L’ordine delle cose

“The Order of Things” è un cortometraggio sulla violenza di genere, diretto dai fratelli Alenda, interpretato da Manuela Vellés, Mariano Venancio, Javier Gutiérrez y Biel Durán.
La violenza di genere non è circoscritta a un solo contesto, le donne ne sono vittime in strada, sul posto di lavoro e in famiglia. In questo cortometraggio ci si richiama a un contesto famigliare dominato da una figura maschile che, ricevuto il mandato della violenza dal proprio padre, vorrebbe passarlo al figlio. Gli esiti però sono diversi.
Il finale è molto evocativo, una donna che riesce a liberare sé stessa, libera tutte.
Per il resto ci sono i commenti, buona visione.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

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Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

Se una costante della maggiore letteratura medioevale e moderna è stata la misoginia, non mancano testimonianze positive del desiderio femminile (benché etero), riportato in testi che circolavano in Europa tradotti in più lingue.
Uno di questi è l’innovativo “L’escole des filles ou La philosophie des dames : divisée en deux dialogues”, tradotto in inglese con il titolo “La scuola di Venere”. In esso si fa descrizione delle parti anatomiche delle donne, dei benefici di una vita sessuale variegata e della relazione tra libertà sessuale e politica.
L’articolo che segue è una traduzione dallo spagnolo, buona lettura!

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

L’Inghilterra del XVII secolo non era tanto puritana come si potrebbe pensare: manuali di questo tipo circolarono nelle librerie pubbliche e convissero con messali e sermonari, per gli amanti avventurosi.

Un secolo prima che il divin Marchese de Sade publicasse opere che ancora fanno arrossire le signorine, e quesi due secoli prima di Apollinaire e Pierre Lourys, fu pubblicato nel 1680 in Inghilterra la traduzione di un’opera francese chiamata  L’École des filles (“Scuola delle signorine”) con il titolo The School of Venus, or the Ladies Delight Reduced into Rules of Practice (“La scuola di Venere o del piacere delle dame ridotto in regole e pratiche”); si tratta di un’opera letteraria in forma di dialogo e con molte illustrazioni che sorprende per la propria modernità.

Dove si discutono i nomi popolari della vagina e del pene.

Vi sono due personaggi femminili che tengono una divertente chiacchierata sulle proprie abitudini sessuali: Katherine, “una vergine di mirabile bellezza” e sua cugina Frances, che è sposata ma è anche un po’ più liberale. Il suo dialogo ci mostra che la sessualità nel secolo XVII non era tanto puritana come si potrebbe credere in un primo momento, nonché la consapevolezza dell’autore (anonimo, certamente)  della relazione tra sesso e politica.

Dove Katy apprende che ci sono piaceri incomparabili e necessari, così lontani dalla sua immaginazione che sono come comparare acqua e vino.

Le cugine parlano dei benefici derivanti dall’avere più partner sessuali e di come non è necessario sposarsi con qualcuno per godere dei piaceri carnali; congetturano anche su cosa accadrebbe “se le donne governeranno il mondo e la Chiesa, come fanno gli uomini”, mescolando riferimenti all’orgasmo multiplo e all’esistenza della clitoride, alla quale si riferiscono come “la cima della Fica” che “sporge”.

Termini e concetti normali oggigiorno (come “amici con benefici”) vengono insinuati nella ricerca di uno “scopamico” con il quale si può “rompere il ghiaccio”, oltre a essere pieno di idee affinché le coppie del XVII secolo espandessero i propri orizzonti sessuali dunque, a dispetto dei pregiudizi contro il puritanesimo, non tutto era alla missionaria a quel tempo:

certe volte mio marito si mette sopra di me, e a volte io mi metto sopra di lui, a volte lo facciamo di fianco, a volte in ginocchio, a volte di lato, a volte da dietro… con una gamba sulle sue spalle, a volte lo facciamo sui nostri piedi …

A seguire una serie di illustrazioni provenienti dall’ultima sezione del manuale. Il libro si può consultare on line qui.

Traduzione e adattamento di Serbilla.

Articolo originale qui

Deconstructing l’amor cortese, i cavalieri, i parolieri, i giocolieri, gli uomini di ieri

743px-Leighton-God_Speed!Sono stato a lungo indeciso su cosa farne di questo articolo di Pietrangelo Buttafuoco. Meritava certamente di essere criticato, perché è un esempio di comunicazione banalmente retorica e infarcita di lessico inutilmente ampolloso su un argomento che non merita certo di queste “finezze”. Però è anche l’esempio di come certi intellettuali – dice che si chiamano così – parlano creandosi identità piacionesche che sfruttano, al solito, per dire la loro su argomenti di genere dei quali non credo che capiscano un bel niente. E diciamo che io non penso mai alla malafede, per default – è proprio ignoranza crassa. Questa ignoranza ha un palcoscenico piuttosto ampio, ed è quindi il caso di risponderle. Ne ho fatto allora un “deconstructing” e mi riprometto di affrontare anche più in generale la questione del “l’uomo di una volta”.

Il tema non è nuovo: si tratta dell’ennesima declinazione del noto luogo comune/stereotipo politico “se stava mejo quanno se stava peggio”, rimpianto di tempi andati che, per il solo fatto di essere andati, sono migliori del presente. Ancora in molti ci credono. Dato che il nostro scrittore è molto istruito, l’argomento diventa “Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!” (cit. Ariosto – scusate eh, ma due libri l’abbiamo letti pure noi), che servirebbe a declamare le virtù degli uomini (e delle donne) di una volta, che allora sì che sapevano come far funzionare i rapporti di genere, l’amore, il sesso. Certo, come no. Leggete per credere.
Avvertenza: è un po’ lungo. Non è colpa mia 🙂

 

Eros non le uccide mai [peccato che i giornali continuino a parlare, però, di passioni e gelosie, quando si tratta di femminicidi. Che Buttafuoco voglia finalmente dire che non è corretto parlare in quel modo, sui giornali e altrove? No.]

Anche se ci sono più vedove che vedovi, ebbene, sì: se ne ammazzano di più di donne [come se fosse un problema di numeri. E’ un problema culturale, la cui esistenza sarebbe testimoniata anche da un solo femminicidio l’anno. E poi perché parlare di vedove? Si diventa vedov* anche per cause non violente, è quantomeno scorretto usare questo dato. Qui una visione più realistica di questa polemica sui numeri]. Più degli uomini. Ed è per questo che la legge sacra della Cavalleria impone all’uomo di dare alla donna una corte – sia essa un harem, una domus, un chiostro regale – [passata l’epoca della Cavalleria, semmai c’è stata, quegli spazi sono chiamati prigioni, ghetti, lager, insomma luoghi dove vengono private persone della propria libertà] dove tutto può accadere, perfino l’amore, fuorché ucciderla perché quell’odalisca, quella sposa, quella regina è domina [domina de che? Dello spazio che lui le ha dato? Ma per favore] e vale per lei la regola di Shakespeare: “Piano, toccatela piano, perché fu donna” [ancora con la storia del fiore? BASTA con questi stereotipi!].
Se ne ammazzano di donne. Ma prima che il cercarsi tra femmine e maschi diventi un tabù [che c’entra? Perché cercarsi dovrebbe diventare un tabù?], qualcuno ci gioca. Osservate la scena. E’ notte. Tutto si svolge sulla balaustra della terrazza di Castelmola, sopra Taormina. E’ un’estate di qualche anno fa. Sono gli anni 80 [il perché cercare aneddoti di trant’anni fa non si capisce. Ma si chiarirà alla fine, stay tuned]. Lei è affacciata e attende. Lui avvita il silenziatore sulla canna della pistola. Lei si sporge e si porge [è proprio un poeta, Buttafuoco]. Lui mette il caricatore e si avvicina a lei. Lei, vestita di hot pants, si mette a cavallo della pistola. La bocca dell’arma, col silenziatore, sbuca dalle sue gambe e lui spara. Sono sette, otto colpi che viaggiano nella notte di Taormina. Tra le cosce. Tutto questo per fare calore, torneo e ghigno. Lei si sfinisce di stantuffo [ve l’avevo detto che era un poeta]. Lui non controlla più il rinculo del ferro. Rischiano che il cane dell’arma azzanni le carni morbide [i signori s’indignano e le signore portano la mano alla bocca] ma lui l’ha già abbracciata e lei inala tutto quello svaporare di piombo. Una notte, quella, dove tutto può accadere fuorché finire uccisi, piuttosto sparati, ma per approssimazione [ve lo dico adesso: che cosa c’entra ‘sta scena non lo sapremo mai. Ma alla fine sapremo perché gli premeva iniziare così].

Se ne ammazzano di donne ma le signore dell’impegno, purtroppo per loro, ripudiano il codice d’amore cortese [e mi pare il minimo: le signore dell’impegno vorrebbero dei rapporti umani fuori da schemi di servitù, onore, privilegio e altre forme di potere coatto. Per la cronaca, l’amor cortese è una categoria della critica letteraria che identifica un rapporto strutturato per neutralizzare il desiderio carnale in un rapporto di potere rigidamente formalizzato. La frustrazione fatta canone, insomma]. Vogliono tutto eccetto il benedetto malinteso della natura, quello che fa sovrano il ruolo di signore & signori [invece è proprio il contrario: se c’è una cosa insopportabile dell’amor cortese, come s’impara subito dai banchi di scuola, è che NON SI SCOPA MAI. Cosa che risulta sgradita anche alle signore dell’impegno, alle quali il sesso piace come a tutt* gli/le altr*]. E’ quel mondo dove finalmente arriva la figlia femmina e la casa diventa tana di felicità e gioia [veramente, di solito era considerata ‘na mezza disgrazia]; come quando poi s’apparecchia per lei il matrimonio o perfino il noviziato perché è più di una benedizione il suo comando, il suo desiderio e il suo volere. Comando, desiderio e volere affidati al padre, l’esecutore materiale [che bello ‘sto patriarcato, eh sì, era proprio bello il mondo di una volta]. Giammai alla madre, vestale gelosa [e figurati se lo stereotipo non si concludeva con una donna stronza].
Il mondo degli antichi non fa più testo, peggio per tutti noi [ma parla per te], nel mondo degli antichi (ancora cinquant’anni fa, in Sicilia) [notate la finezza con il quale l’antichità, secondo il nostro, va dalla Sicilia del dopoguerra alla Provenza del XII secolo – mondi uguali uguali, proprio] si applicava naturaliter la legge speciale della morte più che speciale per chiunque si fosse macchiato del sangue di una donna. Si disponeva l’uccisione dell’assassino e i parenti del malacarne non si osavano di reclamare vendetta. Per la troppa vergogna [peccato che al nostro sfugga che ciò è motivato dall’essere le donne considerate così poco, che chi le ammazzava infamava con la sua pocaggine tutto il clan. Non si ammazza un essere che non vale nulla, per questo era disonorevole il femminicidio – significava che la donna era incredibilmente assurta al ruolo di “fastidio”, di “cosa da eliminare” – era roba da vergognarsi l’essere costretti ad ammazzarne una, significava non essere stati capaci di farla stare al suo posto. Ed è roba già presente nella Bibbia, eh].
L’antico non sbaglia mai ma queste donne impegnate hanno ragione a temere la statistica del “femminicidio”, un termine preso in prestito alla banalità del politicamente corretto in attesa di trovare parola più precisa [il codice penale è già pieno di prestiti dalla banalità del politicamente corretto: doloso, colposo, preterintenzionale, suicidio, genocidio, infanticidio – e poi ci sono parricidio, matricidio e uxoricidio… tutti termini che servono a identificare uno specifico reato, con lo scopo di chiarire le circostanze e comminare una giusta pena]; hanno ragione perché il maledetto malinteso della civiltà snaturata [interpretazione dell’autore che lui ha assunto a dato di fatto] ha ormai fatto dei padri, dei fidanzati, dei figli perfino, la parodia dell’essere maschio [eh? Quando abbiamo deciso cosa vuol dire essere maschio? Di nuovo, queste sono congetture trattate come fossero dati di fatto].
Ci sono più donne che uomini, il calcolo è questo, ma se ne ammazzano a non finire mai di ragazze, di mamme, di fidanzate, di soldatesse, di prostitute, di professioniste. Qualcuna, come Lucia Annibali – avvocato, 35 anni – è stata sfregiata dall’acido muriatico. Cercate su Internet la sua foto. E’ bellissima. Violarne la grazia è tipico di chi, al pari del maiale, altro sguardo non regge che quello del fango dove si specchia [a parte che ci si poteva risparmiare l’insulto specista – non ho capito che male hanno fatto i poveri suini per essere avvicinati a dei criminali – un altro dei tanti pregiudizi sessisti di questo articolo è che a lei, in quanto bellissima, sia più grave violarne la grazia. E’ un corpo, il suo corpo ad essere stato violato, non la grazia, e sarebbe stato un crimine identicamente odioso se Lucia Annibali fosse stata quello che un linguaggio socialmente cinico e discriminante definirebbe “una racchia”. Pare invece che, per l’autore, i crimini si possano ordinare per efferatezza a seconda che la grazia violata sia di una donna che gli piace particolarmente o meno. Complimenti].

Il calcolo è impari. E se pure c’è stato un solo caso di donna che ha scannato la propria donna (a Gussago, in provincia di Brescia, Angela ha ucciso con due colpi di pistola Marilena) [classica precisazione paraculo-machista e logicamente senza senso], è sempre un parodiar del maschio a far cadere l’eros dentro thanatos che non è più il baratro di concupiscenza del romanticismo ma la botola del più sanguinoso luogo comune, un computo da cronaca nera prossimo a diventare mappazza d’ideologia [ho fatto studi classici e lo voglio far vedere, ok?].
Più degli uomini, dunque, sono le donne a crepare nella guerra dei sessi [un altro classico della stereotipìa maschilista è che i sessi siano in guerra. Una guerra è condotta da due eserciti che si scontrano l’uno contro l’altro, ciascuno con le proprie motivazioni – in questo modo il maschilista può accusare l’altra parte in guerra delle proprie stesse efferatezze. La realtà è che c’è un rapporto di potere tra oppressore e oppresso, e non una guerra – ma questa immagine, com’è ovvio, ai maschilisti non piace, tantomeno ai nostalgici dei bei tempi andati]. Ovviamente non se ne può fare una mobilitazione di coscienza o una raccolta firme perché già l’adesione di Adriano Celentano e Claudia Mori alla campagna di Concita De Gregorio per la costituzione degli Stati generali sulla violenza contro le donne rende tutto molto piritollo [questa parola se l’è inventata lui, e io non linko un altra volta roba sua; usate Google, per favore]. Lui, oltretutto, è meritatamente autore del manifesto del possesso amoroso qual è “Una carezza in un pugno” [Celentano non ne è l’autore, l’ha solo cantata, ma la verità gli smonterebbe tutta la piritollaggine], la canzone dove da geloso giustamente dice “mia, mia e mia” e sparge pugni in luogo di carezze, perché il tema dei temi – oggi, oggi che gli uomini uccidono le donne – è l’uso e l’abuso del possessivo mio [notate come la questione di potere che sta alla base del problema dei femminicidi è stata fatta diventare una questione di linguaggio, che quindi potrebbe essere risolta tornando ad altri mondi linguistici, come quello dell’Amor cortese. Davvero un genio, complimenti].
Il senso del possesso è di certo il sesso [EH? Ormai siamo in pieno “dipartimento infatuazione per le proprie parole” (cit.)]. C’è anche un che di “ossesso” nell’intimo etimo [non è vero: etimologicamente le due parole sesso e ossesso non hanno niente a che vedere l’una con l’altra] del principio generatore della volontà di potenza che diventa volontà di volontà per poi sciogliere le trecce all’Essere innanzi alla volontà di verità [è tipico dei laureati in filosofia in certi anni citare Nietzsche e Heidegger come fossero propri amici personali. Tra qualche anno, quando sui giornali arriveranno a scrivere i laureati in filosofia negli anni ’90 e 2000, sarà lo stesso con Lacan, Derrida e Foucault. In entrambi i casi, si tratta quasi sempre di richiami insensati e gratuiti, tanto per fare allitterazioni rumorose]. Con questo non voglio rubare il mestiere a Michela Marzano [non vedo proprio come potresti: Marzano, per quanto discutibile, certe cose le ha studiate bene], torno presto nei miei ranghi di oplita [lo dirà altre due volte che è un soldato – poi dici perché gli antisessisti sono definiti “disertori del patriarcato”…], ho ben letto l’Idòla [fa più fico di “pamphlet”, vero? E’ il nome della collana di Laterza, preso da Bacone] di Loredana Lipperini e Michela Murgia “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” (Laterza, euro 9,00) ma tutto questo uccidere perché si ama per fortissimamente amare e meglio marchiare di “mio” ogni “mia” non riguarda l’uomo antico [il quale, come abbiamo visto, non aveva alcun bisogno di marchiare: metteva la donna in un recinto e fine lì], piuttosto quello più profondamente moderno, il maschietto più autenticamente etico [che cos’è un maschietto etico? Non è dato sapere], quello più amico delle donne, quello arrivato dritto dritto dalla promiscuità militante [che cos’è la promiscuità militante? Anche questa domanda risuonerà nel vuoto], insomma: l’impotente [ecco, che sia chiaro: quello più amico delle donne è l’impotente, mica come il bel maschione di una volta].

Succede che Bertrand Cantant, l’amico di Manu Chao, artista impegnato, fa di Marie Trintignant, la sua fidanzata, una maschera di sangue. Lui non è un criminale, per Libération è “bisognoso d’aiuto”. L’amore confina con la follia [no, qui è l’ignoranza di certo giornalismo che confina con la malafede, nell’usare quelle parole]. Qui non c’è gioco. Magari c’è il disagio. Ecco, c’è un’altra vittima, per dirla con l’onorevole Boldrini [che non c’entra assolutamente niente, non è che una parola sola rende l’argomento simile a quello di Boldrini], che diventa carnefice. E c’è la compassione per automatismo libé [e che vuol dire questa constatazione? Che senso ha buttarla lì così?]. Bruno Carletti, direttore artistico dello Sferisterio di Macerata, uccide Francesca Baleani, l’ex moglie [è viva eh, non l’ha ammazzata]. La carica in macchina e la scarica in un cassonetto. “Francesca”, dirà padre Igino Ciabattoni, responsabile della comunità di recupero che ospita l’assassino, “non troverà più un uomo che possa amarla così tanto” [e speriamo per lei che non lo troverà più]. Ancora una volta: “Un atto d’amore, cieco come la morte”. Lipperini e Murgia sono riuscite a costruire con il loro pamphlet un catalogo dell’orrore dove però – dicono – “è mancato il collegamento: sono, anzi, mancate le parole che tenessero insieme morti atroci quanto ritenute isolate, non ripetibili”.
Provo a metterci delle parole – oltre l’amoricidio [parola sbagliata e fuorviante, se applicata a quei casi] – e spiegare che quelli che non sanno prendere le donne se non uccidendole non sanno dire “mio” perché sono ubriachi di “io” [no, non mettiamola sulla psicologia perché sarebbe come dare loro dei “malati”, e quindi giustificarne le azioni per cause non dipendenti dalla loro volontà. E’ un problema di potere: uccidere è proprio il modo di ratificare per sempre il possesso, è il modo più forte di dire “mio”]. Hanno un’erezione cerosa e zero colpi in canna e non si tratta certo della pistola del femminicidio [è tornato il poeta], il capitolo sociale di un’umanità maschia senza più forza, il “vir”, zero colpi nel senso proprio di mancare al principio ordinatore del venire al mondo con responsabilità [che sarebbe esclusivo dei maschi? Però], amore cortese e dovere perché solo il rito – con la sua liturgia di possesso – conserva l’eros dentro le sue pulsioni buie senza incappare nel codice penale [quale rito? L’Amor cortese è stata in’invenzione letteraria, non c’era alcun rito. E di riti l’attuale vita civile è piena – per esempio, il matrimonio è un rito – eppure non sembra che servano a molto per non incappare nel codice penale].

La verità dell’amore, nelle mani di chi ci sa fare [sempre e solo maschio eh, per carità], è uno squarcio dove da fuori c’è il sangue vivificante della vita mentre – dentro – nella carne, c’è il fuoco. Mai la messa a morte. Certo, “meglio morta che puttana”, questo predica l’antico della propria donna se questa poi ha fatto del proprio nome strame [che carino, questo uomo antico]. Ma quel “meglio morta” non è assassinio [noooo, figuriamoci, gli uomini antichi non ammazzavano mai nessuno, scherzi?], al contrario: è un continuare a vivere nel dolore disperato del disonore [un riferimento, una data, un nome… no, è tutta scienza infusa nel Buttafuoco]. Mai perdonare, mai, non si può perdonare [“Dio perdona, io no” (cit.)]. E la stessa donna ha disprezzo di chi cicatrizza la ferita del tradimento [ricordate il teorema della guerra dei sessi? Anche le donne hanno le stesse pulsioni dell’uomo, quando fa comodo – all’uomo]. Mai dimenticare perciò, mai, non si può scordare ciò che fa nell’anima uno scempio perché l’amore, come il sangue coi figli, s’avvelena forse ma non si disperde. Il soffrire d’amore è spirituale [ma de che? Ma se anche quelli dell’Amor cortese, pur nella frustrazione, parlavano di corpo e sesso!], un atroce friggere cieco delle carni [un friggere cieco. E io che pensavo fosse un bollore sordo, o un mantecare muto], non un trauma della psiche [lui è quello che parlava di “io”, eh – e adesso non è un trauma della psiche. Parole a caso, tanto per dirle]. E non è paritario il dolore, non conosce uguaglianza, è debolezza propria del portatore di seme, biologicamente inferiore a chi, al contrario, è donna generatrice di nuova vita [e ti pareva che alla fine il maschio non era quello sfortunato rispetto alla femmina! Solo lui soffre davvero, poverino! Mica quella che mòre ammazzata!].
Non si può disinnescare la tossina dell’innamoramento, quel farmaco omeopaticamente salvifico, con l’edificazione di un tabù culturale contro il maschio [ma chi lo edifica? Ma dove? Perché parlare di cose senza dimostrarle, senza costruirle?]. Capisco che a qualcuno sia venuto in mente il mettere da parte l’istinto a favore di una civilizzazione della copula [eh sì, dice la civilizzazione che bisogna essere consenzienti, mannaggia a queste regole civili che ci fanno mettere da parte l’istinto]. Dopotutto neppure gli stalloni riescono a coprire le giumente senza l’ausilio del veterinario [questa è cattività, non civilizzazione. Gli animali – e lasciali perdere! – non diventano mai “civili”, cioè cittadini] che, oplà, guanti pronti, posiziona ciò che c’è da posizionare [Buttafuoco, ma che ti guardi in TV?].
Piano piano arriverà questa civiltà del rapporto paritario [cioè il rapporto paritario sarebbe quello assistito da un dottore che posiziona ciò che c’è da posizionare? Ma cosa stai dicendo?]. Pare che non ci sia più la donna, non c’è l’uomo, c’è solo la persona [ma pare a chi? Dove?]. E’ facile sospettare che il tentativo di trasferire la rivoluzione – la donna in luogo del proletariato – abbia preso il sopravvento su altri fallimenti ideologici [COOOSA?] ma desiderare è avere e il maschio, non la “persona”, nel recinto sacro dell’Amor cortese, prende possesso di quella carne [ancora con questa storia? Nell’Amor cortese nessuno prendeva possesso di quella carne!!!] in ragione dei due punti di suggello e sigillo: l’osso sacro e la ghiandola pineale [no, ditemi che sto leggendo male, vi prego]. E la copula, ovvero il contatto con il coccige e con la nuca – come fanno i gatti quando acchiappano la micia da dietro per addentarla al punto da denudarne, dei peli, la cuticagna [BASTA con i paragoni specisti, Buttafuoco! Ma che immaginario hai?] –, altro non è che il cogliere la rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state [ma lascia perdere il Trecento, che anche allora sapevano chiamare questa posizione sessuale con ben altro che cogliere la rosa fresca aulentissima].

Come si faceva l’amore di una volta [non mi risulta che ora quella posizione abbia perso popolarità]. Quando gli dèi s’affacciavano dall’Himalaya per compiacersi degli innamorati fradici di desiderio e di respiro [se lo dici tu…]. Tutto ciò non è il porno. Qui si procede di fisiologia. E di furor sacro. Mircea Eliade alla mano [che bella immagine, te che procedi di fisiologia con la bocca occupata dalla cuticagna di qualcuna e “Spezzare il tetto della casa” aperto in mano]. Altro che la delicata Costanza Miriano, autrice di “Sposati e sii sottomessa”, fustigata non poco da Lipperini e Murgia [non è stata affatto fustigata, come già scritto altrove].
L’amplesso è però un dettaglio. Il mettere carne sopra carne è, infatti, solo un abito dell’istinto: quello della sopravvivenza e – come da codice platonico, ossia il “Simposio” – ci si riproduce solo nel bello. Non potendo generare carne, si genera l’idea [peccato che quest’ultima frase sia roba tua, e non di Platone]. Mai la messa a morte.
L’amplesso è la vera astuzia della storia se solo fosse la storia matrice delle generazioni mentre invece è la sopravvivenza, la vera padrona delle erezioni e degli umori [sì, certo, soprattutto nel XXI secolo è l’istinto di sopravvivenza a produrre le erezioni – dillo alla fiorente industria del porno commerciale], dunque tutto un aggiungere piani al grattacielo del destino a due, quello del maschio e quello della femmina, dove ogni cosa è chiara, chiara assai. Don Rafaele Cutolo, ’o Camorrista, lo diceva fuori da ogni metafora: “Quando si fotte riesce sempre bene perché ciascuno sa che cosa vuole l’altro” [da Platone e Don Cutolo, ogni cosa è permessa al filosofo infatuato del suo linguaggio, ovviamente].
Le donne si fanno femmine e selezionano il patrimonio cromosomico più forte, più ricco, più potente [certo, come no, da sempre le donne si fanno femmine e fanno sesso con chi scelgono loro. Ma questa dove l’hai letta?]. Nel benedetto malinteso della natura si è sempre femmine e – nel proprio harem, nella propria domus, nella propria reggia – dunque nel sottinteso benedetto della loro più segreta natura [leggi: nel recinto dove le ha messe il loro padrone maschio uomo di una volta], le donne svelano il primo punto: quello della ghiandola pineale, dunque l’anima. E poi ancora l’altro punto: l’osso più sacro. Quello che nella risulta ancestrale dei secoli dei secoli è solo l’ombra di ciò che fu coda.
Come si fece sempre [sì, avete letto bene, sta costruendo un retorico e ampolloso elogio della “pecorina”. Complimenti]. Furono i missionari cristiani, abusando della credulità dei selvaggi, a riposizionare gli incastri della conoscenza carnale. Abrogarono il posizionarsi al modo del “more ferarum” e dannarono per sempre come animalesco, dionisiaco e peccatore il principio del piacere [cosa c’azzecchi la storia delle posizioni erotiche lo sa solo lui, s’era partiti col femminicidio. Andrebbe istituito il reato di digressione illecita]. L’abito non fa il monaco, il New York Times avrà avuto i suoi motivi per dire che la moda italiana, fatta eccezione per Bottega Veneta, Prada, Gucci e Marni, è fatta solo per le zoccole (“italian fashion in the Time of the Trollop” [l’articolo è questo e tutti potete leggere che le cose non stanno proprio come riportato dal nostro. Trebay, nel 2007, allarga il discorso a un concetto culturale di volgarità, che riguarda anche i media – ma che je frega a Buttafuoco, a lui interessa la carne, gli umori, more ferarum]) ma la minigonna non fa la scostumata. Tra collo e schiena, tutto quel percorrere di aulente malia non può che avere migliore rappresentazione nella Valentina di Guido Crepax. Provate a ricordare quel suo incedere inesorabile [che nessuno ha mai visto, essendo un fumetto], non sarebbe stata a suo agio nella tavernetta del bunga-bunga ma avrebbe fatto la felicità di Cielo d’Alcamo [il cui famoso contrasto “Rosa fresca aulentissima” era proprio  una presa in giro della poesia d’amor cortese, ndr].

L’abito non fa il monaco, figurarsi la memoria della letteratura ma chi più di ogni altro regge la fatica del presagio in questa Italia orba di virtù maschia [eh sì, mancano proprio gli uomini di una volta], in questo precipitare di morte e amore, nella follia e nel lutto è Boccaccio che, nella novella di Nastagio degli Onesti, nella quinta giornata del “Decameron”, “ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse” [state a sentire che bella la saggezza dell’uomo di una volta].
Provo a farne il racconto: Nastagio è un nobile ravennate che s’innamora senza tregua della figlia del nobilissimo (più di lui) Paolo Traversari. Per conquistarla ordina feste e cene di gran lusso. Ma quella lo rifiuta con divertimento e lui continua a sperperare energie e denari, fin quando per troppo amore, per evitare di ammazzarsi e di dilapidare tutto, va via dalla città [fin qui aveva fatto una cosa giusta: s’era rassegnato alla libertà di lei di dire no. Ma Nastagio è uomo di una volta…].
Un venerdì d’inizio maggio, proprio un venerdì come questi, Nastagio vede una scena che Botticelli illustrerà poi per Lorenzo il Magnifico (ne avrebbe fatto un regalo di nozze, quasi un memento: “Amare se non vuoi morire”). Una giovane donna corre nuda, due cani la inseguono e tentano divorarla variamente, mentre un cavaliere armato le urla dietro minacce di morte. Nastagio vuole difenderla, ma il cavaliere si ferma a raccontare la propria storia. Aveva amato quella ragazza follemente, ma non ricambiato, si era suicidato [forse ha un po’ esagerato, ma non fermiamoci a sottilizzare]. Lei non aveva avuto nessun pentimento, nessuna pena, ed era stata con lui condannata alla tremenda punizione [perché? Quello è così scemo da suicidarsi e lei ne va di mezzo?]: tutti i venerdì lui la caccia con i cani feroci, la minaccia di morte, l’ammazza e ne vede ricomporsi il corpo. Il venerdì successivo e per chissà quanto ancora, si ripete la stessa sequenza barbara [ah, è la sequenza a essere barbara, invece del fatto che una donna innocente paghi in eterno la stupidità di lui].

Devi amare se non vuoi morire. O, almeno, ricambiare. Questo è il succo [traduco per il XXI secolo: donna, se uno decide di amarti, so’ cazzi tua]. E Nastagio, infatti, ha una sua trovata. Il primo venerdì utile, invita l’amata e tutti i parenti a un desinare sul luogo della scena crudelissima che, tempestiva, si ripete. Il cavaliere che strazia la donna e che non è timido, racconta la storia pure ai banchettanti. La più terrorizzata di tutti è proprio la Traversari [e ti credo!], che subito riflette sul sentimento negato e sulla mancanza di rispetto verso quell’amore e, insomma, “temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio” [che bello, lo sposa per paura, proprio il trionfo dell’amor cortese]. Non solo, con il suo gesto educa le donne di Ravenna, che d’improvviso diventano tutte più gentili e amorevoli con gli uomini [com’era? Ah, sì: punirne una per educarne cento. Davvero fenomenali ‘sti uomini di una volta].
Tutto un obbligo d’amore per non dover morire. Sempre nel “Decameron” e sempre in letteratura, c’è anche la tradizione del cuore dell’amato dato in pasto per vendetta, dal marito, alla moglie traditrice, che magari su indicazione del consorte l’aveva pure cucinato a guisa di manicaretto. E in tema di cuori mangiati, ma davvero, ci sarebbe Pasquale Barra, detto ‘o “Animale”, un esponente della nuova camorra organizzata che uccise Francis Turatello in carcere e poi ne addentò gli organi [quanto gli piace passare dai personaggi letterari ai camorristi], ma adesso – proprio no – non voglio certo rubare il mestiere a Roberto Saviano [grazie, infatti ci basta e avanza lui – e poi, quale mestiere?], torno nel rango mio di oplita [e due] e provo a spiegarmi che uccidere, per questi tapini, è forse un oltrepassare il rito dell’amore, un addentrarsi nel furor, uno stroncarsi al pari di Narciso in tutto quel rimirare se stessi per poi esplodere nelle bolle dell’acqua stagna [sicuramente, intanto è “uccidere lei”, e non solo uccidere – il verbo è transitivo, bisognerebbe ricordarselo più spesso].

Approssimarsi d’amore, magari con la pistola in pugno, per volare nella notte di Castelmola, è approssimare la propria dannazione alla morte, controllarne il respiro e lo sguardo di dolore, che è ancora rito, nella rigenerazione di un torneo di pura buia gioia perché, insomma, lo dico da oplita [e tre], non esiste una cultura arcaica da sradicare dal nostro guardare negli occhi dell’amore, esiste solo la realtà di Eros che mette a bada Thanatos [ed esistono pure un sacco di noiosi parolieri che veicolano stereotipi inadeguati e violenti mascherandoli da chiacchierata erudita].
Esiste la realtà della natura [sì, abbiamo capito, viva la pecorina] e se proprio la civiltà riuscirà a ucciderla [ma solo regolarla no? O a pecorina o ammazzata? Però, che bella la natura] significherà che saranno stati i desideri a determinare i diritti, che si procederà d’inseminazione per tramite di applicazione veterinaria [insisto: Buttafuoco, lascia stare i canali tematici, ti fanno male] e ci sarà solo la persona, finalmente libera del possessivo ma persa per sempre nella bolla afona e stagna dell’io-io-io che non saprà dire “mio”, anzi, “mia” se non mettendo a morte. Come cosa morta è l’amore di Narciso [complimenti per la diagnosi: o sesso ferino nel recinto o deliri psicotici con delitto. Che bella prospettiva].

Post scriptum.
A proposito dell’episodio di Castelmola. Lui era sì un picciotto malandrino ma la pistola non era la sua. Era della ragazza in hot pants [capito a che serviva la storiella? Alla fine è colpa di lei].

Vi suggerisco una colonna sonora per questo profluvio di fastidioso e ipocrita lessico altisonante: Latte e i suoi derivati, “D’amore e nel vento”.

Dice che Robin Thicke c’ha il cazzo grosso

Un ineccepibile articolo scritto dal nostro pluritalentuoso amico Sdrammaturgo: Enjoy!

In this Country, you gotta make the money first.

Then when you get the money, you get the power.

Then when you get the power, you get the women.

 Da Scarface di Brian De Palma

 

Il problema non è la valletta nuda. Il problema è il presentatore vestito.

C’è questo videoclip di tale Robin Thicke.

thicke

L’idea è semplice: fondo bianco, tre modelle nude dall’occhio vacuo che fanno balletti scemi e ammiccano intorno a tre cantantucoli trendy e cool che la sanno lunga.

In fondo sono sempre grato ai video rap sessisti: mi fanno scoprire ogni volta nuova passera mitologica di cui altrimenti avrei ignorato l’esistenza. E infatti in questo caso la brunette pallida è subito balzata nella zona Champions delle mie donne preferite.

Tralasciando la qualità della canzone in sé, che naturalmente è lassativa, il problema di questo videoclip non è tanto il sessismo, quanto il fatto che si tratta di un’occasione persa.

Pensate quanto sarebbe stato meglio così: nella prima parte, ragazze nude che fanno balletti scemi intorno a uomini vestiti di tutto punto. Nella seconda parte, cambio: ora le ragazze sono vestite eleganti e stavolta tocca ai ragazzi essere nudi e fare balletti scemi. Poi, tutti vestiti prima del gran finale in cui olé, tutti nudi.

Altrimenti, Robinthì, con questo video che m’hai voluto dire? “Sono ricco e famoso, sono un maschio alfa, sono pieno di figa sottomessa”.

Capirai che novità. A ‘sto punto sarebbe bastato un fermo immagine di quattro minuti e trentuno secondi sul tuo estratto conto.

E poi quella scritta, “Robin Thicke has a big dick”. Guarda che l’altro giorno negli spogliatoi della palestra in cui vado c’era uno che si vantava con un amico di avere il cazzo grosso.

Ma come, “sono un cantante famoso”, “vado alle feste con le modelle di intimo”, “frequento la gente che conta”, “Hugh Hefner me fa ‘na pippa”, per poi esprimere gli stessi concetti di uno che va in una palestra sulla Tiburtina?

E annamo, e daje.

E bada bene, non ti sto facendo la solita morale veterofemminista sulla mercificazione di qua e il corpo delle donne di là e l’omologazione dei canoni estetici di sopra e l’interiorità di sotto.

Io tra Emma Goldman e Melissa Satta uscirei con Melissa Satta, figurati.

Ho gusti estremamente convenzionali. L’occhio vacuo me piace pure. E ti dirò, la trovata delle modelle strafighe che fanno balletti scemi non mi sa manco male.

Di 73.272.161 visualizzazioni che hai ottenuto, 73.272.160 sono le mie.

RobinThicke-BlurredLines

L’arrapamento mi ha fatto pure passare sopra alla presenza dell’agnello spaurito. Come dire, talvolta il mio antispecismo finisce dove comincia il mio testosterone.

Probabilmente ho più cose in comune con te che con un responsabile di un centro antiviolenza.

Mi piace la figa quanto te. Anzi, pure più di te, considerando che ne ho molta meno di te, data la mia posizione sociale.

Pensa che non riesco nemmeno ad avercela coi manifesti pubblicitari sessisti, perché uscire ed essere circondato da culi sodi mi mette fondamentalmente di buonumore.

Quello che mi offende dei manifesti pubblicitari non è l’uso del corpo femminile, ma la pubblicità. Se sui cartelloni ci fossero donne bellissime fini a loro stesse che non pubblicizzassero nessun marchio se non la propria stessa avvenenza, non avrei niente in contrario. E poi vedere veterofemministe scandalizzate è per me sempre motivo di gaudio.

Bellezza gratuita a mo’ di memento: “Ricordati che tutto sommato vale la pena vivere”.

Di contro, la pubblicità anche senza l’uso del corpo femminile mi esorta ad augurarmi l’estinzione della specie.

Però mi chiedo: perché solo e sempre le donne? Perché noialtri dobbiamo rimanere sempre vestiti?

Certo, perlopiù siamo quasi tutti brutti, sono d’accordo. Ma di uomini che meritano di avere la propria nudità esposta ce ne sono, eh.

Tu stesso sei un bel ragazzo, non ci sarebbero state affatto male le tue chiappe in bella vista accanto a quelle delle tre superbone.

Il paritarismo a cui anelo io piacerebbe pure a te, sono sicuro: tutti nudi.

Quindi, visto che tanto ti sono eternamente debitore per avermi messo al corrente delle tette di Emily Ratajkowski, per il prossimo videoclip chiamami e ci penso io. Qualche idea più originale di quella la escogito di sicuro.

Non temere, ti garantisco che ci saranno persino ancor più modelle ignude. Ma mi auguro che quanto appare scritto nel tuo video non sia una cazzata, perché con me il mondo scoprirà la verità.

Cinque motivi per essere un uomo femminista

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Propongo qui di seguito la traduzione di un post apparso in un sito americano, che condivido pienamente. La traduzione – me ne scuso subito – è molto “di pancia” e fatta da me, quindi abbastanza approssimativa; chi vuole commentare per correggerla è il benvenuto. Va anche detto che “femminismo” è una parola che ormai corrisponde a un campo storico e semantico vasto come la letteratura, e quindi nell’adattare un testo americano alla realtà italiana ci sarebbero da fare numerosi distinguo; prima di tutto, riguardo l’uso del termine “femminista” riferito a un uomo, dalle nostre parti. Mi pare comunque che il senso orginale di questi “cinque punti” si sia conservato nella mia versione, e sia ampiamente adattabile al nostro paese. Oltre a ciò che è doveroso, poi, immagino già le bocche storte delle numerose – e numerosi – proprietari del marchio “femminismo” in Italia, quell* che “il femminismo sono io”, punto e basta. Ecco, quest* ultim* li invito con la più cordiale gentilezza a ignorarmi e a continuare pure a coltivare il loro orticello in compagnia di chi è loro più caro.

http://www.bluethenation.com/2013/06/15/five-reasons-to-be-a-feminist-man/

Cinque motivi per essere un uomo femminista

Uno dei più forti pregiudizi riguardo il movimento femminista è l’idea che ogni femminista sia una donna. Anche nei giorni più bui dei rapporti tra razze negli Stati Uniti, nessuno aveva l’impressione che l’intero movimento abolizionista fosse composto da neri, o che tutti gli attivisti per i diritti civili fossero neri. Di fatto i segregazionisti – e i sostenitori della schiavitù prima di loro – erano notoriamente ben consapevoli dell’esistenza dei politici opportunisti e dei provocatori. Ma il femminismo è stato opportunamente ritratto dai suoi oppositori come un’unica landa di lesbiche arrabbiate e misogine che vogliono uccidere i bambini e tagliare il pisello a tutti. Il che è strano, dato che mia madre è una femminista, e non solo ha fatto sesso con un uomo almeno quattro volte – dato che ha avuto quattro figli senza ammazzare nessuno di loro – ma non ha mai, in nessun caso, provato a tagliare il mio o l’altrui pisello.

Lasciatemelo dire chiaramente: sono un maschio. Dico “fratello” spesso, solo circa il 60% delle volte in senso ironico. Ho spalle grosse e la barba. Seguo parecchi sport. Bevo pessima birra e pessimi alcolici, e non so che farmene del vino. Mangio carne rossa più volte di quanto sarebbe salutare farlo. Penso che le pistole possano essere divertenti. Probabilmente ho qualche allergia che ignoro del tutto perché non me ne accorgo. Non lavo i piatti finché non rimango senza piatti puliti. Mi piace giocare a biliardo, a carte, a dadi. Sono un maschio. A volte lo sono in maniera tanto infantile e deliziosa.

Quindi quando dico che sono un femminista, nessuno si deve permettere di considerarmi uno sfigato dicendo “Uff, ecco il solito sgorbio schifoso alternativo, probabilmente legge libri e cose del genere”. E neanche mi si può liquidare come gay, che è un’altra deduzione tipica che fanno i maschi sugli uomini femministi, perché non lo sono. E non si può dire che sia succube della mia donna, perché sono single. E non sono neanche stato “femminizzato” o altre cose del genere, vedi sopra. Diamine, porto un multiuso Leatherman sempre con me nel caso ci sia improvviso bisogno di una pinza o un coltello. Sono un uomo, sono un femminista, e penso che più uomini dovrebbero essere femministi. Ve ne darò cinque buoni motivi, e nessuno di loro sarà “perché alle donne piace troppo, ciccio” oppure “perché pensa alla dua mamma, uomo”. Non dovresti essere femminista per difendere le tue donne, o perché pensi che ti farà scopare di più. Dovresti essere un femminista perché si deve proprio essere un cazzo di femminista, punto. Così ecco qui cinque ragioni per cui dovresti esserlo, ben illustrate [vedi l’originale, ndr] con l’aiuto di Ryan Gosling (comprate il libro femminista di Ryan Gosling, è fantastico!).

1) Non c’è in assoluto un solo argomento morale contro il femminismo. Nessuno.

Questo è, ovviamente, il più importante. Femminismo è la semplice credenza che la gente dovrebbe avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di tutti gli altri, libera da barriere inutili o costruite apposta, senza avere costantemente paura per la propria incolumità, a prescindere dal genere. Se hai qualcosa da opporre a ciò, fottiti. Sei uno stronzo. Se non hai nulla in contrario, congratulazioni. Sei già d’accordo con femministi e femministe su uno dei loro più fondamentali principi ideologici. Ora comportati di conseguenza a quel principio e staremo tutti meglio.

2) Più uomini femministi ci sono, meno donne saranno violentate. Davvero.

Mi spiego. Il ritratto più comune nella nostra cultura di uno stupratore è uno schifoso maschio con baffetti sottili e cappotto, oppure un tizio con la felpa che segue una donna fino a casa, l’agguanta e se la fa tra i cespugli. Può avere o no un furgone chiuso, a seconda di quale episodio di “Law & Order: SVU” ha più influenzato la vostra idea di stupro. Ma non è certo un’idea molto corretta.  La maggior parte degli stupri sono commessi da uomini che sono noti alla vittima. Conoscenti, colleghi, anche familiari o amici. Se vi siete mai chiesti perché alcune donne sono un po’ prudenti prima di stabilire un rapporto amichevole con voi, quella è la causa principale. Quello, e il fatto che loro sanno che il più delle volte volete solo farci sesso.

Questo è il motivo per cui più uomini femministi significa meno donne stuprate. Un buon numero di quegli stupratori che erano conosciuti dalle loro vittime non hanno neanche capito che stavano commettendo un crimine. Sapevate che se una donna è molto più ubriaca o drogata di voi, e ci fate sesso, c’è una buona possibilità che diventiate proprio uno stupratore? Se tu sei come la maggior parte degli uomini di questo paese (e di tutti i paesi, in realtà), non lo sapevi. Sapevi che se una donna dice no la prima volta e quindi dice sì dopo che tu l’hai influenzata in qualche modo, sei appena diventato uno stupratore? Di nuovo, ci sono buone probabilità di no.

Uno degli scopi più importanti del femminismo è educare gli uomini e le donne su ciò che davvero costituisce stupro, aggressione sessuale, etc. Un uomo femminista – seriamente, uno che comprende il femminismo – è molto improbabile che stupri le sue conoscenti, perché la maggior parte delle persone non voglio realmente stuprare nessuno. Ma se non sai in cosa consiste uno stupro – ed è molto facile non saperlo nella nostra cultura – è molto difficile non commetterne.

Un uomo femminista non penserà che dato che la gonna di una donna è corta, allora lei è del tutto disponibile a fare sesso con ogni uomo nel raggio di due miglia. Un uomo femminista non penserà che solo perché ha offerto a una donna qualche drink, ciò significa che ha ottenuto di fare sesso con lei. Un uomo femminista non risponderà mai alla domanda di OKCupid, “Pensi che ci siano alcune circostanze nelle quali una persona è obbligata a fare sesso con te?”, con nient’altro che “No”. Un uomo femminista non proverà a castigare la grocca troppo sbronza in un party, e invece si assicurerà che torni a casa sana e salva – non perché sta cercando di essere “un bravo ragazzo” che poi userà questo episodio come arma per avere sesso “volontariamente”, ma perché sa cos’è uno stupro e vuole comportarsi da essere umano. In breve, un uomo femminista non stuprerà mai nessuno.

3) Quando le donne sono responsabili di qualcosa, fanno davvero un buon lavoro.

Attualmente ci sono più donne nel Congresso di quante ce ne siano mai state. Il 20% del Senato è composto da donne. E a conti fatti, la loro presenza, particolarmente in posizioni di peso nelle commissioni, è stata molto positiva. Sono state capaci di aprire un dialogo attraverso l’una e l’altra parte politica, sia assottigliando i confini ideologici, che separando i democratici più conservatori (Blue Dog) da quelli più progressisti. Un importante traguardo per qualunque progresso, fatto alla faccia di un polo di maggioranza repubblicana ostruzionista, è stato raggiunto grazie agli sforzi delle donne. Per altri esempi dell’efficacia delle donne nelle posizioni di potere, guardate al mondo degli affari, dove le donne in posizioni di comando sono molto apprezzate. Sebbene sia più difficile per una donna raggiungere quelle vette, se lo fa, allora quasi sempre ottiene brillanti riscontri.

4) Quando l’aborto è rigidamente regolato, le persone muoiono.

Ricordate la donna morta di parto in Irlanda perché non le è stato permesso di abortire? Non è insolito in situazioni nelle quali l’aborto è vietato per legge o limitato. Il parto può essere, sfortunatamente, qualcosa di cui morire. E se anche non lo fosse, ci sono altri pericoli insiti nel rendere fuorilegge o molto limitato l’aborto. Il più importante è questo: qualcuno vorrà avere aborti, che siano legali o no. Se sono illegali, avranno i loro aborti con operazioni insicure, fortunose, in luoghi non attrezzati. E certamente, questo può accadere non solo sotto “Roe contro Wade”, ma anche quanto l’aborto è regolato con tutti i crismi della legge, che un medico incapace negli aborti possa essere perseguito. Ecco perché ce ne sono così pochi in giro. Se l’aborto è illegale, non ci sarà scampo. Delle donne moriranno perché un branco di stupidi vecchi bianchi hanno deciso che loro non dovrebbero avere il controllo dei propri corpi.

5) L’oppressione non finisce finché l’oppressore non smette di opprimere.

Lo so, lo so, questa è dura da sentire. Non ti senti come un’oppressore. Ovviamente non ti ci senti. Se ti accadesse, smetteresti di fare cose che opprimono gli altri! Questo è come funziona l’oppressione nel mondo reale. Ci sono molte poche persone là fuori sedute in cerchio a rollarsi i baffi pensando al modo di essere cattivo e far soffrire il prossimo. Nessuno si sente un oppressore. Io non mi sento un oppressore. Ma quasi certamente lo sono, a causa di qualcosa che faccio senza che riesca a comprenderne esattamente tutte le conseguenze.

Ma quando dici a una donna a caso, per la strada, che oggi è bellissima, o che dovrebbe sorridere; quando cerchi di rimorchiare una ragazza al bar senza neanche preoccuparti di tentare di conoscerla prima; quando te ne esci che quello che è successo a Steubenville è stato orribile ma che quella ragazza non avrebbe dovuto ubriacarsi così tanto; quando parli di donne come oggetti sessuali; quando ti dispiace essere colpito dalla “regola dell’amico”; quando tu fai queste e altre migliaia di piccole cose, tu opprimi le donne. Tu contribuisci a una cultura dell’oppressione, a una cultura dello stupro e della violenza sessuale, a una cultura della reificazione delle persone, a una cutura del dominio e della superiorità maschile.

E’ una cultura nella quale le donne possono ancora perdere il lavoro perché rimangono incinte. E’ una cultura protetta da una inquietante moltitudine militarizzata di predatori sessuali e stupratori. E’ una cultura nella quale le donne non hanno ancora gli stessi guadagni degli uomini per lavori analoghi. E’ una cultura che dice alle donne che non dovrebbero “volere tutto” (che significa avere una famiglia e una carriera e una vita sociale) mentre dice agli uomini di essere ambiziosi, andare là fuori e prendere tutto ciò che vogliono. Infine, è una cultura altrettanto dolorosa e frustrante per gli uomini che per le donne. E non è una cultura che tu dovresti aiutare a perpetuare.

Signori, siete già arruolati nella guerra contro le donne. E’ ora di cambiare fronte.

Il vero vincitore è il moralismo

La notizia la conoscete tutt@: Silvio Berlusconi è stato condannato a 7 anni e ha ricevuto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma la condanna è di primo grado, quindi ha tutto il tempo di mischiare le carte.

Premetto che, vada in carcere o meno, a me non interessa minimamente, non credo nel carcere e quindi non lo augurerei a nessun@. Credo invece nella riabilitazione, nella possibilità di comprendere i propri sbagli e cambiare, ma sfortunatamente questa “rieducazione” non è prevista nell’istituzione carceraria. Lì dentro, in quei 8 mq, non si insegna altro che la regola del “vince il più forte” e, in questo caso, lo Stato e le forze dell’ordine, ma è sempre una questione di dominio, chi ne ha di più riesce a sbattersene anche dello Stato. In sintesi è un braccio di ferro, un gioco a chi ce l’ha più grosso. Roba machista che ci dovrebbe far venire i conati di vomito.

Ma, a parte la violenza insita nel carcere, la giustizia che dovrebbe “tutelarci” e che è stata da molti lodata per questa sentenza, in realtà è la stessa che condanna chiunque decida di lottare per il diritto alla casa, contro la privatizzazione delle scuole e lo smantellamento dell’istruzione pubblica, per la salvaguardia della propria terra che i potenti vorrebbero violentare riversandoci rifiuti di ogni genere o traforandola per un progetto del tutto inutile di “alta velocità”, la lotta contro la violenza di genere che si dimentica troppo spesso essere agita anche da tanti tutori della legge, per mantenere luoghi occupati/liberati, per condizioni di lavoro migliori, perché a lavoro si continua a morire, contro la precarietà che ci schiaccia e ingabbia e tanto altro. Questa giustizia è la stessa che ha assolto gli assassini di Stefano Cucchi, e assolto i torturatori della Diaz e Bolzaneto, che ha preso di mira i/le compagn@ No Tav, che per condannare le 10 persone processate per i fatti di Genova ha riesumato reati dal codice Rocco, che adesso processa 18 compagn@ per i fatti del 15 ottobre a Roma ed ect., potrei continuare all’infinito ma penso che non serva, che questi fatti siano noti. Quando si parla di giustizia è questo quello a cui penso.

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Pride: piume sì, piume no?

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Frequenze Lesbiche è un giovanissimo blog (siamo quasi coetanee) nato in seno ad ArciLesbica con “l’obiettivo di creare uno spazio di condivisione politica, sociale e culturale dove possano dibattere tra loro voci diverse sui temi della comunità LGBTIQ”.

Riportiamo alcune interessanti riflessioni sul pride di una delle voci di questo blog, Carlotta, sul ricorrente dibattito sulla rappresentazione che questo evento deve dare della comunità LGBTIQ.

Buona lettura!

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PIUME O CRAVATTE? ECCO A VOI IL PRIDE

Tempo di Pride, tempo di polemiche. Come tutti gli anni inizia la solita sterile manfrina: piume sì, piume no, meglio la cravatta, la rispettabilità, la famiglia o meglio i lustrini, il divertimento e la poliaffettività?
Meglio l’autodeterminazione.

 

È frustrante leggere accorati appelli a un Pride sobrio, per una normalizzazione della parata, come questo (interessante il passaggio su noi e loro, come specie antropologiche differenti) e questo.
Sulla pulciosa diatriba estiva pre-Pride si gioca ogni anno una sorta di dibattito attinente alla meritocrazia dei diritti: ai froci buoni, integrati, che ambiscono al matrimonio e ai figli i diritti (e la dolce Euchessina)…e a quelli cattivi, che vanno in giro con le paillettes? Che spingano, avrebbe detto Marcello Marchesi.

Sarcasmo a parte, cosa permea questi discorsi?
Intanto, la presunzione di conoscere a fondo chi è il soggetto LGBTIQ normale, come se ci fosse un ben definito tipo LGBTIQ, di lombrosiana memoria, con la differenza che al soggetto LGBTIQ matur* si attribuiscono caratteristiche quali il desiderio di famiglia e figliolanza, mentre la radicalità, il gioco con il corpo ed il sesso sono proprietà del soggetto immaturo e imbrattato di rossetto. Poco importa se poi esistano soggetti che appartengono a entrambe o nessuna di queste categorie.

Beninteso, non ho nulla contro il mettere su famiglia e sposarsi, penso anzi che sia un diritto che deve essere riconosciuto, nella sua pienezza, anche alle persone LGBTIQ che lo vogliano per sé, per le loro vite, ma non credo che tutt* abbiano questi desideri: penso che ci siano modelli relazionali differenti, affettività non riassorbibili unicamente nel concetto di coppia, famiglie di scelta che si discostano dalla famiglia tradizionale mononucleare, identità più ampie che quelle comprese nella narrazione dominante.
Penso che ci siano tante storie differenti e tracciati di vita diversi, che hanno uguale diritto di essere.
Quest’impianto teorico, dicotomico, mi rimanda invece al concetto di morale vigente, di cosa sia considerato perbene e cosa permale.
Il punto è, quindi, da un lato la cristallizzazione che esce da questa dicotomia: o sei padre/madre di famiglia, a modo, con la cravatta (o la t-shirt), un lavoro rispettabile e buon*, oppure sei cattiv*, indecente, vestit* da checca o da puttana, con le macchie di leopardo e il rossetto sbavato; dall’altro è la normalizzazione, cioè l’impossibilità di autodefinirsi secondo altri parametri che non siano quelli identificati come giusti e decenti, di fatto arrivando a bandire la radicalità, la possibilità di critica e di dissacrazione.
In questo modo si costruisce anche un immaginario povero, in cui la libertà di azione di ognun* è minima e in cui la differenza spaventa meno, perché viene ricompresa, ridotta a qualcosa di noto e meno destabilizzante.
Dove finisce allora la mia possibilità di scelta, la mia libertà di azione, nel momento in cui posso essere soltanto in un certo modo?

In seconda battuta, trovo che sia puro marketing -e nemmeno troppo efficace- quello di far sfilare la “normalità”. La normalità ha a che fare più con il concetto di normazione che con il concetto di realtà. Chi è normale? Il soggetto che in una valutazione di frequenze sta al centro di una curva gaussiana, o poco distante, con un massimo di due deviazioni standard dalla media? Chi rimane tagliato fuori da questo discorso che tutto disciplina? Chi è la coda esclusa? Chi sono, in altre parole, i soggetti fuoriusciti, diventati un discorso marginale? Quali relazioni sono promosse e quali punite?
Penso che sia marketing perché si parte dall’assunzione che, in una società dove l’educazione alle differenze è ancora difficile, mostrarci come simili, come uguali, contribuisca a renderci più accettabili, venda bene il prodotto, truccato ad hoc per il pubblico che lo apprezzerà facilmente (fosse poi vero). Con una definizione della normalità edulcorata, tutta sorrisi e famiglie felici, come se quella fosse la rappresentazione più veritiera e desiderabile della società attuale. Come se quella, per giunta, fosse la fotografia della famiglia eterosessuale a cui essere simili, che, a ben vedere, è comunque molto più sfaccettata di così.
Via libera allora al «panettiere, che ogni giorno ci regala un sorriso al bancone, o l’insegnante di nostro figlio, che stimiamo per la sua cultura», ma che ne sarà della vicina di casa lesbica ma antipatica e avvezza a intrattenere numerosi rapporti sessuali con più e differenti partners? Chi si ricorderà della transgender brasiliana, che si prostituisce per mantenersi (e questo non è per il facile e sbagliato accostamento transgenderismo/prostituzione, ma per calcare la mano su chi si prenderà cura dei soggetti non conformi)?

Nella retorica delle narrazioni, credo che il discorso sulla rispettabilità e la decenza sia pericoloso, perché nega che il diritto di esistenza e di relazione sia universale e debba essere garantito a priori a qualunque essere umano- in quanto fa parte dei diritti umani poter esprimere liberamente il proprio orientamento, la propria identità ed espressione di genere- ma fa del diritto una concessione dall’alto, esclusiva del soggetto conforme alla società e socialità.
Introducendo implicitamente la meritocrazia del diritto: i diritti come appannaggio di chi se li merita.
Nell’invocare sobrietà e cravatte ai Pride, leggo tra le righe il desiderio -che è ben più ampio del Pride stesso- di disciplinare corpi e sanzionare comportamenti: sorvegliare e punire, in un meccanismo di controllo sociale, reciproco, che spacca la stessa comunità che rivendica il proprio diritto ad esistere.
In una riduzione asfittica dell’agibilità politica e della possibilità di contrattazione.

Reuters/Jim Urquhart, dal sito www.charismanews.com

L’assimilazionismo e l’omofilia hanno attraversato la storia del movimento omosessuale di rivendicazione: negli anni ’50 il movimento omofilo guardava con sospetto, nel più benevolo dei casi, e con sdegno e livore più di frequente, alla liberazione e al culto del corpo, ai locali di intrattenimento, al divertimento, opponendo a questo tipo di subcultura che stava prendendo piede un netto rifiuto in nome della rispettabilità. Secondo il movimento omofilo era infatti colpa dell’ostentazione se c’era una stigmatizzazione e un accanimento così forte nei confronti della popolazione LGBTIQ. Poi vennero il Gay Liberation Front, l’epoca della liberazione, il ’68, momento dal quale, si sperava, non si sarebbe tornat* indietro.
Corsi e ricorsi.

Penso però che si possa superare un ragionamento di così vecchio stampo, al grido di Pride libera tutt*, rinfrescando la memoria, come primo atto dovuto di quella che di fatto si chiama Marcia di Christopher Street.
Cos’era Stonewall, il 28 giugno 1969?
Era un moto di insurrezione, un momento di insubordinazione e lotta, era il grido ora basta, una bottiglia lanciata, con rabbia e con esasperazione, da Sylvia Rivera, una transgender, contro un poliziotto, dopo l’ennesima retata nel bar Stonewall Inn, in Christopher Street, a New York.
Erano scontri di migliaia di gay, lesbiche e transessuali contro le forze dell’ordine in assetto antisommossa, in un’intifada di bottiglie e pietre. Ma era anche la provocazione irridente di dire:

«Siamo le ragazze dello Stonewall
abbiamo i capelli a boccoli
non indossiamo mutande
mostriamo il pelo pubico
e portiamo i nostri jeans
sopra i nostri ginocchi da checche!»

[coro di drag-queen in fila contro i poliziotti, riportato in PIONTEK, T., 2006. Queering Gay and Lesbian studies. Champaign: University of Illinois Press. Pag. 7]

Il Pride si è arricchito successivamente, di altri significati.
Oltre alla marcia per i diritti, si porta così in strada, in una festa collettiva, alla luce del sole e ben visibile, una cultura variegata, che tiene dentro molti contenuti e soggettività diverse: la cultura LGBTIQ. Che non è certo univoca e unitaria, ma frammentaria, come si addice a una comunità molteplice come quella LGBTIQ, accomunata dalla volontà di liberazione, ma spesso differente nella sua composizione per ceto, provenienza, etnia, istruzione, genere ed identità di genere, orientamento sessuale.

Dunque, come scendere in piazza?
Come si vuole, ognun* con la propria identità, storia ed individualità. Con i propri desideri e il proprio corpo, con gli abiti che ci stanno meglio o peggio addosso, con le relazioni che abbiamo, se le abbiamo. Con le cravatte e le sciarpe, con i boa di struzzo e i capezzoli in nastro adesivo nero.
Con le famiglie e le figlie, ma anche con le amiche e sorelle o da sole.
E in due, e in tre. Con i mariti, le mogli, le compagne, le amanti.
Marciando e gridando slogan ma anche ballando, cantando, spogliandoci e celebrando la bellezza dei nostri corpi.
Favolosamente.
Con la sola regola di sentirci a nostro agio, perché il Pride è un momento in cui essere orgoglios* di ciò che siamo e l’orgoglio porta con sé tanta felicità.

Leggi anche:

Perchè gli antispecisti possono non dirsi comunisti.

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Nel numero 11 di Liberazioni, notevole rivista di critica antispecista, è stato pubblicato un articolo di Aldo Sottofattori dal titolo “Perché gli antispecisti non possono non dirsi comunisti“. Da antispecista sono stato subito colpito da questa affermazione, che mette un chiaro confine – per certi versi anche positivamente – su quale possa essere il pensiero politico antispecista.

Da subito Sottofattori mette le mani avanti, affermando che “Questo articolo non pretende di affermare una tesi assoluta che non richieda ulteriori revisioni. Esso consiste piuttosto in una riflessione offerta al movimento antispecista per iniziare a ragionare sulle condizioni necessarie perché si realizzi la liberazione animale dal giogo umano”.

Da subito vengono prese le distanze dalla possibilità di ottenere una liberazione animale in una società di libero mercato, seppure diversa da quella attuale. Un approccio “culturalista”  e non “politico” della liberazione animale, quindi una modificazione dei costumi piuttosto che un cambiamento radicale della società liberista, non può che portare al fallimento.

Leggi tutto “Perchè gli antispecisti possono non dirsi comunisti.”

Sii adipositiva!

1011069_586580584709826_611827284_nGrassa. Chiattona. Balena. In quanti modi si può dire mi fai schifo a una persona grande/grossa/grassa? (Beneinteso che anche la magrezza, percepita come estrema, benché sia più accettata, diviene oggetto di disprezzo. Sbagliata, in ogni caso, è il nostro nome.) Tutti quei modi che conosciamo bene perché li abbiamo sentiti, diretti a noi o ad una nostra amica, milioni di volte.
I giudizi negativi sui nostri corpi si nascondono spesso dietro consigli salutistici, alimentari e medici. Ma chi può giudicare il nostro stato di salute meglio di noi stesse? Ad una persona grassa non si chiede “Come stai?”, le si dice direttamente: dovresti perdere peso. Certe volte sono state le nostre stesse mamme o nonne o zie a farci sentire inadeguate, perché lo spazio che occupiamo è troppo, perché il cibo che mangiamo è troppo, perché siamo pericolosamente strabordanti rispetto alle regole della buona continenza femminile.  C’è, nelle nostre vite, un padre o un fratello per il quale risultiamo impresentabili. Molto spesso sono stati i nostri amanti a suggerirci con un gesto o una frase casuale, quando non volutamente cattiva, che queste cosce grosse e queste braccia adipose andrebbero coperte, nascoste. “Hai il seno troppo grande” è una frase che in tempi di silicone non crederesti mai di sentire, invece…
Può sembrare che da certi discorsi gli uomini siano esclusi, non è così. Un uomo grasso subirà probabilmente una minore pressione, in quanto uomo e quindi giusto di per sé, ma non significa che non ne subirà.
Se ciò per cui la società ti definisce viene percepito come sbagliato, allora hai solo due strade: il rifiuto di te stessa o la rivendicazione. Scegli.

adipositivity.my-expressions.com
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Mostrare un immaginario positivo attorno ai corpi grossi (adipositività) è il mezzo attraverso il quale “The Adipositivity Project, si propone di cambiare la definizione di bellezza fisica della società. Letteralmente. (…) Ambisce a promuovere l’accettazione della propria taglia, senza elencare i meriti delle persone grosse o dettagliando esempi di eccellenza (queste cose si vedono facilmente attorno a noi), ma, piuttosto, attraverso la rappresentazione visiva dei corpi grassi. Qualcosa che di solito non si vede”.

Il progetto è promosso dalla fotografa Substantia Jones, e si arricchisce di nuove immagini continuamente.

adipositivity.my-expressions.com
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“Qualche volta le fotografie sono strette sul dettaglio delle forme femminili grasse, spesso senza l’inclusione dei volti. Uno dei motivi di questa scelta è quello di spingere gli osservatori ad immaginare che stiano guardando le donne grasse nella loro vita, idealmente quindi accettarle come detentrici di appeal estetico che, bene o male, spesso si traduce in forme più complete di accettazione.

Le donne che vedete in queste immagini sono educatrici, dirigenti, madri, musiciste, professioniste, artiste, performer, attiviste, impiegate e scrittrici. Forse sono anche le donne alle quali hai fischiato in metropolitana, che ti hanno fatto girare gli occhi al mercato, o che hai preso in giro con gli amici.

Questo è quello che sembrano senza i loro vestiti.

Alcune vi mostrano con orgoglio i loro corpi. Altre timidamente. E alcune molto a malincuore. Ma tutte hanno l’obiettivo di modificare le nozioni comunemente accettate riguardanti un ristretto e specifico ideale di bellezza.

adipositivity.my-expressions.com
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Aggiungete ai preferiti adipositivity.com e controllatelo spesso, siccome nuove fotografie vengono aggiunte regolarmente. E, per favore, aiutateci a diffondere il messaggio. The Adipositivity Project: cambiare gli atteggiamenti sul valore estetico delle donne grosse, una fica grassa alla volta. “

Le parti originali qui tradotte si trovano su adipositivity.my-expressions.com

Traduzione e adattamento dall’inglese di Serbilla.