Compagno? Anche no.

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Amo la parola compagno. Mi suona dolce e bellissima: in una parola, meravigliosa. Proprio per questo motivo, vorrei che fosse utilizzata con un po’ più di parsimonia: ne detesto l’utilizzo casuale. Non c’è alcuna ragione per cui uno che si dichiara anarchico dovrebbe essere automaticamente un compagno, per me.

Magari è uno che si dice antiqualcosa. Salvo poi fare la faccia annoiata quando parli di quel qualcosa, non leggere i materiali che gli mandi, e tanti altri bei comportamenti. La politica è qualcosa che si “fa”, non è che si “è”, quindi se “sei” antiqualcosa ma ti comporti da proqualcosa, sei proqualcosa. E se fai l’indifferente, sei proqualcosa lo stesso: l’indifferenza non va mai a beneficio di chi è svantaggiato.

Magari è uno che se gli parli di privilegio diventa paonazzo e ti accusa di dargli dell’oppressore. Senza accorgersi che lo è di fatto, che i suoi presunti sentimenti feriti non hanno la priorità sull’esperienza di chi è oppresso, e che negare la sua posizione lo rende ancora più oppressivo. Insomma, uno che i suoi privilegi col cazzo che li ammette e men che meno tenta di combatterli, che tutta la merda sistemica che gli esce dalla bocca proprio non la vede.

Magari è uno che fa battute offensive in continuazione. Poco humour? sarà. Ma l’umorismo non è qualcosa che accade in un vacuum al di là di questa dimensione, dove tutti i rapporti di potere di questa società non esistono. Io battute e frecciatine su: maschi, bianchi, eterosessuali, cisgender, borghesi non ne sento praticamente mai. Puro caso? anche no, visto che quelle poche volte che succede si sbraita di “sessismo” e “razzismo” al contrario, di eterofobia e cisfobia, eccetera. Forse questo senso dell’umorismo non è né sviluppato né egualitario, checché se ne dica.

Magari è uno che legge queste parole, e si affretta a dire che queste persone non sono davvero compagni, ignaro dell’esistenza della fallacia logica del nessun vero scozzese.

Magari è uno per cui esiste soltanto la lotta di classe e quella contro lo stato, e il resto si fotta. Al massimo verrà dopo la rivoluzione, dice. Ma finché i panni sporchi non si laveranno in piazza e il personale non sarà davvero politico, non si riuscirà nemmeno a fare militanza assieme senza dover tirarci le sedie, figurarsi il rovesciamento dell’attuale ordine sociale. Senza abbattimento del patriarcato in tutte le sue declinazioni, dello specismo, dell’eterocisnormatività e di tante altre cose, non ci sarà alcuna rivoluzione possibile.

Ah, e i miei compagni, le mie compagne, me li scelgo e me le scelgo io. Così, tanto per essere lapalissiano.

I’m a better manarchist than you!

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Esplorando il web, abbiamo trovato questa geniale cover di “I’m a better anarchist than you” di David Rovics. Manarchist è una parola inglese usata per riferirsi ad anarchici sessisti, maschilisti e misogini in generale, MRA sta per “Men Rights Activist”, cioè coloro  che ci distruggono le gonadi con presunte misandrie (?) e non si sono ancora accorti che il sessismo al contrario non esiste e non può farlo, dal momento che un sistema di oppressione bidirezionale viola le basi della logica perché un’oppressione implica uno squilibrio di potere, e che le “discriminazioni” che subiscono sono tagliate per loro sulla base del ruolo che il patriarcato appioppa loro – e del quale, però, vorrebbero solo vantaggi e privilegi.  Il resto è abbastanza chiaro, perciò alleghiamo il testo e buon ascolto. 😀

http://youtu.be/XuwI5mQWwKs

I don’t check my privilege
I think that’s fucking gay
I just want to break some windows
While screaming “Fuck the state”
I like to tell racist jokes
And make fun of the queers
I’m not about to stop
Cuz I’ve been doing this for years
I think it’s okay cuz my grandpa was a Jew
I’m a better manarchist than you

I scope out women
Or just their tits and ass
And I think that all oppression
Is limited to class
I’ll mansplain to anyone
Who thinks I may be wrong
Because they all should know
That I knew better all along
All you butthurt women, you just haven’t got a clue
I’m a better manarchist than you

I talk too much at meetings
I always jump the stack
And I shut down other people
Who try to hold me back
All your whining about oppression
I think it is a bore
Because I’ve read Bakhunin
My opinions matter more
I think you’re so divisive with your gendered points of view
I’m a better manarchist than you

I don’t believe in sexism
Except the other way
Cuz I’ve always fought misandry
Since I became an MRA
I fucking hate feminazis
Who want to fuck with us
But I feel so much better
Since I joined Anonymous
I think that matriarchy is a threat to me and you
I’m a better manarchist than you
I’m a better manarchist than you

O sei con me o sei contro di me – oppure dialoghiamo

444px-NAMA_Courtisane_&_client Quello della prostituzione è un argomento sempre vivo e sempre dibattuto sia nel web che sui media generalisti, anche se molto più (e meglio) nel primo che nei secondi. Ed è un bene che sia così, perché almeno significa che ancora in molti non lo considerano un fenomeno tranquillizzante, a cui fare l’abitudine. Rimane però il fatto che gran parte delle parole spese sul fenomeno della prostituzione sono del tutto inutili a fare qualche passo avanti verso una visione della prostituzione senza moralismi e luoghi comuni. Se c’è un argomento nel quale la retorica del “o con me o contro di me” fa male a tutti i partecipanti, è questo.

Lasciando stare vari* criptonazist*, fautori delle strade pulite e del decoro urbano, che ne scrivono non come qualcosa i cui attori sono esseri umani ma come una specie di malattia purulenta e fetente, da eliminare prima possibile dal corpo “sano” della società, rimane il fatto che gran parte del dibattito e delle discussioni accese dai commenti alle varie prese di posizione si polarizzano facilmente nella dualità “pro” e “contro” la prostituzione.

Io credo che dichiararsi pro o contro la prostituzione e basta non significhi assolutamente niente. Parole vuote, fuffa, aria fritta; innanzi tutto perché la parola “prostituzione” la si continua a usare tranquillamente come se il suo significato fosse unanimemente chiaro e accettato, e come se l’ordine di grandezza di questo fenomeno sociale fosse chiara a tutti. Basta prendere dei comuni esempi di ciò che normalmente viene chiamato prostituzione per capire che le cose non sono tanto facili.

Prostituzione si usa per indicare la vita di una ragazza nigeriana costretta a vivere sulla strada e a pagare un debito verso i suoi aguzzini, che in realtà è un inganno, perché l’hanno convinta che con il voodoo la sua famiglia d’origine andrà incontro a una brutta fine, se lei non paga. E loro non hanno alcuna intenzione di lasciarla esaurire il suo debito, mentre fa la bellissima vita della strada.

Prostituzione si usa per indicare una studentessa universitaria fuori sede che con la sua attività indipendente si paga la casa, la vita sociale e gli studi che vuole.

Prostituzione si usa per indicare un “ragazzo di vita”, che tanto piace a una stampa pruriginosa e a nostalgici intellettuali.

Prostituzione si usa per indicare l’attività economica sostanzialmente indispensabile a una persona in transizione per pagarsi burocrazia, medicine, esami, operazioni, dato che viene sistematicamente rifiutata da qualunque altro luogo di lavoro per il suo aspetto e le sue abitudini.

Prostituzione è anche quella minorile, è anche quella legata al turismo sessuale che parte da questo paese.

Casi ed esempi estremamente diversi, perché la parola “prostituzione” è troppo spesso usata solo come un facile contenitore per il proprio livore, o per indirizzare a un bersaglio facile un progetto politico, o per fare distinguo moralistici. Il fenomeno è sociale, e andrebbe affrontato a tutti i vari livelli nei quali si presenta: è facile capire che serve un’azione di supporto psicologico, di formazione delle forze dell’ordine, di contrasto all’economia sommersa legata alla prostituzione e alla tratta, di diffusione culturale di conoscenza del fenomeno, di organizzazione sociale per l’alto numero di persone coinvolte. Invece si leggono molto spesso volontà proibitive o legalizzanti come se la bacchetta magica del proibizionismo o della regolarizzazione potesse bastare in tutti i casi. E’ invece evidente che esprimersi a favore o contro una soluzione “univoca” serve solo a farsi facili amici, a raccogliere consensi poco pensati, e a non inquadrare il fenomeno della prostituzione nella sua vastità sociale e nelle sue ambiguità tanto fastidiose ai più – ma da affrontare lo stesso, anche se non piacciono.

Poi, rimanendo molti e diversi i fenomeni etichettati con quella parola, rimane da cercare una soluzione per la vita delle persone coinvolte. Sono d’accordo che ci sia da agire sulla “domanda” di prostituzione, sui clienti, sugli uomini che comandano, gestiscono e usano la prostituzione; che vendere e/o affittare il corpo sarebbe ovviamente una pratica da evitare/impedire se c’è sfruttamento, e che quindi c’è da lavorare sul concetto di autodeterminazione; però i cambiamenti culturali non hanno quasi mai i tempi giusti per agire sulle emergenze sociali. Vorrei leggere proposte su come salvare la ragazza nigeriana prima che intraprenda odissee sola in un paese straniero e venga braccata da chi la vuole morta; su come, e soprattutto perché, convincere la studentessa indipendente a rinunciare a una facile “bella vita” come la vuole lei; su come agire nella prostituzione maschile gay; su quali soluzioni alternative proporre a chi vede nella prostituzione l’unica possibilità di guadagnare i soldi necessari a diventare quello che si è – o semplicemente a pagare le bollette; su come bloccare l’adulto che compra il sesso di un bambino sfruttando la sua superiorità di classe economica, il suo potere. Sarebbe molto meglio che leggere bordate di critiche tra sostenitori e denigratori della regolarizzazione, tutti intenti a dimostrare il torto altrui senza raccontare con quale criterio sviluppare la propria soluzione al problema sociale, senza raccontare una soluzione articolata per tutto il problema “prostituzione”, senza l’umiltà e la lucidità di dire che stanno forse solo parlando di una piccola parte delle cose in gioco.

Io una soluzione non ce l’ho, so solo che non è possibile che ne basti una. Quindi cerco di capire meglio come stanno le cose, prima di sparare a zero sulle idee altrui. Magari, imparando a parlarne decentemente, cominceremo a fare qualcosa di utile per le persone che di questo fenomeno fanno la loro vita, più o meno volontariamente. Perché nel frattempo abbiamo i media generalisti come vampiri strombazzanti sui fatti di cronaca di cui non gl’importa sapere, in realtà, nulla di più di quello che basta ad alimentare le loro retoriche pruriginose. E allora dàje col concitismo dilagante, tutto tette che crescono, papà assenti e giocattoli abbandonati precocemente; dàje con la versione progressista a tutti i costi, che vede comunque una storia “ricca di sbalzi in avanti (il modo in cui le ragazze vivono se stesse)”; dàje con la filosofa che dice che manca tanto l’amore.

Luoghi, momenti e persone da ascoltare ce ne sono – ecco un esempio. Le associazioni ci sono, le esperienze da diffondere e imparare pure. Invece si preferisce giocare ai proibizionisti contro gli autodeterministi (nuova versione di guardie e ladri), si preferisce riempire di moralismo d’accatto ogni stream grande e piccolo; pur di non fare analisi serie, pur di non parlare di uomini, di clienti, dei padri che sono clienti e pure “gestori” del fenomeno, si arriva a credere a nuove forme di innatismo, senza distinguere tra colpa e responsabilità, senza distinguere tra morale ed etica.

Lavorare seriamente su questi argomenti costa personalmente molto: bisogna prima cosa, come sempre quando si parla di sessismo a vario titolo, guardarsi ben bene dentro ed essere disposti a riconoscere il proprio moralismo, i propri pregiudizi, i propri limiti. E dialogare onestamente con quelli, attraverso quelli, oltre quelli. Il personale è politico, ma agli imbrattacarte e ai guardiani della morale non gli andrà mai di accettare questo dialogo – prima di tutto con se stessi.

Perché il femminismo fa male agli uomini

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Pubblichiamo la traduzione di questo articolo, “How feminism hurts men”, di Micah J. Murray. La traduzione è di Luciana Franchini, che ringraziamo: la responsabilità di tutto è mia, ovviamente.

 

Ieri qualcuno su Facebook mi ha detto che il femminismo glorifica le donne a scapito degli uomini, che il suo obiettivo di validare le donne castra noi maschi.

Ha ragione.

L’ascesa del femminismo ci ha relegati a uno status di second’ordine. L’ineguaglianza e la discriminazione sono diventate parte della nostra vita quotidiana.

A causa del femminismo gli uomini non possono più camminare per strada senza la paura di essere fischiati, molestati, addirittura aggrediti sessualmente dalle donne. Se viene aggredito, l’uomo viene anche incolpato: per com’era vestito, “se l’è cercata”.

A causa del femminismo non ci sono più conferenze cristiane importanti su come comportarsi da uomini, e dove migliaia di uomini possano celebrare la propria virilità e Gesù (e magari farsi qualche risata con gli stereotipi sulle donne).

A causa del femminismo le convention religiose sono spesso dominate da donne. Gli uomini vengono incoraggiati a limitarsi a badare ai bambini o alla cucina. A volte agli uomini viene persino detto di stare zitti in chiesa.

A causa del femminismo le donne guadagnano più degli uomini a parità di lavoro.

A causa del femminismo è ormai difficile trovare un film con un eroe maschile. La maggior parte dei film da cassetta parla di una donna coraggiosa che salva il mondo e ottiene un uomo oggetto come trofeo per le sue vittorie.

A causa del femminismo gli sport femminili sono un business enormemente fruttifero in cui esse vengono idolatrate su scala mondiale. Gli uomini compaiono solo di sfuggita, di solito prima degli stacchi pubblicitari in cui vengono oggettificati per il loro corpo.

A causa del femminismo tutti i contraccettivi sono gratuiti per le donne senza che debbano aprire bocca, mentre gli uomini devono lottare affinché le loro compagnie assicurative paghino per le ricette del Viagra. E se gli uomini tentano di ribellarsi, i leader della destra “vicina ai valori familiari” li chiamano porci o puttani.

A causa del femminismo il corpo maschile è costantemente sotto esame. Se un uomo appare in topless in TV, scoppia un caso nazionale che finisce con multe enormi e boicottaggi. Le blogger scrivono regolarmente di come si debba essere più attenti alle nostre scelte nell’abbigliamento, poiché potrebbero indurre le donne a peccare. La satira afferma che i pantaloncini “non sono veri pantaloni” e che gli uomini dovrebbero coprirsi, perché “nessuno vuole vedere una cosa del genere”.

A causa del femminismo gli uomini non sono rappresentati alla Casa Bianca, e le donne hanno oltre l’80% dei seggi al Congresso. Quando un uomo si candida per una carica, il suo aspetto fisico e il suo abbigliamento sono oggetto di discussione quasi quanto le sue idee politiche.

A causa del femminismo gli uomini devono combattere per avere voce nella sfera pubblica. Nelle questioni di teologia, politica, scienza e filosofia la prospettiva femminile è spesso considerata quella di default, normale e oggettiva. Le prospettive maschili vengono scartate perché troppo soggettive o emotive. Se ci ribelliamo, spesso veniamo bollati come arrabbiati, ribelli, sovversivi o pericolosi.

Ma siate forti, fratelli.

Un giorno saremo tutti uguali.

Qualsiasi cosa facciate, non leggete Jesus Feminist. È pieno di idee che continueranno a opprimere e danneggiare gli uomini – idee come “anche le donne sono persone” e “la dignità e i diritti delle donne sono importanti quanto quelli degli uomini”.

 

 

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

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Traduzione di questo articolo uscito sull’Huffington Post di Marco Reggio e feminoska, revisione di Eleonora.

N.B.: Nel testo in questione viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, sia nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Qualche giorno fa, ventiquattro intellettuali scuotevano l’opinione pubblica per far emergere finalmente una riflessione collettiva sullo status giuridico degli animali, considerati finora come delle “cose” dal Codice Civile francese.
In risposta a tale appello, Guy Birenbaum ha pubblicato una nota indignata: com’è possibile emozionarsi per la sorte degli animali mentre il paese versa in una così grave situazione? – ha spiegato Birenbaum in sostanza (sostanza che il “bilancio” da lui aggiunto in fondo alla nota, in fin dei conti, non riesce a mitigare). Non analizzerò qui il ricorso – probabilmente considerato spiritoso dall’autore – a prese in giro nei confronti delle/gli intellettuali e a metafore sessuali, per non dire sessiste (“anche se non sono un intellettuale, voglio che vengano protette le cagne a pelo lungo, i maiali e le pecorine “). Ciascun* potrà apprezzare o no… Io vorrei analizzare la sostanza.
La sostanza è la seguente: la sofferenza animale dovrebbe, pare, restare assolutamente inespressa. Ciò che sconvolge il signor Birenbaum, – e non è un caso isolato – non è il dolore che viene inflitto, ma il fatto che qualcuno abbia l’impudenza – o il cattivo gusto? – di evocarlo. Straordinario. Puo darsi che sia questo, d’altronde, il senso di quella legge americana approvata recentemente, che mira non a prevenire le torture nei confronti degli animali (quasi sistematicamente impunite nei fatti), ma a vietarne la… diffusione (e dunque la denuncia)! Straordinario. I social network sono la dimostrazione di questa impossibilità di evocare la questione: citare il dolore animale porta in modo quasi sistematico e istantaneo a una deviazione del dibattito verso esplicite prese in giro, verso la denigrazione dell’umanità del messaggio o la derisione in riferimento all’uso alimentare dell’animale in questione. Non è questa la sede per analizzare questo malessere le cui radici sono molto profonde. Che nessun carnivoro, o quasi, sia capace di guardare in faccia – e dunque di accettare – ciò che accade realmente ed effettivamente in un mattatoio è problematico in relazione alla coerenza delle nostre scelte di vita. Senza dubbio. Ma si tratta di un’altra questione.
Atteniamoci ai fatti: non è ragionevole sostenere che il nostro spazio mediatico sia invaso da manifesti riguardanti gli animali. Innegabilmente, la questione del loro status giuridico – di cui sarà facile mostrare la centralità dal punto di vista filosofico, etico e scientifico – non occupa affatto il dibattito! Ma i pochi secondi di eco mediatica che questo appello ha suscitato sono già troppi per Guy Birenbaum.
Tutte le sue argomentazioni, se così le vogliamo chiamare, poggiano sull’idea implicita che lo status giuridico attuale degli animali sia un’ovvietà. Un’ovvietà come potrebbero probabilmente esserlo anche le rappresentazioni della terra come piatta o dei neri come inferiori. Che potrebbero e che, senza dubbio, dovrebbero. Ma non voglio arrischiarmi a andare oltre, per rispetto di Guy Birenbaum. Il problema deriva interamente dal fatto che questa “ovvietà” è un errore scientifico. Lo studio dei comportamenti, così come quello dei neurotrasmettitori e della struttura cerebrale, mostra esattamente l’opposto. Questo non implica, in sé, che sia necessario cambiare comportamento nei confronti degli animali. Ma mostra, quantomeno, che se si continua a considerarli come delle “cose” o dei “beni”, bisogna farlo tenendo in grande considerazione le conseguenze logiche ed etiche di tale decisione.
Anche supponendo che la questione animale sia effettivamente secondaria, qual è il senso dell’avvertimento di Guy Birenbaum? Oggi ogni sei secondi un bambino muore di fame. Si tratta incontestabilmente di un abominio insopportabile. Ma dovremmo quindi dedurne che evocare ogni altra questione (poichè ognuna delle altre questioni può effettivamente essere considerata secondaria in rapporto a questa) sia indegno?
La reificazione di cui gli animali sono oggi vittime è di una violenza senza precedenti. Qual è dunque la logica – quella cui fa riferimento implicitamente ed energicamente la nota di Guy Birenbaum quando insiste sul tempismo disastroso – che permette di affermare che finché persiste il dolore umano, ogni altra preoccupazione che non lo riguardi direttamente non è accettabile? Un doppio errore sottende l’argomentazione: da un lato lascia intendere che prendersi cura degli uni (o, potremmo dire, massacrarli con meno violenza) implicherebbe trascurare le/gli altr*; dall’altro, presuppone che verrà un tempo in cui questa questione potrà finalmente essere affrontata, poiché i guai degli esseri umani saranno scomparsi. Queste due ipotesi sono inesatte. Se avessimo dovuto attendere che tutti i nostri mali fossero svaniti per preoccuparci d’arte, di sport o di fisica di base, non avremmo mai iniziato ed evidentemente non inizieremmo mai!
È straordinario come, quand’anche il destino degli animali risultasse perfettamente indifferente a Guy Birenbaum, costui non consideri l’idea che l’empatia verso gli uni si accompagni quasi strutturalmente a empatia verso le/gli altr*. Naturalmente alcuni contro-esempi vengono in mente (no, non Hitler, che come ormai sappiamo probabilmente non era nemmeno vegetariano) ma la questione dello status giuridico degli animali e il riconoscimento giuridico della loro capacità di soffrire – che la scienza ha oggi confermato senza lasciar spazio a dubbi – non può non riecheggiare la nostra indifferenza verso altre sofferenze umane. Queste questioni non sono opposte, anzi. Se la parola “comunità” ha ancora un significato oggi, è certamente quello di “comunità dei viventi”.
Così poco, pochi secondi alla radio, tra i risultati di calcio e il meteo, per accennare l’articolata questione dello status giuridico degli animali che oggi subiscono un trattamento che mai ha avuto precedenti nella storia, è quindi già troppo…
Guy Birenbaum non ci ha risparmiato nulla. Né la presa in giro nei confronti delle/gli intellettuali (di second’ordine, suppongo…), né i luoghi comuni più triti riguardo alla questione animale (fino alla scelta della fotografia e della didascalia), né l’eterno ritornello trito e ritrito: gli esseri umani soffrono, è dunque indegno (o meglio indecente) preoccuparsi – fosse anche solo per qualche istante – degli animali. La più ridicola delle preoccupazioni o informazioni umane (e ne abbiamo già in abbondanza!) sarebbe dunque più degna e decente di una discussione, così breve, sullo status giuridico degli animali. Straordinario. Questo anche se i progressi dell’etologia e della biologia – l’unica cosa che Guy Birenbaum non contesta, perché non può farlo – hanno dimostrato che le loro sofferenze e i loro dolori sono, nella maggior parte dei casi, del tutto paragonabili ai nostri. E lascio peraltro in sospeso una questione fondamentale: anche se fossero diversi dai nostri, questo cambierebbe la loro realtà, perdendone quindi in legittimità? Fino a che punto possiamo spingerci con questo criterio pericoloso della somiglianza come criterio di dignità?
Io ho alcune riserve, che ho esplicitato in altri contesti, su alcune delle opere filosofiche di alcuni delle/dei firmatari* di questo appello. Ma, data la reazione di Guy Birenbaum, è chiaro che passano più che in secondo piano. La sua reazione non è nemmeno insolita visto che molti dei media più importanti hanno ritenuto di dover trasmettere l’informazione come se si trattasse quasi di una… burla.
Il manifesto pubblicato – come ci si poteva aspettare e probabilmente come era necessario – era più che prudente. Non abbatteva alcun tabù. Chiedeva il minimo indispensabile: la presa in carico dell’evidenza dei fatti, vale a dire lo status giuridico degli animali come “esseri senzienti”. Ma era già troppo per Guy Birenbaum. Così “troppo” da mostrarsi visibilmente offeso e decidere di rendere pubblica la sua rabbia.
No! Questo “niente”, questo appello che sarà probabilmente dimenticato nel giro di pochi giorni, questa aspirazione a cominciare a considerare possibile porre un freno all’infinito, incondizionato e inalienabile diritto di infliggere agli animali una sofferenza illimitata e deregolamentata , io non trovo affatto che fosse troppo. E anzi quell’impegno – siatene certo, signor Birenbaum – non mi impedirà di continuare a sostenere i diritti dei rom e degli irregolari, per citare solo alcuni dei “temi caldi” attuali e nazionali. Conoscere la sofferenza degli animali non mi fa amare meno gli umani. È anzi l’esatto contrario. Queste lotte non sono in contrasto tra loro. Non avrebbe alcuna ragion d’essere, se non quella di decidere – arbitrariamente – di renderle reciprocamente esclusive.
Lascio a Kundera il compito di concludere: “La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità (quella più radicale, che si situa ad un livello così profondo da sfuggire al nostro sguardo) è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. Ed è qui che giace il fallimento fondamentale dell’umanità, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.”

Ma forse già si trattava di un intellettuale folle? Uno in più, uno… di troppo?

Deconstructing l’ideologia totalitaria

donna_comunista2Il pezzo di cui parleremo oggi è vecchio di due anni, ma il vizio di parlare in maniera distorta e poco chiara delle “teorie” che ci sono avverse è molto diffuso e sempre attuale – ed è molto istruttivo vederlo all’opera. Quindi vi prego di prendere questo “deconstructing” come una sorta di esempio di un uso distorto della categoria di ideologia per mettere in cattiva luce quello che si pensa essere il discorso altrui – facendo in modo che non si parli della propria, di ideologia. Questo continua ad accadere.

Che la Gender Theory possa essere piena di sfaccettature diverse mi pare ovvio, e per fortuna che è così. Ovvio come il fatto che deve ancora fare molta strada prima di affermarsi come un “normale” oggetto di studio come tante altre teorie, nell’università, nella scuola, nei media e nell’opinione pubblica. Rimane il fatto che per ora, in giro si leggono molte sciocchezze sugli studi di genere. Tra queste si distinguono le parole come quelle di Tony Anatrella (non è uno pseudonimo, è proprio il suo nome e guardate un po’ che curriculum), che dalla Francia si sente di rispondere a questa escalation (?) di presenza della Gender Theory. Il pezzo del nostro Tony è dunque qui a chiarire cos’è una ideologia totalitaria. Parliamone.

La provocazione [attenzione attenzione: l’Avvenire provoca. Tutti abbiamo bisogno di clic, eh?]

E dopo Marx venne il «gender» [e già questo è un titolo da manuale]

[Avvertenza: dovete arrivare in fondo a questo primo paragrafo senza ridere. Capito? Se ridete, dovete ricominciare. Non barate: io non vi vedo, ma l’ideologia totalitaria sì.]
La teoria del genere è la nuova ideologia alla quale fanno chiaramente riferimento l’Onu e le sue varie agenzie, in particolare l’Oms, l’Unesco e la Commissione su Popolazione e Sviluppo. [L’attacco di un articolo è fondamentale. Notate come in trenta parole si sia dipinto un mondo di complotto e fantasia degno di saghe nordiche e fantascienze. La Gender Theory (da adesso uso la sigla GT) è una ideologia – parola che ormai ha solo connotati negativi, grazie al berlusconismoed è chiaramente il panorama teorico al quale fanno riferimento grandi organizzazioni internazionali potenti e irraggiungibilile eterne colpevoli di tutto da quando c’è M5S.] Essa è inoltre diventata il quadro di pensiero della Commissione di Bruxelles, del Parlamento europeo e dei vari Paesi membri dell’Unione Europea, ispirando i legislatori di quei Paesi che creano numerosissime leggi concernenti la ridefinizione della coppia, del matrimonio, della filiazione e dei rapporti tra uomini e donne segnatamente in nome del concetto di parità e degli orientamenti sessuali. [La GT ispira i legislatori che fanno numerosissime leggi: manco Vladimir Luxuria si permette dei sogni così erotici. E tutto questo male oscuro lo fanno in nome del concetto di parità e degli orientamenti sessuali – che orrore, eh? Non son cose da farci leggi, queste, vanno lasciate al ghetto, al rifiuto, all’esclusione, al non-visto, no?]

Essa succede all’ideologia marxista [succede, viene proprio dopo, in mezzo non c’è nient’altro, chiaro?], ed è al contempo più oppressiva e più perniciosa [e te pareva] poiché si presenta all’insegna della liberazione soggettiva da costrizioni ingiuste [come il marxismo e tutte le religioni], del riconoscimento della libertà di ciascuno [come il marxismo e tutte le religioni] e dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge [come il marxismo e tutte le religioni – adesso che ci penso, anche il mio essere romanista è ispirato a questi valori]. Tutti valori sui quali sarebbe difficile esprimere un disaccordo [appunto]. A questo punto si rende necessario sapere se quei termini rivestano lo stesso significato che già conosciamo o se non servano, invece, a mascherare una concezione diversa che sta per essere imposta alla popolazione senza che i cittadini siano consapevoli di ciò che rappresenta [capito il complotto? Le grandi organizzazioni internazionali mascherano i loro sordidi scopi con parole e concetti che è impossibile rifiutare. Tipo il Vaticano, insomma. Ops].

Che cosa dice la teoria del genere? Questa ideologia pretende che il sesso biologico vada dissociato dalla sua dimensione culturale [non lo pretende, perché è così], ossia dall’identità di genere, che si declina al maschile o al femminile e persino in un genere neutro [?] nel quale si fa rientrare ogni sorta di orientamento sessuale [allora non è un genere neutro, scusi eh], al fine di meglio affermare l’uguaglianza tra gli uomini e le donne [perché, non è così?] e di promuovere le diverse “identità” sessuali [promuovere? La GT non deve mica vendere niente, eh, tipo promesse dell’aldilà o perdono per ogni peccato, tanto per fare esempi. Si tratta di constatare finalmente quello che è successo da sempre]. Dunque il genere maschile o femminile non si iscriverebbe più nella continuità del sesso biologico poiché essa [essa chi? Fate vobis] non gli è intrinseca, ma sarebbe semplicemente la conseguenza di una costruzione culturale e sociale [e come potrebbe essere intrinseca? Intrinseca vorrebbe dire innata? Ancora con l’innatismo? C’abbiamo il gene dell’identità di genere? Allora, secondo Anatrella, l’omosessualità è una malattia genetica. Interessante. Ne sanno una più del diavolo – ma dopotutto l’hanno inventato loro].

In nome della bisessualità psichica, si sostiene che l’uomo e la donna hanno ciascuno una parte maschile e una femminile: il sesso biologico dunque non obbliga, né quanto allo sviluppo psicologico né per l’organizzazione della vita sociale [mi permetterei solo di dire che è un pochino più complesso di così. Ma giusto un pochino]. Al sesso maschile e a quello femminile si privilegia l’asessualità o l’unisessualità [perché si privilegia? Chi ha detto – se non tu, Anatrella – che la GT mette qualcosa avanti ad altre cose? Non mi risulta da nessuna parte che la GT dica che ci siano orientamenti sessuali “migliori” di altri]. Così un politico donna, allieva di Simone de Beauvoir, afferma che “i mestieri non hanno sesso” [e non è vero? Quali sono i mestieri che ce l’hanno? Perché non fa un esempio?], mentre altri, favorevoli all’organizzazione sociale degli orientamenti sessuali [che cosa vuol dire questa frase? Perché dare per scontato che tutti ne capiscano il senso, se ne ha uno? Cos’è l’organizzazione sociale degli orientamenti sessuali?], sostengono che “l’amore” non dipende dall’attrazione tra l’uomo e la donna poiché esistono altre forme di attrazioni sentimentali e sessuali [invece lei, Anatrella, sa da cosa dipende “l’amore”? E perché tra virgolette, cosa voleva dire? E dov’è scritto che l’esistenza di altre forme di attrazioni sentimentali e sessuali neghi l’esistenza di quella tra l’uomo e la donna (eterosessuali, immagino)?  Anatrella, perché non mette un link, un riferimento, un nome, un titolo?].

Tali sofismi appaiono evidenti [che siano tali lo dice solo lei, e se lo fa “senza addurre motivazioni plausibili” (cit.), allora il sofisma è il suo, Anatrella caro] e sono ripresi con facilità dai media che apprezzano il pensiero ridotto a cliché [uh, guardi, è tutto un parlare di GT sui media, sì sì]. Tutto viene messo sullo stesso piano: le singolarità sessuali marginali – che sono sempre esistite – devono essere riconosciute allo stesso titolo della condizione comune e generale dell’attrazione tra uomo e donna [ah no? Allora devono morì, solo perché sono quantitativamente non rilevanti, sempre secondo i suoi criteri? Interessante. C’è stato un lungo periodo nel quale i cristiani erano singolarità marginali, e contro di loro si diceva più o meno quello che dice lei adesso. C’ha fatto caso?]. Non è tollerato alcun discernimento, la psicologia maschile si confonde con quella femminile e si attribuiscono le stesse caratteristiche a tutte le forme di attrazione sentimentale mentre dal punto di vista psicologico non sono in gioco le stesse strutture psichiche [notate: tre riferimenti alla psicologia senza definire niente, senza riferirsi a nulla, senza sostanziare con qualche dato le proprie asserzioni. Tutto l’articolo è costruito così, per scienza infusa di Anatrella. Il metodo della Bibbia, insomma: io dico che è così, e basta].

In altre parole, la società non deve più organizzarsi attorno alla differenza sessuale [non ci provare Anatrella, il problema è che un genere opprime gli altri, non quanti ce ne sono], ma deve riconoscere tutti gli orientamenti sessuali come altrettante possibilità di dare diritto alla plurisessualità degli esseri umani che nel corso dei secoli è stata limitata dall’“eterosessismo” [aridàje: non è stata limitata, è stata oppressa. I non eterosessuali “normali” sono stati perseguitati sempre e ovunque]. Bisogna dunque denunciare questa ingiustizia e decostruire tutte le categorie che ci hanno portato a tale oppressione [oppressione lo devi dire all’inizio, non alla fine, che fai, ce provi?].

L’uomo e la donna non esistono [EH?], è l’essere umano a dover essere riconosciuto prima ancora della sua particolarità nel corpo sessuato [prima dove, scusi? E soprattutto quando? Una volta nato il sesso ce l’ho, i problemi vengono dopo. O è la nota tattica cattolica di far nascere i problemi dove l’uomo non può arrivare, così ci pensa diopadre? E adesso i sofismi chi li fa, Anatrella?]. Sarebbe troppo lungo descrivere le diverse origini di questa corrente di idee partita innanzitutto dai medici che seguono casi di transessualismo, dagli psicanalisti culturalisti americani e dai linguisti che hanno studiato il linguaggio (gender studies) per farne emergere le discriminazioni nei confronti del genere femminile e degli stati intersessuati, per esempio per la concordanza del plurale in cui il maschile prevale sul femminile [e certo, è tutto lì: i medici che seguono casi di transessualismo alla fine si occupano di morfologia]. Fu riciclata [uh, vedi, è ecologica] da sociologi canadesi e ripensata in Francia da diversi filosofi prima di essere recuperata [sempre dalla stessa discarica], nuovamente negli Stati Uniti, dai movimenti lesbici alle origini del femminismo intransigente [il femminismo intransigente, mica quello di certe mollaccione] e ripresa poi dai movimenti omosessuali. La teoria del Genere [che adesso ha la maiuscola, prima no] tornò in Europa così trasformata [quante cose con una bottiglia di plastica, eh?]. In realtà si tratta di una sistemazione concettuale che non ha nulla a che vedere con la scienza: è a malapena un’opinione [mica come le teorie morali del cattolicesimo eh, mica come la religione. Quelle mica sono opinioni, è la parola di diopadre, oh. Il prete che difende la scienza è sempre fonte di stupore, che in primo luogo dovrebbe prendere se stesso, ma lasciam perdere].

Questo diventa inquietante nella misura in cui la maggior parte dei responsabili politici finisce per aderirvi senza conoscerne i fondamenti e le critiche che sono autoevidenti [ah, ecco. Contro il Vaticano, il cattolicesimo e le loro assurdità morali e bassezze immorali non bastano le prove schiaccianti, mentre le critiche alla GT sono autoevidenti. Complimenti]. I rapporti tra uomini e donne vengono presentati attraverso le categorie di dominante/dominato, della società patriarcale e dell’onniviolenza dell’uomo di cui la donna deve imparare a diffidare [mamma mia che assurdità, eh? Sono cose proprio campate in aria, se lo dice uno che ha la divisa di quelli che facevano bruciare le streghe, nutrendo la cultura della “donna diabolica tentatrice dell’uomo”, responsabile di tutto ciò che è irrazionale].

Da moltissimo tempo non siamo più in una società patriarcale [no no, non vi preoccupate, è un’impressione che esista il patriarcato, è finito secoli fa, certo, come la storia della Terra che era piatta – ops] ma, come sostiene la Chiesa, dobbiamo continuare a incamminarci verso una società fondata sulla coppia formata da un uomo e una donna impegnati pubblicamente in un’alleanza [alleanza i cui termini attualmente sono: io comando e tu servi, come ben teorizzato da Costanza Miriano, per esempio], segno che devono svilupparsi in questa autenticità. Da parecchi anni questa teoria [quale? Ma possiamo ripetere il soggetto, ogni tanto? O è roba alla Joyce?] viene insegnata in Francia all’università e, a partire dall’anno scolastico 2011-2012, sarà insegnata anche al liceo nei programmi di Scienze della vita e della terra delle classi prime. In nome di quali principi il Ministero dell’Educazione nazionale ha preso questa decisione e in seguito a quale forma di consultazione? [Perché, dovevano chiedere il permesso a te? Alla Chiesa?]

Non lo sa nessuno [in realtà c’è il sito del ministero francese, ovviamente, dove si possono leggere le intenzioni della riforma scolastica e capire la realtà e non la fantascienza di Anatrella]. Succede sempre così con le ideologie totalitarie, e ora con la teoria del genere [capito? La GT fa parte delle ideologia totalitarie come il nazismo, lo stalinismo, il fascismo, la dittatura di Dionigi di Siracusa]. Viene imposta ai cittadini senza che questi se ne rendano conto [sì, vi sta dicendo che siete una massa di deficienti] e si accorgano che decisioni legislative vengono prese in nome di quest’ideologia senza che, a quanto pare, sia esplicitamente spiegato [come la religione insomma; ve l’hanno spiegato perché vi battezzano? Perché da bambini fate comunione e cresima? Queste non sono cose imposte ai cittadini senza che questi se ne rendano conto? No?]. Ciò è particolarmente significativo in una parità contabile tra uomini e donne – che non significa uguaglianza -, nel matrimonio tra persone dello stesso sesso con l’adozione di bambini in tale contesto [e te pareva che non veniva fuori il fantasma della coppia gay che alleva un bambino], e nelle misure repressive che accompagnano questa corrente di idee [avete letto bene, misure repressive, tipo che ne so: l’Inquisizione, l’Indice dei libri proibiti, cose così ] che, in nome della non-discriminazione, non può essere rimessa in discussione o in Francia si rischia si essere sanzionati giudizialmente (legge sull’omofobia) [che schifo, Anatrella, che bassezza. Né in Francia né in Italia la legge punisce l’opinione, bensì la violenza, e uno “scienziato” come lei dovrebbe vergognarsi di questi mezzucci. Fa quasi pena – ma giusto per un istante].

Ma questo vale anche per altri Paesi: è il caso della Germania, dove genitori che hanno rifiutato che i figli partecipassero a lezioni di educazione sessuale ispirate alla teoria del genere sono stati condannati a quarantacinque giorni di detenzione senza condizionale (febbraio 2011). Il falso valore della non-discriminazione impedisce di pensare, valutare, discernere ed esprimere, così come quello della trasparenza che spesso è estranea alla ricerca della verità. [Questa è la notizia, e neanche un sito schierato come Zenit ammette che la Germania ha programmi scolastici con lezioni di educazione sessuale ispirate alla teoria del genere. E’ un’altra deduzione di Anatrella. Qui una lettura un poco più completa della vicenda.]

Quanto all’egualitarismo che si allontana dal senso dell’uguaglianza, esso lascia intendere che tutte le situazioni si equivalgono [ma di cosa si parla adesso? La GT, pur nelle sue diverse sfaccettature, non dice niente del tipo tutte le situazioni si equivalgono, ma casomai che ne va riconosciuta l’esistenza], mentre se le persone sono effettivamente uguali in dignità, la loro scelta, il loro stile di vita e la loro situazione non hanno oggettivamente lo stesso valore [Certo. Quello che dice la morale cattolica ha oggettivamente un valore superiore, vero?]. Non c’è nulla di discriminatorio nel sottolineare che solo un uomo e una donna formano una coppia [e invece sì], si sposano [e invece sì], vivono insieme [e invece sì], adottano e educano dei bambini nell’interesse del bene comune e in quello del figlio [e invece sì; sono tutte discriminazioni perché di quelle capacità si sono dimostrate piene coppie di ogni tipo, e pure i singoli]. Sono più capaci di esprimere l’alterità sessuale [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto], la coppia generazionale [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto] e la famiglia [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto], cellula base della società [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto].

La ricetta è chiara: complottismo, affermazioni non comprovate, giochi di parole, “voi non ve ne rendete conto (ma io sì)”, ed ecco come ti costruisco una ideologia totalitaria. Tra l’altro, pure lo stesso ministro francese è stato chiaro, successivamente: le cose non stanno così, in gioco non c’è la GT, ma l’insegnare a essere contro tutte le discriminazioni. Chiudiamo con una edificante testimonianza, da chi ha avuto modo di conoscerlo, su chi sia Tony Anatrella “sacerdote e psicanalista”. Tanto per chiarire cos’è una ideologia totalitaria, e che conseguenze potrebbe avere nella vita di qualche malcapitato.

Procreazione politicamente assistita

Abbiamo trovato questo bell’articolo su Lavoro Culturale e felicemente  lo ripostiamo. Buona lettura!


Un articolo di Beatriz Preciado apparso su Libération del 27 settembre 2013 a margine del dibattito francese sull’estensione della procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali. La traduzione del testo e le note sono a cura di Federico Zappino.

Sostenere che il rapporto sessuale tra un uomo e una donna sia necessario alla riproduzione è così poco scientificamente autorevole, in termini biologici, almeno quanto in passato lo era dire che la riproduzione potesse avvenire solo tra due soggetti che condividono lo stesso credo religioso, lo stesso colore della pelle o la stessa classe. Di conseguenza, se oggi siamo perfettamente in grado di riconoscere in quelle affermazioni precise prescrizioni politiche intrise di ideologie religiose, di razzismo o di classismo, dovremmo esserlo altrettanto quando si tratta di smascherare l’ideologia eteronormativa scandagliando quegli argomenti che rendono l’unione sessuale/politica tra un uomo e una donna la conditio sine qua non della riproduzione.

Dietro alla difesa dell’eterosessualità come unica forma di riproduzione naturale, sostengo, si cela la confusione fallace tra “riproduzione sessuale” e “pratica sessuale”. La biologa Lynn Margulis, ad esempio, ci insegna che la riproduzione sessuale umana è meiotica: la maggior parte delle cellule del nostro corpo è diploide, e ciò significa che sono composte da due serie di ventitre cromosomi ciascuna. Al contrario, gli ovuli e gli spermatozoi sono cellule aploidi: hanno, cioè, solo ventitre cromosomi a testa. La riproduzione sessuale, pertanto, non richiederebbe di per sé l’unione – né sessuale, né politica – di un uomo e di una donna. La riproduzione non è né eterosessuale né omosessuale: è un semplice processo di ricombinazione del materiale genetico di due cellule aploidi.

Le cellule aploidi, va da sé, non si incontrano mai per caso. Tutti noi esseri umani ci riproduciamo in maniera “politicamente assistita”. La riproduzione umana continua infatti a presupporre la socializzazione del materiale genetico dei corpi attraverso pratiche più o meno irreggimentate: la tecnica eterosessuale (l’eiaculazione, cioè, di un pene dentro una vagina), o l’amichevole scambio di fluidi corporei, o mediante un’iniezione in ospedale, o su di una piastra di Petri in laboratorio.

Nel corso della storia, d’altronde, forme tra loro assai diverse di potere hanno tentato di esercitare uno specifico controllo proprio sui processi riproduttivi. Fino al ventesimo secolo, ad esempio, quando ancora non era possibile intervenire a livello molecolare, la forma di controllo più pressante era proprio quella esercitata sui corpi delle donne, i quali erano declassati a meri uteri potenzialmente ingravidabili. Da un lato, l’eterosessualità veniva veicolata culturalmente come tecnologia sociale di riproduzione politicamente assistita. Dall’altro, il matrimonio costituiva l’istituzione patriarcale necessaria a garantire un mondo privo di anticoncezionali o di test di paternità: qualsiasi prodotto uterino era considerato legittima proprietà del pater familias. È in quanto parte integrante di un progetto biopolitico in seno al quale l’intera popolazione è resa oggetto di calcoli demografici, dunque, che l’eterosessualità assurge a dispositivo di riproduzione nazionale.

Tutti quei corpi la cui sessualità non potrebbe dar luogo a una riproduzione vengono esclusi dal “contratto eterosessuale” (per dirla con Carole Pateman[1]
o con Judith Butler[2]) che fonda le democrazie moderne. Il carattere asimmetrico e profondamente normativo di tale contratto, d’altronde, farà dire a Monique Wittig, negli anni Settanta, che l’eterosessualità non è solo una tra le tante pratiche sessuali, ma costituisce piuttosto l’essenza di uno specifico regime politico[3].

Per le persone omosessuali, per alcune persone transessuali, per alcune persone eterosessuali, per le persone asessuali e per alcune persone con diversità funzionali, lo scambio dei propri materiali genetici non può avvenire secondo il format collaudato “pene-vagina-eiaculazione”. Ma ciò non significa che esse non siano fertili o che non abbiano il diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico. Omosessuali, transessuali, asessuali: noi non siamo soltanto delle minoranze sessuali (beninteso: uso l’espressione “minoranza” non in termini statistici, ma alla Deleuze, per indicare un segmento sociale politicamente oppresso). Siamo anche delle minoranze riproduttive.

Fino a questo momento abbiamo pagato il prezzo della nostra dissidenza sessuale anche con il silenzio genetico dei nostri cromosomi. Non ci è stata sottratta solo la possibilità di trasmettere il nostro patrimonio economico: ci è stato confiscato anche quello genetico. Omosessuali, transessuali, e tutti noi corpi considerati come “handicappati”, siamo stati politicamente sterilizzati o messi di fronte al vicolo cieco di accedere alla riproduzione avvalendoci di tecniche esclusivamente eterosessuali. L’attuale battaglia per l’estensione della procreazione medicalmente assistita ai corpi non-eterosessuali è pertanto una battaglia politica ed economica per la depatologizzazione delle nostre vite e per l’autodeterminazione nella gestione dei nostri materiali riproduttivi. Il rifiuto del governo francese di estendere la procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali, mi sembra, supporta le forme egemoniche di riproduzione e ci conferma che il governo di Hollande perpetua la politica dell’eterosessualità obbligatoria di Stato.

Note

[1] Cfr. Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. or., The Sexual Contract, Stanford University Press, Stanford 1988).

[2] Cfr., in particolare, Atti performativi e costituzione di genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista, trad. it. a cura di F. Zappino in Canone inverso. Antologia di teoria queer, a cura di E. A. G. Arfini e C. Lo Iacono, ETS, Pisa 2012 (ed. or., Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in “Theatre Journal”, The Johns Hopkins University Press, 40, 4, December 1988); Ead., Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013 (ed. or.,Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990); Ead., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. or., Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000).

[3] Cfr. The Straight Mind, letto per la prima volta alla Modern Language Association Convention nel 1978 e poi pubblicato in “Feminist Issues”, 1, Summer 1980.

Proposte per una rivolta trans

Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.

Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.

Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.

Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.

È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.

Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è  buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.

Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans  non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione. 

Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e  un punto di vista  politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto  quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.

Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i  cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e  una tolleranza  non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.

Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.

Deconstructing il sogno e l’incubo

Spellbound_piccolaLa violenza che hanno fatto a una ragazza di Modena la sapete già. E sapete già, immagino, delle deliranti parole con cui Concita De Gregorio ha voluto commentare a suo modo, dimostrando che in fatto di sessismo l’ignoranza in questo paese è enorme, e tocca anche quelle persone che per estrazione sociale, formazione politica e professione dovrebbero almeno sapere di cosa si sta parlando, e dovrebbero almeno sapere come se ne deve parlare. Invece, come si può leggere nell’ottimo “deconstructing” di Lalla, De Gregorio non fa che collezionare luoghi comuni e stereotipi sessisti. Ricordo a tutti che sì, si chiama sessismo anche il descrivere uomini e donne in base agli stereotipi di genere e ai relativi pregiudizi; soprattutto quelli legati a una “moralità” mai ben precisata – ma sempre custodita da chi scrive, guarda caso – che è solo il rifugio nostalgico (e falso) di chi non ha i mezzi per o non vuole spiegarsi un presente che non gli aggradaNon sto mettendo a paragone e sullo stesso piano il linguaggio, per esempio, di un Massimo Fini con quello di Concita De Gregorio o quello di Mauro Covacich che stiamo per leggere, ma è necessario riconoscere che il sessismo non è fatto solo di violenze fisiche e insulti. Parliamo di un sistema culturale basato su un potere politico, e il condiscendente moralismo – per quanto indiretto o fatto “all’insaputa” di chi scrive, fa parte di quel sistema, perpetua quella violenza e quei pregiudizi. Quindi per me è sessismo anche quello espresso da Mauro Covacich in questo articolo. Seguiamo le sue parole.

Sembrava un sogno

Negli ultimi decenni abbiamo speso ogni nostra energia per allontanare la morale dal sesso, ora guardiamo atterriti il risultato ottenuto. [Scusi Covacich, tanto per cominciare: “noi” chi? Io non ho speso nessuna energia per fare quello che dice, credo, e ne conosco a mucchi di persone che non l’hanno fatto. Poi: che vuol dire allontanare la morale dal sesso? Non è che lei è una di quelle persone che confonde l’etica con la morale? No, perché ci sono arrivati anche su Yahoo Answers a capire la differenza. Andiamo avanti e vediamo.] I ragazzi e le ragazze della festa di Modena dove una ragazza di 16 anni è stata violentata da suoi quasi coetanei, sono i nipoti della generazione che si è battuta per la liberazione del corpo [ah, c’è stata una generazione che si è battuta per la liberazione del corpo? Beh, deve averlo fatto molto male, altrimenti non si spiegano tutti questi stupri, ancora. O forse lei che scrive non ha idea di cosa voglia dire, liberazione del corpo?] e sono i figli della generazione che combatte ogni giorno contro un crimine che i giornali chiamano femminicidio [c’è una generazione che combatte ogni giorno il femminicidio? Covacich, la prego, ce la descriva, ce ne racconti qualcosa: io mi occupo di sessismo da anni ma non la vedo, dov’è? Chi sono?]: con ciò proporrei di escludere il deficit culturale dalla nostra discussione. [Ecco, l’unica cosa importante per comprendere tutti i fenomeni di violenza di genere, com’è ormai noto da anni, è il deficit culturale. E lui, sognando generazioni di antisessisti e di evoluti uomini ed emancipate donne, la esclude. Complimenti. Direi che la confusione tra morale ed etica mi pare il minimo, qui. E s’incomincia anche a capire chi è che sogna.]

A mancare non è la cosiddetta trasmissione di valori. [Infatti: se anche fossero valori ciò di cui stiamo parlando, quelli che mancano sono proprio loro, non la trasmissione.] Forse è accaduto qualcos’altro, qualcosa che unisce gli adolescenti ignoranti e quelli istruiti, i disinformati e quelli consapevoli, i borgatari e i rampolli dei quartieri alti. [Se non avessi escluso a priori il deficit culturale, Covacich, avresti già la risposta. Invece adesso ci delizierai con una serie di stereotipi sessisti.] Innanzitutto l’esaltazione di una sessualità libera e senza pudore come primo elemento di affermazione sociale, per non dire di civiltà. [EH? Ma quale sarebbe la sessualità libera di cui parla? Quello che viene comunemente esaltato è roba alla Antonio Ricci, oppure pornografia commerciale più o meno soft – frutto del patriarcato più becero. Dove sarebbe la sessualità libera? E cosa c’entra il pudore, noto strumento di coercizione psicologica per un intero genere?] Dopo duemila anni di oscurantismo cattolico, [Come dopo? Perché, è finito?] l’occidente ha spianato le pieghe che nascondevano il piacere [MAGARA (i non romani cerchino qui questa parola). L’unica cosa che l’occidente ha spianato è la rappresentazione scientifica e maschilista della meccanica sessuale, in molte varianti. Del piacere non se ne vede traccia, è ancora un grosso tabù. Parliamo di squirting, per esempio, e vediamo se l’oscurantismo funziona ancora o no]. L’educazione sessuale ha dissolto il mistero dell’eros a favore di una concezione sempre più fisiologica e naturista. [COSA? L’educazione sessuale? Ma quale, ma dove? Ma se ancora siamo agli albori di una lotta per averla nelle scuole italiane, dove servirebbe in dosi massicce, ma di cosa stiamo parlando? Quale educazione sessuale, dove l’ha vista? E perché, se anche ci fosse, dovrebbe predicare il mistero dell’eros e non parlare di fisiologia? Oppure sta parlando di quella pornografia commerciale come di una educazione? E non sarebbe il caso di parlarne più approfonditamente, dato che esiste praticamente da sempre? Ma quante cose assume come date per scontate, Covacich, e invece sono solo suoi pregiudizi sessisti?] Le riviste e i media hanno lavorato, da un canto, sull’aspetto salutare del sesso, e dall’altro, sull’aspetto estetico-sociale: fare sesso è diventato “cool”. [E’ diventato? E quando era passato di moda, mi scusi? Non mi pare di ricordare secoli caratterizzati da una scarsa voglia di fare sesso da parte della maggioranza della società. Il problema è che con l’espressione fare sesso si denomina tranquillamente l’espressione di un rapporto di potere del genere maschile su quello femminile, altro che educazione sessuale.]

A questo bombardamento comunicativo diciamo acritico, [e diciamolo, tanto stiamo dicendo la qualunque] di una pratica sessuale al di là del bene e del male, [e dàgli a mescolare concetti morali a cose che morali non sono, si chiama moralismo Covacich, vogliamo smettere?] si è aggiunta la più grande trasformazione dei canali di conoscenza dagli albori dell’umanità, ovvero internet. [NO. Per favore, no. Non ci credo che comincia la solfa che “la colpa è di Internet”.] La rete ha conclamato una società del godimento immediato. [Eh già, che prima della rete quella società non era conclamata abbastanza. Chissà cosa si diceva degli anni ’60 in USA, oppure dei nostri anni ’80.] Qualsiasi cosa io voglia, la compro subito e domani il fattorino suonerà alla mia porta. Non c’è attesa, abbiamo saturato la casella vuota che permette al desiderio di circolare. [Oddìo no, l’elogio della lentezza vent’anni dopo Kundera – che già lo riprendeva da Vivant Denon, 1777 – ma basta con questi luoghi comuni! Il desiderio è anch’esso un costrutto culturale che andrebbe analizzato seriamente, ma ops! Il deficit culturale non c’entra niente, l’abbiamo escluso all’inizio. Che colpo di genio.] Questo vale per l’ultimo gioco della playstation come per un sito di incontri. Cerco uno o una che abbia voglia di farlo ora, possibilmente nel mio quartiere, e mi placo. [Quella si chiama “vòja de scopà” Covacich, e c’era da prima di Internet, te lo posso testimoniare. Quello che non c’era e non c’è ancora è la famosa educazione sessuale.] Il desiderio declassato, secolarizzato a piacere d’organo. [Lo si è sempre fatto Covacich, è una pratica normalizzante istituita da poteri politici per sedare eventuali forze rivoluzionarie. Ha mai riflettuto sul fatto che anche la masturbazione è un tabù? E mai potrà farlo, se il deficit culturale secondo lei non c’azzecca niente con la violenza di genere.]

C’è poi, non ultima, la particolare angoscia di essere un adolescente oggi, quando ti basta un click per vedere tutte le posizioni del kamasutra realizzate da copulatori veri, un click per sapere tutto in teoria, ancora prima di aver dato il primo bacio. [Sapere? Quello al massimo è vedere, e comunque: allora il deficit culturale adesso centra? O non lo è, questo?] Un mondo che ti spinge a buttarti subito, adesso, nella mischia, senza che tu abbia avuto neanche il tempo di capire se ne hai voglia, senza concederti quel lento, prezioso, maldestro apprendistato di cui anche noi, disinibiti e disinibite quarantenni, abbiamo beneficiato. [E’ sempre stato così, Covacich, i mezzi tecnologici non c’entrano. E poi non tutti hanno beneficiato del lento apprendistato anche se non c’era Internet, e nemmeno tutti sono disinibiti e disinibite quarantenni adesso che c’è. Ma non sarà scorretto fare del caso personale la regola generale? Ma davvero lei si sente tanto rappresentativo di una generazione, Covacich? Pensa proprio di essere una persona tanto qualunque?] Ora la velocità detta legge, si passa in un attimo da una stagione di piselli e patatine a una dove ci si ammucchia in tutti i modi possibili. [Di nuovo, Covacich: dove ci si ammucchia, anche minorenni, c’è sempre stato. Non è questo a essere diverso, a essere cambiato con il tempo.] Feste dove, invece di affrontare esitanti il gioco della bottiglia, [ancora questa visione nostalgica? Riporto pari pari un commento su Facebook, di Luce Lu: “ricorda con rammarico i tempi il gioco della bottiglia per scambiarsi un bacio! Che ne sa lui degli uomini di ogni età che ai tempi del gioco della bottiglia ti palpavano sull’autobus, si tiravano fuori il pisello dai pantaloni in mezzo alla strada, ti sussurravano ogni tipo di sconcezze e ti facevano sentire pure in colpa a te, povera ragazzina che portavi ancora i calzini?” La nostalgia dei bei tempi in cui il sesso era bello è anch’essa sessismo, Covacich, perché quei bei tempi sono uno stereotipo sessista.] ci si scambia buchi e protuberanze in figurazioni che ricordano Bosch e il marchese de Sade [Bosch, autore di una delle opere più complesse della storia dell’arte, passato per pornografo; come De Sade, un altro esempio scelto malissimo – rileggersi, prego, “L’oltre erotico” di Octavio Paz. Anche con le citazioni andiamo male Covacich, vogliamo riparlare di questo deficit culturale o no?]. Va detto che la condivisione coatta di questo immaginario [quello di Bosch e di De Sade?] comporta, nella sua vulgata mainstream, il solito squallido assoggettamento del corpo femminile. [E mica solo lì, la vulgata mainstream è cominciata da quando esiste l’Occidente. E’ incredibile come Covacich riesca a scrivere questa frase senza accorgersi di cosa vuol dire. Eppure la parola coatta la usa lui.] Ma bisogna anche aggiungere che i ragazzi e le ragazze sono complici inconsapevoli [i complici inconsapevoli sono come la lucida follia che si cita nei casi di femminicidio: un ossimoro che fa tanto colpo e permette di nascondere l’assenza di analisi e l’ignoranza sull’argomento] di questo assoggettamento (come dimostra l’indifferenza unisex dei presenti alla fatidica festa modenese). [Il solito scambio della causa con l’effetto: è l’indifferenza unisex dovuta (anche) a una spaventosa mancanza di educazione sessuale a portare a certi comportamenti, indifferenza già esistente nell’ambiente culturale nel quale si è cresciuti – ma Covacich ha deciso di escludere il deficit culturale, e allora…]

Una volta disgiunto il sesso dal desiderio – e dalla seduzione – [una cosa successa solo dal 1989 in avanti, da quando esiste il web, no?] la palestra pornografica impone i suoi kata maschilisti, a cui tutti questi nuovi amanti muscolari, senza distinzioni di genere, si applicano diligentemente [sì, ok, hai visto “Eyes Wide Shut”. Ma prima, invece? Negli anni ’50 per esempio, era tutto un fiorire di desiderio e seduzione uniti a un sesso felice, come no, è per questo che sono ricordati come gli anni dell’orgasmo libero, della felicità sessuale di uomini e donne, ah, che bei tempi!]. Ripeto, basta un click e vedi quattro cinque uomini che spargono il proprio seme sul corpo di una donna fiera e sorridente. Un click e vedi ragazzine che si sfidano in una gara di fellatio a una festa di compleanno, secondo un uso drammaticamente frainteso del concetto di emancipazione. [No, non è drammaticamente frainteso, perché se dici così dai la colpa alle ragazzine. Invece continuo a pensare che la colpa sia di chi ha il potere nei rapporti di genere, e non mi pare siano le ragazzine.] Ragazzine indotte a credere [aspetta, come dici? Indotte a credere, sembrerebbe un problema culturale, ma no, lo abbiamo escluso no?] che – ora che non è più peccato, ora che siamo tutti uguali [ma chi?] – devono affannarsi ad aggiungere sempre nuove tacche sulla pistola. Ovviamente “parità di diritti” significa un’altra cosa, ma è come se anche questa espressione fosse stata superata da un salto di livello. [Superata o non capita? Superata o malamente divulgata? Superata o mai correttamente insegnata? Ah, già, dimentico sempre che non è un problema culturale, per Covacich.]

Per fortuna questa volta una ragazza ha capito di essere stata stuprata. Ma molte altre al posto suo penseranno che funziona così. Quasi nessuno sa sottrarsi al ritmo scandito dall’epoca. Violenze e abusi, esattamente come la solidarietà mancata o la condanna degli amici stupratori, appartengono a un mondo dove valeva ancora il giudizio morale. [NO, apprtengono al mondo in cui le cose si chiamano con il loro nome e si insegna a distinguerle: sessismo, maschilismo, violenza, stupro, questioni di genere. La morale non c’entra niente, casomai c’entra l’etica. Sarebbe ora che soprattutto chi si laurea in filosofia e scrive libri se ne ricordasse.] Qui siamo entrati nella dimensione oltreumana annunciata da Nietzsche: la trasvalutazione di tutti i valori, [e poteva mancare una citazione a vanvera del povero Federico? Eppure basta Wikipedia per capire che quella trasvalutazione la stiamo ancora aspettando, e i cattomoralismi trionfano ancora] a dispetto del giusto e dell’ingiusto (e delle solite trincee di maschi contro femmine). Sembrava un sogno, invece è un incubo.

Per quel che mi riguarda, l’incubo sono gli intellettuali completamente ignoranti riguardo questioni di genere che si lasciano andare a sproloqui nostalgici senza alcun senso,  pronti e prodotti a sopire le coscienze. Non a caso Covacich vende migliaia di copie.

Nancy Fraser, you lose!

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Ovvero, perché Nancy Fraser ha toppato alla grande e la responsabilità degli ‘intellettuali’ nella divulgazione delle idee.

Nei giorni scorsi abbiamo partecipato con interesse al dibattito scatenatosi a seguito della traduzione dell’articolo di Nancy Fraser dal titolo COME IL FEMMINISMO DIVENNE ANCELLA DEL CAPITALISMO – E COME RISCATTARLO.

Essendo particolarmente interessat* – e sentendoci in qualche modo parte,con tutti i limiti del caso, in quanto bianch* occidental* – a femminismi altri rispetto a quello descritto nell’articolo, è venuto spontaneo sottolineare gli errori di prospettiva e soprattutto le lacune e omissioni che l’articolo in questione mostrava… Questo ha avuto diversi effetti, tra i quali quello di vederci posta una domanda assolutamente fuori luogo, ma interessante come esempio di ‘reazione difensiva’ che ha la potenzialità di ‘porre il veto’ alle critiche costruttive.

La domanda è la seguente: “Gli intellettuali, o i pensatori, di turno, hanno diritto di parlare?”
Domanda alla quale, di primo acchito e senza troppo riflettere, ho risposto: “Certo che sì, ma prendendosi la responsabilità delle proprie parole (dato che purtroppo in una società verticale quelle parole hanno un certo peso) e tenendo comunque conto di avere un approccio situato e per molti versi privilegiato, in nessun modo ‘super partes’”.

In un secondo momento però, mi sono accorta di essere caduta in una trappola doppiamente infida: prima di tutto perché il “diritto di parlare degli intellettuali” non solo non è mai stato in discussione, ma anzi ha sempre avuto un peso e una valenza assai più grande di quello dei “comuni mortali” – ed anche maggiori possibilità di essere ascoltato e divulgato dai mass-media in generale. Anche in conseguenza di questa realtà, dagli ‘intellettuali’ mi aspetto, proprio in virtù della loro posizione, un approfondimento e una prospettiva assai più articolata (e forse questo caso esemplifica come questa “aspettativa” sia una presunzione infondata).

E invece, il privilegio di molti intellettuali di poter parlare di più e in maniera più visibile (o meglio, ascoltabile) dei ‘comuni mortali’ non sempre è così meritato: già solo il rendersi conto di far parte di una casta dovrebbe essere messo in discussione dagli stessi intellettuali, e questo raramente avviene. Inoltre, mentre si lavora su questo aspetto del privilegio, capire come utilizzare in maniera responsabile questo vantaggio sarebbe il minimo che ci si possa aspettare da loro.

La mia contro-domanda è un’altra: “posso io comune mortale – benché dotata di intelletto e perciò in qualche modo ‘intellettuale’ pure io, seppure senza stellette di merito nell’Accademia – criticare il verbo dell’intellettuale, senza sentirmi rimessa “al mio posto”, senza venire accusata di “invidia” (apertamente o tramite allusioni più o meno evidenti)? Altrimenti si entra in un loop nel quale, se voglio esprimere una ragionevole critica in merito alle parole del “sommo” di turno, devo aspettare che un altro, riconoscibile come pari rango, si esprima in merito.

A questo proposito, mi è stata segnalata la traduzione di un contro-articolo dal titolo La sindrome del fardello della femminista bianca di Brenna Bhandar, che sostanzialmente sostiene le stesse cose che abbiamo notato io e altr* del collettivo Intersezioni in merito all’articolo della Fraser. Per carità, bell’approfondimento, e siamo content* di sapere che non abbiamo vaneggiato, ma perché dobbiamo legittimare il nostro pensiero sempre e solo attraverso chi ha maggiore credito in virtù di ‘stellette accademiche’ o di visibilità?

La nostra critica è semplice ma puntuale: la Fraser ha toppato alla grande!

Sarebbe bastato aggiungere al titolo di quell’articolo una parola, ad esempio: “come CERTO femminismo divenne l’ancella del capitalismo… ecc.ecc.” E sforzarsi di inserire anche un solo paragrafo sui femminismi altri (magari facendo qualche nome, e aggiungendo qualche link ad esperienze di grande valore e ingiustamente ignorate), per dare un taglio tutto diverso al pezzo.
Ma invece no, il focus resta su quel certo femminismo che da sempre, invisibilizzando tutti gli altri, si è arrogato il diritto di essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone come il ‘Femminismo’ tout court.

Fraser si rende colpevole anche di appropriazione nel momento in cui, da femminista bianca e accademica, ripete critiche al femminismo bianco e interclassista (anche se lo addita solo in quanto interclassista senza riconoscerne la bianchezza) già note e popolari presso altri femminismi (quelli di bell hooks, Angela Davis, Patricia Hill Collins, Gayatri Spivak e Gloria Anzaldúa, per dire), senza citare neanche *una* personalità di questi femminismi… Questo è colonialismo. Che i bianchi si approprino del duro lavoro – intellettuale e non – delle persone di colore* è storia. E la storia si ripete: quando le stesse cose le dice la femminista di colore non se la fila nessuno e rimane ai margini, se lo dice Fraser viene acclamata – e tra l’altro malinterpretata da alcun* e utilizzata, in parte, come ‘l’utile idiota’ per delegittimare i femminismi in toto, anche se lei parla di riappropriazione.

Da questo punto di vista l’articolo è davvero pessimo, ma pare dar credito alla regola del ‘bene o male, l’importante è che se ne parli’. E infatti la Fraser solo di quel femminismo parla, degli altri femminismi non fa nemmeno il nome, e questo fatto è casomai ancora più grave se consideriamo che, come intellettuale, le sue parole hanno un potere di gran lunga superiore a quello di tant* di far penetrare concetti ed esperienze altre all’interno del dibattito mainstream. Cosa altro potremmo aggiungere per far capire ai nostri interlocutori quale grande occasione si sia – di nuovo – persa?