzara. È struccata, non sorride e ha i capelli castani anziché biondi come la Barbie, questa reazionaria, questa mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi: Lammily invece ha i fettoni piantati a terra e ci puoi appiccicare calli e duroni. I piedi non puzzano ancora, ma in futuro chissà. Mancano anche peluria e baffi. Le misure complessive sarebbero quelle medie delle ragazze di 19 anni: ma forse quelle americane, o del casertano, sta di fatto che nel complesso il modello è quello di – si diceva ai miei tempi – un roito, insomma una brutta [riassumendo, Barbie è imbecille e segregata a un ruolo subalterno, ma almeno bòna, Lammilly è brutta e tanto basta. Per dire questo – che non ha alcun interesse al di fuori della sua scatola cranica – Facci ha usato altri sessismi e razzismi: mogliettina, peluria e baffi, quelle del casertano, roito. Ok, ma c’è un punto da dire? O è un campionario di lessico adolescenziale?].

Che dire? in passato avevamo intravisto la Barbie vecchia e la Barbie paraplegica (in sedia a rotelle) e la Barbie calva (radioterapia) ma erano provocazioni, campagne shock che avevano una ragion d’essere ed erano il contrario del politicamente corretto [attenzione alla strategia del faccipensiero: distraendovi con le campagne shock ha detto che Lammilly è un esempio di politicamente corretto. Cosa che sta solo nella sua testa, ma essendo la base della sua argomentazione, il furbacchione la da’ per scontata invece di metterla in discussione, un po’ come fanno certi fanatici religiosi con la propria fede]: mica le vendevano davvero, erano l’immagine di una buona causa. Le Barbie nere e mulatte invece le vendevano già negli Anni Settanta, era una questione di mercato prima di altro [il faccipensiero si complica: nera sì ma “casertana” no, il razzismo lo comanda il mercato. Sempre più interessante]. Una coi piedi piatti – apprendo su internet – uscì nel 1971, ma vendette pochissimo [è informato, lui]. Ken – il marito o fidanzato col sorriso da coglione – lo fecero più o meno muscoloso e addirittura stereotipato [ah, il faccipensiero lo stereotipo lo riserva a Ken, a Barbie no. Il marrone ha mille sfumature] coi pesi da palestra, poi biondo, hawaiano, africano, di tutto. Ma, appunto, era una questione di mercato, non di pedagogie d’accatto [altra definizione “en passant”: una bambola non stereotipata è pedagogia d’accatto, e quando ne discutiamo? Mai]. La domanda è: sino a che punto si spingerà il politically correct? [E chi ha detto che lo sia? Chi ha scritto che una bambola con fattezze “normali” ha un significato di condotta politically correct? E chi sarebbe qualche femminista che invita a comprarla? Link, nomi… niente, il faccipensiero non ha bisogno di riscontri.] Le concessioni al sogno cederanno ai timori di un modello troppo anoressico? Imbruttiremo anche le principesse delle fiabe? La dittatura della verità [dittatura? Verità? Ma se è sul mercato, nessuno ha imposto nulla, seguirà le leggi del mercato. Perché il faccipensiero vi vede una imposizione? Qualche legge ha obbligato a usare Lammilly nelle scuole, o ne ha obbligato l’acquisto per Natale?] imporrà la Barbie morta o chiusa nel polmone d’acciaio? [Ci fosse pure un produttore tanto scemo, a te che te frega? Cosa ti turba in Lammilly, Facci, dillo apertamente. Paure ancestrali? Ricordi d’infanzia?]

Giulia Siviero, una simpatica ragazza che scrive per il manifesto e lavora al Post, non ha tutti i torti a sottolineare che esiste un sessismo anche nel mondo dei giocattoli [niente contro Siviero eh, ma so’ decenni che questo problema è noto]. Ed è un sessismo che risente delle latitudini: le femmine, nelle pubblicità o in un catalogo di giocattoli italiano, sono sempre circondate dal rosa e poi da bambole, carrozzine, lettini, piccoli ferri da stiro, fornellini, finti make-up, collanine e dolcettini. Nei negozi la corsia «bambine» sembra un negozio di casalinghi. Mentre i maschi, viceversa, ormai oscurate le armi giocattolo per scorrettezza politica [ah, io pensavo che ci si sparasse già abbastanza nella realtà per cui non servisse insegnarlo, invece è scorrettezza politica], sono comunque rappresentati mentre scimmiottano i mestieri dei grandi o s’industriano con treni e macchinine e costruzioni. Forse si esagera, perché bambini e bambine sono molto più elastici di noi [certo, lo si vede da adolescenti, la famosa età nella quale nessuno ha problemi con il proprio ruolo di genere, no no]: ma i cataloghi di giocattoli svedesi o danesi – che Giulia Siviero ha mostrato sul suo blog – forse ecco, esagerano in senso inverso [e te pareva. E perché mai, Facci caro? Spiegacelo]. Si vede un bambino che fa il bagnetto a una bambola: mi fa un po’ ridere [e chissenefrega, non ce l’hai messo? A te fa ridere, ma magari al bambino si mette in testa che se e quando sarà padre, sarà capace di farlo invece di scappare impaurito dal corpo di suo figlio. So’ problemi sociali, Facci, informati]. Si vede una bambina che gioca con un pipistrello e i soldatini. Nessuno vieta di farlo in ogni caso [invece sì: chi lo vieta si chiama “cultura patriarcale”, ed è l’acqua del tuo acquario, Facci, è normale che tu non te ne accorga. O che tu lo dica apposta], ma più di tanto io non lo vedo il problema di una «precoce e stereotipata separazione dei ruoli» [la sua spiegazione è io non lo vedo, una nota prassi scientifica], qualcosa cioè che possa impedire a una femmina di diventare un tipico maschiaccio, se crede: non siamo solo un sottoprodotto ambientale [tu non hai la minima preparazione in questioni di genere, quindi la tua opinione conta davvero poco. Però è interessante notare come tu non veda nulla di male se la femmina diventa un tipico maschiaccio, mentre il bambino che fa il bagnetto alla bambola ti fa ridere. Di nuovo, Facci: di che hai paura? Tutto bene? Rilassati…].

E comunque il mondo cambia, ma ha i suoi tempi. Noi siamo sempre un po’ in ritardo per le solite ragioni storiche e religiose eccetera, ma insomma, per farla breve: la barbie coi brufoli no [l’hai già detto, Facci, il problema è che l’articolo sta per finire e non hai ancora detto un civile perché]. Qualche concessione al sogno e all’irreale lasciatelo almeno ai bambini [ah, scusa: la Barbie che tu stesso hai descritto come mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi sarebbe la concessione al sogno per i bambini e le bambine? Complimenti (anche per la coerenza in poche righe)], ché per i bagni di realtà avranno tutto il tempo [no. Come potrebbero raccontarti numerose persone impegnate nei centri antiviolenza, spesso i bagni di realtà non arrivano mai o arrivano accompagnati dalla sirena dell’ambulanza – quando va bene]. Anche perché non vorremmo doverci ritrovare, poi, con un Ken stempiato, con le maniglie dell’amore e la canottiera macchiata di sugo. Il marito perfetto per quel cesso di Lammily [eh, certo, la cessa possiamo lasciarla al mercato e a qualche femminista, ma il maschio medio non sia mai vederlo rappresentato come giocattolo. Allora meglio il marito o fidanzato col sorriso da coglione, con il quale comunque giocano le bambine. E perché mai impedire questa differenza, Facci, se tanto poi ci pensa il mercato? Ce lo spieghi? No].

Eh no, meglio non lasciarle al mercato, certe possibilità, meglio impedirle prima. Perché se poi funzionano, mica puoi dire che non vanno bene. Sai che problema se avesse avuto successo la bambola coi piedi piatti: adesso niente tacchi e tutte con le ballerine. Che brutta cosa per i maschi!

Attenzione a non confondere gli ipocriti con gli ignoranti

501px-Wired_logo.svg

Immancabile, come sempre quando un efferato evento di cronaca nera vede coinvolta in qualche modo la rete o i social, spunta il genio della comunicazione virtuale, con il suo curriculum sbalorditivo, a commentare sulla rivista più ganza del momento che bisogna stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio. Vi prego di leggere:

http://www.wired.it/internet/social-network/2014/12/02/caso-pagnani-attenzione-non-confondere-carnefice-gli-imbecilli/

Ahimé al nostro erudito commentatore manca evidentemente la minima competenza in questioni di genere, e si vede. Perché non ci vuole molto a capire che la prima cosa da fare sarebbe, proprio in virtù della competenza in comunicazione, evitare la polarizzazione degli argomenti, puntando al solito scontro bianco/nero, colpevole/innocente, tu/io, di qua/di là, carnefice/imbecille, per cui nel caso di Pagnani che scrive su Facebook “Sei morta, troia”, alludendo alla moglie che ha da poco ammazzato, la questione si ridurrebbe a:

L’hai ammazzata tu? No,

quindi puoi mettere il tuo “mipiace” a quello status, condividerlo allegramente con una bella battuta, o anche esprimere lì sotto il tuo consenso sessista: sarai solo un imbecille, non sarai colpevole di niente.

Come se, tra l’estrema innocenza dell’imbecille e la certa colpevolezza del femminicida in questione, non ci fossero sfumature, possibilità, altre cose da valutare. Dice infatti il nostro pluridecorato dall’enorme curriculum, a proposito della sopracitata frase:

Si può davvero pensare che qualcuno dei trecento, leggendola, magari distrattamente sul proprio smartphone, abbia capito che il carnefice esultava per la mattanza della moglie e che chiedeva approvazione e condivisione del suo orrendo trionfo?
Si può davvero credere che, cliccando su “mi piace” quei trecento, abbiano inteso urlare al loro “amico” qualcosa tipo: “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”?
Personalmente, lo escluderei.

E non me ne stupisco: questo è un commento tipico di chi non ha niente a che spartire con questioni di genere, che invece forse in un femminicidio un pochino c’entrano. Perché chi se ne occupa anche marginalmente, ha in mente questo facile disegnino esplicativo, riguardo i tipi di violenza sulle donne, col quale inquadrare la relazione tra quei commenti e l’assassinio della donna (qui l’originale in spagnolo):

triangolon - Copia

Oh, certo, non è che questo basta a condannare giuridicamente nessuno. Però indica chiaramente che chi commenta in quel modo, o usa quella frase per un proprio ilare commento, fa parte di una stessa cultura, di uno stesso modo di vedere i rapporti tra generi, la violenza sulle donne, e tante altre cosette, in comune con chi l’ha scritta. Certamente quei gesti e quelle parole su un social network non sono né “prove” né “indizi”, a farli e a scriverli non si ha nessuna colpa sanzionabile dalla legge – ma responsabilità di fronte a tutti sì, eccome. E non serve certo a nulla sapere se davvero lei era morta ammazzata o no, quando si è commentato, condiviso o cliccato “mi piace”: in quella piccola frase ci sono abbastanza sessismo e violenza per farmi credere – a me dal curriculum striminzito – che nessuno dovrebbe comunque condividerla, apprezzarla o sottoscriverla. E che chi lo fa non andrebbe premiato certo con l’innocua etichetta di imbecille, deresponsabilizzante come poche.

Perché tutti quelli probabilmente, attraverso un social network, non hanno detto a Pagnani “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”, ma di certo gli hanno detto “ehi Pagnani, anche io sono un po’ come te”. Che indubbiamente non indica alcun reato – ma fa schifo lo stesso, pure sotto la simpatica e innocua etichetta di imbecille.

Ancora complimenti a tutti – anche agli specificatori di colpe pluridecorati e dal curriculum enorme ma, a mio parere, piuttosto lacunoso.

A me dà fastidio l’ignoranza (Deconstructing Moretti)

estetistaMoretti2La recente intervista di Alessandra Moretti, e la stragrande maggioranza dei commenti a quella intervista, dimostra come in Italia siamo ben lontani dall’aver capito anche solo cos’è uno stereotipo, e uno stereotipo sessista in particolare. Un’europarlamentare candidata a presiedere una regione straparla di stile, bellezza, piacere come se fossero qualcosa di usabile per smarcarsi da altre posizioni politiche scomode – femminismi, donne dello stesso partito – e come se non fossero argomenti già molto usati da altri movimenti politici opposti al suo per identificarsi, fare fronte comune, creare consenso.

Qui il filmato, per chi non l’avesse ancora visto.

Già spiegare la scelta di una candidatura alle regionali – dopo l’elezione europea – con una similitudine calcistica evoca brutti ricordi retorici. Poi si definisce uno «stile femminile nel fare politica» come «la cura di me stessa, la voglia di essere sempre a posto», «questo è un quid in più». Lo stile maschile quale sarebbe? “L’òmo ha da puzzà”? L’uomo non ce l’ha questo quid? E perché no? «La bellezza fa notizia» – ma non stavamo parlando di politica? Non dovrebbero fare notizia altre cose? Ne dobbiamo dedurre che a Moretti stia bene che «la bellezza fa notizia»? E quale bellezza? «La bellezza non è affatto incompatibile con l’intelligenza» e non si capisce chi l’ha messo in dubbio, o rincorrere i luoghi comuni è uno dei punti del suo programma politico? «Rosy Bindi ha avuto il suo stile, diciamo che il nostro è diverso», sarebbe rispettoso chiederlo a Bindi. Poi, «il nostro» di chi? A nome di chi parla Moretti? Non lo dice. «Uno stile che mortificava la bellezza», abbiamo capito Moretti, ma quale bellezza? Secondo quali standard, semmai ce ne sono? Perché lo dà per scontato? «La capacità di mostrare un volto piacente» – mi sono perso. Stiamo parlando di politica o di comunicazione? E di quale politica e quale comunicazione? E «piacente» a chi? «Ho deciso per esempio di andare dall’estetista ogni settimana», e ce ne rallegriamo per lei Moretti, ma ciò cosa dovrebbe dimostrare? Che il suo stile è diverso, che lei non è Rosy Bindi? Non è necessario l’estetista, glielo assicuro, lo dice esplicitamente la carriera politica di entrambe. «Mi prendo cura di me», e non è una cosa banalmente fatta da chiunque? Rosy Bindi non si prende cura di sé, sta dicendo questo? O forse sta dicendo che esiste un certo modo di prendersi cura di sé che sarebbe migliore di un altro? E qual è? «Vado a correre», come altri milioni. E’ una caratteristica politica importante? C’entra con la comunicazione? Ci sta dicendo che il suo corpo non è quello di Rosy Bindi – e anche qui non serviva molto a notarlo, è tipico degli esseri umani essere diversi l’uno dall’altro. Quindi? «Devo venire con i peli, i capelli bianchi?» Perché, qualcuno glielo ha chiesto, c’è un regolamento? Ma non si accorge, Moretti, che è lei con questi discorsi a ratificare stereotipi ridicoli e penosi, pensando di opporvisi? «Perché io che ho un ruolo pubblico, che rappresento tante persone, tante donne, voglio rappresentarle al meglio». Bene – e questo «al meglio», per una candidata presidente a una regione, consisterebbe nell’andare dall’estetista ogni settimana? Nella tinta, nelle meches? Sta scherzando, vero Moretti?

«Ma che c’hai? Ma che t’ho fatto? Ma perché c’ho gli occhi blu? Perché sono anche bella, oltre che brava, ti dà così fastidio?» No, Moretti, a me dà fastidio l’ignoranza. La crassa ignoranza di chi fa finta di fare politica, comunicazione e di parlare di bellezza a un pubblico supposto nato ieri, evidentemente benedicendo quella mancanza di memoria che è un suo male devastante. Quello che mi da fastidio è vedere una candidata a presidente di regione che non ricorda – e non ha imparato nulla – dall’ultimo ventennio di politica in fatto di comunicazione e donne in politica. Quello che mi dà fastidio è vedere un’europarlamentare che non sa cos’è uno stereotipo sessista, e come lo si combatte. Quello che mi dà fastidio è vedere una persona alla quale si dà un microfono aperto sul paese che parla a vanvera di bellezza, non sapendo che la bellezza non è l’adesione a uno standard convenzionale di misure corporee e abitudini d’abbigliamento. Mi dà fastidio che tutto quello che so e che faccio da attivista antisessista e da dottore di ricerca in Estetica è stato travisato e denigrato da una professionista della politica che non ha il coraggio d’informarsi prima di parlare e non ha imparato nulla sulla comunicazione politica dopo quello che è successo in Italia almeno dal ’94 a oggi.

«La gente mica è scema, capisce», quale gente? Quella raccontata in percentuali clamorose di vittoria elettorale che si traducono in numeri sempre più piccoli di votanti? Il resto dell’intervista continua così, non vale la pena seguirla ancora.

Emanuela Marchiafava ha ragione da vendere, quando parla di donne intimidite da una pratica discriminatoria tipica di una politica maschilista: «se non sei attraente secondo i canoni maschili, ti sfottono dandoti della racchia, se sei bella come una bambola ti trattano come se lo fossi, se sei intelligente ti accusano di arroganza […] Sarebbe quindi assai più interessante concentrarsi ad analizzare i commenti alle parole dell’onorevole Moretti». La cosiddetta legge di Lewis è nota: “I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”.

Purtroppo quello che ha detto Moretti, però, non va affatto nella direzione di non farsi intimidire, ma in quella di aderire al maschilismo. Perché se ti proponi in opposizione all’immagine di Bindi dopo quello che è successo a Bindi e alla sua immagine, se non ti accorgi che parlare di “estetista settimanale” in questo momento suona come classista per molte donne, se non tieni conto nelle tue parole di un numero enorme di donne che fa e ha fatto un’ottima politica contro gli stereotipi, se non ti ricordi che in questo paese i femminismi hanno detto, scritto e lavorato decenni su questi temi (e che i luoghi comuni sulle femministe sono arcinoti), allora quello che stai proponendo col tuo sconclusionato modo di argomentare sono esattamente «i canoni maschili» e maschilisti. E Moretti lo dimostra più volte, di non tener conto di tutto ciò: essere contenta che «Boschi è una delle ministre più fotografate» significa non aver capito nulla di comunicazione, politica e questioni di genere in questo paese. Eppure anche Bindi, allora, la sua ottima risposta l’aveva data: «sono una donna che non è a sua disposizione». Sarebbe bastato capirne bene il senso, di questa risposta.

Perché è la stessa ignoranza di Moretti a spiegare per esempio come sono possibili gli insulti in rete a Samantha Cristoforetti, il primo esempio vicino che viene in mente, e tanti altri tipici atteggiamenti maschilisti – la sua si chiama “emancipazione negativa”. Tanto negativa che sembra quasi sembra che io abbia scritto per difendere Bindi, e non me stesso, dalla sua ignoranza.

Si dice che dall’estetista, mentre lavora, tempo per leggere ce ne sia.