CORPI REAGENTI – MySlut Walk e qualche considerazione a margine

corpireagenti

Questo weekend segnaliamo, per chi si trova a Torino, un appuntamento imperdibile… anzi due!

A conclusione del progetto ‘What’s Body?’ che il collettivo Sguardi Sui Generis ha portato avanti nel corso dell’anno con diversi incontri, il discorso sul corpo verrà approfondito attraverso due giornate dedicate alla sperimentazione e alla performatività.
CORPI REAGENTI sarà articolato in due giornate:

– SABATO 15 GIUGNO @ csoa ASKATASUNA (corso Regina, 47)
alle ore 15: laboratorio MY SLUTWALK a cura del collettivo femminista Le Ribellule Collettivo Femminista (leribellule.noblogs.org)
…a seguire aperitivo danzante in compagnia de Le Elettrosciocchine!

– DOMENICA 16 GIUGNO @ circolo Maurice (via Stampatori, 10)
alle ore 15: MASCHILITA’ DI CHI? laboratorio di Kinging a cura del Lab. Sguardi Sui Generis
…a seguire merenda queer!

Rimandiamo al post pubblicato da Sguardi Sui Generis per maggiori info sull’argomento.

A prescindere da questa bella iniziativa, alla quale speriamo aderiate numeros*, vorremmo con questo post dare l’avvio ad una riflessione più generale sulla SLUT WALK, sui suoi significati (e contraddizioni) e sulle sue prospettive future.
Abbiamo in proposito tradotto parte di un articolo scritto da Yasmin Nair, che riflette su alcune delle zone d’ombra della Slut Walk: lo abbiamo scelto perché alcune delle questioni sollevate risuonano dei dubbi che a volte ci attanagliano, e perché vorremmo con tutte le nostre forze evitare ciò che la Nair prefigura, quando si chiede:

La Slutwalk rappresenta la fine del femminismo?

‘Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.’

[…] Nel 2011, mentre sfilavo con migliaia di persone radunatesi in una splendida giornata estiva, e mi trovavo in piedi sopra una tribuna improvvisata a declamare un breve discorso, non ho potuto fare a meno di sentirmi eccitata alla prospettiva di assistere a ciò che per me rappresentava il riaffacciarsi, pieno di significati e importanza, del femminismo, un movimento che consideravo agonizzante – per non dire quasi scomparso.

Ho nuovamente tenuto un discorso alla Slut Walk di quest’anno, e mi sono trovata a chiedermi dove fosse finita tutta quell’energia. I travestimenti erano sempre quelli, così come i cartelli, provocatori e spesso molto divertenti, anche se le persone presenti erano molte meno. Nell’osservare la folla per la seconda volta, mi sono chiesta perché così poco fosse cambiato, e se questa volta, la Slutwalk rappresentasse non l’inizio ma la fine del femminismo.

La Slutwalk è nata a causa di un poliziotto di Toronto, il quale disse che “le donne dovrebbero evitare di vestirsi come puttane, se non vogliono diventare vittime”. Queste parole sarebbero state già gravi di per sé, ma il venir proferite durante un forum di prevenzione della criminalità fu molto peggio, perché implicava che le donne che si vestono in un certo modo meritano quello che capita loro. Tali parole ebbero l’effetto di provocare innumerevoli discussioni, e le donne marciarono in massa per rivendicare e decostruire il termine “puttana.”
La popolarità della Slutwalk, lo scorso anno, ha portato alcun* ad asserire che essa rappresenti il futuro del femminismo.

[…] “Femminista” non è un’etichetta che mi piaccia utilizzare. Mi sono trovata spesso in disaccordo con quello che solitamente viene definito femminismo, soprattutto negli Stati Uniti, dove il termine è purtroppo associato a quelle donne bianche privilegiate i cui interessi sono principalmente il controllo delle nascite e il diritto d’aborto, e oltre a questo poco altro. In realtà, anche il linguaggio dei diritti, nella sua problematicità insita nel privilegiare il singolo soggetto invece di compiere un’analisi sistemica dei rapporti di potere, è stato soppresso dalle femministe americane tradizionali. […] Nonostante tutte questi aspetti problematici, e il fatto che io spesso rabbrividisca quando mi viene chiesto se sono una femminista, di solito rispondo di sì, perché penso ancora che questo termine, così come la parola “queer”, abbia una qualche potenzialità – forse non di rottura, ma che in ogni caso detenga in sé ancora una qualche promessa spettrale o minaccia di cambiamento.

La prima Slutwalk dunque, ha rappresentato la piattaforma necessaria per discutere pubblicamente – e ricominciare a combattere – il sessismo e la misoginia profonda che pervade la nostra vita pubblica e privata, anche nei mondi apparentemente più illuminati della sinistra.

Nei mesi successivi, la Slutwalk è stata sia lodata che criticata. I/le critic* hanno sottolineato che rivendicare la parola “puttana” è problematico, in quanto il termine è spesso usato per sminuire e infantilizzare le donne di colore. Trovo la critica in sé offensiva, poiché presuppone che le donne di colore siano impotenti e passive, per sempre intrappolate nel ruolo delle vittime. E’ anche un argomento essenzialista, che dà per scontato che tutte le donne di colore abbiano le stesse opinioni. Mi sento di affermare inoltre che il privilegio, come ad esempio il privilegio di definirsi una puttana, non è un’esclusiva delle persone bianche; troppa cultura di sinistra sostiene erroneamente che le comunità di colore non vogliano o non possano riprodurre dinamiche di privilegio o non siano in qualche modo influenzate dal capitalismo/neoliberismo.

[…] Molte delle discussioni emerse nell’ambito della Slutwalk sono centrate su narrazioni fortemente personali, che ignorano i modi in cui il femminismo si sia storicamente impegnato a resistere anche contro gli squilibri strutturali, quali la politica ed economia dell’ineguaglianza. Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.

La richiesta delle persone di non essere molestate – o peggio – in virtù di come si vestono non è per nulla una questione insignificante: ma rivendicare la parola “puttana” deve essere solo l’inizio. Esiste una forma particolarmente insulsa di attivismo che ha invaso il mondo della sinistra progressista, dove persone di colore e  altri gruppi oppressi diventano narratrici/tori di un “racconto”. Questa pratica funziona come i cerchi di tamburi, un lamento infinito dei propri guai personali che ignora le componenti strutturali del capitalismo, e consente la realizzazione di un neoliberismo più feroce e più potente, che sfrutta l’ambito del personale per cancellare in noi la consapevolezza della distruzione delle nostre risorse sociali, politiche ed economiche.

Se il femminismo vuole rimanere sostanziale, deve dunque conservare il proprio carattere di rottura, non perderlo, e deve continuare a mettere in discussione anche ciò che esiste oltre al personale.

Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!

adesivo

Dalle meravigliose Mujeres Libres di Bologna rilanciamo la loro campagna: Schifosa pubblicità sessista!

Buona lettura!

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Circa un anno fa ci siamo ritrovate ad affrontare, nel nostro percorso di autocoscienza, il tema dei corpi e dei modelli di donna che ci vengono quotidianamente riproposti dalle pubblicità e dai mass media.

Ci siamo ritrovate a raccontarci i nostri corpi, a chiederci cosa ci piace e cosa non ci piace di loro, a mettere in luce quanto il nostro giudizio sia assoggettato ai modelli di bellezza femminile che esaltano unicamente corpi magri, aggraziati, glabri, profumati, abbronzati e con le forme giuste al posto giusto. Da qui è scaturita la volontà di analizzare uno tra gli strumenti principali attraverso i quali vengono veicolati questi modelli: la pubblicità. Perciò è nata l’idea di lanciare la campagna “Schifosa pubblicità sessista” che incita tutt* ad attaccare un adesivo di denuncia sopra tutte le pubblicità sessiste che ci circondano per le strade (tutte le info le trovate qui ). Leggi tutto “Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!”

Questi poster non sono ciò che sembrano!

ph buzzfeed.com

A prima vista sembrano i soliti manifesti sexy che incrociamo ogni giorno nelle strade del mondo (almeno di quello occidentale), ma basta girare l’angolo per scoprire che c’è dell’altro. Le lavoratrici sessuali sono spesso anche madri e chiedono maggiori tutele per il loro lavoro.

ph buzzfeed.com

In Argentina la prostituzione è legale, ma non è nè regolamentata nè tutelata. Nasce così questa campagna di street art (stencil ndt), lanciata agli angoli delle strade di Buenos Aires. Dietro la fantasia di un’immagine sexy, c’è la realtà e una statistica sorprendente:”L’86% delle lavoratrici del sesso sono madri, abbiamo bisogno di una legge che regolamenti il nostro lavoro”.
La campagna è stata promossa dall’AMMAR, l’Associazione Argentina delle lavoratrici sessuali.

ph buzzfeed.com

Adattamento italiano di questo post in inglese di Serbilla.

Per qualche spunto in più sul lavoro sessuale, dal punto di vista argentino, vedi: Per fermare la tratta bisogna legalizzare il lavoro sessuale.

Deconstructing il direttore

Mega-Direttore-Ereditario-Dottor-Ing.-Gran-Mascalzon.-di-Gran-Croc.-Visconte-Cobram-e1333802657523 Già una volta ebbi a dire qualcosa (però, come parlo bene) sulla figura del direttore responsabile, e proprio riguardo quello di cui parliamo oggi. E’ un’occasione più unica che rara, perché i direttori responsabili di solito non parlano molto, ma manco scrivono. Quando di tanto in tanto lo fanno, noi siamo pronti a raccoglierne il messaggio e a codificarlo per voi, povere menti che non capite, che  non sapete, che non volete – ah, la vita del direttore responsabile.

Antefatto: le parole che riportiamo sono solo quelle che Peter Gomez ha aggiunto in questo post, dove uno dei blogger de “Il Fatto” s’è accorto, diciamo così, che non tutti i blogger della testata mantengono il suo stesso standard di serietà redazionale; e che quindi il suo lavoro viene messo alla stregua di quello del ‘copincollàro’ più banale. Diciamo che non l’ha presa benissimo, e in virtù di ciò, con molta educazione, dice che gli può bastare, grazie. Il nostro direttore responsabile, ovviamente, sente come suo dovere spiegare al(l’ex-)collaboratore e ai lettori il disdicevole equivoco con le parole che solo un direttore responsabile può avere in questi casi.

Caro Dario,
ho sempre pensato che in qualsiasi campo chi ha buoni argomenti  (e tu ne hai) ha il dovere di farli valere [quindi anche se copincolla qua e là, caro Dario, se ha buoni argomenti vale anche quello]. Ilfattoquotdiano.it [avete capito bene, Gomez ha messo il link allo stesso sito nel quale sta scrivendo – un vero maestro, non c’è che dire, per raccogliere click] non è una rivista scientifica [ti dirò, Gomez, il sospetto lo avevamo avuto] e sopratutto lo spazio dei blog è semplicemente uno spazio libero dove chiunque scrive si sottopone al giudizio dei lettori [traduco: non c’è alcun criterio redazionale, vale tutto, è ‘na camboggia, basta che cliccano e leggono]: sia esso uno scienziato, un filosofo, un politico o un leader religioso [notate l’anticlimax: uno che parla per fatti dimostrati, uno che teorizza su fatti diciamo discutibili, uno che notoriamente è ipocrita di mestiere, poi il ciarlatano acclarato]. Lo spazio dei blog non fa sentire tutte le campane, permette solo alle campane di suonare [appunto: non si tratta di dare spazio a cose sensate, ma di preparare un teatrino dove tutti possono dire la loro – quindi vince chi strilla di più] (se la loro musica non è diffamatoria o violenta [a insindacabile giudizio de Il Fatto: i negazionisti del femminicidio non sono quindi giudicati né diffamatori né violenti]).

Nello spazio a destra del sito, come sai, viene invece seguita una linea editoriale [“udite udite”; peccato che il direttore non ci dica qual è. Accontentiamoci del come sai, evidentemente sono affari loro].  E mi pare che – tranne in un unico caso (a volte anche noi come gli scienziati sbagliamo)  – su quella linea ci sia stato veramente poco da dire [anche perché ti guardi bene dall’esprimerla, quindi…]. Non penso poi che un biologo serio non debba andare a un convegno di creazionisti [capito? A ‘Il Fatto’ permettiamo solo alle campane di suonare, però c’abbiamo pure un’opinione su come si fa il campanaro]: se ci va, visto che ha la ragione dalla sua parte, e li affronta con umiltà e convinzione forse farà mutare parere e convinzioni a qualcuno di loro [Dario, hai capito? Per raccogliere click non devi fare solo lo scienziato, ma pure fare proseliti]. E se ci riesce la sua vittoria avrà la stessa dignità e importanza di una scoperta scientifica [eccola la linea editoriale: la scoperta scientifica è importante quanto il giudizio dei lettori. Proprio l’idea che aveva Galilei, per esempio].
Per questo credo che dovresti ripensarci. Niente è facile, né nella vita, né nella scienza [tiè, Dario, beccati pure la frase da carta di cioccolatino, te che fai tanto lo scienziato].

un abbraccio [e du’ click]
Peter Gomez

FAMoLo PRIDE sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

famolonano

Condividiamo l’appuntamento di domani pomeriggio a Torino (e condividiamo in tutto e per tutto le questioni poste dall’appello!)
A domani!

FAMoLo PRIDE

Sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

“Essere legittimati/e dallo Stato significa entrare a far parte dei termini della legittimazione offerta e scoprire che la percezione di sé in quanto persona, pubblica e riconoscibile, dipende essenzialmente dal lessico di tale legittimazione”.
”Interrogarsi su chi desidera lo Stato, chi può desiderare ciò che lo Stato desidera e perché”
Judith Butler

Il Torino Pride del 2013, che si svolgerà sabato 8 giugno, ha come focus il tema delle famiglie: www.torinopride.it/index.php/documento-politico
Ma cos’è realmente una famiglia?
Se osservata nel tempo e nello spazio, chi la studia ci dice quanto sia difficile darne una definizione precisa: più semplice appare certamente l’analisi di come si faccia famiglia, piuttosto di quella sul cosa essa sia. A fronte di alcune caratteristiche più o meno indispensabili  -solidarietà, aiuto reciproco, sodalizio economico, affetto  (non sempre) sesso, ecc. -, le declinazioni appaiono molto varie: storicamente, geograficamente, culturalmente e socialmente definite.

Il movimento “gay” negli anni ’70 si rivelava quanto meno avverso alla famiglia, se non il suo ideale distruttore; oggi quello lgbttqi chiede forse un po’ troppo insistentemente di partecipare ad una visione specifica e normativa della stessa, “omologata” e “omologante”? La richiesta è forse quella di entrare a far parte di quei “privilegi” che una determinata forma affettivo/relazione ben definita (che parte dal duale, dalla coppia adulta), permette di raggiungere, rispetto alle altre?

L’insistenza della richiesta è certamente comprensibile alla luce di alcuni effetti pratici non facilmente negabili e tanto meno banalizzabili- spesso legati alla vita quotidiana- che un tale riconoscimento permetterebbe di raggiungere, ben espressi nel documento politico del Torino Pride 2013 e un po’ in tutte le piattaforme del movimento lgbttqi degli ultimi anni: riconoscimento bimbi/e per @ genitor@ non biologico, possibilità di adozioni, questioni ereditarie, diritto alla cura e vicinanza al/la partner, ecc.

Inoltre, come sostiene Anthony Giddens in merito all’analisi delle “relazione pura”, pensiamo che le coppie/famiglie non eterosessuali siano spesso portatrici i aspetti innovativi e di “democratizzazione” rispetto alla classica concezione patriarcale, ipocrita, illiberale e repressiva della famiglia d’ispirazione borghese: rispetto alla strutturazione dei ruoli in generale e di genere in particolare, del “riconoscimento” reciproco dei/lle componenti il nucleo, degli aspetti (auto)riflessivi, della comunicazione interna, della contrattazione (continua), della gratificazione relazionale, dell’educazione della prole, ecc.

E proprio a proposito di prole, segnaliamo come spesso l’opposizione “da destra” al matrimonio nasconda fobie legate alla filiazione e alle adozioni: preoccupazioni economiche legate al controllo della trasmissione dei patrimoni per via ereditaria, paura di mettere i discussione modelli di riproduzione ed educazione della “specie”, funzionali al mantenimento di prestabiliti ruoli di genere, ma anche della purezza di una “razza” e di una cultura.

Ma, pur in presenza di aspetti positivi inerenti il riconoscimento delle famiglie lgbttqi, restano certamente alcuni dubbi:

l’inclusione lgbttqi nell’istituzione del matrimonio traccia immediatamente una linea di esclusione di tutt@ coloro, lgbttqi e non, che invece non vogliono sposarsi, e di quelle pratiche sessuali che non vogliono farsi istituzionalizzare: cosa comporta questo per la comunità de@ non coniugat@, de@ single, dei divorziat@, di coloro che non sono interessat@ al matrimonio, di coloro che non sono monogam@? Che riduzione subirà la leggibilità della sfera sessuale una volta che il matrimonio venga considerato la norma?

quanto c’è di “conservatore” nell’accettare che certe garanzie di welfare passino solo attraverso il matrimonio?

In periodi di crisi e in assenza di politiche di welfare ad ampio raggio, infatti, la “famiglia” diviene l’ancora di salvezza e il sostituto delle mancanze “istituzionali”, della sottrazione di risorse economiche alle politiche di “solidarietà sociale”, su cui lo Stato fa strumentalmente appoggio. E, parallelamente, tali momenti difficili accrescono il bisogno di riconoscimento di ciò che non viene considerato famiglia, per “spartirsi” quel poco che rimane dei privilegi economici spettanti alle famiglie “normate”.

A noi interessa porre invece l’accento su un concetto allargato e non normativo di famiglia: pensiamo siano le relazioni umane ad ampio raggio a crearle (e non quelle più o meno definibili “di sangue”). Sottolineiamo l’importanza delle varie modalità che le persone si costruiscono per “stare in famiglia/e” (amicizie ed altre reti di relazione, ad esempio) e delle diverse forme di solidarietà che esulano dal concetto normativo di famiglia, e vorremmo valorizzare l’aspetto “familiare” che la modalità di “comunità”, in specie lgbttqi, in qualche modo sottende.

Fai come Dolce Remì

Unisciti alla nostra “comunità familiare” de@ “senza famiglia”

Famolo insieme, famolo strano, famolo pride!

Promuovono l’appello:

C.S.O.A. Gabrio
Federazione Anarchica Torinese
Laboratorio Sguardi sui Generis
Maurice lgbtq
Samba Band Torino
Collettivo Altereva
Network Antagonista Torinese
Rete Genitori Rainbow

Deconstructing il progetto di Dio

questione-di-dio Non ci vuole molto a sapere chi è Costanza Miriano, basta usare Google. Questo suo post l’ho ritrovato ripostato da un altro sito, perciò ne sono venuto a conoscenza soltanto un mese dopo la sua uscita.

Qui non si tratta solo di un “deconstructing” al fine si svelare meccanismi retorici sessisti – qui anche omofobi. Questo testo è, per ammissione dell’autrice, ciò che lei dice ai suoi figli a proposito dei matrimoni tra omosessuali. All’opera vedremo quindi non solo meccanismi retorici, ma anche pregiudizi, falsità, ipocrisie che ci si dovrà sforzare di non credere essere fatte in malafede. Perché di una cosa sono sicurissimo: Costanza Miriano crede in ciò che dice, non vuole ingannare nessuno. Ed è proprio questo, per come la vedo io, l’aspetto più agghiacciante della faccenda. Ciò che ci sarebbe da decostruire, qui, non è un post, non è una costruzione linguistica lunga poco più di una pagina: è un sistema di pensiero, un’abitudine passiva, un’intera cultura. Non posso farlo da solo, ma penso a quei bambini esposti a questo tipo di violenza – sì, cercherò di far capire che parlare ai bambini in questo modo è una forma di violenza – e qualcosa devo fare, anche se ridendo, anche se in forma di satira.

Credo sia giusto aggiungere che io so per esperienza personale che non tutti i cattolici sono così come Costanza Miriano appare in questo suo post. Indubbiamente però molti ci si riconoscono, e fanno di lei una persona da portare ad esempio.

Le nozze omosessuali spiegate ai miei figli (età media 9 anni) [le nozze, non “il matrimonio” o “le unioni” omosessuali, ma le nozze, in modo che sia evidente anche ai bambini che s’intende possibile solo che qualcuno sia supino e coperto da un altro – bella scelta iniziale, non c’è che dire]

Cari ragazzi, come sapete nella nostra casa è vietato parlare male delle persone [tutti giustificati a priori a casa Miriano, wow! Immagino i latitanti che cerchino asilo da lei quanti possano essere], o almeno ci proviamo, a non farlo. Se qualcuno sbaglia sono affari suoi, tra lui e Dio [se sbaglia e fa male ad altre persone, chissenefrega. Pensate a fare di questa frase un dettato costituzionale, che spasso]. A meno che non ci sia un compagno, che so, che si sporge troppo dalla finestra, o che attraversa la strada con gli occhi sull’iPod mentre passa un motorino. In quel caso, visto che rischia di farsi male, potete dirgli qualcosa, direttamente a lui, e possibilmente senza frantumarvi nessun osso [principio di sussidiarietà applicato alla divina provvidenza – e solo per i compagni eh, e solo se non rischi niente, eh].

C’è un solo caso in cui del male degli altri bisogna proprio per forza parlare, anche a costo di prendere un palo in testa, ed è quando rischia di andarci di mezzo qualcuno più debole, che non può difendersi da solo.

È proprio per questo motivo che il babbo e io ce la prendiamo tanto per i cosiddetti matrimoni omosessuali [quindi: nei matrimoni omosessuali c’è qualcuno debole che ci va di mezzo. Chi? Uh, lo so che avete già capito, però è divertente vedere di quante false premesse indimostrabili c’è bisogno per sostenere un’assurdità], che poi matrimoni è una parola che in questo caso non si può dire perché viene da munus e mater, cioè il dono che si fa alla madre [segnatevelo: l’etimologia conta. Quindi nozze era proprio detto apposta], e tra due uomini o due donne non può comunque esserci una mamma [vallo a dire alle due donne…].

Quindi di cosa facciano gli omosessuali nel privato non ci occupiamo proprio [premessa inutile: chi te l’ha chiesto?], non è una cosa che ci riguarda [come per qualunque altra persona, no?], e tra l’altro pensiamo che anche loro non la dovrebbero sbandierare troppo [non dovrebbero sbandierare che cosa? “La” è scritto, e non c’è altro. La cosa? Non c’è scritto, si allude solo!], come facevano quei signori che avete visto a Parigi l’estate scorsa, con le piume e i sederi di fuori [cosa si sbandiera con le piume e i sederi di fuori? La gioia, la felicità? La televisione è piena a tutte le ore di piume e sederi di fuori, cosa sbandierano? Sempre la cosa?]. Tra l’altro, avete mai visto me e il babbo andare in giro in mutande [Miriano, che schifo! Voi del privato non ci occupiamo proprio e poi ci parla di lei e suo marito in mutande? E poi andare in giro dove? In casa non fa parte del privato? E allora perché ci tiene a dirlo? Vuole proprio vantarsi che i suoi figli non hanno idea di come sono fatti i corpi della madre e del padre?]? Comunque, se loro lo vogliono fare noi ci limiteremo a passare da un’altra parte, visto che non erano proprio eleganti i signori con le banane gonfiabili e le signore senza reggiseno [a parte che non c’è bisogno di dare giudizi di eleganza – chi è lei per farlo, Miriano? – rimane il fatto che non c’erano solo signori e signore. Se portasse i suoi figli a un gay pride, per esempio qui a Roma, potrebbero incontrare i miei figli]. Capiamo anche che se sentono il bisogno di farsi vedere vestiti in quel modo forse non sono tanto felici [sulla base di cosa inferisce la felicità altrui da ciò che, evidentemente, non sa giudicare con obiettività? Di nuovo, come si permette? La sua opinione è lecita, ma darla come giudizio di valore a un bambino è quantomeno scorretto. I suoi non sono valori assoluti, lo sa? No, non lo sa – e nemmeno i suoi figli. Però è chiaro perché voi dovete passare da un’altra parte: vedere persone che ridono e ballano sarebbe dura da giustificare con l’infelicità], e quindi se ci capiterà di averne uno vicino, che ne so, al lavoro o in vacanza, cercheremo, se lui o lei vuole, di farci amicizia [uh, che teneri, addirittura? Troppa grazia…].

Il problema che ci preoccupa tanto però è quello dei bambini e delle famiglie. Noi crediamo che le leggi, come vietano alle persone di ammazzare, rubare, ma anche di parcheggiare sulle strisce pedonali o mettere la musica altissima alle tre di notte, cioè di fare quello che può danneggiare gli altri, debbano impedire assolutamente di confondere la famiglia con tutti gli altri modi di stare insieme [a parte che già lo fanno, dovresti anche dire perché questo c’entra con i matrimoni omosessuali]. Modi liberi e magari bellissimi, per chi vuole, ma diversi dalla famiglia [no. Sarebbe corretto dire “dalla mia idea di famiglia”, e allora le leggi non c’entrano]. La famiglia è il luogo in cui devono [dovrebbero, casomai, ed è comunque una tua opinione] crescere i bambini, e infatti in Italia sono stati chiusi gli orfanotrofi [non certo per quel motivo! Cosa c’entra?], e si cerca di far vivere i bambini senza genitori in case famiglia, che non saranno il massimo, ma è meglio di prima [ma cosa c’entrano le case famiglia con i matrimoni omosessuali? Perché parlare a un bambino di queste cose? Non stai cercando d’impaurirli, vero Costanza?].

Un babbo e una mamma sono la condizione minima per i bambini per crescere bene [è inutile sottolineare che questa è l’opinione personale di Miriano; ciascuno può divertirsi con Google a trovare decine di studi che smentiscono categoricamente quest’idea, e altrettanti che la confermano]. Certo, ci sono anche tanti genitori che non sono sempre bravi, infatti abbiamo detto minima: non basta che ci siano, devono anche impegnarsi un pochino per essere buoni genitori [sempre troppa grazia]. Ma se non ci sono, per un bambino è impossibile crescere in modo sano, equilibrato, felice [ecco, questa è una vera e propria falsità: non è vero che è impossibile, perché i bambini cresciuti senza uno dei due genitori o senza entrambi sono milioni e sono diventate persone equilibrate e felici. Ha paura di dirlo ai bambini, Miriano?]. Vi immaginate se il babbo non ci fosse più, e io mi fidanzassi con una signora [questo è puro terrorismo psicologico – perché l’ipotesi che le disgusta la fa immaginare ai suoi figli su di sé? Perché non portare l’esempio di altre persone? Perché far loro immaginare che la propria famiglia cambi? Per terrorizzarli di più? Complimenti Miriano, complimenti]? Non fate quelle facce terrorizzate [oh, ma guarda], sto dicendo per dire [no, lo stai dicendo proprio per quel motivo: farli terrorizzare]. O se invece di me ci fosse un amico del babbo [aridàje]? (Siete meno terrorizzati? Già vi figurate pomeriggi senza ripasso di grammatica e niente crisi isteriche per i fumetti scaraventati a terra [uh, che spiritosa]?)

Comunque, tanti dottori che studiano le teste delle persone dicono che è normale che la cosa vi sembri tanto strana [sono gli stessi che lo direbbero della tua scelta di esempi], perché è giusto che voi vogliate un babbo maschio e una mamma femmina [no, non è affatto né giusto né naturale, è il risultato della cultura nella quale crescono e dei genitori che si sono trovati ad avere – anche questo direbbero i tanti dottori che studiano le teste delle persone, ma tu li interpelli solo quando ti fa comodo], anche se a scuola cercano di dirvi il contrario (va di moda, ma non vi preoccupate) [forse a scuola cercano di insegnargli che il mondo non è fatto solo di mamme terrorizzanti e di padri preoccupati che passano da un’altra parte – e non è la moda, è la natura: forse a scuola glielo dicono che anche tra gli animali non umani esiste l’omosessualità, come pure il cambio di sesso, per non parlare della possibilità di crescere bene senza “mamma e papà”].

Vi diranno che non siete d’accordo perché andate in chiesa [mi raccomando non gli dire che è una questione religiosa, di confessione, no no, dàgli con l’eufemismo “andare in chiesa”, quello invece non va di moda?], ma noi pensiamo che sia solo buon senso [continua a negare che la religione c’entri qualcosa, bene così, negare sempre, anche questo va di moda]. Sono le regole di funzionamento delle persone [eh? Ma parla per te!!!] (è vero, le ha fatte Dio [no, a me m’ha fatto mamma, però magari sono io l’eccezione], ma funzionano comunque tutte allo stesso modo [giusto un bambino puoi ingannare col discorso che “funzioniamo” allo stesso modo, non potendo dire né che siamo tutti uguali – perché allora il tuo castello di carte cadrebbe: se siamo tutti uguali, perché il matrimonio gay no? – né che siamo tutti diversi – e allora il castello di carte cadrebbe di nuovo: se siamo diversi, perché il matrimonio gay no?], non è questione di credere: se non credi nella benzina e metti la Fanta nel serbatoio la macchina si rompe [il giorno che le automobili avranno una religione, una cultura e una psiche e potranno avere problemi di genere, allora il paragone reggerà. Per ora è una delle cose più stupide che si siano mai sentite]). Noi non siamo contro nessuno [no, vi limitate a passare da un’altra parte], ma come diciamo al compagno di non sporgersi dalla finestra siccome siamo cristiani [no, cattolici – Miriano… non tutti i cristiani la pensano come i cattolici, diglielo ai bambini, perché non glielo dici?] dobbiamo continuare a dire, quando ci è possibile, senza offendere o attaccare nessuno, qual è il modo per non farsi male, nella vita [secondo te, Miriano, secondo te. Tutto il tuo discorso non sarebbe violento se non ti dimenticassi di dire ai tuoi figli che questo è il tuo modo di pensare ma ce ne sono altri ugualmente “corretti”. Una piccola dimenticanza che fa un’enorme differenza]. Il progetto di Dio sul mondo è la famiglia [il progetto del TUO dio sul TUO mondo, Miriano, grazie, per miliardi di persone non è così e se la cavano benissimo], un meccanismo faticoso ma affascinante, in cui si mettono insieme le differenze [certo, l’importante è passare da un’altra parte], prima di tutto quelle tra maschi e femmine [tertium non datur], e si cerca di funzionare tutti al meglio. Questo è l’uomo a denominazione di origine controllata [COSA? Se le dicessi solo per te, queste cose, pazienza. Ma dirle ai bambini, che esiste l’uomo a denominazione di origine controllata, è veramente un violenza, senz’altri termini]. Poi ci sono gli ogm, ma i loro semi sono sterili (i semi delle piante create in laboratorio vanno ricomprati ogni anno [paragone vergognoso e incommentabile – questo è il trattamento riservato a chi non fa parte del progetto di Dio sul mondo]): allo stesso modo due maschi e due femmine non possono riprodursi [ma possono amarsi e crescere tutti i figli che vogliono – ops]. Quando cercano di ottenere dei bambini, non per dare una famiglia a dei bambini, ma perché li desiderano loro [altra opinione personale spacciata per realtà, e di nuovo un concetto vergognoso e incommentabile], devono fare delle cose che fanno stare male tante persone: le mamme che prestano la pancia, quelle che danno l’ovetto, i babbi che danno il seme da mettere dentro, e soprattutto i bambini che non sapranno mai da quale storia vengono [questa è la peggiore di tutte, e dire che Miriano dovrebbe crederci, nell’inferno], non sapranno che facce avessero i nonni e che lavoro facessero i bisnonni, e poi avranno due mamme, due babbi, insomma una gran confusione, dove a rimetterci sono i bambini [servono a qualcosa i milioni di persone che vivono tutto il contrario, in tutto il mondo? No, nessuno potrà evitare a due bambini una visione delle cose gretta, meschina, povera e violenta. Complimenti].

A noi dispiace tanto se le persone dello stesso sesso che si vogliono bene non possono avere bambini [certo, come no], e rispettiamo e capiamo la loro tristezza [s’è visto sia come la rispetti che come la comprendi], ma è la natura [no – ti sei ben guardata dal distinguere, nelle tue chiacchiere, cosa è natura e cosa è cultura, perché allora avresti avuto ben altre difficoltà], e noi abbiamo il dovere di difendere quei bambini che non possono farlo da soli [è quello che faccio anche io, con i miei figli: li porto sempre al gay pride e a casa di amici omosessuali, in modo che sappiano difendersi dagli omofobi, da chi li terrorizza, da chi gli racconta bugie]. Ci sarebbe da dire poi che lo stato dovrebbe aiutare le famiglie, che sono moltissime moltissime di più (e forse per questo non ci aiutano, è più difficile risolvere qualche problema alla maggioranza [si, avete letto bene, sta chiedendo soldi allo Stato in quanto famiglia facente parte del progetto di Dio sul mondo]), ma questo è un discorso che abbiamo fatto tante volte… (Tanto si sono già alzati tutti da tavola, e sto parlando da sola come al solito [lo spero tanto per i tuoi figli]).

Io queste parole di Costanza Miriano normalmente le chiamo ipocrisia. Quando le vedo usate per spiegare le cose a un bambino, però, le chiamo violenza. Soprattutto pensando – un esempio tra i migliaia che si possono raccontare – a Sophia Bailey Klugh. Vallo a dire a lei che l’amore che prova, e l’amore che riceve, non fanno parte del progetto di Dio.

Deconstructing lo scienziato

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Ci sono tanti modi per argomentare, e tanti modi per sostenere le proprie opinioni. Qui leggerete all’opera uno scienziato coi fiocchi che dimostra – a suo dire – che la cultura maschilista è una delle tante cause dei femminicidi, ma non l’unica, e che incide tanto quanto le altre; in questo senso quindi che quella cultura è sopravvalutata da molti, nei suoi effetti. Come ci sarebbe riuscito lo sa solo lui, io non l’ho ancora capito. Potete aiutarmi?

Violenza sulle donne: alcune cause secondo studi scientifici [studi scientifici, vi rovino la sorpresa, che non sono né linkati né citati. Complimenti al metodo scientifico]

L’orribile feminicidio di Corigliano Calabro ha suscitato una comprensibile mole di commenti, molti dei quali centrati sul suo rapporto con la cultura maschilista ancora fortemente presente in Italia. Pochi, mi pare, hanno sentito il desiderio di consultare gli studi scientifici e sociologici disponibili [lui i desideri li capisce dai commenti. Però, hai capito lo scienziato]; o almeno pochi li hanno citati [notoriamente, si cita sempre quando si fa un commento, in rete fanno tutti così]. Gli studi in materia sono invece numerosissimi ed esiste persino un giornale scientifico interamente dedicato a questo problema [di cui il nostro scienziatone non mette né link né il titolo – complimenti]; nonostante questo, o forse proprio per questo, trovare i dati di rilievo è difficile [embè, caro mio, se non li nomini manco tu che dici di usarli, continuerà sempre ad essere difficile], perché sono sepolti in un numero enorme di pubblicazioni [è per quel motivo che esistono i link, non t’è giunta la notizia?]. Che la cultura maschilista sia ampiamente diffusa nel paese è evidente, basta pensare alle nostre consuetudini di tutti i giorni. Ad esempio noi riteniamo normale che la donna sia condotta al matrimonio dal padre che la consegna allo sposo: che debba cioè essere “consegnata“ da un uomo ad un altro uomo. Meno evidente è il peso di questa cultura nel determinismo dei fatti di sangue [il determinismo dei fatti di sangue è un’espressione inventata di sana pianta: il determinismo è la concezione della concatenazione non casuale degli eventi della natura, concezione trasportabile alla storia umana con molte difficoltà. Applicarla ai fatti di sangue forse vuol dire che non è detto che la cultura maschilista sia una delle cause dirette dei femminicidi. Forse. Se ho capito bene. Perché non l’ha detto lui? E che ne so, lo scienziato è lui] rispetto agli altri fattori sociologici e psicologici quali la povertà, l’etilismo, i tratti caratteriali violenti, fino alla personalità psicopatica, o la gelosia, che è sentimento prima che cultura [sì, ma quando la ”gelosia” viene difesa e promossa come un possibile movente per un omicidio – il famigerato “delitto passionale” – e pure considerata un’attenuante, allora è cultura. Forse, sempre forse eh, se ne parla in questo senso].

In una delle mailing list alle quali sono abbonato ho trovato il link a uno studio su questo argomento e ho fatto una piccola ricerca. Purtroppo non tutti gli studi che citerò sono accessibili gratuitamente [e perché non mettere lo stesso titolo e autore? Perché non presumere che io lettore sia pronto a spendere per documentarmi? E’ così che si divulga la scienza? Complimenti]. Un buono studio dal quale partire è quello della Divisione di statistica delle Nazioni unite [il link c’è]. Questo studio pone gli aspetti culturali tra le proprie premesse, ma è soprattutto interessante per le tabelle statistiche che riporta, dalle quali emerge chiaramente [emersione della quale non ci viene data la benché minima traccia da seguire] che la correlazione tra violenza sulle donne e reddito pro-capite è molto forte se si confrontano i paesi più ricchi con quelli più poveri del mondo, debole se si confrontano paesi relativamente ricchi: ad esempio la Germania e la Danimarca hanno tassi alquanto elevati, superiori non solo a quelli di Italia e Francia, ma anche delle Filippine. Interessante è anche il dato sulla violenza sulle donne commessa dal loro partner: la frequenza in Italia supera quella della Danimarca ma è inferiore a quella della Germania; è molto elevata nei paesi più poveri, sebbene con varie eccezioni [tutto chiaro, no? No. Tipico dello scienziato è che voi dovete capirlo al volo].

Se ci si limita agli studi su singoli paesi e si eliminano quindi le grandi disparità culturali e di affidabilità dei dati che derivano dal confronto di statistiche di paesi diversi [traduco: facendo finta che non esistano alcune importantissime condizioni di partenza per cui i dati sono da prendere con le molle e bisognerebbe andarci molto piano a sfornare deduzioni…], si isola la (prevedibile) correlazione positiva tra violenza sulle donne, povertà e alcolismo (si veda ad esempio questo studio sulla rivista Lancet [il link c’è]), nonché una correlazione negativa tra scolarità e violenza [due ovvietà. Dove la qualità della vita è peggiore la violenza è superiore tutta, quindi anche quella di genere – sempre che la si rilevi opportunamente, ma di questo non si dice nulla. Dove la popolazione è più acculturata, all’inverso, la violenza è minore. Embè?]. Si trovano però anche dati alquanto sorprendenti: ad esempio alcuni studi riportano che gli sportivi maschi di alto livello sono più inclini dei maschi “normali” alla violenza contro le donne. E’ possibile che questo fenomeno sia collegato all’uso illecito di steroidi anabolizzanti. Viene alla mente la recente uccisione di Reeva Steenkamp da parte del suo compagno, Oscar Pistorius [oppure, senza scomodare la chimica organica, viene da pensare che gli ambienti sportivi, notoriamente molto “machi”, sono il classico ambiente culturale maschilista dove la violenza di genere può facilmente diffondersi, giustificare e alimentare comportamenti violenti. Ce ne sono di studi anche in questo senso, ma perché leggerli quando c’è la chimica a spiegare tutto? E quando c’è un fatto di cronaca che possiamo buttare lì come fosse una prova – e non lo è?].

La cultura maschilista del nostro paese è certamente un fastidioso retaggio del passato [mica tanto passato, direi], del quale dovremmo cercare di liberarci: ad esempio dovremmo sentirci offesi, anziché divertiti, delle avventure del nostro ex, e speriamo non futuro, premier Silvio Berlusconi [che cosa c’entri lo sai solo tu – ah già, siamo su Il Fatto]. La violenza contro le donne però, come tutti i drammi sociali, riflette un intreccio di motivazioni causali, alcune sociali, altre legate alle singole persone dei colpevoli, e la nostra cultura è solo una tra queste. La povertà, l’alcolismo, la droga, la sofferenza psichiatrica, la bassa scolarità sono fattori almeno altrettanto importanti [no, nel modo più assoluto. Qui si fa confusione tra diverse cose: la cultura maschilista non è una delle cause dirette dei femminicidi, ma l’ambiente nel quale quei particolari delitti trovano più facilmente modo di realizzarsi. Le altre cause, infatti (la povertà, l’alcolismo, la droga, la sofferenza psichiatrica, la bassa scolarità) hanno una correlazione ovvia con tutti i delitti, e non con il femminicidio in particolare. Nessuno le sottovaluta come cause, ma non è neanche corretto metterle sullo stesso piano del maschilismo. Se la prima persona con cui se la prende il povero, l’alcolizzato, il drogato, lo psicotico, l’ignorante è una donna, non è forse colpa di un sistema che gl’insegna che lei è l’anello debole del sistema sociale? Ma perché farsi questa domanda, quando ci sono la chimica, la fisica, la geometria e l’astronomia a darci tante risposte pronte? E a fare in modo che i femminicidi non siamo considerati come un fenomeno unico, ma come tanti delitti diversi provocati da tante cause diverse, lontane, vaghe?].

Se ne sentiva proprio il bisogno, di questa chiarezza scientifica. Grazie davvero per la lezione di metodo, del metodo migliore per generare “fact screwing”. Uno scienziato meno vago si esprime così: “Alla base dei fenomeni di violenza contro le donne, i più recenti studi scientifici hanno individuato 130 possibili variabili, ma di fatto i detonatori sono prevalentemente i fattori socio economici, ambientali e culturali acuiti dalla crisi economica e dall’uso di alcol e stupefacenti”. Sembra la stessa cosa, ma non lo è affatto.

Sulle non scuse del Tg2

A commento della morte di Franca Rame il tg2 manda in onda un servizio, firmato da Carola Carulli, in cui si dice: “Una donna bellissima Franca, amata e odiata. Chi la definiva un’attrice di talento che sapeva mettere in gioco la propria carriera teatrale per un ideale di militanza politica totalizzante; chi invece la vedeva coma la pasionaria rossa che approfittava della propria bellezza fisica per imporre attenzione. Finché il 9 marzo del 1973 fu sequestrata e stuprata. Ci vollero 25 anni per scoprire i nomi degli aggressori, ma tutto era caduto in prescrizione”.

Tale commento ha destato l’ira di molte persone, compres@ noi, perchè è stato scritto in un modo assai discutibile: esso si apre facendo riferimento alla bellezza di Franca (come se fosse ciò che l’avesse resa famosa… noi ce la ricordiamo per la sua grande bravura come autrice e attrice teatrale) concetto che verrà ripreso dopo pochi minuti per ribadire che lei, di quella bellezza, se ne approfittava per imporre attenzione (mah) fin quando, poi, non fu stuprata. In italiano, quel finchè, significa qualcosa, una continuità che si interrompe, in questo caso con lo stupro, e che suggerisce una relazione di causa-effetto tra ciò che viene detto prima e ciò che si afferma poi. L’italiano è la nostra lingua, dai/lle giornalist@ ci aspettiamo un uso almeno corretto.

Leggi tutto “Sulle non scuse del Tg2”

Riprodursi? Anche no!

 Devo ammetterlo, la questione fino a qualche anno fa non mi interessava proprio… Fino a quando sono stata felicemente immersa in quell’età nella quale la riproduzione è soltanto uno spauracchio (la gravidanza da evitare perché troppo giovane) nonché una questione teorica rimandabile (apparentemente, come tutte le cose spiacevoli – dalla calvizie maschile all’artrite) in un futuro molto più ipotetico che reale. Ma compiuto il giro di boa (non ricordo nemmeno esattamente quando), la questione dell’avere figli è diventato come un mantra. Sia chiaro, non per me: io sono rimasta, da quel punto di vista, quella di un tempo. E tra tante idee del cavolo che mi sono state inculcate dal ‘braccio amorevole del sistema’ (la famiglia), fortunatamente l’inevitabilità del mio destino di ‘fattrice-in-quanto-donna’ non ha mai attecchito particolarmente nei miei genitori, e di conseguenza, in me… Si, ecco, loro erano più il tipo ‘diventerai-un’-avvocatessa-rampante-e-spietata-vivrai-nella-grande-mela-e-il-tuo-guardaroba-sarà-come-quello-di-paperino-ma-pieno-di-costosissimi-tailleur (Acc…papà e mamma, mi spiace… you lose!). Così sono cresciuta in maniera un po’ più ‘selvatica’ dal punto di vista delle mie gonadi, considerando la questione maternità davvero molto lontana dal mio orizzonte esistenziale. Poi il tempo passa, ti laurei, inizi (tristemente) a lavorare, vai via dalla casa dei tuoi, ti trovi un compagno più o meno fisso, e il mondo intorno subisce una rivoluzione copernicana. Tic, toc, tic, toc, scopri di avere un orologio impiantato nell’utero… E da un giorno all’altro ti ritrovi tutti nelle mutande, per dirla chiaramente. Familiari, parenti, vicini di casa, perfino datori di lavoro… tutti a chiederti se hai dei figli, se ne vuoi, perché non ne vuoi, cioè, insomma, alla tua età… sei strana. Strana io? Cioè, pensiamoci un attimo: PERCHE’ DOVREI DESIDERARE UN FIGLIO?

imagesE non penso tanto a ciò che lo impedirebbe in senso negativo (le solite litanie fatte di lavoro precario, garanzia di un futuro di incertezza per il pupo, fino ad arrivare ai problemi globali di sovrappopolazione in un mondo finito, l’inquinamento, financo la minaccia atomica – sto esagerando… più o meno!), ma a quello che la rende un’opzione insensata IN SENSO POSITIVO: guardo alla mia vita di oggi… non ho un figlio, e non mi interessa averlo. Sono alla soglia dei 40, ho un lavoro precario e part-time che mi fa sì guadagnare poco (ma poi ‘poco’ rispetto a quali standard? Non certo per i miei, per i quali il mio guadagno è più che sufficiente a sopravvivere!) ma mi lascia ampi spazi di vera libertà, fatti di tempo da dedicare a ciò che REALMENTE dà un senso alla mia vita… l’attivismo politico, gli animali umani e non umani che condividono la vita con me, le cose che amo fare (leggere, passeggiare in mezzo alla natura, scrivere o disegnare). Sento di avere una vita molto piena (pure troppo!), e anzi, persino quelle 4 ore al giorno che fino ad ora sono stata costretta a dedicare al lavoro per ‘mangiare’ mi paiono ore rubate al mio tempo di vita, tanto che mi sto arrovellando per cercare un modo di limarle ancora un po’!

Non sento vuoti da riempire, né di tempo né affettivi… anzi, a dirla tutta, sì, a volte sento qualche mancanza, perlopiù quando non riesco a vedere persone a cui tengo – quelle con le quali, negli anni dell’università ad esempio, vivevi in simbiosi giorno/notte – perché stritolate in un lavoro full time o, come sempre più spesso accade, tra le due schiavitù fondanti e primarie di questa società: lavoro e casa/famiglia/figli.

3yEdQETAllora io mi chiedo, perché? Perché le persone arrivano con tanta inconsapevolezza all’età nella quale scatta quella programmazione sociale che le porta, contro ogni ragionamento e buon senso logico (individuale e collettivo) a sobbarcarsi l’enorme fatica personale/economica/di tempo di riprodursi (nonché ad aumentare il già troppo esuberante numero di persone che già esistono, e che non solo stanno cancellando dalla faccia della terra le altre specie, ma stanno anche faticando sempre di più ad esistere loro stesse – la torta è sempre quella, baby, ma gli invitati sempre di più!)? Il mondo esubera di bambini che vivono in condizioni pietose, perché questo anelito al ‘proprio’ bambino? Cos’è questo rigurgito che sa tanto di smania di proprietà e illusione di propria immortalità (cioè, davvero vi considerate così speciali)?
Mi rispondo, in parte: imprinting, noia, paura del futuro e anche una buona dose di totale incoscienza. E, prima che nei confronti di questo mondo, nei propri stessi confronti. La quasi totalità delle persone che hanno dei figli sono totalmente incoscienti, di sé stesse e del proprio ruolo all’interno del sistema di cui tanto si lamentano – quasi mai si sono fermate a chiedersi da dove derivino questi ‘insopprimibili impulsi o desideri’ prima di portarli a compimento – della mole spaventosa di responsabilità verso quel nuovo individuo – ma davvero si può essere felici di mettere al mondo un nuovo schiavo (che ci piaccia o no, questa è la realtà con la quale ci troviamo oggi a farei conti) dovendolo poi indottrinare su come piegare la testa abbastanza per riuscire a sopravvivere! – e verso un mondo che non è soltanto nostro – tutti a immaginare sacri, unici e intoccabili i PROPRI nuovi piccoli umani e mandando al macero tutti gli altri, umani e non, che non trovano posto nel nostro ‘piccolo giardino dell’eden’.
Certo, nasciamo imprintati come le papere di Lorenz, e seguiamo il mostruoso pifferaio magico tutt* felici e starnazzanti… ma poi, crescendo, possibile che non arriviamo mai a capire davvero quello che stiamo facendo? Ricordo quell’ossessivo ritornello dei CCCP (ante rincoglionimento di Giovanni Lindo Ferretti): ‘produci-consuma-crepa’, che ci angosciava da ragazzin*, tanto da ripeterlo all’infinito come le preghiere di un esorcismo – quando tutt* pensavamo che noi, così, non lo saremmo diventat*… che ci saremmo ribellat*!
Io ci riconosco in quanto schiav*: siamo schiav* di questo sistema dalla nascita, differentemente ma similmente da tutti gli altri animali, umani e non, e siamo forgiat* per esistere secondo un’idea totalitaria che non ci appartiene. Questa è la nostra origine, e non è una nostra colpa. Ma poi, poi arriva un momento nel quale subentra (o dovrebbe subentrare) la nostra coscienza e la nostra responsabilità, e lì si palesa invece la nostra collusione. Ed è così deprimente vedere le persone inanellare tappe in maniera automatica, aggiungendo schiavitù a schiavitù, invece di tentare di liberarsi da quelle che già ci opprimono (vedi la schiavitù lavorativa, tra le tante), e trasformare la propria vita, ancora acerba e priva di senso, in una corsa ad ostacoli fatta di doveri verso il datore di lavoro, i figli, la società tutta… fino al giorno in cui si potrà finalmente essere liber* di venire rottamat*, o crepare.
Così dopo l’ingresso imprescindibile nel mondo del lavoro suona la seconda campanella irrinunciabile, quella che obbliga a fare figli, e non si ha più tempo per nulla altro, per amic* e rapporti importanti, per la vita politica, la vita della mente… e i soldi non bastano, bisogna lavorare di più per guadagnare di più, il tempo non basta, bisogna svegliarsi prima per fare tutto e andare a letto sempre più tardi e più esaust*, sobbarcandosi il compito di far crescere degli altri individui, quando non si è mai nemmeno dedicato il giusto e necessario tempo a far crescere sé stess*… e quella persona che siamo e che ancora dovrebbe crescere, capire, nutrirsi di nuove idee ed esperienze finisce in un cantuccio schiacciata da ‘doveri’… autoimposti.
Insomma, perché? Cosa credete che manchi alle vostre vite? Io me lo chiedo, e non trovo una risposta.
A volte qualcun* mi dice che mi sto perdendo qualcosa. Credo abbiano ragione, ma non sanno cosa stanno perdendo loro.

1263.kidsnoway E’ una questione di scelte, del resto. Rispetto a chi ha un lavoro full time e dei figli, io ho meno denaro e più tempo. Non conosco la gioia che possono dare dei bambini, ma nemmeno le rinunce e i dolori. Conosco la gioia della libertà che me ne deriva, dei rapporti altri che coltivo, del tempo che posso dedicare alla mia crescita personale, alla vita in un senso assai più ampio ed inclusivo. Questo guardarmi così mortalmente inserita in un tutto che mi trascende, mi fa sentire assai meno speciale, e d’altro canto assai libera. Perdo qualcosa e guadagno qualcosa, perché ogni scelta presuppone vantaggi e rinunce, e credo che, per la persona che sono, questo sia quanto di più desiderabile possa esistere. Peraltro, ne vedo il grande valore aggiunto di poter avere tempo anche per altr*, la mia famiglia allargata, fatta di quegli animali umani e non umani che già esistono, qui ed ora, e purtroppo, spesso, si trovano in difficoltà.
L’estremo lo raggiunge chi mi taccia di egoismo… egoista, io? Sì, bado al mio benessere. Sono felice del mio tempo, sono felice di non dover ‘vivere per i figl*’, ma di scegliere per chi vivere, per me o per coloro che scelgo di amare. Felice anche di poter oziare, o ‘perdere tempo’. E siccome non ho mai creduto a certe bugie, so anche che la mia scelta di non avere figli ha potenzialità – non ignorabili né irrilevanti – di ripercussioni positive sugli altri esseri già viventi e sul pianeta. Ma poi, come posso essere egoista verso qualcuno che non esiste? E non sono invece costretti all’egoismo i genitori i quali, stritolati nelle cure parentali, spesso anche volendo non possono dedicarsi ad altr*?
Non si deve per forza scegliere tra la propria felicità e quella altrui, anzi: io non l’ho fatto, e la mia pratica politica femminista/antispecista e la mia vita mi hanno insegnato che spesso le due cose coincidono. Un altro mondo non arriverà mai, senza il coraggio di mettere in pratica nuove prospettive…
E non mi reputo estinzionista – almeno non nel senso negativo con cui questo termine viene evocato il più delle volte: sono sicuramente per una riduzione drastica del numero di animali umani, ottenibile non attraverso ‘l’epidemia mortale’ o la sofferenza e il dolore, ma semplicemente evitando di riprodursi in maniera incontrollata e irresponsabile. Si può fare, e si deve fare, checché l’astensione dalla riproduzione sia un tema tabù nella nostra società. Nel frattempo, e ad incommensurabile beneficio delle generazioni future (umane e non umane), mi eserciterò a diventare quella persona e immaginare quel mondo che vorrei, così distante nelle forme da quello nel quale mi ritrovo oggi a vivere. Cercando di essere io quella figlia a cui insegnare qualcosa di utile e sensato – a beneficio della mia stessa vita e di quella altrui – sforzandomi di imparare dalle altre persone e di trasmettere quello che di buono mi pare di aver inteso… questa è la maternità migliore che possa portare a termine, quella i cui frutti spero avranno davvero un potenziale trasformativo.
Perché i nostri figli siamo noi, e quell* che già ora ci circondano. Liberando noi stess*, liberiamo anche loro, e quell* che verranno.

Dunque cosa stiamo aspettando?

Di violenza di genere e media. Basta indignazione, incominciamo con la rabbia!

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Femminicidi. Così li chiamano i giornali quando non sono omicidi passionali.
Avrei potuto inserire qui il nome di una vittima e scrivere un lungo piagnisteo ricco di morbosità sulla vita della lei di turno. Perché per saziare la voglia di morbosità di chi apre il giornale per sbraitare e chiedere repressioni a casaccio, è importantissimo parlare degli hobbies, dei calzini, delle gonne e delle relazioni di quella lì. E invece no, perché a me non interessa stuzzicare le più basse voglie narrative dell’italiano medio.

Un sacco di persone vedono la stampa come qualcosa di più o meno neutrale, o perlomeno non prettamente politico, ma così non è. La stampa ha la precisa funzione politica di fornire pornografia emotiva di massa. Non mi aspetto che si forniscano grandi analisi sul tema della violenza di genere: non l’otterrò mai e se anche l’ottenessi, sarebbe inevitabilmente sbagliata, perché i complici di una lunga serie di nefandezze non confessano, e se lo fanno, sono pentiti; non innocenti. Cosa ci si può aspettare di buono da chi piazza la vittima nel corteo funebre mediatico dei fatti di cronaca? Già trattarlo come un fatto casuale e non come questione politica nasconde una visione dei fatti ben precisa. Per non parlare del fatto che probabilmente quello stesso giornale annovera nella sua sezione scientifica mille pseudoricerche neurosessiste atte a giustificare ruoli di genere, nonché banner pubblicitari che strabordano maschilismo da ogni pixel.

Il padre lacrimante dice: non volevo che frequentasse quel tipo lì. Smania di controllo, ma molti la leggeranno come premurosità genitoriale e come tentativo di garantire sicurezza alla vittima – sì, ma a che prezzo, aggiungo io. Del fidanzato mi dicono che è geloso da morire. Che non le concedeva nessun tipo di libertà, che la picchiava a sangue. Quella doveva chiedere il permesso perfino per un gelato. Per avere un profilo facebook. E tutti sanno, proprio tutti. Ma nessuno s’è degnato di far qualcosa. Padri, padroni, padreterni: mi rintontiscono col paparino possessivo che piange, col moroso possessivo che però in fondo è un ragazzino, oppure è giustificato perché quella era una poco di buono e anche se non lo era sticazzi: le giustificazioni si sprecano. Ecco il prete che benedice quella povera donna uccisa, perché la violenza sulle donne dev’essere una sorta di piaga divina per non si sa cosa. E poi frotte di poliziotti, a difesa delle italiche femmine, gli stessi che stuprano le migranti nei CIE. Chissà che sicurezza possono offrire dei soggetti simili.

E io sono incazzato. Non indignato: gli indignati sono quelli che dopo la chiusura del browser o la cestinazione del quotidiano vivono un tabula rasa che consente loro di vivere più o meno serenamente e sbattersene. In fondo riguarda loro? No. E si sentono giustificati nell’ignorare. Salvo poi riaprire il browser/quotidiano. Indignarsi. E ovviamente lasciar stare tutto quanto di nuovo.
Gli indignati sono quelli che non ti guardano nemmeno se ti stanno spaccando la faccia, ma che hanno sempre le energie per richiedere forche a gran voce.
C’è chi li chiama femminicidi, per poter dare adito a politiche emergenziali e securitarie in nome di un termine che racchiude soltanto donne bianche, cisgender, quelle che non sono lavoratrici sessuali e quelle dalle vite più o meno regolari e racchiudibili nel modello dell’angioletto del focolare inoffensivo, della schiava uccisa per sbaglio (e i vari padroni s’arrabbiano, certo. Per spreco).
C’è chi toglie i fondi ai centri antiviolenza e toglie reddito alle donne, per poi meravigliarsi del fatto che queste non riescano a ottenere indipendenza per scappare dall’aguzzino-del-mulino-bianco.
C’è chi ne fa una battaglia politica propria. Col sangue altrui sulle mani.
C’è chi nega l’esistenza stessa di una violenza di genere.
C’è chi semplicemente non si pone il problema.
E poi c’è chi si incazza. Si prende le denunce. Fa le slutwalk e protesta per tutte, ma proprie tutte, senza esclusioni.
Non chiede permesso proprio a nessuno, non mendica e lotta. Ma quella gente si incazza.
Mica si indigna.