Sono stato a lungo indeciso su cosa farne di questo articolo di Pietrangelo Buttafuoco. Meritava certamente di essere criticato, perché è un esempio di comunicazione banalmente retorica e infarcita di lessico inutilmente ampolloso su un argomento che non merita certo di queste “finezze”. Però è anche l’esempio di come certi intellettuali – dice che si chiamano così – parlano creandosi identità piacionesche che sfruttano, al solito, per dire la loro su argomenti di genere dei quali non credo che capiscano un bel niente. E diciamo che io non penso mai alla malafede, per default – è proprio ignoranza crassa. Questa ignoranza ha un palcoscenico piuttosto ampio, ed è quindi il caso di risponderle. Ne ho fatto allora un “deconstructing” e mi riprometto di affrontare anche più in generale la questione del “l’uomo di una volta”.
Il tema non è nuovo: si tratta dell’ennesima declinazione del noto luogo comune/stereotipo politico “se stava mejo quanno se stava peggio”, rimpianto di tempi andati che, per il solo fatto di essere andati, sono migliori del presente. Ancora in molti ci credono. Dato che il nostro scrittore è molto istruito, l’argomento diventa “Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!” (cit. Ariosto – scusate eh, ma due libri l’abbiamo letti pure noi), che servirebbe a declamare le virtù degli uomini (e delle donne) di una volta, che allora sì che sapevano come far funzionare i rapporti di genere, l’amore, il sesso. Certo, come no. Leggete per credere.
Avvertenza: è un po’ lungo. Non è colpa mia 🙂
Eros non le uccide mai [peccato che i giornali continuino a parlare, però, di passioni e gelosie, quando si tratta di femminicidi. Che Buttafuoco voglia finalmente dire che non è corretto parlare in quel modo, sui giornali e altrove? No.]
Anche se ci sono più vedove che vedovi, ebbene, sì: se ne ammazzano di più di donne [come se fosse un problema di numeri. E’ un problema culturale, la cui esistenza sarebbe testimoniata anche da un solo femminicidio l’anno. E poi perché parlare di vedove? Si diventa vedov* anche per cause non violente, è quantomeno scorretto usare questo dato. Qui una visione più realistica di questa polemica sui numeri]. Più degli uomini. Ed è per questo che la legge sacra della Cavalleria impone all’uomo di dare alla donna una corte – sia essa un harem, una domus, un chiostro regale – [passata l’epoca della Cavalleria, semmai c’è stata, quegli spazi sono chiamati prigioni, ghetti, lager, insomma luoghi dove vengono private persone della propria libertà] dove tutto può accadere, perfino l’amore, fuorché ucciderla perché quell’odalisca, quella sposa, quella regina è domina [domina de che? Dello spazio che lui le ha dato? Ma per favore] e vale per lei la regola di Shakespeare: “Piano, toccatela piano, perché fu donna” [ancora con la storia del fiore? BASTA con questi stereotipi!].
Se ne ammazzano di donne. Ma prima che il cercarsi tra femmine e maschi diventi un tabù [che c’entra? Perché cercarsi dovrebbe diventare un tabù?], qualcuno ci gioca. Osservate la scena. E’ notte. Tutto si svolge sulla balaustra della terrazza di Castelmola, sopra Taormina. E’ un’estate di qualche anno fa. Sono gli anni 80 [il perché cercare aneddoti di trant’anni fa non si capisce. Ma si chiarirà alla fine, stay tuned]. Lei è affacciata e attende. Lui avvita il silenziatore sulla canna della pistola. Lei si sporge e si porge [è proprio un poeta, Buttafuoco]. Lui mette il caricatore e si avvicina a lei. Lei, vestita di hot pants, si mette a cavallo della pistola. La bocca dell’arma, col silenziatore, sbuca dalle sue gambe e lui spara. Sono sette, otto colpi che viaggiano nella notte di Taormina. Tra le cosce. Tutto questo per fare calore, torneo e ghigno. Lei si sfinisce di stantuffo [ve l’avevo detto che era un poeta]. Lui non controlla più il rinculo del ferro. Rischiano che il cane dell’arma azzanni le carni morbide [i signori s’indignano e le signore portano la mano alla bocca] ma lui l’ha già abbracciata e lei inala tutto quello svaporare di piombo. Una notte, quella, dove tutto può accadere fuorché finire uccisi, piuttosto sparati, ma per approssimazione [ve lo dico adesso: che cosa c’entra ‘sta scena non lo sapremo mai. Ma alla fine sapremo perché gli premeva iniziare così].
Se ne ammazzano di donne ma le signore dell’impegno, purtroppo per loro, ripudiano il codice d’amore cortese [e mi pare il minimo: le signore dell’impegno vorrebbero dei rapporti umani fuori da schemi di servitù, onore, privilegio e altre forme di potere coatto. Per la cronaca, l’amor cortese è una categoria della critica letteraria che identifica un rapporto strutturato per neutralizzare il desiderio carnale in un rapporto di potere rigidamente formalizzato. La frustrazione fatta canone, insomma]. Vogliono tutto eccetto il benedetto malinteso della natura, quello che fa sovrano il ruolo di signore & signori [invece è proprio il contrario: se c’è una cosa insopportabile dell’amor cortese, come s’impara subito dai banchi di scuola, è che NON SI SCOPA MAI. Cosa che risulta sgradita anche alle signore dell’impegno, alle quali il sesso piace come a tutt* gli/le altr*]. E’ quel mondo dove finalmente arriva la figlia femmina e la casa diventa tana di felicità e gioia [veramente, di solito era considerata ‘na mezza disgrazia]; come quando poi s’apparecchia per lei il matrimonio o perfino il noviziato perché è più di una benedizione il suo comando, il suo desiderio e il suo volere. Comando, desiderio e volere affidati al padre, l’esecutore materiale [che bello ‘sto patriarcato, eh sì, era proprio bello il mondo di una volta]. Giammai alla madre, vestale gelosa [e figurati se lo stereotipo non si concludeva con una donna stronza].
Il mondo degli antichi non fa più testo, peggio per tutti noi [ma parla per te], nel mondo degli antichi (ancora cinquant’anni fa, in Sicilia) [notate la finezza con il quale l’antichità, secondo il nostro, va dalla Sicilia del dopoguerra alla Provenza del XII secolo – mondi uguali uguali, proprio] si applicava naturaliter la legge speciale della morte più che speciale per chiunque si fosse macchiato del sangue di una donna. Si disponeva l’uccisione dell’assassino e i parenti del malacarne non si osavano di reclamare vendetta. Per la troppa vergogna [peccato che al nostro sfugga che ciò è motivato dall’essere le donne considerate così poco, che chi le ammazzava infamava con la sua pocaggine tutto il clan. Non si ammazza un essere che non vale nulla, per questo era disonorevole il femminicidio – significava che la donna era incredibilmente assurta al ruolo di “fastidio”, di “cosa da eliminare” – era roba da vergognarsi l’essere costretti ad ammazzarne una, significava non essere stati capaci di farla stare al suo posto. Ed è roba già presente nella Bibbia, eh].
L’antico non sbaglia mai ma queste donne impegnate hanno ragione a temere la statistica del “femminicidio”, un termine preso in prestito alla banalità del politicamente corretto in attesa di trovare parola più precisa [il codice penale è già pieno di prestiti dalla banalità del politicamente corretto: doloso, colposo, preterintenzionale, suicidio, genocidio, infanticidio – e poi ci sono parricidio, matricidio e uxoricidio… tutti termini che servono a identificare uno specifico reato, con lo scopo di chiarire le circostanze e comminare una giusta pena]; hanno ragione perché il maledetto malinteso della civiltà snaturata [interpretazione dell’autore che lui ha assunto a dato di fatto] ha ormai fatto dei padri, dei fidanzati, dei figli perfino, la parodia dell’essere maschio [eh? Quando abbiamo deciso cosa vuol dire essere maschio? Di nuovo, queste sono congetture trattate come fossero dati di fatto].
Ci sono più donne che uomini, il calcolo è questo, ma se ne ammazzano a non finire mai di ragazze, di mamme, di fidanzate, di soldatesse, di prostitute, di professioniste. Qualcuna, come Lucia Annibali – avvocato, 35 anni – è stata sfregiata dall’acido muriatico. Cercate su Internet la sua foto. E’ bellissima. Violarne la grazia è tipico di chi, al pari del maiale, altro sguardo non regge che quello del fango dove si specchia [a parte che ci si poteva risparmiare l’insulto specista – non ho capito che male hanno fatto i poveri suini per essere avvicinati a dei criminali – un altro dei tanti pregiudizi sessisti di questo articolo è che a lei, in quanto bellissima, sia più grave violarne la grazia. E’ un corpo, il suo corpo ad essere stato violato, non la grazia, e sarebbe stato un crimine identicamente odioso se Lucia Annibali fosse stata quello che un linguaggio socialmente cinico e discriminante definirebbe “una racchia”. Pare invece che, per l’autore, i crimini si possano ordinare per efferatezza a seconda che la grazia violata sia di una donna che gli piace particolarmente o meno. Complimenti].
Il calcolo è impari. E se pure c’è stato un solo caso di donna che ha scannato la propria donna (a Gussago, in provincia di Brescia, Angela ha ucciso con due colpi di pistola Marilena) [classica precisazione paraculo-machista e logicamente senza senso], è sempre un parodiar del maschio a far cadere l’eros dentro thanatos che non è più il baratro di concupiscenza del romanticismo ma la botola del più sanguinoso luogo comune, un computo da cronaca nera prossimo a diventare mappazza d’ideologia [ho fatto studi classici e lo voglio far vedere, ok?].
Più degli uomini, dunque, sono le donne a crepare nella guerra dei sessi [un altro classico della stereotipìa maschilista è che i sessi siano in guerra. Una guerra è condotta da due eserciti che si scontrano l’uno contro l’altro, ciascuno con le proprie motivazioni – in questo modo il maschilista può accusare l’altra parte in guerra delle proprie stesse efferatezze. La realtà è che c’è un rapporto di potere tra oppressore e oppresso, e non una guerra – ma questa immagine, com’è ovvio, ai maschilisti non piace, tantomeno ai nostalgici dei bei tempi andati]. Ovviamente non se ne può fare una mobilitazione di coscienza o una raccolta firme perché già l’adesione di Adriano Celentano e Claudia Mori alla campagna di Concita De Gregorio per la costituzione degli Stati generali sulla violenza contro le donne rende tutto molto piritollo [questa parola se l’è inventata lui, e io non linko un altra volta roba sua; usate Google, per favore]. Lui, oltretutto, è meritatamente autore del manifesto del possesso amoroso qual è “Una carezza in un pugno” [Celentano non ne è l’autore, l’ha solo cantata, ma la verità gli smonterebbe tutta la piritollaggine], la canzone dove da geloso giustamente dice “mia, mia e mia” e sparge pugni in luogo di carezze, perché il tema dei temi – oggi, oggi che gli uomini uccidono le donne – è l’uso e l’abuso del possessivo mio [notate come la questione di potere che sta alla base del problema dei femminicidi è stata fatta diventare una questione di linguaggio, che quindi potrebbe essere risolta tornando ad altri mondi linguistici, come quello dell’Amor cortese. Davvero un genio, complimenti].
Il senso del possesso è di certo il sesso [EH? Ormai siamo in pieno “dipartimento infatuazione per le proprie parole” (cit.)]. C’è anche un che di “ossesso” nell’intimo etimo [non è vero: etimologicamente le due parole sesso e ossesso non hanno niente a che vedere l’una con l’altra] del principio generatore della volontà di potenza che diventa volontà di volontà per poi sciogliere le trecce all’Essere innanzi alla volontà di verità [è tipico dei laureati in filosofia in certi anni citare Nietzsche e Heidegger come fossero propri amici personali. Tra qualche anno, quando sui giornali arriveranno a scrivere i laureati in filosofia negli anni ’90 e 2000, sarà lo stesso con Lacan, Derrida e Foucault. In entrambi i casi, si tratta quasi sempre di richiami insensati e gratuiti, tanto per fare allitterazioni rumorose]. Con questo non voglio rubare il mestiere a Michela Marzano [non vedo proprio come potresti: Marzano, per quanto discutibile, certe cose le ha studiate bene], torno presto nei miei ranghi di oplita [lo dirà altre due volte che è un soldato – poi dici perché gli antisessisti sono definiti “disertori del patriarcato”…], ho ben letto l’Idòla [fa più fico di “pamphlet”, vero? E’ il nome della collana di Laterza, preso da Bacone] di Loredana Lipperini e Michela Murgia “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” (Laterza, euro 9,00) ma tutto questo uccidere perché si ama per fortissimamente amare e meglio marchiare di “mio” ogni “mia” non riguarda l’uomo antico [il quale, come abbiamo visto, non aveva alcun bisogno di marchiare: metteva la donna in un recinto e fine lì], piuttosto quello più profondamente moderno, il maschietto più autenticamente etico [che cos’è un maschietto etico? Non è dato sapere], quello più amico delle donne, quello arrivato dritto dritto dalla promiscuità militante [che cos’è la promiscuità militante? Anche questa domanda risuonerà nel vuoto], insomma: l’impotente [ecco, che sia chiaro: quello più amico delle donne è l’impotente, mica come il bel maschione di una volta].
Succede che Bertrand Cantant, l’amico di Manu Chao, artista impegnato, fa di Marie Trintignant, la sua fidanzata, una maschera di sangue. Lui non è un criminale, per Libération è “bisognoso d’aiuto”. L’amore confina con la follia [no, qui è l’ignoranza di certo giornalismo che confina con la malafede, nell’usare quelle parole]. Qui non c’è gioco. Magari c’è il disagio. Ecco, c’è un’altra vittima, per dirla con l’onorevole Boldrini [che non c’entra assolutamente niente, non è che una parola sola rende l’argomento simile a quello di Boldrini], che diventa carnefice. E c’è la compassione per automatismo libé [e che vuol dire questa constatazione? Che senso ha buttarla lì così?]. Bruno Carletti, direttore artistico dello Sferisterio di Macerata, uccide Francesca Baleani, l’ex moglie [è viva eh, non l’ha ammazzata]. La carica in macchina e la scarica in un cassonetto. “Francesca”, dirà padre Igino Ciabattoni, responsabile della comunità di recupero che ospita l’assassino, “non troverà più un uomo che possa amarla così tanto” [e speriamo per lei che non lo troverà più]. Ancora una volta: “Un atto d’amore, cieco come la morte”. Lipperini e Murgia sono riuscite a costruire con il loro pamphlet un catalogo dell’orrore dove però – dicono – “è mancato il collegamento: sono, anzi, mancate le parole che tenessero insieme morti atroci quanto ritenute isolate, non ripetibili”.
Provo a metterci delle parole – oltre l’amoricidio [parola sbagliata e fuorviante, se applicata a quei casi] – e spiegare che quelli che non sanno prendere le donne se non uccidendole non sanno dire “mio” perché sono ubriachi di “io” [no, non mettiamola sulla psicologia perché sarebbe come dare loro dei “malati”, e quindi giustificarne le azioni per cause non dipendenti dalla loro volontà. E’ un problema di potere: uccidere è proprio il modo di ratificare per sempre il possesso, è il modo più forte di dire “mio”]. Hanno un’erezione cerosa e zero colpi in canna e non si tratta certo della pistola del femminicidio [è tornato il poeta], il capitolo sociale di un’umanità maschia senza più forza, il “vir”, zero colpi nel senso proprio di mancare al principio ordinatore del venire al mondo con responsabilità [che sarebbe esclusivo dei maschi? Però], amore cortese e dovere perché solo il rito – con la sua liturgia di possesso – conserva l’eros dentro le sue pulsioni buie senza incappare nel codice penale [quale rito? L’Amor cortese è stata in’invenzione letteraria, non c’era alcun rito. E di riti l’attuale vita civile è piena – per esempio, il matrimonio è un rito – eppure non sembra che servano a molto per non incappare nel codice penale].
La verità dell’amore, nelle mani di chi ci sa fare [sempre e solo maschio eh, per carità], è uno squarcio dove da fuori c’è il sangue vivificante della vita mentre – dentro – nella carne, c’è il fuoco. Mai la messa a morte. Certo, “meglio morta che puttana”, questo predica l’antico della propria donna se questa poi ha fatto del proprio nome strame [che carino, questo uomo antico]. Ma quel “meglio morta” non è assassinio [noooo, figuriamoci, gli uomini antichi non ammazzavano mai nessuno, scherzi?], al contrario: è un continuare a vivere nel dolore disperato del disonore [un riferimento, una data, un nome… no, è tutta scienza infusa nel Buttafuoco]. Mai perdonare, mai, non si può perdonare [“Dio perdona, io no” (cit.)]. E la stessa donna ha disprezzo di chi cicatrizza la ferita del tradimento [ricordate il teorema della guerra dei sessi? Anche le donne hanno le stesse pulsioni dell’uomo, quando fa comodo – all’uomo]. Mai dimenticare perciò, mai, non si può scordare ciò che fa nell’anima uno scempio perché l’amore, come il sangue coi figli, s’avvelena forse ma non si disperde. Il soffrire d’amore è spirituale [ma de che? Ma se anche quelli dell’Amor cortese, pur nella frustrazione, parlavano di corpo e sesso!], un atroce friggere cieco delle carni [un friggere cieco. E io che pensavo fosse un bollore sordo, o un mantecare muto], non un trauma della psiche [lui è quello che parlava di “io”, eh – e adesso non è un trauma della psiche. Parole a caso, tanto per dirle]. E non è paritario il dolore, non conosce uguaglianza, è debolezza propria del portatore di seme, biologicamente inferiore a chi, al contrario, è donna generatrice di nuova vita [e ti pareva che alla fine il maschio non era quello sfortunato rispetto alla femmina! Solo lui soffre davvero, poverino! Mica quella che mòre ammazzata!].
Non si può disinnescare la tossina dell’innamoramento, quel farmaco omeopaticamente salvifico, con l’edificazione di un tabù culturale contro il maschio [ma chi lo edifica? Ma dove? Perché parlare di cose senza dimostrarle, senza costruirle?]. Capisco che a qualcuno sia venuto in mente il mettere da parte l’istinto a favore di una civilizzazione della copula [eh sì, dice la civilizzazione che bisogna essere consenzienti, mannaggia a queste regole civili che ci fanno mettere da parte l’istinto]. Dopotutto neppure gli stalloni riescono a coprire le giumente senza l’ausilio del veterinario [questa è cattività, non civilizzazione. Gli animali – e lasciali perdere! – non diventano mai “civili”, cioè cittadini] che, oplà, guanti pronti, posiziona ciò che c’è da posizionare [Buttafuoco, ma che ti guardi in TV?].
Piano piano arriverà questa civiltà del rapporto paritario [cioè il rapporto paritario sarebbe quello assistito da un dottore che posiziona ciò che c’è da posizionare? Ma cosa stai dicendo?]. Pare che non ci sia più la donna, non c’è l’uomo, c’è solo la persona [ma pare a chi? Dove?]. E’ facile sospettare che il tentativo di trasferire la rivoluzione – la donna in luogo del proletariato – abbia preso il sopravvento su altri fallimenti ideologici [COOOSA?] ma desiderare è avere e il maschio, non la “persona”, nel recinto sacro dell’Amor cortese, prende possesso di quella carne [ancora con questa storia? Nell’Amor cortese nessuno prendeva possesso di quella carne!!!] in ragione dei due punti di suggello e sigillo: l’osso sacro e la ghiandola pineale [no, ditemi che sto leggendo male, vi prego]. E la copula, ovvero il contatto con il coccige e con la nuca – come fanno i gatti quando acchiappano la micia da dietro per addentarla al punto da denudarne, dei peli, la cuticagna [BASTA con i paragoni specisti, Buttafuoco! Ma che immaginario hai?] –, altro non è che il cogliere la rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state [ma lascia perdere il Trecento, che anche allora sapevano chiamare questa posizione sessuale con ben altro che cogliere la rosa fresca aulentissima].
Come si faceva l’amore di una volta [non mi risulta che ora quella posizione abbia perso popolarità]. Quando gli dèi s’affacciavano dall’Himalaya per compiacersi degli innamorati fradici di desiderio e di respiro [se lo dici tu…]. Tutto ciò non è il porno. Qui si procede di fisiologia. E di furor sacro. Mircea Eliade alla mano [che bella immagine, te che procedi di fisiologia con la bocca occupata dalla cuticagna di qualcuna e “Spezzare il tetto della casa” aperto in mano]. Altro che la delicata Costanza Miriano, autrice di “Sposati e sii sottomessa”, fustigata non poco da Lipperini e Murgia [non è stata affatto fustigata, come già scritto altrove].
L’amplesso è però un dettaglio. Il mettere carne sopra carne è, infatti, solo un abito dell’istinto: quello della sopravvivenza e – come da codice platonico, ossia il “Simposio” – ci si riproduce solo nel bello. Non potendo generare carne, si genera l’idea [peccato che quest’ultima frase sia roba tua, e non di Platone]. Mai la messa a morte.
L’amplesso è la vera astuzia della storia se solo fosse la storia matrice delle generazioni mentre invece è la sopravvivenza, la vera padrona delle erezioni e degli umori [sì, certo, soprattutto nel XXI secolo è l’istinto di sopravvivenza a produrre le erezioni – dillo alla fiorente industria del porno commerciale], dunque tutto un aggiungere piani al grattacielo del destino a due, quello del maschio e quello della femmina, dove ogni cosa è chiara, chiara assai. Don Rafaele Cutolo, ’o Camorrista, lo diceva fuori da ogni metafora: “Quando si fotte riesce sempre bene perché ciascuno sa che cosa vuole l’altro” [da Platone e Don Cutolo, ogni cosa è permessa al filosofo infatuato del suo linguaggio, ovviamente].
Le donne si fanno femmine e selezionano il patrimonio cromosomico più forte, più ricco, più potente [certo, come no, da sempre le donne si fanno femmine e fanno sesso con chi scelgono loro. Ma questa dove l’hai letta?]. Nel benedetto malinteso della natura si è sempre femmine e – nel proprio harem, nella propria domus, nella propria reggia – dunque nel sottinteso benedetto della loro più segreta natura [leggi: nel recinto dove le ha messe il loro padrone maschio uomo di una volta], le donne svelano il primo punto: quello della ghiandola pineale, dunque l’anima. E poi ancora l’altro punto: l’osso più sacro. Quello che nella risulta ancestrale dei secoli dei secoli è solo l’ombra di ciò che fu coda.
Come si fece sempre [sì, avete letto bene, sta costruendo un retorico e ampolloso elogio della “pecorina”. Complimenti]. Furono i missionari cristiani, abusando della credulità dei selvaggi, a riposizionare gli incastri della conoscenza carnale. Abrogarono il posizionarsi al modo del “more ferarum” e dannarono per sempre come animalesco, dionisiaco e peccatore il principio del piacere [cosa c’azzecchi la storia delle posizioni erotiche lo sa solo lui, s’era partiti col femminicidio. Andrebbe istituito il reato di digressione illecita]. L’abito non fa il monaco, il New York Times avrà avuto i suoi motivi per dire che la moda italiana, fatta eccezione per Bottega Veneta, Prada, Gucci e Marni, è fatta solo per le zoccole (“italian fashion in the Time of the Trollop” [l’articolo è questo e tutti potete leggere che le cose non stanno proprio come riportato dal nostro. Trebay, nel 2007, allarga il discorso a un concetto culturale di volgarità, che riguarda anche i media – ma che je frega a Buttafuoco, a lui interessa la carne, gli umori, more ferarum]) ma la minigonna non fa la scostumata. Tra collo e schiena, tutto quel percorrere di aulente malia non può che avere migliore rappresentazione nella Valentina di Guido Crepax. Provate a ricordare quel suo incedere inesorabile [che nessuno ha mai visto, essendo un fumetto], non sarebbe stata a suo agio nella tavernetta del bunga-bunga ma avrebbe fatto la felicità di Cielo d’Alcamo [il cui famoso contrasto “Rosa fresca aulentissima” era proprio una presa in giro della poesia d’amor cortese, ndr].
L’abito non fa il monaco, figurarsi la memoria della letteratura ma chi più di ogni altro regge la fatica del presagio in questa Italia orba di virtù maschia [eh sì, mancano proprio gli uomini di una volta], in questo precipitare di morte e amore, nella follia e nel lutto è Boccaccio che, nella novella di Nastagio degli Onesti, nella quinta giornata del “Decameron”, “ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse” [state a sentire che bella la saggezza dell’uomo di una volta].
Provo a farne il racconto: Nastagio è un nobile ravennate che s’innamora senza tregua della figlia del nobilissimo (più di lui) Paolo Traversari. Per conquistarla ordina feste e cene di gran lusso. Ma quella lo rifiuta con divertimento e lui continua a sperperare energie e denari, fin quando per troppo amore, per evitare di ammazzarsi e di dilapidare tutto, va via dalla città [fin qui aveva fatto una cosa giusta: s’era rassegnato alla libertà di lei di dire no. Ma Nastagio è uomo di una volta…].
Un venerdì d’inizio maggio, proprio un venerdì come questi, Nastagio vede una scena che Botticelli illustrerà poi per Lorenzo il Magnifico (ne avrebbe fatto un regalo di nozze, quasi un memento: “Amare se non vuoi morire”). Una giovane donna corre nuda, due cani la inseguono e tentano divorarla variamente, mentre un cavaliere armato le urla dietro minacce di morte. Nastagio vuole difenderla, ma il cavaliere si ferma a raccontare la propria storia. Aveva amato quella ragazza follemente, ma non ricambiato, si era suicidato [forse ha un po’ esagerato, ma non fermiamoci a sottilizzare]. Lei non aveva avuto nessun pentimento, nessuna pena, ed era stata con lui condannata alla tremenda punizione [perché? Quello è così scemo da suicidarsi e lei ne va di mezzo?]: tutti i venerdì lui la caccia con i cani feroci, la minaccia di morte, l’ammazza e ne vede ricomporsi il corpo. Il venerdì successivo e per chissà quanto ancora, si ripete la stessa sequenza barbara [ah, è la sequenza a essere barbara, invece del fatto che una donna innocente paghi in eterno la stupidità di lui].
Devi amare se non vuoi morire. O, almeno, ricambiare. Questo è il succo [traduco per il XXI secolo: donna, se uno decide di amarti, so’ cazzi tua]. E Nastagio, infatti, ha una sua trovata. Il primo venerdì utile, invita l’amata e tutti i parenti a un desinare sul luogo della scena crudelissima che, tempestiva, si ripete. Il cavaliere che strazia la donna e che non è timido, racconta la storia pure ai banchettanti. La più terrorizzata di tutti è proprio la Traversari [e ti credo!], che subito riflette sul sentimento negato e sulla mancanza di rispetto verso quell’amore e, insomma, “temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio” [che bello, lo sposa per paura, proprio il trionfo dell’amor cortese]. Non solo, con il suo gesto educa le donne di Ravenna, che d’improvviso diventano tutte più gentili e amorevoli con gli uomini [com’era? Ah, sì: punirne una per educarne cento. Davvero fenomenali ‘sti uomini di una volta].
Tutto un obbligo d’amore per non dover morire. Sempre nel “Decameron” e sempre in letteratura, c’è anche la tradizione del cuore dell’amato dato in pasto per vendetta, dal marito, alla moglie traditrice, che magari su indicazione del consorte l’aveva pure cucinato a guisa di manicaretto. E in tema di cuori mangiati, ma davvero, ci sarebbe Pasquale Barra, detto ‘o “Animale”, un esponente della nuova camorra organizzata che uccise Francis Turatello in carcere e poi ne addentò gli organi [quanto gli piace passare dai personaggi letterari ai camorristi], ma adesso – proprio no – non voglio certo rubare il mestiere a Roberto Saviano [grazie, infatti ci basta e avanza lui – e poi, quale mestiere?], torno nel rango mio di oplita [e due] e provo a spiegarmi che uccidere, per questi tapini, è forse un oltrepassare il rito dell’amore, un addentrarsi nel furor, uno stroncarsi al pari di Narciso in tutto quel rimirare se stessi per poi esplodere nelle bolle dell’acqua stagna [sicuramente, intanto è “uccidere lei”, e non solo uccidere – il verbo è transitivo, bisognerebbe ricordarselo più spesso].
Approssimarsi d’amore, magari con la pistola in pugno, per volare nella notte di Castelmola, è approssimare la propria dannazione alla morte, controllarne il respiro e lo sguardo di dolore, che è ancora rito, nella rigenerazione di un torneo di pura buia gioia perché, insomma, lo dico da oplita [e tre], non esiste una cultura arcaica da sradicare dal nostro guardare negli occhi dell’amore, esiste solo la realtà di Eros che mette a bada Thanatos [ed esistono pure un sacco di noiosi parolieri che veicolano stereotipi inadeguati e violenti mascherandoli da chiacchierata erudita].
Esiste la realtà della natura [sì, abbiamo capito, viva la pecorina] e se proprio la civiltà riuscirà a ucciderla [ma solo regolarla no? O a pecorina o ammazzata? Però, che bella la natura] significherà che saranno stati i desideri a determinare i diritti, che si procederà d’inseminazione per tramite di applicazione veterinaria [insisto: Buttafuoco, lascia stare i canali tematici, ti fanno male] e ci sarà solo la persona, finalmente libera del possessivo ma persa per sempre nella bolla afona e stagna dell’io-io-io che non saprà dire “mio”, anzi, “mia” se non mettendo a morte. Come cosa morta è l’amore di Narciso [complimenti per la diagnosi: o sesso ferino nel recinto o deliri psicotici con delitto. Che bella prospettiva].
Post scriptum.
A proposito dell’episodio di Castelmola. Lui era sì un picciotto malandrino ma la pistola non era la sua. Era della ragazza in hot pants [capito a che serviva la storiella? Alla fine è colpa di lei].
Vi suggerisco una colonna sonora per questo profluvio di fastidioso e ipocrita lessico altisonante: Latte e i suoi derivati, “D’amore e nel vento”.
Ma qualcuno glielo ha mai detto che manco gli stalloni sono più quelli di una volta, e manco i veterinari? Oggiggiorno lo stallone si munge, le case farmaceutiche (maledette) commercializzano delle belle siringone che l’ allevatore, senza dover più pagare la parcella al veterinario, adopera all’ uopo e abbiamo così scisso la riproduzione, miracolo del sacro, dalla ferinità dell’ accoppiamento, che diciamocelo pure, se i miei vicini non si decidono a castrare i gatti io prima o poi sparo. E senza hot-pants.
Invece di parlare di femminicidio, io direi che quest’ uomo ha appena scoperta una giusta causa a favore della ferinità di una volta, un valore da conservare per i nostri figli.
(Lorè, finalmente, io la metà delle tue decostruzioni le leggo col travaso di bile, a questo giro invece mi sono fatta tante di quelle risate, non so come ringraziarti).