Le donne abortiscono perché restano incinte.

NUL118364

“Il concepimento dunque è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà d’aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna.”

“Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile, che fa del concepimento un problema di chi possiede l’utero e non di chi DETIENE LA CULTURA DEL PENE”. (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile)

E’ di ieri questo articolo e questa intervista

La legge 194 – più o meno mia coetanea – da quando è diventata realtà è sempre stata sotto attacco dei catto-fascisti-ipocriti, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a quel potere incontestato che sentono di avere avuto, per millenni, sul corpo delle donne.

Il diritto ad un aborto libero, sicuro e garantito è un diritto fondamentale per tutte le donne, che va difeso senza se e senza ma. Eppure la questione non può fermarsi qui: “Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, ed a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo, cioè ricostruire tutto quello che è legato sostanzialmente all’aborto, perché se noi tagliamo fuori solo questa cosa rischiamo di dare solo una risposta parziale che si rivolta magari contro di noi o comunque non è una soluzione per noi, è un’altra ripiegatura che ci fanno fare per sanare quelle contraddizioni più evidenti.” (“Sottosopra”, fascicolo speciale Sessualità contraccezione maternità aborto, Milano 1975)

Lo scritto è di 40 anni fa, siamo ancora a questo punto, pare.

Sono femminista, ed a mio modo detesto l’aborto, perché è una pratica medica con una sua dose di rischio agita sul corpo delle donne, che sarebbe non necessaria nel 99% dei casi, ad esempio se l’accesso alla contraccezione e l’educazione ad una sessualità libera, gioiosa, consenziente e multiforme fosse all’ordine del giorno.

L’aborto non è sicuramente una passeggiata per chi lo vive sulla propria pelle – non parliamo poi dei casi in cui è attuato in clandestinità, o anche solo nella segretezza, a fronte dello stigma sociale che sovente inevitabilmente ne deriva. Ma è un’irrinunciabile opportunità in extremis, quando ci si trova a vivere all’interno di una cultura che dimostra, in maniera più o meno celata, il suo odio per le donne, che le usa come oggetti (sessuali, procreativi, di cura), le usa e le butta via senza ritegno alcuno – con la benedizione della chiesa tutta, naturalmente, che santifica la vergine sofferente, che si fa oggetto e veicolo di compimento di un altro soggetto (maschio).

Quante vite di donne sono state spezzate dal pugno di ferro del patriarcato! L’aborto è figlio della sessuofobia, è figlio dell’ignoranza, è figlio – anche – del welfare inesistente. Ma è tanto odioso quanto necessario, grazie a tutti coloro che condannano i contraccettivi di fronte agli altri (e poi magari, li usano pure), che non parlano di sesso con gli adolescenti  – consapevoli che tanto lo faranno lo stesso, e con esiti a volte disastrosi – che li abituano alla menzogna, alla vergogna del proprio corpo, al senso di colpa per la propria sessualità.

A tutti quei parassiti della gioia di essere viv* (che per quante volte si confessino, avranno sempre l’animo putrido) dico: l’aborto non cesserà mai, grazie a voi! Del resto, di fronte a persone del genere, l’aborto diventa una benedizione… l’avessero messo in atto le vostre madri, che liberazione!

Tempo fa, avevo tradotto e pubblicato su Femminismo a sud questo video: https://vimeo.com/37850266
Queste storie terribili non possono e non devono ripetersi.

Le donne abortiscono perché restano incinte, e forse, oltre a reclamare a gran voce il sacrosanto diritto all’aborto e all’uso degli anticoncezionali (a proposito, a quando quelli maschili?) dovremmo spingerci su altre vie, ancora tutte da scoprire, per agire il nostro piacere in modo disgiunto da quell’atto eterosessuale normato e normativo, nel quale uno degli attori è spesso un uomo che svuota le gonadi all’interno del corpo di una donna, fregandosene delle conseguenze (e nel caso ne risulti una gravidanza, impedendole di prendere decisioni sul proprio corpo che solo a lei spetterebbero).

“Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificatamente procreativa, ma POLIMORFA, e cioè sganciata dalla finalizzazione vaginale.” (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta femminile)

“La donna non è la Grande Madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione.” (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel: La Donna Citoridea e la Donna Vaginale)

Rivendichiamo nuovi modi di godere!

Il compagno sessista (a volte ritornano)

 

Marina Jinesta, 1936
Marina Jinesta, 1936

Alla luce di questo spassoso siparietto apparso in uno spazio facebook di certa e sicura origine comunista,  “ma no comunista così, communista cosììììì!!”, ripropongo un testo scritto più di due anni fa a proposito di una certa figura tipica: il compagno sessista. Il comunista convinto e certo delle proprie convinzioni di sinistra “dura e pura” che però, al primo contatto critico con un genere diverso dal suo, ripropone l’arsenale retorico sessista del più classico potere maschile. Sapevo che non è un tipo umano destinato a una rapida sparizione, ma ritrovarselo così spesso, vi dirò, non è che mi metta di buonumore. Questo che segue, dunque, è quanto ho già scritto su Questo Uomo No. E’ ancora validissimo, purtroppo.

Stavolta m’è uscita una specie di lettera per un tipo di maschio che proprio non sopporto. Pensavo da un bel po’ a questo tipo – un po’ di nicchia, lo ammetto – che mi da’ parecchio fastidio. L’ho incontrato spesso, e devo ammettere che ha la notevole qualità di non sembrare affatto meno stronzo né col passare degli anni miei né col passare degli anni suoi. Meno male, perché mi dispiacerebbe proprio essere più tollerante solo perché il tempo passa.

Il compagno sessista è una figura molto più comune di quanto si pensi. E’ un maschio di sinistra, fortemente schierato; si professa comunista orgogliosamente, specie se ha già superato i quaranta, oppure anarchico «da sempre». Il compagno sessista veste con una specie di divisa riconoscibile, fatta di accessori e colori che nella sua città «significano» l’appartenenza alla sinistra militante, anche con qualche punta d’anarchia, perché no. Anche se non più giovane, riconoscerete senz’altro nel suo abbigliamento quelle caratteristiche comuni, irrinunciabili, con le quali si vuole distinguere.

Se ha un lavoro fisso e stabile il compagno sessista fa spesso lunghi discorsi critici sulla situazione socioeconomica attuale, anche ben argomentati, partendo da quelle situazioni quotidiane, «di base», che vive in prima persona; che sono, immancabilmente, l’ovvia triste conseguenza di scelte politiche folli votate da una maggioranza che non lo rappresenta e decise da una classe politica che lui disprezza, indipendentemente dall’etichetta di partito.

Forse è un nostalgico di partiti che non ci sono più, e pur apprezzando qualche esponente «rimasto», ne compatisce il glorioso passato rispetto a un presente privo di prospettive e di potere. Se invece è giovane e non ha di questi ricordi, il compagno sessista disprezza apertamente qualunque dirigente di partito sopra il livello regionale, lasciando un po’ di speranza a qualche esponente locale – di cui ha diretta conoscenza in comizi, manifestazioni, campagne – che si salva perché ancora non corrotto dalla politica più alta.

Sotto o intorno i trenta, il compagno sessista è di un attivismo inarrestabile. Non si perde un convegno, un’assemblea, un’iniziativa, una manifestazione; mette in moto relazioni, amicizie, collegamenti, usando tutti i mezzi di comunicazione, soprattutto i più nuovi, per smuovere cose e persone. Organizza, comunica, spende parole forti; ha sempre la testa al «dopo» ma spara giudizi sul momento; mangia beve fuma con la stessa passione frenetica con la quale parla, convince, condanna, studia e rielabora.

Il compagno sessista è molto attento al suo linguaggio. Fiuta la reazione e il razzismo lontano un miglio e condanna senz’appello il militante destrorso, sia attivo che passivo, soprattutto nelle sue espressioni. Pesa e sa pesare bene le parole, ed è molto attento a dire cosa a chi, perché conosce molto bene la forza del linguaggio e sa quanto può colpire e servire alla causa la parola giusta al momento giusto.

Ma c’è un ma.
Eh sì, compagno sessista, c’è un «ma».

Ma quanto ti dà fastidio quando le compagne gestiscono un’iniziativa, un’occupazione, ponendo problemi che non ti sono venuti manco in mente e proponendo soluzioni che ti costringono a ripensare un po’ il tuo ruolo. Ma quanto ti rode se da certe discussioni sei escluso, o comunque ammesso con le dovute riserve, perché uomo e in quanto tale non è che proprio ne puoi capire di certi argomenti. Ma cos’è tutta st’importanza al patriarcato, al machismo, alla violenza di genere? I problemi sono altri, queste sono chiacchiere che fanno perdere di vista l’obiettivo, l’idea, la cosa importante.

Ecco, io dico questo uomo no.

Tu, compagno sessista, hai sviluppato un naturale orrore per espressioni come «sporco negro» o «terrone di merda», ma non esiti a dare della «zoccola» alla donna al volante di una macchina davanti alla tua, della «puttana» all’assistente che ti interroga, «troia» alla giornalista in tailleur che non fa le domande che hai in mente te, «mignotta» alla deputata che rilascia dichiarazioni ridicole e inopportune, «bocchinara» alla discinta protagonista televisiva di turno, «pompinara» alla collega che lavora più e meglio di te. Poi hai spazio anche per un affettuoso «troiette» per le compagne che propongono una mozione diversa, e «puttanelle» per quelle del centro sociale che chiedono spazi e ore per le loro iniziative – che gentile, una nota di riguardo la sai dare.

Beh, compagno sessista, lasciatelo dire: sei un fascista. Sì, proprio fascista. Perché se non vuoi capire – e non lo vuoi capire, perché sei in grado di capire tutto il resto tranne questo! – che cosa significa il sessismo, è perché non ti fa comodo. E’ perché uno spazio nel quale esercitare il tuo potere di maschio fascista ti piace, lo vuoi conservare, e te lo prendi, alla faccia di tutte le compagne. Che, allora, lì, in quel momento, non sono compagne: sono zoccole. Neanche donne, parola che proprio non t’interessa. Perché dietro il negro e il terrone c’è l’uomo, e allora lo capisci che se dici negro e terrone offendi anche l’uomo che tu sei; ma se dici mignotta no, non lo vuoi capire. Insomma, compagna fino a che non rompe i coglioni: poi mignotta va bene. Questo uomo no.

Caro compagno sessista, non mi freghi. Puoi avere il Che tatuato in fronte, falce&martello cuciti sulle mutande, il Capitale nella tua libreria nell’edizione originale e saper cantare l’Internazionale in russo, ma per me sempre fascista rimani. Perché il potere del maschio ti piace, te lo tieni stretto; non m’importa di che colore te lo rivesti: sempre schifo mi fai. Questo uomo no.

Fenomenologia del razzismo italico

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Si avvertono i potenziali lettori che la lettura del seguente testo potrebbe causare rash cutanei ma soprattutto ideologici presso gli antirazzisti da bar che ammorbano l’etere con cacate retoriche sul fatto che abbiamo tutti il sangue rosso, salvo poi bollare come violent*  coloro che si ribellano. Oh, io ve l’ho detto. 

Facciamo finta che io sia un imprenditore di qualsivoglia dimensioni.
In seguito alle lotte sociali degli anni ’70 il costo del lavoro degli operai italiani è indubbiamente salito (anche se ora non si può più dire lo stesso, grazie ai miei deliri neoliberisti). Il sottoscritto è un taccagno schifoso col pallino dell’accumulazione di capitale (come qualsiasi altro capitalista, mini e non), senza un briciolo di cultura, che aspira all’ascesa sociale stile american dream e pretende di farlo attraverso lo sciacallaggio delle risorse altrui perché oggettivamente troppo coglione per riuscirvi con le proprie.

Le guerre nelle quali lo stato presso il quale risiedo ha partecipato, hanno saccheggiato altrove risorse e generato povertà e distruzione tale da far immigrare quantità considerevoli di esseri umani da queste parti. La mia preoccupazione è, però, arricchirmi; ne consegue che io desidero lavoratori con un costo del lavoro basso (siano essi italiani o di chissà dove). Questa è la logica per la quale sposto i luoghi di produzione lontano da qui e quella per la quale assumo principalmente persone immigrate, non certo per il poco impegno, sacrificio o bassa professionalità della classe operaia locale, anche se mi piace far credere che sia così (il popolino è davvero decerebrato, miseriaccia). Però, ogni notte prima di infilarmi sotto le coperte – oppure ogni mattina prima di infilare il maglioncino di cachemire e sproloquiare pseudomarxisticamente – mi cago in mano di fronte alla possibilità che anche il costo del lavoro migrante possa salire. 

Che fare? colpo di genio: chiamo il mio amico giornalista e gli dico di pubblicare articoli a raffica su stupratori immigrati ignorando bellamente le statistiche istat sull’endemicità della violenza domestica (quella degli italiani). Dopodichè, faccio lobby con le pariopportuniste di turno per ottenere decreti e leggi varie in nome di uno ben specificato ideale di sicurezza irrimediabilmente violato. Dipingo i migranti come scansafatiche che vengono qui a rubarci il lavoro. Spingo la sinistra a promulgare la Turco-Napolitano e la destra a dare origine alla Bossi-Fini. Rendo la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno indissolubilmente legata al possesso di un contratto di lavoro. Concludo in bellezza con l’istituzione prima dei CPT e poi dei CIE: trattasi in ambo i casi di un vulnus nello stato di diritto (che è una barzelletta, ma a me fa comodo un popolino giustizialista che combatte minchioni insignificanti e osanna i magistrati), visto che si introducono concetti come detenzione amministrativa (traduco: vi incarcero come e quando vi pare, senza dovermi appellare a chicchessia) e di fatto si incarcerano persone non tanto per un reato, quanto per una condizione; degli effettivi lager. Risultato? Nessuno si ribellerà alle mie schifosissime condizioni lavorative imposte, grazie allo spauracchio del carcere-che-non-si-chiama-tale, e gli italiani bianchi se la prenderanno con le vittime della mia strategia e promuoveranno neofascismi a piene mani.

Domande?

Videla, quanta ipocrisia

Riportiamo con piacere questa lettera, pubblicata da Infoaut, di Hebe de Bonafini, presidentessa dell’associazione Madres de Plaza de Mayo, sulla morte del dittatore Videla. Hebe denuncia l’ipocrisia di chi oggi chiama dittatore colui le cui violenze ha sempre taciuto. Della censura dei media anche noi ne sappiamo qualcosa, anche noi conosciamo i legami tra “informazione” e potere, quindi non possiamo che condividere quanto viene dichiarato. Buona lettura!

Videla, quanta ipocrisia

desap1982È morto Videla. La notizia mi ha paralizzata. Ho pensato subito ai miei figli. Come facevo a pensare ad altro? La testa mi girava, volevo pensare a qualcosa ma niente. Pensavo a loro e alle torture che hanno subito. Vedevo i loro visi che gridavano, mentre mi chiedevano e chiamavano tutti, come hanno fatto tutti nei momenti terribili, quando erano soli, nei momenti di peggior tortura.

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Mi masturbo

Vi proponiamo la lettura di due testi riguardanti il mese della masturbazione negli Stati Uniti.
Toccatevi!

Shilo McCabe
ph Shilo McCabe

Maggio è il Mese Nazionale della Masturbazione negli Stati Uniti

Tradotto da Serbilla, revisionato da Lafra.

Prima di tutto vogliamo chiedere scusa per aver dimenticato, durante la prima settimana di maggio, che questo è, almeno negli Stati Uniti, il mese nazionale della masturbazione. Fortunatamente resta ancora più di una settimana per appoggiare con fervore l’iniziativa senza abusare della nostra fisiologia. Dal 1995 è stata introdotta a San Francisco questa singolare celebrazione volta a stimolare (letteralmente) questa pratica tanto ancestrale, così come a passare in rassegna alcuni dei benefici scientificamente provati che la masturbazione può portare alla tua salute.

Tutto ha avuto inizio sedici anni fa quando la dottoressa Joycelyn Elders, nominata Chirurgo Generale degli Stati Uniti d’America (un evento storico dato che si trattava della prima persona di origine afroamericana che riceveva questa nomina), fu intervistata sulla masturbazione, dopo il suo discorso nella giornata internazionale dell’AIDS, negli Stati Uniti. Elders rispose: “Penso che sia qualcosa di tipico della sessualità umana che deve essere insegnato”. Questa risposta le costò, nell’assurdità della decisione da parte delle autorità, il suo posto.

ph Shilo McCabe

In reazione al ridicolo licenziamento della dottoressa Elders, l’azienda Good Vibrations, specializzata nello sviluppo di giocattoli sessuali e nella diffusione di una educazione sessuale progressista, decise di designare il mese di maggio come il Mese Nazionale della Masturbazione negli Stati Uniti, al fine di organizzare conferenze e finanziare studi attorno alla masturbazione, affrontata non come un tabù, ma come un esercizio al quale l’essere umano ha ricorso, abbondantemente, nel corso della sua storia. Adesso, sedici anni dopo, questa commemorazione è stata istituzionalizzata, comportando un grande progresso educativo attorno a questa pratica.

Storicamente la masturbazione è stata condannata come un atto impudico e immorale nelle varie società, utilizzando argomenti un po’ retrogradi e diffondendo mali caricaturali ipoteticamente prodotti dal masturbarsi. Dall’altra parte, e secondo una posizione critica molto più rispettabile, è opinione corrente, fondata in gran parte sulla tradizione orientale di gestione dell’energia, che la masturbazione non sia raccomandabile, almeno nel caso degli uomini, nel senso in cui implica l’eiaculazione e con essa un processo di auto-drenaggio energetico. Tuttavia, sembra più o meno chiaro che la disinformazione promossa attorno alla masturbazione per infondere timore morale o fisiologico appare come qualcosa di più nocivo del fatto di “auto-compiacersi” sessualmente. E comunque alcuni studi scientifici hanno riscontrato i sicuri benefici che può portare (senza contare che, per alcuni, la masturbazione è l’unico atto sessuale infallibile contro le malattie veneree):

Per l’uomo:

– Rafforza il sistema immunitario;

– Protegge la prostata dalle infezioni e contemporaneamente può ridurre la possibilità di contrarre il cancro in questa ghiandola.

Per la donna:

– Combatte le infezioni vaginali;

– Riduce il dolore pre-mestruale;

– Combatte il dolore cronico alla schiena.

Qui si trova, invece, il progetto fotografico di Shilo McCabe, fotografa americana queer femminista, presentato il 3 maggio al Center for Sex and Culture di San Francisco. Cliccando sulle foto potrete leggere testi narrativi e poetici sulla masturbazione.

Mi mastubo…
Tradotto da Serbilla, revisionato da Elle.

 

ph Shilo McCabe

“Questo progetto è nato perché parlando in un panel sulla sessualità positiva al Mills College mi è stato chiesto se avevo qualche consiglio per avere una sessualità ancora più positiva. Senza esitazione ho detto “Masturbatevi!”. Tutti hanno riso e, com’era prevedibile, hanno apprezzato la mia risposta. Ho capito solo più tardi che avevo ancora qualcosa da dire su questo argomento…

[…] Sfidare la condanna che pesa sulla masturbazione è importante perché apparteniamo ad una cultura fatta di messaggi confusi. Non c’è un messaggio univoco sulla masturbazione: alcune persone la condannano, per altre è culturalmente accettata come norma e anzi è considerata ovvia (gli uomini eteronormati, per esempio).

[…] Questo progetto è una dichiarazione di autonomia sessuale. Ogni foto è uno spazio sicuro. Il mio lavoro ha le sue radici nella fotografia documentaria e si sviluppa a partire dall’eredità di fotografi che mescolano arte e critica sociale nel loro lavoro. Non sono foto di posa con modelli, ma piuttosto rappresentazioni autentiche che le stesse persone ritratte nelle foto hanno contribuito a creare.

[…] Lavoro in collaborazione con le persone per ottenere fotografie che le facciano sentire bene e voglio sempre che siano loro ad approvare l’immagine finale. Visto che si tratta di un lavoro che ha come tema il sesso, ho come priorità assoluta il consenso e la trasparenza. Sono motivata dalla convinzione che, quando non vediamo fotografie di persone che ci assomigliano, interiorizziamo il messaggio che non siamo degni di essere rappresentati/e: per questo punto sul concetto di inclusività.”

Piselli, patate e altri ortaggi: brevissima guida alla sessualità trans*

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Intanto, mi presento: scrivo quanto segue per chiarire le idee su argomenti molto poco discussi, in particolare in un paese dove di transessualità, transgenderismo, genderqueer e compagnia bella non si parla praticamente mai. e Questo intende essere il primo di tanti altri scritti, ognuno su tematiche e stereotipi relativi al mondo trans*.

Si dà per scontato che ad un genere corrisponda un determinato set di caratteristiche perché abbiamo una cultura fortemente binaria: non vediamo oltre l’Adamo macho virile cazzomunito ed Eva femmina fertile vaginadotata. Per questo, di fronte all’ipotesi di avere una relazione con una persona trans* o esserne attratt@, solitamente vengono sfoderate delle risposte del tutto assurde, inerenti soprattutto la mancanza dei genitali solitamente collegati alle persone del genere che attrae l’interlocutore. Queste non sono altro che frutto di pregiudizi, sì, ma quali?

La prima grossa supposizione è che tutte le persone trans* abbiano delle determinate caratteristiche comuni, fatta eccezione per la disforia. Esistono persone trans* che prendono ormoni e quelle che non; quelle che si operano e chi sta bene così com’è, persone alte, basse, magre, grasse, glabre, pelose, etero, gay, bisessuali, pansessuali, asessuali, sessuali, monogam*, poliamoros*, sadomasochist*, vanilla, binari@ e genderqueer, con più generi, senza generi, con corpi diversi e transizioni diverse: sono tutt@ divers@, esattamente come il resto del pianeta. Bisognerebbe farsene una ragione.

La seconda grossa supposizione è che l’avere un determinato set di caratteristiche legate al sesso di nascita significhi automaticamente “utilizzarle” nella stessa maniera in cui lo si farebbe se si fosse stati cisgender. Una persona trans* potrebbe  volere che le persone si rapportino ai suoi genitali con dei nomi e approcci differenti da quelli che pensavate, avere dei limiti che non vogliono oltrepassare o non averne affatto. Inoltre, la genitalità di una persona trans* può e spesso è diversa da quella di una persona cisgender, in particolar modo se si sottopone a ormoni/chirurgia/eccetera. Mai dare niente per scontato, dialogare è indispensabile a capire come agire.

La terza grossa supposizione è che essere attratt* da una persona trans* comporti automaticamente l’attrazione per il suo sesso genetico. Peccato che ciò non tenga in considerazione un uso, appunto, alternativo dei genitali discordanti che si hanno oppure la presenza di nuovi genitali. Prendiamo ad esempio il famoso stereotipo per cui chi va con una prostituta transessuale non operata è segretamente omosessuale, oppure ha in sè una qualche componente di fluidità sessuale e bisessualità. Si sottintende in questo stereotipo che quella donna sia un uomo (grazie car*, ma di transfobia ne abbiamo abbastanza). Direste lo stesso di un tale che si fa penetrare con qualcosa di diverso da un pene dalla fidanzata ma rifugge totalmente gli uomini, oppure una ragazza cisgender che si masturba? il piacere meccanicamente ottenuto da parti del proprio corpo non è intrinsecamente connesso all’orientamento sessuale: la clitoride non sta mica a guardare chi ci gioca, la prostata non fa differenze fra pelle e silicone.  Ad ogni modo, se c’è chi crede seriamente che un uomo gay che si fa penetrare da un ftm stia sperimentando l’amore per la vulva solo in virtù del fatto che il suo partner con la vulva c’è nato, deve essere davvero imbecille. E per contrastare ciò, credetemi,  non c’è acculturamento che tenga.

Per approfondimenti, consiglio assolutamente la lettura di questo opuscolo.

 

Una risposta alla Boldrini

Sono giorni che rimugino sulla visita della Boldrini a Nisida e penso alle sue dichiarazioni. Non so come si possa essere così miopi, se lo si è davvero o si finge di esserlo, ma cercherò di dirvi cosa penso di quanto accaduto.

Innanzitutto mi chiedo come si possa definire un carcere ‘un’isola felice’. Cosa c’è di felice nelle sbarre? Nell’essere puniti senza avere una reale possibilità di cambiamento? Nell’essere limitati nelle proprie azioni e negli spazi? Chissà cos’è per la Boldrini la felicità. Per me è solo una cosa, assenza del carcere. Forse per
lei quell’isoletta artificiale, creata per rinchiudervi delle persone per anni, senza prospettive né futuro, è un po’ come l’isola che non c’è, con i laboratori di ceramica e cucina che sanno tanto di ricreazione, momento ludico per eccellenza.

Quanta faccia tosta si può avere per affermare una cosa simile? Ha fatto bene un ragazzo a risponderle che non era così, che c’era un sovraffollamento allucinante, 4 o 5 persone per cella, che in un reparto manca anche l’acqua calda e che lo stesso accadeva a Poggioreale. La situazione delle carceri italiane penso sia nota a tutt@. Ma, nonostante tutto, secondo quanto riportato, in queste gabbie si insegna la “fiducia nelle istituzioni”. Mai espressione fu più assurda. Come si può avere fiducia in strutture che hanno generato un sistema che sa solo punire, reprimere, soffocare ogni gesto di libertà? Come si può avere fiducia in un sistema che si basa su una divisione in classi che genera e genererà sempre violenza? Come si può rispettare chi ti chiede di sottostare ad un potere? Chi ti condanna alla sudditanza senza fine?

Leggi tutto “Una risposta alla Boldrini”

Il corpo più che umano

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The more-than-human-body di Kris Forkasiewicz, traduzione di feminoska, revisione di H20.

 Il pensiero occidentale ha perlopiù ridotto il corpo a una cosa, un oggetto del mondo come tutti gli altri. Solamente in tempi recenti è stato rimodellato in qualcosa di molto più articolato: il fondamento e l’espressione della soggettività.
I primi a spingere il discorso in questa direzione sono stati pensatori anticonformisti come James, Dewey e Nietzsche. Poi, a partire dalla metà del 20° secolo anche i fenomenologi, le femministe e gli scienziati cognitivi hanno aderito a questa visione. Ma la discussione da loro animata si è rivelata decisamente limitata, restando perlopiù circoscritta a un particolare tipo di corpo, quello dell’Homo sapiens sapiens. Questa mossa ha condizionato, pregiudicandola, la nostra predisposizione a sentirci in relazione con gli altri esseri corporei. Al tempo stesso, ha avuto l’effetto di concettualizzare il corpo come veicolo di cultura e spirito umano – per quello che continua ad essere visto come “più-che-animale.” In altre parole, il ripensamento e la rivalutazione del corpo sono serviti principalmente a sostenere un nuovo umanesimo, a rabberciare una risposta sul significato di essere umani.
Da un lato, questo approccio può essere inteso come una componente auspicabile e necessaria nella lotta contro la cancellazione tecno-scientifica del Soggetto. È più facile proteggere un’essenza umana dall’attacco tecnologico quando è perfettamente isolata dall’inessenziale. D’altra parte, una tale dissociazione è compatibile con l’atteggiamento tecnico-strumentale che seziona il mondo che circonda il Soggetto. In questo senso, offre un ulteriore apporto al processo artificiale di distanziamento dell’umano dagli altri animali. Facilita la liquidazione del Soggetto Non Umano che ora procede a velocità raddoppiata, mentre l’umanesimo va a braccetto con la reificazione tecnologica. Nel frattempo, il corpo e il somatico vengono colti, a livello concettuale, come il substrato di qualità a lungo elogiate non solo come squisitamente umane, ma rese feticcio del coronamento del processo evolutivo. La ragione, l’intelligenza e il linguaggio, ora concepiti come incarnati, sono in gran parte riservati al corpo inteso come umano. Perché nelle circostanze in cui il nostro corpo viene ancora chiamato “animale” ciò avviene per lo più in omaggio all’eredità darwiniana e al metodo scientifico in generale. E a ben guardare, la concezione prevalente vuole che l’essere umano non sia veramente e precisamente un animale.
Quali che siano le intenzioni che si nascondono dietro a una tale presa di distanza dall’animalità, alcuni degli effetti sono stati di: 1) sostenere ideologicamente la dominazione umana in un mondo profondamente specista e, 2) allontanare ulteriormente dagli animali umani la gioia di vivere. Come specie, siamo diventat* sempre più isolat*, sol* e alienat* dal mondo. Le somiglianze e differenze interspecifiche sono scoperte e riconosciute, ma non al fine di stabilire un apprezzamento pluralista. Anche quando al nostro corpo viene data maggiore attenzione, la comunanza carnale di tutti gli animali viene vista come un residuo di un passato da dimenticare. Al suo posto si dipana un’esclusione omogeneizzante dell’Altro, incoraggiata dall’ultimo colpo di scena nella narrazione dell’eccezionalità umana.
L’organizzazione caratteristica delle nostre facoltà fisiche apparentemente ci eleva, in molti modi, rispetto agli altri animali che popolano la terra. Distinguendoci, esistiamo. Sicur* della nostra unicità, possiamo permetterci di guardare dall’alto in basso i nostri parenti animali. Ci sentiamo, sfacciatamente, un caso davvero speciale. Senza nulla togliere alla nostra unicità di animali bipedi dai grandi cervelli, se guardassimo alle cose con onestà, le caratteristiche e i talenti specifici che costituiscono la nostra unicità potrebbero non offrire tutti i motivi di soddisfazione che alla maggior parte di noi piace prendere per buoni. Quella parte del nostro organismo che abbiamo astratto dalla sua propria vita e che chiamiamo “mente”, “anima” o “spirito” si è da tempo scollegata dal mondo. Da allora, siamo stati incapaci di ricondurvela. E addirittura consideriamo quella stessa astrazione come il nocciolo del sé propriamente umano.
L’umano è stato identificato proprio con questo senso prevalente di ego con tutte le sue presunte caratteristiche di autonomia, autodeterminazione, autocontrollo. Queste sono state intese agire al di là e al di sopra della carne, e poi – dopo la “svolta corporea” – attraverso la carne stessa. Quello che ne è seguito è stata una profonda e prolungata contrazione del nostro essere biologico. I vincoli e le pressioni capaci di gonfiare l’enorme ego individuale e culturale sono fin troppo reali; gli accomodamenti materiali, istituzionali e discorsivi che dominano la vita sociale strappano l’atomistico “Io” dalla spontaneità subconscia della vita corporea, scagliandola in una prigione fatta di separazione. Senza seguire un ordine particolare, l’elenco dei fattori che determinano questo stato di cose include: povertà indotta e reale accompagnata da un senso di angoscia nei confronti del futuro, predominanza di un regime di lavoro forzato e competitivo – e correlata esperienza di vita percepita come frettolosa e smarrita; sovraccarico sensoriale da una parte e noia derivante dall’isolamento all’interno delle quattro mura dall’altra; accelerazione della privatizzazione dello spazio e inaridimento della vita comunitaria. Molti più elementi potrebbero essere aggiunti, ma questa non vuole essere la sede per una loro discussione dettagliata.
Gli sviluppi menzionati sono generalmente riconosciuti. Il punto è piuttosto che, presi nel loro insieme come costitutivi del progresso umano inevitabile, possono rivelarsi come la nostra eredità primaria. Certo, esistono vantaggi pratici che ci rendono le cose più semplici e che ci sostengono. Ma a livello sistemico servono principalmente ad ammortizzare il nostro inserimento in strutture astratte ed ostili, che sorreggono e facilitano la nostra alienazione dal resto della natura, dagli altri esseri, e l’un* dall’altr*. Siamo manipolat*, spesso da forze che appaiono del tutto impersonali, nell’approfondire la nostra situazione esistenziale. Al suo apogeo civilizzato, l’umanità è più lontana che mai da una modalità relativamente armoniosa di essere-nel-mondo. Innegabilmente, l’umanità è un Impero. Ma al suo cuore si trova l’individuo che, sempre più spinto in una massa di altri senza volto, continua a sopportare, come un muscolo uno spasmo lancinante.
Non tutt* si sentono sottopost* alle richieste dell’egemonia tecnocapitalista con la stessa intensità. Le persone di posizione sociale ‘elevata’ mi accuseranno di esagerare. Ma è mia convinzione che la comodità della minoranza si costruisca attraverso una presa ferrea e continua alle gole degli innumerevoli diseredati. Nonostante il tipico torpore fatto di routine che li caratterizza e le loro impressionanti capacità di negazione, anche coloro che ne beneficiano tremano subliminalmente alle prospettive di un’instabilità crescente nella esistenza (post)moderna. L’ansia repressa ribolle, alimentando nevrosi, fino a quando non diventa matura ed esce allo scoperto. In un sistema fortemente strutturato e intriso di tecnologia, non siamo lasciat* a noi stessi nella ricerca di sollievo. Mentre una patologia dopo l’altra viene trasformata in una fonte di profitto, la moda, infinitamente riproposta e confezionata, della gratificazione immediata viene proposta come uno degli antidoti all’incombente sforzo psichico e all’intorpidimento. Le pressioni della vita quotidiana aumentano e l’industria culturale non deve sforzarsi troppo per per promuovere sciatte esperienze mirate a sostituire la sensibilità perduta della presenza animale. L’unica cosa che può offrire qui e ora è il bene di consumo con tanto di confezione appariscente.
Valide in sé, ma povere come sostituti di un’animalità traboccante – musica, arte, sport, spettacoli, turismo e altro ancora – diventano professionalizzati e standardizzati, ritagliati in comode porzioni e venduti. Tanto per non sbagliare, vengono buttati nel calderone anche dei farmaci, come scorciatoia per i risultati desiderati. Ma sia perché sono una farsa sia perché la nostra insaziabilità viene coltivata con cura, siamo perennemente insoddisfatt* di queste soluzioni tappabuchi. Invece del sollievo promesso e della liberazione dal peso del nostro ingombrante ego, sentiamo amplificarsi il nostro torpore sensoriale, e sperimentiamo l’assenza dall’esperienza. Oppure ci ritroviamo un’altra volta a non provare più neanche quella. Mentre ci rassegnamo alla gratificazione illusoria e restiamo ignar* dell’animalità repressa dentro di noi, le nostre energie vitali si disperdono sempre di più.
Finiamo anche di avere una visione distorta della spontaneità, del gioco e dell’animalità. La spontaneità viene contemporaneamente desiderata e perduta. Ridotta a oggetto di contesa, sempre sfuggente e rincorsa, è rimandata e inavvertitamente spinta fuori dalla nostra portata. A sua volta, agli occhi di molti, la giocosità viene a sovrapporsi con la frenesia dionisiaca: l’adrenalina deve scorrere a tutti i costi! Fino a quando non si impazzisce, non ci si diverte. Se lo sfondo non fosse quello di una forma di vita agonizzante, non vi sarebbe motivo di pensarla così. L’animalità viene svalutata in gioco sciocco o truce fatica. Nella realtà, come dimostrato dall’osservazione prolungata della miriade di altri animali da parte degli etologi, essa si estende ben al di là di entrambi. Gli altri animali non mancano quasi mai di prendersi cura dei propri bisogni vitali, dei quali il gioco è in molti casi una componente importante. Prima di consegnarli al “regno della necessità”, si dovrebbe osservare a lungo come giocano e come si divertono. In realtà, il confine tra “lavoro” e “gioco” nella vita degli altri animali è spesso impossibile da delimitare. Questo può essere visto come uno dei tratti distintivi dell’animalità libera.
Mentre la nostra vita si faceva sempre più compartimentalizzata, abbiamo cercato di ritrovare negli altri animali un qualche segno della nostra animalità. Ciononostante, di questi tempi, abbiamo raramente l’opportunità, la pazienza, l’attenzione o l’umiltà di notare veramente quello che fanno piccioni e scoiattoli. Gli animali considerati da compagnia potrebbero essere la tappa successiva. Ma pur essendo fonte di gioia, compagnia e amore per coloro che se ne prendono cura, molti di loro sono stati resi troppo dipendenti ed estraniati dalle proprie vite originarie per restituirci il senso di libertà che l’animalità pienamente espressa porta con sé. Basti pensare a guinzagli, collari e catene al collo dei cani. E altre specie sono già avviate nella stessa direzione. Molte persone tengono i gatti chiusi in casa per tutta la vita o li portano al guinzaglio. Lo zoo, da sempre e per definizione, non offre gioco e spontaneità ma artificio, puro e semplice. Funge da specchio, e allo stesso tempo maschera le gabbie nelle quali ci rinchiudiamo: i tratti desolati del mondo tecnologico.
Un tempo eravamo capaci di riapprendere gesti di spontaneità animale dai nostri figli. La sensazione di recuperare qualcosa che è venuta a mancare, qualcosa che è stata persa, sembra essere parte della fascinazione degli adulti verso l’infanzia e i bambini in generale. Ma, come sostenuto da alcuni abili scrittori, l’infanzia sta rapidamente scomparendo e i bambini stanno diventando sempre di più simili agli adulti. Prima cominciano a parlare, contare e leggere, meglio è. Il loro tempo diventa sempre più strutturato e organizzato da parte di professionisti, il gioco si trasforma in ricreazione progettata e sorvegliata. E la ricreazione alimenta e ruota intorno al miglioramento delle prestazioni. In questo modo, i bambini subordinano gradualmente i propri impulsi giocosi all’atteggiamento tecnico.
Il percorso che può portarci fuori da questo circolo vizioso richiede una comprensione viscerale del fatto che questo corpo è più che umano, che non è solo la base di concettualizzazioni astratte che non è semplicemente il punto di partenza verso i regni disincarnati dell’abilità tecnica e contemplativa, e non è solo un oggetto di considerazioni utilitaristiche. Ridotto a un’appendice della macchina, il corpo-come-(s)oggetto soffre e si inaridisce. L’umanesimo non è stato in grado di capire questo concetto e comprenderne le conseguenze devastanti. Ha consacrato la cultura e l’ha contrapposta alla tecnologia, dimenticando che entrambi sono costrutti che ci strappano dalla immediatezza dell’essere mondano.
Questioni riguardanti la nostra animalità possono suggerire rotte più desiderabili per il difficile compito di rinascita somatologica. Fino a quando queste ultime non sostituiranno quelle della nostra umanità, le probabilità di restare animali in guerra con noi stessi, il mondo e i nostri stessi costrutti tecnologici rimangono alte. Se l’astrazione dell’essere umano dall’animale continua ad essere analiticamente di qualche utilità, se abbiamo dovuto prendere posizione su quelle basi, sarebbe opportuna una breve confessione: è il corpo che si sostiene attraverso la sua essenza suppostamente umana, e non viceversa. È quando, sotto la pressione di circostanze materiali e culturali, il corpo usa la propria mente contro di sé, che le cose prendono una brutta piega. In caso contrario, il corpo “possiede un’innata saggezza”-come disse Nietzsche per il bene proprio e di coloro che lo circondano. È vulnerabile e fragile, compianta sede di dolore. Ma è anche poderoso, il potente sovrano di Nietzsche. Permette ma non chiede il permesso. La sua voce si esprime e si percepisce come limiti, bisogni, desideri e istinti, pensieri e come l’ego stesso. Non contiene solo la chiave di tutte le esperienze, consce e inconsce. Questo corpo sensibile e senziente è l’esperienza stessa.
Solo trascendendo la dicotomia mente/corpo, saremo in grado di apprezzare nuovamente la relativa coerenza e sanità della vita animale. Si può riconoscere a parole l’animalità, ci si può definire homo sapiens sapiens, designare uno spazio tutto per noi in uno schema tassonomico, e chiudere il discorso. Ma se veramente siamo una specie animale, e se difficoltà e tragedie costituiscono una parte inevitabile della vita animale, potrebbe veramente convenire affrontare la realtà da animali riconciliati con le proprie varie dimensioni, piuttosto che da animali autorepressi. A causa di un’idea di contrapposizione tra l’animale e l’umano, tra il corpo e la mente, abbiamo scavato un solco nella nostra carne sensibile, tentando di sfuggire a noi stessi in nome di una sorta di eterea autonomia. Ma l’umano non è l’opposto, o l’altra facciata, dell’animale. Non ne è che un’estensione, che non si sviluppa come alcuni vorrebbero credere in “verticale”, offrendo una via di fuga fino al cielo. Piuttosto, si dispiega “orizzontalmente”, lasciandoci immersi, insieme a tutti gli altri animali nelle ecologie circostanti e la sporcizia, il dolore e le gioie della vita carnale.
Queste considerazioni sono da intendersi come mero frammento della germinazione lenta di una riflessione più ampia. Come chi mi ha preceduto, intendo suggerire che è necessario riconsiderare la visione mondiale dominante che ha 1) menomato l’umano, 2) gli ha concesso una nobiltà immeritata e fasulla e, 3) ha condannato una moltitudine di altri animali alla miseria, sulla scia di una qualche supremazia umana. Tale ripensamento richiede una teoria sulla quale lavorare, insieme, intorno e contro le astrazioni in cui siamo ormai immers*, avendo sacrificato la dimensione sensuale della nostra natura animale. Ma l’impulso volto alla rivalutazione dell’animalità non ha origine nella teoria e non dovrebbe concludersi lì. Lasciare la questione sulla carta significherebbe tradirla e continuare a tradire noi stessi. Questi pensieri emergono, e rimandano alla vita pratica e quotidiana, e solo lì possono davvero diventare reali. Come tali, essi richiedono una trasformazione graduale ma radicale. In molti di noi matura un desiderio, di condizioni di vita che consentano la vera semplicità, l’immediatezza, la presenza, l’empatia e la saggezza. Attualmente, le opzioni per coloro che si sentono in disarmonia con l’ordine attuale sono poche: alcun* accolgono e accettano sostituti fallaci, altri sopravvivono ai margini, nella speranza di essere risparmiati dagli ingranaggi del sistema. La maggioranza si muove tra questi due poli. Ma questo corpo più-che-umano vuole qualcos’altro. Percepisce la verità di una vita altra.

Deconstructing il moralismo

moralista

Come saprete senz’altro già per vostra esperienza personale, tra le cose peggiori che si possano trovare in giro sui media del nostro ‘belpaese’ sono i discorsi o le prese di posizione confuse e ambigue su alcuni termini importantissimi. A me non interessa – lo dico subito e nero su bianco – difendere qualcuno; a me interessa chiamare le cose con il loro nome, e far notare dove questo non si fa. Si chiama politica anche questo. Perciò faccio una premessa per quanto segue, e ve la scrivo bella grossa per evitare che ve la possiate scordare.

SE NELL’USO CORRENTE E ‘DISCORSIVO’ DEL LINGUAGGIO LE PAROLE “ETICA” E “MORALE” SONO FREQUENTEMENTE USATE COME SINONIMI, ESSE NON LO SONO AFFATTO. ETICA E MORALE NON SONO LA STESSA COSA.

Come al solito basterebbe Wikipedia per farsene un’idea, ma siccome vi so pigri almeno quanto me, vi ricopio qui il passo che m’interessa teniate a mente: “L’etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Essa pretende inoltre una base razionale, quindi non emotiva, dell’atteggiamento assunto, non riducibile a slanci solidaristici o amorevoli di tipo irrazionale. In questo senso essa pone una cornice di riferimento, dei canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere. […] Ma l’etica si occupa anche della determinazione di quello che può essere definito come il senso (talvolta indicato con il maiuscolo, ‘Il Senso’) dell’esistere umano, il significato profondo etico-esistenziale (eventuale) della vita del singolo e del cosmo che lo include. Anche per questo motivo è consuetudine differenziare i termini ‘etica’ e ‘morale’. Un altro motivo è che, sebbene essi spesso siano usati come sinonimi, si preferisce l’uso del termine ‘morale’ per indicare l’assieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano. Si preferisce riservare la parola ‘etica’ per riferirsi all’intento razionale di fondare la morale intesa come disciplina non soggettiva”.

Qui c’è l’articolo con le parole di Boldrini che Mancuso critica. Come potete leggere, Boldrini fa un discorso di etica: il problema individuato da Boldrini non sta nei valori soggettivi ma nelle regole da dare a manifestazioni pubbliche e comuni – come la pubblicità – che veicolando un messaggio di utilizzo del corpo delle donne possono veicolare violenza: «Una donna oggettivizzata, resa cioè oggetto, la si tratta come si vuole e la relativa violenza è a un passo […] non è solo una questione di leggi, ma lo Stato deve prendersi la propria responsabilità: il legislatore deve introdurre maggiore attenzione alla realtà, perchè c’è odio contro chi è più libero, contro chi non appartiene alla collettività. È anche una questione di formazione: è nelle scuole che i ragazzi vanno educati non nel rispetto delle diversità ma soprattutto nel rispetto degli esseri umani». Ora, si può discutere anche di questo, senz’altro: ma non è una forma di moralismo. E’ ‘la ricerca di uno o più criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri’, cioè etica.

Bene; detto ciò, addentriamoci quindi nell’analisi di questo pezzo di Aurelio Mancuso.

Cara Boldrini, la violenza sulle donne non si sconfigge con il moralismo [il moralismo, invece, è “una degenerazione della morale usata con eccessiva intransigenza per una severa, talora ipocrita, condanna degli altri” (sempre Wikipedia). Quindi Mancuso dice a Boldrini: la violenza sulle donne non si sconfigge inasprendo i valori morali fino all’intransigenza. Ché uno potrebbe pure essere d’accordo – il problema è che Boldrini non ha parlato di morale. Continuiamo.]

Il femminicidio è un dramma troppo serio perché si apra una discussione moralistica sull’uso del corpo delle donne nelle pubblicità [di nuovo, siamo d’accordo: ma prima dovremmo aver accertato che il discorso di Boldrini sia moralistico – e non è così]. Il rischio, dietro l’angolo, è che ancora una volta si dividano le donne per bene e per male, un errore politico e culturale così praticato in questi anni da tante associazioni femminili e femministe che non ha stoppato alcun omicidio di odio nei confronti delle donne [aspetta, fermi, calmi, bòni tutti. Dividere le donne per bene e per male era fatto con lo scopo di stoppare gli omicidi di odio nei confronti delle donne (dire femminicidio no, eh)? Non mi pare, è una pratica politica ma anche culturale che si fa da sempre, nell’occidente. Più o meno da quando qualcuno ha diviso il mondo in Marie e in Maddalene. E non era certo un’associazione femminile o femminista]. Si dice che solo nel nostro Paese vi sia un uso così sfrontato e inqualificabile del corpo delle donne nelle pubblicità, e questo può esser vero, ma da qui bisogna partire? [E perché no? E’ un problema evidente, è diffuso, tocca un nodo economico-culturale importante… complimenti al coraggio di affrontare un nodo del genere. Alternative? Mancuso per ora non ne fa. Dice solo che questa è moralistica e che non bisogna partire da qui.]

Il possesso machista che si risolve contro l’autodeterminazione delle donne, dilaga nel nostro Paese, per oggettive tare culturali che non possono esser affrontate solo da un lato, ovvero dalla censura [censura? Quale? Boldrini ha parlato di censura? Non mi pare. Il limite di velocità nelle strade urbane è considerato censura alla libertà di movimento?], dalla moralizzazione dei costumi [I costumi qui non c’entrano nulla. Si tratta di un’attività economica e di comunicazione molto precisa, la pubblicità. Che c’entrano i costumi? Oppure regolare le attività non si può fare? E allora lo IAP, è anch’esso censura o moralizzazione dei costumi?], dalla sottrazione dei corpi svestiti o lascivi per fini commerciali. Perché l’altro lato è proprio il moralismo ipocrita, la madonizzazione delle donne che persiste a causa di visioni ecclesiali cattoliche ed ecclesiali laiche, prima fra tutte quella della sinistra istituzionale [Cioè, Boldrini invita a darsi una regolata nello sfruttamento dell’immagine delle donne nella pubblicità e automaticamente questo è moralismo ipocrita? Certo, è un lato del problema, ma perché non affrontarlo? E perché tacciarlo di moralismo, che non c’entra nulla?].

Quando non si avrà più paura del sesso [Boldrini ha paura del sesso? Mancuso, scusi, ma da cosa l’ha dedotto?], della sua veicolazione come elemento essenziale della vita [scusi Mancuso, ma secondo lei questi manifesti mi veicolano un elemento essenziale della vita?], dell’identità delle persone, dei generi, degli orientamenti sessuali, allora un pezzo importante della sessuofobia che porta alla castrazione sociale, nei rapporti intimi, nella rappresentazione e gestione dei poteri, sarà spazzato via [Mancuso, qui il problema non è la paura del sesso – è il suo uso strumentale. Non mi pare proprio che tanti pubblicitari ne abbiano paura, anzi; Boldrini ha fatto notare che sarebbe ora di smetterla di usarlo così. Le pare moralismo?]. E di pubblicità non dovremo più discutere, perché il “mercato” riterrà non remunerativo ostentare corpi femminili [sì, certo, “nel boschetto della mia fantasia” (cit.)]. Parliamo di educazione sessuale obbligatoria nei programmi scolastici (meglio l’educazione alla salute e alla consapevolezza di sé [magari – ma le pare che Boldrini non sarebbe d’accordo? Ma l’ha letto il suo CV? E poi lo dice anche lei, proprio nel link che ha messo!]), di narrazione pubblica che permetta la demitizzazione della sessualità, imprigionata ancora dall’immagine classica dell’impurità del corpo [e certo, la situazione è questa grazie ai moralismi di Boldrini, no?], di elemento esterno alla volontà razionale, di promozione scientifica delle differenze dei generi e degli orientamenti.

Insomma, fare un discorso unilaterale, comodo e anche rassicurante [non è unilaterale, è solo uno dei discorsi da fare, Boldrini non ha negato gli altri – e poi, come sarebbe comodo? Ma se Boldrini s’è presa vagonate di merda!!!], che tende a eliminare i conflitti [EH? Casomai li fa emergere, finalmente, spazzando un po’ d’ipocrisia], ci riporta indietro, non aiuta l’individuazione concreta anche di strumenti di prevenzione e di tutela. E in ultimo si continua a girare intorno alla questione centrale: la violenza contro le donne è un problema degli uomini [eh, chissà chi sono la maggior parte dei pubblicitari e del loro pubblico di riferimento], in quanto tali, così come sono oggi pervenuti dopo i millenari vaneggiamenti antropologici sulla superiorità intellettuale e fisica.

Lo scatenamento della strage delle donne, ha dentro un elemento di vittoria evidente: i maschi sono finalmente entrati in crisi, l’autonomia delle donne li fa agire come i loro antenati, perché sono i ruoli che stanno crollando [non sarei così ottimista, Mancuso, a me pare che vanno ancora alla grande, boh – e sa che anche il tono della sua frase è parecchio ambiguo?]. È necessario punire i reati, attrezzare di strumenti veri i centri donna, la polizia, ma anche oltre, aprire una discussione sulla necessità di come rieducare gli uomini [è quello che ha detto Boldrini, infatti, e comunque: con meno cartelloni sessisti in giro secondo me sarebbe più facile, no?], perché il femminicidio è la manifestazione violenta di una patologia sociale e culturale diffusa: il machismo [che ha, tra i suoi effetti, portare gli uomini a criticare i discorsi politici delle donne bollandoli di moralismo – io un esempio ce l’avrei, sa?].

Come realizzare un Porno Femminista

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Qui l’articolo originale in inglese. Traduzione di feminoska, revisione di H2O.
Bando alle ciance, buona lettura!

Come realizzare un porno femminista (di Reina Gattuso)

“Voglio ribaltare il dialogo culturale sul sesso e sulla sessualità”, afferma Tristan Taormino. Si definisce una pornografa femminista e col suo lavoro intende comunicare la propria visione femminista in una sfera particolarmente controversa di rappresentazione: quella della pornografia.
In una cultura satura di rappresentazioni di donne rese oggetti – rappresentazioni che troppo spesso normalizzano e perpetuano la violenza di genere – alcun* attivist* si stanno riappropriando delle telecamere. Il loro lavoro, sempre più spesso definito come ‘pornografia femminista,’ mira a sfidare le concezioni dominanti di sessualità e potere, reclamando il porno come mezzo di espressione femminista.

Taormino ha cominciato a realizzare porno nel 1999, anno nel quale ha co-diretto un adattamento cinematografico del suo libro, The Ultimate Guide to Anal Sex for Women. Scrittrice, docente universitaria e educatrice sessuale, Taormino inizialmente non pensava che la produzione di pornografia sarebbe diventata un motivo centrale della propria carriera ma, rendendosi conto del profondo potenziale del suo lavoro, ha ben presto iniziato a dedicarsi sul serio alla regia. “Voglio sfidare la nostra concezione di cosa sia il sesso, quello che si ritiene il sesso tra virgolette ‘normale'”, afferma Taormino. Dal debutto di regist* e interpreti come Candida Royalle, Nina Hartley e Annie Sprinkle, la pornografia femminista non ha lasciato indifferente l’universo dell’intrattenimento per adulti; a partire dal 2006, questo genere ha persino una cerimonia di premiazione annuale.

“Non usiamo la parola femminista per indicare un certo tipo di sessualità, in sostanza, né film che hanno solo una trama complessa o non includono scene bizzarre”, afferma Lorena Hewitt, Direttore Artistico del Feminist Porn Awards. “Vogliamo davvero riconoscere le differenze esistenti tra le donne, i loro diversi desideri, l’esistenza dell’intersezionalità.” Taormino è d’accordo. “Non credo che esista il sesso femminista,” dice. Discutendo del proprio lavoro, resiste infatti all’idea che certi atti sessuali siano intrinsecamente liberatori o degradanti. Invece, riguardo al porno femminista, afferma che “è il porno prodotto eticamente, che sfida le raffigurazioni convenzionali e stereotipate di genere, sesso, razza, classe, abilità e di altre raffigurazioni identitarie, e dialoga sia con coloro che lo realizzano che con coloro che lo guardano.” Per Taormino e altre femministe impegnate nella realizzazione e nello studio della pornografia, i contenuti sessualmente espliciti offrono l’opportunità di affrontare criticamente il rapporto tra identità e di azione. Sovvertendo e diversificando le rappresentazioni spesso stereotipate della sessualità osservabile solitamente nei media mainstream, le pornografe femministe invitano quel pubblico emarginato per tradizione a connettersi con il sesso come mezzo di piacere e di potere. Queste raffigurazioni esplicite, fondate su una conoscenza della pornografia sia come industria che come forma culturale, mettono gli spettatori nella condizione mentale di impossessarsene/appropriarsene mentre ne traggono un piacere sessuale.

1. Cose da non fare

D. Che diresti alle femministe anti-porno?
R. Direi che ne dovrebbero guardare un po’. -Lorraine Hewitt

“Sono sopravvissuta alle guerre del sesso”, dice Annie Sprinkle.
Leggendaria performer per adulti e prostituta, ecosessuale autodichiarata, artista di performance e prima pornostar a ottenere un dottorato di ricerca, Sprinkle ha trascorso gran parte degli anni Ottanta in prima linea nei contenziosi dibattiti sulla pornografia femminista. A partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, le guerre del sesso hanno polarizzato le femministe della seconda ondata lungo le direttrici contrapposte “anti-porno” e “pro-sex”. Femministe iconiche come Andrea Dworkin sostenevano che la pornografia e le pratiche sessuali come il BDSM fossero basate sulla dominazione dello spettatore o del partecipante maschio, e quindi intrinsecamente ostili alle donne. Le femministe pro-sex, d’altra parte, erano convinte che stigmatizzare quelle che venivano considerate perversioni e sopprimere la pornografia avrebbe significato incoraggiare la repressione della sessualità femminile e dell’espressione sessuale. Lo scrittore, attivista e professore di giornalismo presso l’Università del Texas a Austin, Robert Jensen, autore di Getting Off: Pornography and the end of masculinity, è spesso citato come famoso femminista anti-porno contemporaneo. Quando si racconta la storia della crociata anti-porno, Jensen sottolinea le radici del movimento.

“È importante riconoscere che la critica femminista della pornografia è emersa dal movimento anti-violenza e che la critica della pornografia rappresentava solo un aspetto della critica a una cultura che forniva un sistema di supporto culturale per tale violenza”. Jensen ritiene che questo supporto culturale dipenda dalla fusione della mascolinità con la dominazione e della sessualità con la violenza. La pornografia, sostiene Jensen, che si rivolge principalmente ad un pubblico maschile, rafforza e perpetua questa ideologia dipingendo le donne come oggetti sessuali creati per il piacere e il controllo maschile. Per gli attivisti anti-porno come Jensen, l’associazione tra lavoro sessuale e violenza si estende al modo in cui gli/le interpreti vengono trattat* quando non sono in scena, portando a quella che definisce una “industria dello sfruttamento sessuale.” “Questo non significa che ogni donna che appare in un film pornografico sia sfruttata “, dice Jensen. “Ovviamente, ci sono molte differenze a seconda del livello nel quale ogni donna lavora … ma stiamo parlando di migliaia di donne. E credo [che in base a] i dati sulle loro esperienze, anche se non sono uniformi, si possa parlare di tendenze precise. ” Jensen sostiene inoltre che molte interpreti femminili siano particolarmente vulnerabili a pratiche di sfruttamento del lavoro a causa della loro mancanza di alternative. “Quando entrano ad Harvard, pensando al proprio futuro professionale, quante giovani donne pensano seriamente al porno, alla prostituzione o allo spogliarello come a una professione per la vita?” domanda, spostando l’attenzione sulle situazioni avverse che motivano alcune donne a intraprendere una carriera nel porno.

Sprinkle si arrabbia all’insinuazione che nella sua decisione di lavorare nell’industria del porno vi sia stata una scarsa possibilità di scelta consapevole. “Ho avuto un sacco di possibilità – avrei potuto scegliere e fare ogni genere di cose – ma ho scelto quel lavoro”, afferma. Anche se molte femministe coinvolte nella pornografia riconoscono che lo stigma sociale e l’oppressione possono avere come conseguenza condizioni di lavoro poco sicure, sostengono altresì che la risposta a questo problema non è quello di vietare il lavoro sessuale, ma di legalizzarlo e regolamentarlo. “L’idea che non ci possa essere una scelta consapevole significa anche che non ci possano essere diritti, che non ci possano essere ambienti di lavoro sicuri, che le persone non possano avere voce in capitolo rispetto a quello che fanno”, sostiene Taormino. “Per me sostenere le persone che lavorano nel sesso e cercare di cambiare l’ambiente dall’interno è un atto incredibilmente femminista.” Quando si parla di pornografia, tuttavia, Jensen non crede a chi sostiene il cambiamento dal di dentro. “Perché supponiamo di avere sempre bisogno di nuovi contenuti? Perché come cultura sentiamo il dovere di avere immagini sempre più esplicite sessualmente, indipendentemente dalla natura ideologica, siano esse patriarcali o femministe? ” domanda. E continua: “Quando la cosiddetta soluzione a un problema comincia a sembrare molto simile al prodotto della cultura dominante, allora inizio a nutrire molti dubbi rispetto agli effetti che avrà.”

2. Rappresentazione

Quando Hollywood riscrive e rimodella le nostre esperienze, e le scuole ignorano le nostre storie e la nostra educazione sessuale, la pornografia queer è uno dei pochi mezzi capaci di raccontare in maniera esplicita le nostre storie. –Jiz Lee, Femminista, Performer Porno (da The Feminist Porn Book)

Le pornografe femministe sostengono che i contenuti sessualmente espliciti che loro stesse producono, rendono loro possibile la rappresentazione di se stesse e del proprio corpo in un settore – e una cultura – saturi di un immaginario alienante. “In generale, credo che l’auto-rappresentazione sia fondamentale per le comunità o che le tue storie vengano affidate a coloro che sono essenzialmente ai margini”, afferma Shine Louise Houston, pornografa. “In un certo senso è così che ci si rimpossessa del potere delle narrazioni visive.” Una femminista queer nera, Houston è spesso acclamata come una delle registe e produttrici il cui lavoro, tra cui la pluripremiata serie “Crash Pad”, ha in sé il potenziale di trasformare un’industria vietata ai minori e dominata dai desideri dei maschi bianchi etero. Anche Sinnamon Love, che si autodefinisce una performer nera femminista e regista, usa il proprio lavoro per combattere gli stereotipi sessuali e razziali spesso presenti nella pornografia. Questi stereotipi variano, sostiene, da rappresentazioni “ghettizzate” dei neri a “immagini assimilative di donne nere”, che delineano un mercato che privilegia le donne di pelle chiara dai corpi sottili e dalle “fattezze europee.” “Produttori e registi giocano con questi stereotipi per attirare i propri acquirenti “, afferma Love, notando che i produttori spesso adattano i propri prodotti pensando agli uomini bianchi visto che rispetto ai neri sono più propensi ad acquistare film porno invece che che affittarli. “È una cosa della quale, personalmente, a questa età e in questa fase della mia vita, io non voglio essere parte”.

Come Love, che si sforza di realizzare un‘immagine più fedele delle donne nere nella sua pornografia, Dylan Ryan, una performer queer, trova importante produrre contenuti sessuali che siano inclusivi della sua comunità. “Stavo cercando di creare un senso autentico del mio … senso della sessualità, della mia intenzionalità , della mia disinvoltura sessuale e della mia raffigurazione fisica,” dice. “Avevo visto molti lavori inautentici rispetto a me e alle mie esperienze, quindi mi sono sentita davvero ispirata nel mostrarmi e nel rappresentare la mia esperienza.” E quando gli interpreti si sentono fedelmente rappresentati, il pubblico risponde. “Siamo diventat* una sorta di modello per le persone giovani che si interrogano circa il proprio orientamento o la propria identità di genere”, dice l’attrice femminista Jiz Lee, che si identifica come genderqueer. “Siamo qui perché non ci sono altre voci nei media mainstream.”
Tuttavia, gli attivisti di entrambe le posizioni sottolineano che il porno fatto da registe donne non risulta automaticamente femminista. “Alcune donne hanno realizzato porno davvero misogini” afferma Sprinkle. “Il porno femminista può essere fatto da chiunque, non per forza da una donna.”

3. Metti in discussione il potere, dai dignità al lavoro

Il porno femminista è un genere che è anche un movimento sociale, che sta tentando di prendere un tipo di film e metterlo assieme alla politica in questo modo davvero importante e complicato. -Dylan Ryan

Tema comune di molti film porno femministi è il riconoscimento e la negoziazione del consenso reso visibile, attraverso la collaborazione tra interpreti e registi in merito ai contenuti dei film. Nei propri film, Taormino include interviste in stile confessionale agli interpreti, allo scopo di fornire agli spettatori un’idea dei desideri e delle discussioni che hanno avuto luogo con i performer. Questa tattica, dice Taormino, “afferma il consenso in modo davvero molto esplicito e stabilisce anche il livello di proattività sessuale degli/lle interpreti nella scena”, cosa che permette agli spettatori di “lasciarsi andare alla fantasia” in modo rilassato. Secondo Taormino, la trattativa riportata sulla pellicola diventa particolarmente importante per quelle scene che raffigurano fantasie palesemente basate su dinamiche di potere, come quelle BDSM, o altre pratiche sessuali storicamente controverse. “Dominazione maschile e sottomissione femminile di per sé non sono automaticamente misogine o anti-femministe, specialmente se le persone coinvolte sono consenzienti rispetto a quello che stanno facendo”, sostiene. Le femministe anti-porno, tuttavia, sostengono che il consenso del/della interprete non obliterano i potenziali effetti psicologici legati alla visione di contenuti sessualmente aggressivi. “Non credo che sia sano a livello sociale presentare il sesso come costantemente legato al binomio dominazione-subordinazione”, dice Jensen. Anche quando una scena pornografica è “girata con persone che la hanno compresa, concordata e vi hanno acconsentito,” continua Jensen: “Qual è l’effetto del continuo rinforzo della fusione tra sesso e dominio?” Eppure per Taormino, rispettare la volontà delle proprie interpreti significa privilegiare il loro benessere e desideri al di là delle sue convinzioni personali di ciò che comportano quei desideri. “Trovo piuttosto prevaricatorio chiedere a qualcun* di far valere la propria opinione e i propri desideri per poi negarli o trovarli in qualche modo inadeguati, perché la mia idea è differente o perché ho una diversa nozione preconcetta su come le cose dovrebbero avvenire”, afferma.

4. Azione / Attivismo

“Il lavoro è sempre stata una questione femminista. Il lavoro sessuale è una questione femminista. È davvero tempo di dare seguito a tali [ideali ] nell’ambito della pornografia, che è una forma di lavoro sessuale.”
-Tristan Taormino
“La nostra cultura svaluta il lavoro sessuale e il sesso”, sostiene Taormino. “Denigriamo e stigmatizziamo le persone che fanno porno e contemporaneamente consumiamo voracemente il prodotto che deriva da tale lavoro.” In risposta a ciò che molti percepiscono come un atteggiamento disinvolto dell’industria del porno in merito alle condizioni di lavoro, diverse femministe impegnate nella pornografia sono diventate convinte attiviste a sostegno dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. Sprinkle, che è attiva nel movimento dal 1974, osserva che i molteplici problemi affrontati dalle prostitute sono spesso il risultato degli sforzi compiuti per far rispettare leggi che criminalizzano la prostituzione. “C’è una guerra in corso sulle puttane, da lungo tempo”, dice Sprinkle. “Donne che non possono rivolgersi alla polizia per denunciare di essere state stuprate o derubate mentre si dedicavano al lavoro sessuale, perché hanno paura di essere arrestate.” Ryan, che sostiene la causa delle prostitute come assistente sociale, nota che lo stigma contro i/le sex worker esiste anche tra le persone che lavorano nel porno. Afferma di non essere sorpresa di vedere spesso in gioco differenze di classe, in grado di riaffermare una “gerarchia all’interno del lavoro sessuale.” “Quando parlo del valore del lavoro sessuale di strada, come di qualcosa che dovrebbe essere … socialmente sostenuto e reso più sicuro, penso sia quello il momento in cui mi caccio maggiormente nei guai – a causa di tutt* quell* che si dedicano al porno e insorgono dicendo che “beh, io non sono un/a prostituta”. Per Ryan, questa mancanza di solidarietà è a dir poco miope. “Una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso”. “Criminalizzare uno degli aspetti nel quale viene praticato tale lavoro in ultima analisi avrà delle conseguenze a cascata su tutti gli altri, in termini di come vengono percepite, sulle condizioni di lavoro, sui diritti e le possibilità disponibili per le donne che ci lavorano, cose così.” Ryan afferma che a livello personale, la sua identità di attrice porno che ha scelto e ama il suo lavoro le permette di abbattere alcuni stereotipi negativi sulle sex worker. “È sempre emozionante e divertente parlare con qualcuno, una persona impegnata nel sociale e raccontarle del lavoro sessuale, o accennare qualcosa al riguardo durante una conversazione”, dice. “È tutta una questione di scardinare gli stereotipi.”

5. Critica

La mia tattica è sovvertire dall’interno. Sii il cambiamento. -Shine Louise Houston

Mentre il porno femminista ha senza dubbio tante definizioni quanti sono i suoi spettatori, un principio guida che si può utilizzare per delineare il genere è la convinzione che la rappresentazione esplicita della sessualità abbia la capacità di interrogare in modo critico la cultura riguardante genere, potere e identità e, in ultima analisi, di cambiarla.
Considerata la storica controversia dell’impegno femminista verso la pornografia, la designazione di un approccio specifico al porno che si possa intendere “femminista” è qualcosa che molt* ancora mettono in discussione. Eppure è innegabile l’empowerment di coloro che sono stat* storicamente oggetto di uno sguardo sessualizzato – donne, queer, persone di colore – nel momento in cui diventano protagoniste del proprio desiderio. In una cultura inondata di contenuti che travisano più di quanto non divulghino, non c’è forse mezzo più appropriato dello schermo per mettere in atto questo intervento. Per molte delle femministe che si cimentano con il genere, la politica della pornografia riguarda molto più che la semplice realizzazione di immagini nelle quali gli spettatori possano identificarsi. Piuttosto, la pornografia femminista rappresenta un quadro di riferimento utile a concettualizzare l’identità, il potere e il desiderio, una lente attraverso la quale interrogare e criticare una cultura. Taormino, per esempio, è convinta del potere trasformativo della pornografia. Come scrive in The Feminist Porn book, un’antologia che ha co-curato sul genere, il porno può avere un ruolo molto più importante della funzione di procurare piacere: “Penso che il sesso possa cambiare il mondo.”