Deconstructing ProVita

sir-john-cc-LGBT-History-monthDi quello che sta combinando ProVita, sedicente iniziativa che “vuole promuovere i valori della Vita, dal concepimento fino alla morte naturale, e della Famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna” (il link ve lo trovate, hanno fin troppa pubblicità) hanno scritto benissimo su Narrazioni Differenti. Per quanto riguarda la propaganda dell’invenzione chiamata “teoria del gender”, ho scritto già a lungo qui.

Dunque, che altro dire di fronte a questo incredibile spot, nato per combattere qualche cosa che non esiste? Ci vengono in aiuto gli stessi di ProVita, che del loro video scrivono quanto segue. Divertiamoci con loro e con altri. Vi chiedo la pazienza di cliccare su ogni link proposto, ricordandovi che sono solo alcuni degli esempi che è possibile scegliere in rete.

Il video di ProVita sul gender impazza sul web

Il breve e incisivo spot, creato da ProVita per sensibilizzare sul problema del gender nelle scuole e diffondere la petizione sull’educazione sessuale e affettiva, diventa virale e in poco più di 24 ore raggiunge le 300 mila visualizzazioni e oltre 2000 condivisioni. [Si comincia con un po’ di empowerment. I numeri dicono una cosa chiara: noi ce l’abbiamo grosso. La retorica è quella.]

Naturalmente ciò non poteva che far infuriare il mondo LGBT che ha scatenato un attacco su vasta scala, dimostrando così che alla teoria gender ci tiene per davvero. [Il mondo LGBT, notoriamente compatto e con una struttura decisionale solida e unita, dimostra che la teoria del gender esiste perché reagisce a una mera invenzione calunniatoria. A ProVita piacerebbe molto che non si rispondesse niente, lasciando il campo libero a loro; invece esistono questi brutti ceffi organizzatissimi che rispondono pure.] Il video, anche grazie ai duri attacchi di cui è stato oggetto, ha avuto una risonanza enorme e ha ottenuto il suo scopo: far parlare del problema del gender nelle scuole, aprire gli occhi ad alcuni, stimolare il dibattito. [Nelle scuole non si parla del problema del gender, perché il problema del gender non esiste. Si parla da parecchio di educazione sessuale; adesso che la si sta unendo intersezionalmente alla lotta all’omofobia e al bullismo, allora SOLO ADESSO ProVita e simili passano – loro – all’offensiva. Hanno capito che sotto silenzio non si può più far passare niente, quindi provano a fare la parte delle vittime. Adinolfi, Miriano e sentinelle fanno lo stesso.] Non possiamo che ringraziare i nostri “oppositori” per tutta la visibilità e l’attenzione che ci stanno dando. [Vero: ci contavano, ed è arrivata. Solo, non la chiamerei attenzione, userei una parola più marrone.] Gayburg parla di “spot omofobo” e di “istigazione all’odio” omofobico: l’accusa è un po’ ridicola ma non ci sorprende per nulla visto che, come abbiamo recentemente spiegato, quasi tutto può essere considerato “omofobia”. [Tattica numero uno: chi ci dà contro esagera, non è possibile che tutto quello che diciamo sia omofobia. Qualcosa, anche per sbaglio, sarà giusto, no? Proprio il tipico atteggiamento di chi sa di avere ragione… il loro sito si trova facilmente, andate e vedete.] Gay.it ci accusa di “terrorizzare i genitori” [Vero: andate a rileggervi il famigerato decalogo. Articolo sei: “Date l’allarme!”], di scagliarci contro l’”inesistente teoria del gender” (ma allora, se ci battiamo contro qualcosa che non esiste, perché alcuni gruppi si sentono così chiamati in causa e offesi?) [Capito la finezza? Se la comunità LGBT reagisce alle calunnie, per esempio “insegnate ai bambini a essere gay”, allora la “teoria del gender” esiste. Se io dico che sei un ladro e un truffatore e tu reagisci, allora è vero. Complimenti per il vostro concetto di “accusa fondata”.], di promuovere una “campagna di disinformazione” [come vuoi chiamare uno spot nel quale sono messe in bocca a serie organizzazioni educative frasi che non ha mai detto nessuno? Infatti, per farle dire, ProVita ha dovuto usarle lei. Volantini, pubblicazioni, registrazioni fatte con quelle parole da parte di questi “educatori al gender” non ne esistono. Ovviamente.], ecc.

L‘Espresso parla di “lavaggio del cervello” e fa un po’ di confusione riferendo tutte le immagini forti del video ai “gay” (la normalizzazione della transessualità e di identità di genere “indefinite” è cosa ben diversa). [Altro vecchio trucco retorico: prima generalizzo io, e quando mi si risponde con analoghe generalizzazioni allora entro nello specifico e dò dell’ignorante a chi mi contesta.] Altri gruppi LGBT hanno pensato di chiedere a Facebook di togliere il video per “oscenità/nudità”, in riferimento ad una immagine in cui, per una frazione di secondo, si vede un uomo, di schiena, “nudo”. [Com’è noto a chi usa Facebook, tutto ciò è indimostrabile oggettivamente proprio per la politica di FB.] Per fortuna, Facebook non ha ritenuto valide le segnalazioni e il video rimane. Ma il fatto è quantomeno paradossale: l’immagine infatti, a parere nostro, mostra effettivamente una cosa oscena. [Fate pace col cervello, e non scaricate agli altri le vostre evidenti contraddizioni.] Peccato che la maggior parte delle immagini (tra cui quella dell’uomo “nudo”) siano state prese da un “gay pride” piuttosto importante. [Le immagini di un gay pride prese a esempio di quello che si direbbe a scuola. Se non è la costruzione di una calunnia questa, cosa lo è?] Questo per soddisfare la curiosità di chi accenna ad immagini prese “chissà dove”. Insomma gli LGBT permettono le “oscenità” nelle loro parate, [non le permettono affatto: sono libertà, è ben diverso] ma poi si lamentano accusando di “oscenità” chi osa mostrare cosa succede durante i gay pride. [Sì, se lo si mostra per definire ciò che verrebbe detto nelle scuole. Si chiama, appunto, calunnia.] Quanto all’immagine di “bambini che inseriscono profilattici su paletti di legno”, anche questa non ce la siamo inventati: si tratta di una lezione di educazione sessuale in un “civilissimo” paese europeo. [Mai svolta da nessuno, in Italia, né presente nei programmi di nessuna associazione che lavora con i bambini. Quindi? Questo non è terrorizzare le famiglie?]280px-Rainbow_Dash

La rabbia arcobaleno [vi dirò, questa espressione non mi dispiace, mi fa pensare a Rainbow Dash] è però andata oltre, non accontentandosi di esprimere accuse infondate: [ovviamente, quelle infondate sono quelle dell’avversario] il nostro sito è stato oggetto di continui e ripetuti attacchi di hacker (non è la prima volta) che hanno cercato di mettere in ginocchio i nostri sistemi informatici. [I famosi hacker LGBT, che invece del mouse usano joystick fallici e hanno le tastiere in pelle nera.] Questo non può che stimolarci a andare avanti, per la Vita, per la famiglia e per i bambini! Intanto le visualizzazioni continuano ad aumentare rapidamente, essendo ormai più di 350 mila le persone raggiunte, [cinquantamila si sono aggiunti mentre avete letto: che siano tutti hacker?] così come crescono velocemente le sottoscrizioni alla nostra petizione contro la teoria gender nelle scuole. Un successo insomma, grazie anche ai nostri amici LGBT.

Ecco, così “se la cantano e se la suonano”. Ed evidentemente fanno bene, se poi certa gente riempie i cinema di folle acclamanti, mentre chi lavora seriamente come Scosse no. Ma l’ideologia al potere sarebbe quella LGBT. Ricordiamoci che stiamo parlando di persone così abituate a inventare cose che non si accorgono di chi gli propina statistiche fantasiose per prenderli in giro, e ad esempio ritwitta tutto senza controllarne la coerenza (qui sotto una bufala suggerita da due mie amiche su twitter e che loro si sono bevuta senza battere ciglio):

Lola_ProVita

E’ gente che pur di mettersi in una posizione politica inattaccabile, è pronta a sostenere – approfittando di un generale clima di “contestazione” – che è lo stato a voler propagandare la teoria che loro stessi si sono inventati, perciò ad esempio invitano insegnanti a un convegno di chiaro stampo omofobo. Omofobia che viene fomentata anche spiegando il “corretto” uso del lessico e imponendo la lettura di alcuni messaggi e discorsi in chiave omofoba, come se il variegato e spesso inconciliabile mondo non eterosessuale avesse ordito un complotto linguistico organizzato su tutti i media mondiali.

E tutto questo concerto di fuffa sarebbe ciò che è “naturale”.
E lasciare chiunque libero di decidere del suo corpo, invece, no.

Una risata li seppellirà.

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

Compagn@ è una parola vuota

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I compagni, le compagne, siamo compagn@… compagn@ è una parola vuota, anzi una parola svuotata, però fa molto figo usarla per definirsi in rapporto alle/agli altr@ attivist@.

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, siamo così compagn@ che non solo non ci poniamo alcun problema a sbranare costolette di fronte alle/ai compagn@ antispecist@, prendendol@ pure, e nemmeno velatamente, per i fondelli, ‘st@ sensibilon@, ‘st@ mollaccion@, ma soprattutto ‘st@ cagacazzi! O magari usiamo l’approccio ‘politicamente corretto’, quello del “ohmaguardachenoic’abbiamol’alternativavegana”, che ci fa sentire taaanto comprensiv@ nei confronti dei pover@ disagiat@, che insomma oh, ma fossero questi i problemi del mondo… che poi di ascoltare una volta tanto, di ragionare, di metterci il cuore e tutta la bella compagnitudine non ci passa per l’anticamera del cervello – che forse forse quel privilegio che ci stanno facendo notare, quello per cui maciulliamo vite tra i denti senza rimorso, mentre ci sentiamo taaanto virtuos@, taaanto militant@, un pò ci infastidisce, eh, ma giusto poco poco…

Alla fin fine, per quale motivo ci dovremmo rinunciare? Tanto quegli esseri inferiori che sono gli altri animali non ce li ammazzano davanti  (occhio non vede, cuore non duole!). E anzi quando possiamo e ci sentiamo particolarmente ispirat@ una bella battutona acida su faccialibro, a ‘st@ spocchios@ gentrificat@ veg non ce la facciamo mai mancare! Poi beh, ovvio che anche i veg anticapitalist@ che si dedicano all’autoproduzione sono sciroccat@, ma ti pare che con tutta la militanza che c’è da fare c’abbiamo il tempo di farci il tofu? Essù, eddai!

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, e siamo taaaanto antisessist@, così tanto che quando le compagne ci propongono la serata postporno ah, sì che siam d’accordo, w il postporno! Alla fin fine lo sappiamo, si vede la fica no, quello mica ci spiace, poi va be’,  siamo tutt@ poliamoros@, però lo sai che quella ci prova con quell’altro mentre ‘sta con il terzo, beh chiaramente è una “gran troia”, però insomma, siamo antisessist@, certo, guarda io al corteo mi vesto pure di ROSA, adooooro il bike smut. Oh, però, scusa mi viene da parlarti al maschile anche se ti fai chiamare Anna, cioè, va bé, mica è un problema no, mica sei suscettibile come ‘sti finocchi…

Siamo compagn@, eccome no!? E’ perchè siamo compagn@, tanto compagn@, che se non ti presenti agli appuntamenti militonti con un’altr@ compagn@ certificat@ non sei un cazzo di nessun@, cioè magari sì, ti ho visto ogni tanto ai cortei o alle serate,  beh anche più di qualche volta, anzi, forse avevamo pure fatto un volantino insieme, che era venuto figo, sì sì ricordo…sì ma alla fine…CHI CAZZO SEI? E come cazzo ti permetti di dire la tua, cioè forse ti sei fatt@ delle idee, ma non sei NESSUNO. Perché per essere qualcun@ devi mangiare tanta merda, un pò di sano nonnismo militante tempra gli animi e seleziona solo i più puri, quell@ che saranno davvero compagn@, senza se e senza ma.

Car@ compagn@, che pronunciate più voi la parola ‘compagn@’ che le/i quindicenn@ la parola ‘cioè’, voi siete tutto tranne che compagn@: poi vi chiedete, ogni tanto, in un barlume di coscienza, come mai si è sempre in 4 stronz@ alle iniziative… beh, fatevi una domanda e datevi una risposta.

Anzi, oggi la risposta ve la suggerisco io: perché siete davvero tanto stronz@ e ipocrit@.

 

‘Yes, we fuck!’: la rivoluzione dei corpi dissidenti

Immagine tratta da Yes we fuck!
Immagine tratta da Yes we fuck!
Articolo pubblicato su Pikara, traduzione di Lafra, revisione di feminoska.
Avete dato una possibilità a persone, spesso considerate asessuate o al contrario ipersessuali – comunque sempre posizionate in un luogo quasi inverosimile rispetto alla sessualità – di vedersi rappresentate e di essere protagoniste. State introducendo una questione importante, quella della sessualità nelle persone diversamente abili, attraverso alleanze non sempre così evidenti come quelle con la sessualità non normativa, la critica alla grassofobia, la dissidenza sessuale e il genere. Antonio, come nasce questo progetto dal nome così arrapante?
Il  titolo è una parodia dello slogan della campagna di Obama “Yes, We  can”. Volevamo usare un linguaggio esplicito e un tono divertente, ci sembrava un modo particolarmente appropriato di gettare le basi per un documentario sulla sessualità e la diversabilità. Siamo partiti alla fine del 2012 con l’idea di fare qualcosa che contribuisse a cambiare l’immaginario collettivo sulle persone diversamente abili, rendendo visibile la loro condizione di esseri sessuali e  sessuati, mostrando i loro corpi come desiderabili e desideranti.
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Avete collaborato non solo con collettivi di attivismo critico, ma anche con gruppi che fanno postporno, come Post-Op, o con progetti femministi che rivendicano, per esempio, l’eiaculazione femminile. Come sono andate queste alleanze?
Si sono rivelate esperienze inaspettate, e al tempo stesso ricche ed emozionanti. Andrea García-Santesmases, collaboratora di Yes, We  Fuck!, si è messa in contatto con Diana Pornoterrorista, che ha inserito nel libro Pornoterrorismo un capitolo sulle e sui “diversamente abili” e ci ha condotto da Post-Op, che si è offerto di realizzare un workshop di postporno e diversabilità che costituisce la prima storia del documentario. Ha rappresentato una sorta di  inaugurazione, dato che in questo incontro si è confermato quello che avevamo già intuito rispetto ai discorsi dei diversi collettivi: che condividevamo la stessa lotta per il diritto alla differenza e contro l’idea di normalità. A partire da questa esperienza, che si è rinsaldata con il workshop di eiaculazione femminile, Yes, We Fuck! si è costituito come spazio di incontro e alleanza tra differenti attivismi che fanno politica sul corpo. Mi piacerebbe evidenziare che questa visione sul vincolo tra il crip e il queer, con il quale si è arricchito moltissimo il documentario, è stata possibile solo grazie al lavoro di Andrea García-Santesmases, che oltre a realizzare i due workshop (oltre al tema della diversità intellettuale) è stato colei che ci ha costantemente orientati nella linea ideologica che avrebbe potuto renderlo possibile.

Cosa vi ha portato a privilegiare la forma del documentario invece di creare una associazione o un progetto sociale?
Non avevamo l’intenzione di essere particolarmente pedagogic@, quanto piuttosto quella di scuotere l’immaginario collettivo riguardo la sessualità e la diversabilità, e nulla risulta così potente come l’immagine esplicita. Nella nostra cultura, ciò che non si vede difficilmente si immagina.
Ripetiamo  spesso che il linguaggio è uno strumento per pensare, però come è possibile che non si conosca il termine “abilismo” allo stesso modo di altri termini quali razzismo, xenofobia, sessismo o classismo? Per chiarire, l'”abilismo” è la convinzione che alcune capacità siano intrinsecamente migliori, e che chi le possiede sia migliore del resto delle persone.
Questa assenza nel linguaggio è il segno inequivocabile di quanto questa forma d’oppressione basata sulla differenza corporea sia stata naturalizzata, per giustificare la disuguaglianza sociale che ci colpisce da tempo immemore. Siamo forse l’ultima roccaforte nella quale continua a sembrare naturale che la biologia giustifichi la disuguaglianza sociale, al contrario di quello che succede con le questioni di genere o di razza.
Sappiamo che avete all’attivo anche un crowdfunding, che cosa sperate di ottenere?
L’idea del crowdfunding è  di poter finanziare la produzione e la diffusione del documentario senza dover ricorrere a una casa di produzione classica, che quasi certamente significherebbe la perdita di un certo margine di libertà per esprimere le questioni più spinose. Una volta terminato il documentario e passata la fase di diffusione nei festival, in televisione, su internet e gli altri media, abbiamo intenzione di mantenere il sito, nel quale sia possibile continuare con la visibilizzazione dei temi relativi alle sessualità diversamente abili attraverso video amatoriali, fotografie, articoli, notizie…
Il vostro progetto vuole stimolare modi nuovi di intendere la sessualità fuori dai confini eteronormativi,  che includono –  tra le varie riflessioni emancipatorie e chiaramente generatrici di autodeterminazione – il godimento con le protesi, la degenitalizzazione e la ricerca di nuove forme di raggiungimento del piacere. Come viene accolto il vostro lavoro da parte dei movimenti di persone diversamente abili più generalisti? State incontrando resistenze?
Fino ad ora il progetto ha avuto più diffusione negli ambienti affini, come il Movimiento de Vida Independiente (Movimento per la Vita Indipendente) e altri spazi di attivismo, e li è sempre stato ben accolto. Rimane da scoprire come verrà accolto su terreni più tradizionali e di carattere maggiormente istituzionale.  Ad ogni modo, se andrà bene, ipotizziamo che entusiasmerà molt*, irriterà diverse persone e non lascerà indifferente quasi nessuno.
 Puoi saperne di più su ‘Yes, we fuck!’ visitando il sito, il canale Vimeo e appoggiando il crowdfunding.

Non c’è tempo per l’amore: il capitalismo romantico

Al sistema di produzione non importa se sei ubriaca d’amore, arrapata, triste o in lutto. Il capitalismo ci ingabbia, vuole che dedichiamo il nostro tempo al lavoro o al consumo: l’amore è improduttivo. I femminismi reclamano la conciliazione della vita lavorativa e del lavoro riproduttivo, ma abbiamo ancor più bisogno di un modello (di esistenza) compatibile con il piacere e gli affetti.

ph "signora Milton" da  Minerva Magazine
ph “signora Milton” da Minerva Magazine

Se la giornata lavorativa media,
preparazione e trasporto inclusi, è di dieci
ore, e se le esigenze biologiche di dormire e alimentarsi
richiedono altre dieci ore, il tempo libero sarà di quattro
ore ogni ventiquattro per la maggior parte della
vita di un individuo. Questo tempo libero sarà potenzialmente
disponibile per il piacere.

Herbert Marcuse, Eros e Civilizzazione

Quante ore dedichi all’amore? Non a immaginarlo, sognarlo o consumarlo nei film o romanzi, ma a viverlo. Da quanto tempo non passi ore facendo l’amore con il/la tu@ compagn@ di anni, come avveniva in principio? Quanto tempo hai per conoscere gente nuova e incontrare qualcuno che ti piace davvero? Quanto tempo hai a disposizione per avere una storia di quelle che ti sconvolgono la vita e ti sfascia gli orari?
Ne abbiamo poco. C’è poco tempo per l’amore. Per conoscersi, innamorarsi, approfondire, restare delusi, lasciarsi, ritrovarsi, tornare a innamorarsi.

Viviamo in una società molto “amorosa”: alla radio passano canzoni d’amore strappalacrime, al cinema in tutti i film c’è una storia d’amore sullo sfondo o in primo piano, le stelle dello spettacolo escono allo scoperto al telegiornale e ci presentano i/le compagn@, nelle riviste circolano gossip e pettegolezzi sulle/i personaggi famos@ che si innamorano o si separano, i social network sono pieni di gente in cerca dell’amore della vita, su Facebook veniamo a conoscenza dei matrimoni dei conoscenti, in televisione trionfano i drammi sentimentali, e con la pubblicità ci regalano paradisi romantici per venderci case, auto, mobili o deodoranti.
Tuttavia, c’è poco tempo per l’amore, Marcuse ci ha visto giusto: i minuti che dedichiamo al piacere sono molto pochi. La maggior parte del giorno lavoriamo in cambio di un salario, il tempo che ci resta è destinato al sonno e a risolvere le questioni basilari dell’igiene e della nutrizione (e altri mille obblighi della vita urbana postmoderna). Facciamo l’amore alla fine del giorno, prima di dormire, con addosso la stanchezza accumulata di un’intera giornata, e bisogna fare in fretta per finire in fretta e poter dormire sette, otto ore.

Potremmo godere di più se potessimo dedicare giorni interi a chiacchierare, a giocare, a fare l’amore, a mangiare bene, ad ascoltare buona musica in intimità con i/le nostr@ compagn@. Ma gli orari che abbiamo non sono fatti per rilassarci e per godere pienamente dell’amore.
Le nostre agende sono sempre piene di cose da fare, dopo aver lavorato otto ore e averne perse almeno altre due per tornare a casa o spostarsi in qualsiasi altro luogo: andare in palestra, al corso di yoga, portare a spasso il cane, seguire l’assemblea del proprio collettivo, incontrarsi con le amiche dell’università, portare il gatto dal veterinario, lavare la pila di piatti e padelle sudicie, andare dal dentista, rispondere alle mail, fare la spesa settimanale, bagnare le piante, portare ad aggiustare dei pantaloni, andare dallo psicologo, fare la lavatrice, riordinare e pulire, fare la cena o da mangiare per il giorno dopo, parlare su skype con tua sorella che vive all’estero, rispondere alle telefonate o ai whatsapp, depilarti le gambe e i baffetti, controllare la pagella delle/i figli@, partecipare alla riunione di condominio, passare alla posta, andare in banca, portare la bambina a informatica e dopo a inglese, portare ad aggiustare gli occhiali del bambino dall’ottico, portare il computer dal tecnico per farlo aggiustare, fare i conti e sistemare le fatture, studiare qualcosa che ci permetta di crescere o migliorarci professionalmente…

Sì, i nostri obblighi quotidiani sono estenuanti e alla fine del giorno crolliamo sul divano per leggere, vedere la tv o navigare in internet e dimenticarci un po’ le nostre preoccupazioni. In questi momenti forse ci resta solo un’ora utile di vita prima di cadere tra le braccia di Morfeo, e la stanchezza non ci bendispone alle acrobazie in camera da letto con la nostra compagna o il nostro compagno. Secondo la maggior parte delle statistiche, i giorni nei quali le persone si dedicano al sesso sono i fine settimana che, come tutti sappiamo, sono troppo corti per fare tutto quello che una desidererebbe fare: vivere la vita.
Il tempo ci sfugge dalle mani. E lo malediciamo quando ci accorgiamo che sono passati millenni senza vedere la tale amica o senza andare a far visita alla nonna, o senza incontrare la compagnia dell’università. O quando assistiamo a un funerale e ci diciamo: “Cerchiamo di vederci di più, dobbiamo incontrarci anche nelle occasioni allegre”.

La tirannia del tempo che ci sfugge si stempera quando ci innamoriamo selvaggiamente. Ci liberiamo quando l’euforia dell’innamoramento confonde la nostra percezione e relazione con il tempo, come accade con le droghe. Smettiamo di guardare l’orologio, le intense notti d’amore si fanno corte, gli istanti sublimi congelano il tempo e ci fanno etern@.
Sì, l’amore ci fa dee del tempo: sotto l’influsso della passione siamo capaci di assaporare ogni secondo d’amore, acciuffare il presente con le nostre mani, vivere l’ora con una intensità brutale. Il tempo non scorre più allora inesorabile, secondo per secondo verso il futuro, a un ritmo monotono e implacabile. I secondi sembrano ore, le ore minuti: il tempo rallenta (quando aspettiamo una telefonata o il giorno del prossimo appuntamento) o si accelera (quando siamo immerse in momenti d’amor folle), e la vita è più emozionante perché la nostra percezione della realtà si confonde.

Anche il nostro organismo si sconvolge e acquisisce dei superpoteri. La chimica dell’amore è così forte che siamo capaci di passare notti intere senza dormire unit@ alla persona amata, e giorno dopo giorno lavorare e portare a termine i propri impegni come se niente fosse: solo ti tradisce un sorriso permanente sulla faccia, le orecchie arrossate, la pelle luminosa e i capelli lucidi. Di notte ti aspetta un’altra sorpresa, e ti senti capace di tutto: ci riempiamo di energie cosmiche per vivere il presente intensamente.
Quando passa l’ubrichezza dell’amore e torniamo alla vita reale, perdiamo i superpoteri che ci facevano fare l’amore per ore e il corpo risponde male alla mancanza di sonno. Con l’andare dei mesi e degli anni, le coppie si orientano più alle attività sociali che all’intimità, ed è difficile per molti ricostruire questi spazi intimi pieni di magia che fermano il tempo. Sicché, c’è gente che si lamenta che scopiamo di fretta, che scopiamo senza voglia, che scopiamo stanche, che scopiamo poco o non scopiamo affatto.

Se già è difficile ritagliare tempo e spazio da condividere con il/la partner, si immaginino le persone che hanno amanti, o quelle che hanno più compagn@: durante la giornata è quasi impossibile trovare momenti da dedicare all’amore senza guardare l’orologio. Le coppie di adulti possono godere di appena un’ora o due (non c’è tempo per nulla di più), ma anche la gente poliamorosa si trova in difficoltà, perché manca il tempo per avere più compagn@ contemporaneamente: il fine settimana ha solo due notti e tre giorni che volano. Sì, è difficile essere poliamorosa con i tempi che corrono, se vuoi dedicare a tutte le relazioni tempo di qualità, se vuoi godere intensamente della tua vita sociale (la tua comunità, la tua tribù, il tuo vicinato, la tua famiglia), e se hai anche necessità di tempo e spazio da goderti in solitudine.

Viviamo in un sistema produttivo che ci incatena 40 ore settimanali a un lavoro che ci dà un salario generalmente precario (sono molte le persone che fanno 50 o 60 ore settimanali sottraendo ore di sonno o di vita in cambio di niente o di molto poco). Alle imprese non solo diamo molto tempo della nostra vita, ma anche le nostre energie fisiche, mentali ed emozionali. Quant@ di voi hanno dovuto trascinarsi dolorosamente fuori dal letto per andare a lavoro, sentendo che stavate lasciando un po’ di vita nel letto d’amore? Quante persone hanno mai saltato il lavoro perché innamorate o innamorati? Quante volte hai desiderato startene tra le lenzuola a giocare, mentre guardi fuori dalla finestra e conti le ore che ti restano per andartene dal tuo luogo di lavoro? Quante volte hai perduto la concentrazione a lavoro a causa di un amore che ti sta aspettando a casa sua, mentre ti prepara la cena, non riuscendo a finire il tuo lavoro?

Il capitalismo ci ingabbia, anche se non siamo produttive. Al capitalismo non importa se sei ubriaca d’amore, felice, euforica, esultante, arrapata, preoccupata, angustiata, disperata, triste, ansiosa, arrabbiata. Al capitalismo non importa se la tua compagna è in ospedale e tu vuoi accompagnarla e starle accanto. Non importa se devi fare un discorso serio con il/a tu@ compagn@, se soffri per una rottura sentimentale, se vuoi fare compagnia a un’amica o un amico nei momenti difficili. Non gli importa e tu devi andare a lavorare, anche se tua nonna sta morendo. Non gli importa se non hai dormito quella notte a causa dell’influenza di tua figlia o se hai passato la notte godendo lussuriosamente. Tu devi stare lì, adempiere al tuo dovere, anche se non sei produttiva e non rendi niente quel giorno. Se te ne stai per i fatti tuoi è lo stesso. Non puoi permetterti il lusso, in generale, di prenderti alcuni giorni per le tue faccende emozionali, perché allora questo mese non mangi. La catena di produzione non può fermarsi a causa dei tuoi sentimenti e al capitalismo conviene che non si sia troppo felici: la nostra insoddisfazione permanente e il nostro dolore ci rendono più vulnerabili. Cosicché lo sfruttamento delle nostre energie e del nostro tempo è brutale, perché va oltre la questione produttiva. Viviamo in una società repressiva alla quale conviene limitare l’accesso al piacere, all’amore, al gioco e al divertimento. E’ preferibile che ci si diverta consumando, o che si dedichi il proprio tempo al lavoro: l’amore è improduttivo. Poco redditizio.

C’è poco tempo per l’amore, e a volte poche energie. L’innamoramento passionale non è eterno: il nostro cervello e il cuore non possono stare innamorati per anni: è estenuante produrre questo livello di endorfine e anfetamine tutto il tempo. Inoltre il romanticismo resta sempre schiacciato dala tirannia degli orari, della routine, degli obblighi. Molte coppie si disinnamorano perché passano poco tempo assieme: tempo di qualità, tempo senza limiti, tempo per l’amore e l’erotismo.
Oltre a non aver tempo per vivere storie d’amore, non ne abbiamo nemmeno per goderci le nostre figlie e i nostri figli, le persone che amiamo, gli animali domestici: passiamo la maggior parte del giorno fuori casa, producendo per arricchire altre persone che in realtà non avrebbero bisogno di tenerci tante ore lì.

I femminismi reclamano la conciliazione di vita lavorativa e familiare: le otto ore di lavoro quotidiano sono incompatibili con la cura dei bambini, dei malati o degli anziani. E risulta che il 90% delle persone che si dedicano a ruoli di cura nel mondo siano donne. Alcune devono rinunciare all’autonomia economica e al mercato del lavoro, altre si fanno carico di una doppia giornata di lavoro.

Ci sono paesi in cui i lavoratori non hanno diritto alle vacanze pagate (al massimo due settimane all’anno, non pagate), ma ce ne sono altri come l’Islanda o la Svezia che sperimentano nuove misure per migliorare la qualità della vita dei propri abitanti. Nel caso della Svezia, si pensa che non sia il tempo a determinare il livello dell’efficienza lavorativa, ma la motivazione e il benessere delle e dei lavoratori.
E’ stato deciso di introdurre una giornata lavorativa di sei ore senza riduzione di salario, la qual cosa sembra aumentare il livello di soddisfazione, rispetto al lavoro, degli svedesi e delle svedesi; inoltre, migliora la produttività, aumenta il risparmio statale e permette di creare più posti di lavoro. Posso immaginare quanto siano felici le lavoratrici municipali nel conquistare un’ora di vita per amici e amiche, per la famiglia, per la comunità, per gli hobby, per sé stesse, per il proprio tempo di riposo e ozio.

Il tempo è oro: le nostre vite sono molto brevi e abbiamo bisogno di un sistema produttivo più vicino alle nostre necessità vitali, individuali e collettive. Il capitalismo romantico ci regala molti finali felici mentre ci ruba ore di vita: abbiamo bisogno di recuperare il nostro tempo e le energie per goderci la vita.
Necessitiamo di tempo per amare, per godere del piacere in tutta la sua ricchezza. Tempo per ascoltare, per viaggiare, per conoscere, per condividere, per costruire comunità con gli altri. Tempo per aiutare, creare reti, celebrare, apprendere, creare. Tempo per coltivare e nutrire l’unica cosa che sembra dare un po’ di senso alla vita: gli affetti.

Testo originale Sin tiempo para el amor: el capitalismo romántico di Coral Herrera Gómez, da pikaramagazine.com. Traduzione Serbilla, revisione feminoska.

L’umano e il selvatico

cinghiali-branco1L’animale umano ha l’incessante bisogno di rimodellare tutto ciò che lo circonda in modo da renderlo affrontabile, e superabile. La visione antropocentrica è talmente connaturata in noi da non permetterci di accettare, se non con grande sforzo, un mondo che spazi oltre la nostra vista.

Cerchiamo di plasmare l’ambiente che ci circonda in modo rassicurante, contenuto, limitato. E là dove non riusciamo ad arrivare erigiamo un muro, un confine che segni quello che è controllabile da quello che non lo è, e che il più delle volte non reputiamo degno di esistere.

In questa nostro incessante ossessione incontriamo un ostacolo faticosamente aggirabile, ma non abbattibile. Sarebbe così semplice accettare l’ineluttabilità del nostro essere animali invece che arroccarci sull’indispensabilità del nostro essere Umani.

Il mondo che ci circonda non è a nostra misura.

E’ triste, avvilente, assistere ai raccapriccianti tentativi che l’animale umano fa per piegare il mondo al suo volere, quasi sempre, per fortuna, fallimentari.

Ciò che sgomenta è la scia di vittime collaterali della nostra ossessione, che ci lasciamo le spalle in numeri inconcepibili; e ogni giorno tentiamo e ogni giorno falliamo.

Eppure siamo ancora capaci di stupirci, di sorprenderci di qualcosa che inaspettatamente si presenta ai nostri occhi, salvo poi, il più delle volte, attuare in modo automatico meccanismi che ci portano a trasformare la sorpresa in paura, la paura in rabbia e quest’ultima in morte, sterminio.

Gli animali rompono il confine del ‘nostro’ ingombrante, rumoroso e avvelenato spazio: sempre più animali definiti ‘nocivi’ si affacciano alle nostre porte, così come i vegetali rompono il confine del nostro tempo, abbattendo i muri che lentamente ci sforziamo di ricreare. Questo è inaccettabile, e va combattuto con ogni mezzo, fino all’estinzione. Eppure eccoli lì, che ritornano in un’invasione silenziosa, ad incalzarci nel nostro annaspante controllo, fragili ma allo stesso tempo invincibili. E allora perché non arrenderci all’evidenza ed imparare quanto il mondo che ci circonda può insegnarci?

Ma soprattutto, come possiamo continuare ad imporre al mondo che ci circonda i nostri confini, i nostri muri sempre più alti? Voliere, gabbie, recinti indorati da una falsa compassione e ‘amore’. L’animale umano ha alzato il proprio sguardo e si è illuso di riuscire a vedere più lontano, ma non potrà mai osservare il mondo con gli occhi dell’aquila, capire cosa significa librarsi sulle correnti ascensionali a centinaia di metri d’altezza. Non potrà mai vivere l’acqua come sa fare un pinguino, un’orca o un delfino. Percepire la foresta come può farlo un cinghiale o una volpe.

Quando accetteremo i nostri limiti forse cominceremo a non imporli a chi non li ha, privandoli della libertà.

 

 

Deconstructing l’assenza della speranza (Zecchi 2)

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Tra le cose più belle dello stare in un collettivo politico è che dopo un po’ gli altri capiscono i tuoi gusti, e si divertono a passarti cose da leggere ben sapendo l’effetto che ti fanno. Alcun* dentro Intersezioni, saputa la mia stima per Zecchi e quanto la cosa mi tocchi sul personale, si sono affrettat* a linkarmi quest’altra perla. Anche in questo caso, che dirvi: non ho saputo resistere.
Vi ricordo che parliamo di un professore ordinario di filosofia in una delle più note e grandi università italiane. Ciascuno ha diritto alla propria opinione, e ci mancherebbe; ma se con quei titoli di studio spari di queste robe sui giornali, siamo andati ben oltre quel diritto, credo. Questa roba fa male. A tutti.

Mai così pochi nati in Italia

E io do la colpa alle donne [il buongiorno si vede dal mattino]

Se andiamo avanti di questo passo, saranno soltanto le coppie gay a volere dei figli, così si darà ancora maggiore sviluppo all’indecente mercato degli uteri in affitto [cominciamo così, con un po’ di sprezzante omofobia tanto per far capire da che parte stiamo. Segnatevi che qui il problema è volere dei figli, e che quello degli uteri in affitto è un mercato già sviluppato, perché riceverebbe un maggiore sviluppo rispetto alla sua dimensione attuale. E non è chiaro perché solo le coppie gay li vorrebbero].

I dati sono sconcertanti: cinquemila nati in meno rispetto all’anno scorso per un totale di 509 mila nascite, il livello minimo dall’Unità d’Italia [il dato che fa sobbalzare il nostro profordinario, da solo, come tutti i dati, non dice niente. Per esempio, la popolazione italiana cresce costantemente; ci sarebbe da riflettere su queste due cose insieme, no? No, a lui basta questo. E che le coppie gay, inspiegabilmente, vogliono figli].

Facile individuare il colpevole di questo record negativo nella crisi economica che stiamo attraversando da troppi anni. E non ci si sbaglia: tuttavia non tutte le colpe sono sue [la crisi non fa fare figli ma fa aumentare la popolazione. Ecco la terribile forza del capitalismo: gli sfruttati li crea dal nulla! Ma cerchiamo il vero colpevole].

Figli significano costruzione di una famiglia, e una famiglia vuol dire casa [sì, magari], ma per avere una casa generalmente c’è bisogno di un mutuo [un generalmente che puzza un po’, ma andiamo avanti – non vi dimenticate le coppie gay eh] che le banche concedono se si ha un lavoro fisso [non è così semplice, ma vediamo tutto questo semplificare a cosa porta]. Un vero e proprio percorso ad ostacoli [ah, questo è il percorso a ostacoli? E chi aspetta un alloggio pubblico? Chi è in affitto? Chi occupa? E chi è una coppia gay?], in cui è arduo arrivare alla meta. La casa, dopo la sconsiderata politica di Monti [il problema del mercato immobiliare italiano, dell’accesso a un alloggio civile per tutte le fasce di reddito, è Monti? Gentile profordinario, vuol proporre questa lettura microeconomica a qualcuno de Il Sole 24 Ore? Vorremmo sentire le risate anche da qui, grazie], sta diventando un miraggio per il suo costo devastante, e un lavoro fisso è un sogno se soltanto si osservano distrattamente i dati sulla disoccupazione giovanile [giovanile: sopra i 35 anni tutti hanno un contratto, e il problema di mantenere dei figli è diverso dal volere dei figli. Lucidissimo come sempre].

La sintesi di questa breve descrizione, con cui metto le mani avanti per sottolineare che non mi sfuggono le questioni economiche che falcidiano le nascite [ah, beh, una sintesi che Federico Caffè le invidierebbe], è che rinunciare ad avere figli sembrerebbe un atteggiamento molto responsabile [sì, se c’hai le pezze al culo. No, se sei un profordinario all’università. Capita l’antifona? E badate bene: quando serve il problema è volere dei figli, oppure costruzione di una famiglia. In entrambi i casi, delle coppie gay non si fa più parola]. Mettere al mondo dei disgraziati, figli di altri disgraziati, che senso ha? Un minimo di responsabilità farebbero pensare che famiglia e figli siano un lusso che non ci si può sensatamente permettere [dell’amore e della volontà che servono, manco una parola, visto che allora dovrebbero pensarci le strutture pubbliche, come da garanzie e princìpi dagli artt. 3 e 4 della nostra Costituzione. Che può non piacere, ma vige anche per i profordinari e i loro deliri classisti – e anche per le coppie gay].

Si guardino anche gli extra comunitari, che filiavano allegramente [ma che bel luogo comune razzista] tanto che qualcuno temeva una rapida diffusione del meticciato [fa bene vedere i profordinari di filosofia avere, tra le loro fonti, la Lega prima maniera]. Anche loro, stando alle ultime statistiche, sono molto contenuti, quasi fossero stati contagiati dal nostro virus della non-natalità [noi, loro, che belle parole – dunque non figliano più manco gli extracomunitari, e allora com’è che siamo sessanta milioni e continuiamo ad aumentare? E parlo di censimento eh, i disgraziati – quelli sì, per davvero – salvati dal mare non contano mica].

Però, chiediamoci adesso se sia soltanto il forte disagio economico ciò che frena o perfino annulla il desiderio di avere figli? [Attenti,  malgrado la sintassi adesso il profordinario ci stupirà.]

Dall’Unità d’Italia ad oggi sono stati numerosi i periodi di crisi economica attraversati dalla nostra gente [la nostra gente, mica gli extracomunitari. Caro profordinario di filosofia, lo sa che S.Agostino era extracomunitario? Così, tanto per dire]. Chi ha un po’ di anni si ricorderà, per averlo vissuto direttamente, il dopoguerra: non erano rose e fiori, eppure si costruivano famiglie, nascevano bambini [mica perché gli adulti erano morti a milioni, no; e mica perché serviva forza lavoro per fare qualunque cosa in un paese distrutto da una guerra persa, devastato dai combattimenti sul suo territorio e svenato da vent’anni di regime economicamente folle]. Allora, credo, che alla base di questo disastro che sta distruggendo la natalità ci sia dell’altro, non solo la mancanza di quattrini [che bel gergo classista: a lui non manca il lavoro, le possibilità, le certezze in un aiuto pubblico: lui parla di quattrini. Ma quanto è sgradevole questa parola? Ma che ne sa di parole lui, è un profordinario di filosofia].

La donna è la prima, fondamentale protagonista della procreazione [ZACCHETE! V’ha preso in contropiede, eh? Voi stavate lì a fare discorsi di economia, e lui bum! Ci piazza la femmina]. Ma essere madre non rappresenta più un valore alto, significativo, centro di sviluppo dell’identità femminile [e te credo, oltre alla guerra ti dovresti ricordare il femminismo e gli anni ’70. O dormivi?]. Sono numerose le riflessioni che intendono affermare come per una donna, il non avere figli sia un peso esistenziale in meno, che consente di stare meglio [no, il discorso è che quella è una scelta, non per forza uno stare meglio, ma una scelta da compiere liberamente. Se ti ricordi il dopoguerra, ti dovresti ricordare pure queste riflessioni, che non erano tanto peregrine].

A questo, si aggiunga che l’idea stessa di famiglia «normale», con un padre e una madre e dei figli, non rappresenta un obbiettivo sociale da perseguire e difendere [a parte lo schifo dell’idea di “normalità”, ma perché una famiglia dovrebbe essere un obbiettivo sociale? Non è che la fai e poi ti fermi lì, mica basta quello – tenendo conto che i figli non escono dal tuo, di corpo, e che non te li smazzi tu per parecchi anni, caro il mio papà che ha vissuto il dopoguerra]. Non c’è una politica della famiglia capace di facilitare economicamente la sua costituzione attraverso asili nido e condizioni lavorative favorevoli per le nuove madri. Non c’è il valore culturale della famiglia [quelli sono diritti delle donne, no politica della famiglia, ipocrita che non sei altro: al nido e alle condizioni lavorative favorevoli si ha diritto anche da sole, e da soli. O per te dovrebbero valere solo per una famiglia “normale”? Complimenti, alla puzza di razzismo s’aggiunge l’afrore di sessismo. Altro?].

Ma ciò di cui sono stati defraudati in modo violento i giovani, è la speranza [beh, se all’università si trovano profordinari come te…]. Manca il sentimento del futuro, l’amore per il progetto perché è prevalsa una visione coercitiva della quotidianità [rammento a tutti che secondo il titolo sarebbe colpa delle donne, della visione coercitiva della quotidianità. Non di chi ragiona solo di quattrini]. Quella responsabilità, di cui parlavo in precedenza, che consiglierebbe molta prudenza nel mettere al mondo i figli, in realtà nasce dall’assenza della speranza [ma se c’hai rotto le scatole per mezzo articolo che il problema è economico! E poi: perché questa assenza della speranza colpirebbe solo le donne?], di quello slancio che porta a credere nel domani [oh, Zecchi, lascia la bottiglia e ragiona: se manca tutto ‘sto slancio che porta a credere nel domani, com’è che la popolazione italiana aumenta? Sono comprati su Ebay tutti ‘st’italiani? O forse il problema è un pochino più complesso, e non andrebbe risolto in un articolo tutto fuffa, razzismi e banalità?] e che rappresenta l’unico vero lievito della vita. Il nutrimento della vita sono i figli [citazione del maresciallo La Palice, immagino], e le statistiche sul disastro della natalità dovrebbero essere il primo, fondamentale problema della politica: se non viene risolto, tutto il resto è solo dettaglio [il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni e l’ignoranza economica e sociologica del profordinario sono solo dettaglio].

Ma che ne so io, io c’ho due figli e un mutuo, vedi come sono irresponsabile. Però pieno di speranza.

A Zecchi, ma famme ‘na grossa cortesia.

#ioleggoperché non mi piace

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In questi giorni si sente parlare di #ioleggoperché, iniziativa nata per mano dell’Associazione Italiana degli Editori. Ammirevole, no? Qualcuno si preoccupa dello stato della cultura in Italia. Un po’ come se la Monsanto organizzasse una convention di tre giorni sul mangiar sano con tanto di stand atti alla diffusione di intingoli vari: un vero e proprio festival dell’assenza del conflitto d’interesse. Questa giornata sembrerebbe glissare senza ritegno sul perché le persone in Italia non leggono; si limita a dare la non-lettura come dato assodato. Qualcuno si domanderà se uno, per costruire iniziative, debba necessariamente preoccuparsi di massimi sistemi. La risposta è sì, per forza, specie quando nel farlo si diffonde la retorica subliminale che l’atto di non acquistare carta implica necessariamente non acculturarsi in nessuna maniera, che in qualche maniera la quantità dei libri venduti sia un dato di importanza equivalente alla qualità degli stessi e che l’assenza di passione letteraria collettiva origina da una specie di bifolcaggine innata propria degli autoctoni della penisola. Italiani e italiane non leggono, ok, ma per quali motivi?

Perché non possono, direi. I costi dell’editoria sono decisamente eccessivi per le tasche vuote e semivuote. Sto forse dicendo che editing, traduzione e grafica editoriale non dovrebbero essere attività retribuite? Certo che no, ma il problema è che non lo sono neanche con i prezzi disumani che ci sono ora, visto che il grosso della moneta va alla distribuzione: qualcosa non va. Per quanto il privilegio economico, considerevole o relativo, imponga le fette di prosciutto su occhi orecchie ed empatia, ebbene sì, esiste chi si trova in questa situazione, e non si tratta nemmeno di un paio di persone. Fino a qualche tempo fa genitori e parenti facevano da ammortizzatore sociale consentendo un regime di economia ristretto ma non troppo che lascia spazio al tomo occasionale; adesso che il lavoro l’hanno perso anche loro viene meno anche questa possibilità. Un cosiddetto lettore forte col portafogli in buona salute spenderebbe senz’altro, ma quando si ritrova a vivere con altre tre persone barcamenandosi con l’unico reddito esistente presso quel domicilio, una pensione da 800 euro, tolti 600 di bollette e pendenze economiche di varia natura ne rimangono sì e no 200 che dovranno sopperire alla necessità di cibarie, medicinali, spese accessorie. Il nostro “lettore forte” inevitabilmente smette di acquistare libri, poiché costretto a scegliere tra Carlo Emilio Gadda e un piatto di pasta, riconosce quest’ultimo come più funzionale alla sua sopravvivenza fisiologica, necessità non soddisfatta in modo alcuno da etti di cellulosa inchiostrata. Le conseguenze sono evidenti: il nostro “lettore forte” passa dall’acquisto di una quindicina di volumi l’anno a zero, al massimo uno, due, forse tre. Replicando la stessa situazione su scala industriale ne conveniamo che parlare dei bilanci dell’editoria senza tenere conto del contesto economico in cui quella si muove è cosa profondamente insensata. Non possono anche perché coloro che tutto sommato hanno la vaga fortuna di non essere ancora ritornati a casa di mamma e papà a sfogliare compulsivamente siti di annunci alternando ore di ripetizioni e attacchi di panico, di solito hanno un qualche impiego, immancabilmente precario, che porta via loro una quantità folle di tempo ed energie. Dopo ore e ore di servizio ai tavoli, di attività da promoter e di sollevamento scatoloni in magazzino, l’istinto vitale tende a trasportare corpi verso il divano, non verso la Feltrinelli.

Perché non vogliono, aggiungerei. Fin dalla più tenera età l’avvicinamento alla lettura lo si subisce senza neanche remotamente viverlo in maniera autentica e men che meno goderselo. La scuola italiana è particolarmente efficace nell’educare (nel senso di “infilare nei crani approcci al vivere malsani ma socialmente accettati”) e disciplinare (verbo che, tradotto dal burocratese all’italiano, significa “trattare come dei carcerati”) ma non si può dire lo stesso della sua attività di accensione di scintille culturali. Non ho mai conosciuto finora nessun essere vivente avvicinatosi all’ossessione narrativa o saggistica tramite l’acquisizione cognitiva di pagine nozionistiche sui classici della letteratura italiana di qualche secolo fa. L’effetto sortito, di norma, è invece la nascita di intenzioni omicide nei confronti delle proprie letture obbligate, che non hanno sfogo solo perché nei programmi scolastici sembrano avere cittadinanza quasi soltanto autori già decomposti. I quali, a rigor di logica, non possono decedere per più di una volta. Ma solo biologicamente: l’attività di uccisione spirituale è pratica quotidiana, di demanio e competenza del ministero dell’istruzione.

“Pronti a tutto per conquistarvi”, dicono. Anche a cambiare i presupposti del paese e del mondo in cui vivete? Anche a smettere di piangere miseria se Amazon ha un bilancio più roseo del solito, specie se in alternativa gli proponete altre grandi catene, quindi nulla di sostanzialmente diverso, e non le librerie indipendenti? Anche a farla finita col feticismo elitario e gratuito per l’odore della carta, come se la piattaforma su cui si legge fosse qualcosa di davvero rilevante? Anche a dichiarare guerra al classismo editoriale? In attesa di una risposta, vado a leggere.

La grassofobia di Siani non ci fa ridere

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Solo pochi mesi fa, a ottobre 2014, un ragazzino partenopeo è stato stuprato con un tubo ad aria compressa, da alcuni “amici” più grandi di lui, di cui uno già padre. “Guarda come sei grasso, ora ti gonfio ancora un po’” ha detto lo stupratore più che maggiorenne. E’ stato stuprato perché a una persona grassa si può dire e fare qualsiasi cosa, come a tutti i soggetti stigmatizzati. Salvatore, al quale la violenza ha causato gravissimi danni fisici e psicologici, mettendo in pericolo la sua stessa vita, aveva 14 anni, pochi di più di quelli che sembra avere il ragazzino che ieri sera, durante il festival di Sanremo, Alessandro Siani ha bullizzato in mondo visione.
Chissà quante volte quel ragazzino l’hanno preso in giro per il suo aspetto, chissà se ha pianto, se ha urlato, se ha scalciato, se ha pensato di non valere niente perché sovrappeso. Adesso, grazie a Siani, che dopo lo ha anche usato per schermirsi dalle immediate critiche, facendosi fotografare con lui sorridente (capirai, un bambino sorride se un adulto famoso e “simpatico” gli dice: “Facciamo una foto assieme”); adesso grazie a Siani, nessuno potrà dire: lascia stare questo ragazzino, non permetterti di sfotterlo! Lui stesso come si difenderà dai bulli?
Se lo ha fatto Alessandro Siani in televisione, se lo ha fatto uno dei “comici” sicuramente più noti tra i compagni di quel ragazzino, perché qualcuno dovrebbe trattenersi? E quindi Siani gli ha regalato una pioggia di “chiattone” e “pall’e ladr'”,”ci entri nella poltrona?”, in coro a scuola,  a calcetto e in spiaggia, senza provare nemmeno un poco di ritegno. “Te l’ha detto pure Siani che pari una comitiva“. E tra sfottere, spintonare, calare i pantaloni e infilare un tubo nell’ano, quanti passi ci sono? Siani se l’è chiesto mentre bullizzava un bambino?
Scusarsi dopo, dopo una battuta sessista, razzista o grassofobica/ponderalista, non serve a niente, perché la forza della situazione derisoria resta tutta lì, nella cultura di riferimento, nelle menti di chi ascolta e sul corpo della persona presa di mira. Quello che Siani prova per i grassi è odio allo stato puro, li odia e li usa nei suoi spettacoli e nei suoi film, come nota chi li guarda. Oh sì, possiamo dire: almeno si è scusato, ma gradiremmo avere a che fare con persone all’altezza di un palco, qualsiasi palco, televisivo, cinematografico, radiofonico o giornalistico che sia.

E i ponderalisti che sputano dignosi sullo stato di salute di una persona grassa adulta o bambina, dovrebbero chiedersi se, nel caso in cui si trattasse di un problema di salute, troverebbero normale e corretto dire a una persona, un bambino, con un tumore all’occhio “guagliò tiene na patana ‘nfront” (“ragazzo hai una patata sulla fronte”) oppure “te trasene e lent’?” (“riesci a infilarti gli occhiali?”).

Attenzione alla genderdittatura – Deconstructing Zecchi

Police 09802 Policeman

Sì lo so, è facile divertirsi a decostruire “Avvenire”. In questo caso non so veramente resistere: Stefano Zecchi ha scritto cose molto belle sulle quali ho studiato – roba di Estetica, non vi state a preoccupare – e poi ha scelto un rincretinimento mainstream adatto a una carriera televisiva tutta fuffa e letteratura amena. Il suo esempio mi è molto utile: dimostra come anche un ordinario di filosofia riesca a dire delle panzane clamorose se il suo obiettivo – piacere a un vasto pubblico – è sufficientemente ipocrita. L’articolo è questo.

Zecchi: «Vigilare sui figli
Il gender è la nuova dittatura»

Si dice «d’accordissimo» che l’educazione comprenda anche il tema dell’omosessualità e che nessuna discriminazione sia accettabile, soprattutto a scuola, «ma [lo avete riconosciuto? E’ il noto “non sono razzista ma”] il trasformare questa convinzione in una battaglia politica è mistificatorio è violento nei confronti dei bambini [certo, non va fatta diventare una battaglia politica. Sono cose che ti devi tenere per te: sei favorevole alla parità dei diritti? Tienitelo per te]. Occorre reagire, là dove è possibile bisogna creare argini di confronto pacifico [notate bene, pacifico, perché di solito chi si batte per i diritti di tutti è violento. Visto quanto ci vuole poco a fare passare un’idea falsa e tendenziosa?]». Tra i genitori sconcertati dalle linee guida dell’Unar (i tre ormai famigerati volumi dedicati alle scuole elementari, medie e superiori, poi ritirati dal web) e dall’ideologia del gender imposta come indottrinamento fin dalla tenera età [ma sì, diciamolo, chissenefrega se è vero], c’è Stefano Zecchi, ordinario di Filosofia alla Statale di Milano e scrittore, ma anche [ma anche, attenzione, ciò che lo qualifica a parlare di un fantomatico “gender” è questo] padre di un bimbo di 10 anni.

Fiabe gay alle materne, problemini di aritmetica con personaggi omosessuali alle elementari, narrativa e film transgender alle superiori, la parole padre e madre cancellate dai moduli… Come si arriva a questo? A chi giova? [ma soprattutto: una cosa detta male e tre panzane, come si arriva a qualificarsi giornalisti potendo fare domande così?]
Ci sono due livelli di ragionamento [attenzione eh, vi voglio svegli. Pronti? Via]. Il primo è culturale filosofico, il secondo più pedagogico. Oggi in politica c’è una forte difficoltà a dare un senso culturale alle proprie differenziazioni [che cacchio vuol dire? Che sono ordinario di filosofia, quindi i paroloni non li spiego], così il laicismo proprio della sinistra ha trasportato il suo armamentario ideologico [il laicismo è una ideologia? Ho capito bene, Zecchi?] nel tema dell’abolizione dei generi [abolizione dei generi? Magari! Ma quando mai? Al massimo si parla della loro esistenza – Zecchi, sicuro di avere le idee chiare?]. Dire che i generi non sono più maschio e femmina ma addirittura 56 tipi diversi diventa la battaglia per un’identità politica [premesso che nessuno dice che non sono più quelli, ma forse che ce ne sono altri, certo che se parlo di persone di cui solitamente s’ignorano i diritti faccio una battaglia per un’identità politica: quello gli viene negato, mica è colpa loro!]. Come prima credevano sinceramente che il comunismo salvasse il genere umano e si riconoscevano nella moralità ineccepibile, così oggi sostengono che il gender salva dall’abbrutimento [complimenti per il sillogismo e per la catena causale, e per la corretta identificazione del laicismo proprio della sinistra]. Ma così la politica diventa biologismo, selezione della specie, darwinismo deteriore. Basta leggere i loro testi [quali? Loro di chi? Nomi, titoli? Se lo ricorda come si fa un testo attendibile, vero Zecchi, e come ci si riferisce correttamente alle cose altrui. Qui su Avvenire non vale?].

E sul piano pedagogico? La scuola è particolarmente nel mirino di queste folli ideologie. [il perché sono folli lo dovreste aver letto sopra eh]
È giusto che l’educazione comprenda anche l’omosessualità e soprattutto il rispetto delle differenze, ma senza portare il tema sotto le bandiere mistificatorie che vedo oggi. Una cosa è il dato biologico, altro è la sovrastruttura culturale: un giorno arriveremo a difendere il pedofilo, in fondo è un uomo che persegue una sua preferenza sessuale, e addirittura l’incesto… [queste quattro righe vanno lasciate così, senza commento, complimentandosi per lo sfoggio di vile ignoranza e di sinistra volontà di mistificare – sì, le uniche bandiere mistificatorie che si vedono in giro sono quelle di questi tizi ossequiosi a un potere che gli fa comodo]

La libertà di educazione per i propri figli è un principio costituzionale. Eppure oggi è minato da una “educazione di Stato” che gli ideologi del gender vorrebbero imporre. [notate il metodo: ciò che andrebbe dimostrato è dato per acquisito nelle domande. Quali ideologi? Quale imposizione? Non è mai detto, basta dare per scontato che esistono entrambi]
È chiaro che più si sa e meglio è, è persino banale dirlo, ma chi deve sapere? I docenti. Devono essere formati bene per prevenire ogni forma di bullismo, che crea vere tragedie personali [notate ancora: in mezzo si buttano argomenti con i quali è impossibile non essere d’accordo, come la lotta al bullismo], e fare mediazione tra le sensibilità della classe. Ma lasciate in pace i bambini: su di loro si sta esercitando un’ideologia violenta che non dovrebbe nemmeno lambirli [di nuovo: dove? Come? Come se fosse stato già dimostrato. Invece no]. D’altra parte è tipico dei regimi, che come prima cosa si appropriano delle scuole: questo sta diventando un regime [EH? Un regime gay? E dove sono le milizie armate di boa di struzzo che marciano al suono di You make me feel mighty real?] e infatti tutti hanno paura di reagire, anche solo dire che il padre è un uomo e la madre una donna è diventato un atto di “coraggio” [com’è noto, le milizie gay sono ovunque pronte a colpire con i loro dildoni d’ebano i poveri etero che tentano di sopravvivere]. Siamo al grottesco [sì, se un ordinario di filosofia spara ‘ste scemenze e ci crede pure, sì, siamo al grottesco].

Eppure alcune scuole si adeguano subito: via le fiabe perché il principe ama la principessa, via anche la festa del papà (chissà perché della mamma no)… [come al solito, non vi aspettate link: a saperle davvero, le cose, si scoprirebbe che non sono andate proprio così. Ma che ce frega, siamo il giornale della Cei, se Google ci contraddice noi lo scomunichiamo]
È il frutto di una demolizione della figura del padre che arriva da lontano, dagli anni ’70, quando si è cominciato a distruggere la famiglia dal “capo” [il discorso era un pochino più complicato, ma gli ordinari di filosofia in vena di ingraziarsi un pubblico fanno così: paroloni a cacchio e semplificazioni storiche a proprio vantaggio. So’ bòni tutti, Zecchi]. Sfasciata la famiglia è chiaro che dopo puoi sfasciare anche i due diversi ruoli di padre e madre, e che oggi sia a pezzi lo dice la facilità con cui si sciolgono i matrimoni [proverò a dirla alla francese: ma che cazzo c’entra?]: quando si accetta una visione così “allegra” di famiglia, aperta, senza legami, tutto diventa possibile. Annientare la madre è più difficile perché è la figura biologica [e te pareva], anche se affitti un utero è ancora femminile, finché almeno la tecnologia non riuscirà in cose mostruose [tranquillo Zecchi, gli ordinari di filosofia non è facile farli nascere a comando], e allora saremo di nuovo al nazismo [ci mancava, vero, lo spettro del nazismo? Adesso le truppe gay hanno anche divise di colore pastello]. Ma io non credo si arriverà a tanto [mah, guarda, se si è arrivati a ordinari di filosofia che pur di vendere qualche copia in più appoggiano pseuoricostruzioni storiche tra il ridicolo e l’opportunista…].

Lei è ottimista? La storia insegna che nei regimi si cade senza avvedersene. [la tipica storiella dei collaborazionisti: ci siamo svegliati ed eravamo fascisti, nessuno ha potuto farci niente. Del ruolo dei quotidiani e degli intellettuali tipo gli ordinari di filosofia, non ne parliamo]
Ormai la nostra società ha consolidato un forte individualismo [tipica caratteristica  dell’omosessualità, e degli altri 56 tipi diversi, no?], la teoria del gender non diventerà un fenomeno di massa, lascerà il tempo che trova: io non sono terrorizzato, sono disgustato, che è diverso [è più nobile – che uomo, che maschio!]. Tuttavia bisogna avere delle attenzioni, attrezzarsi perché i nostri figli possano crescere in una dimensione – religiosa o laica che sia – di libertà [sulla dimensione religiosa di libertà si è già espresso George Carlin]. Mia madre era maestra [e ti pare che non ci mettiamo in mezzo la mamma?] e per una vita ha insegnato nella scuola statale, io ho studiato e insegnato sempre nello Stato, lo stesso fa mia moglie… ma mio figlio studia in una scuola paritaria [eh, mica scemo]: lì ho la garanzia che cresca libero dall’arroganza degli “inappuntabili moralmente” [non essere omofobi è un difetto, secondo Zecchi. Complimenti]. Lo ripeto, non voglio crociate, dobbiamo creare argini di confronto pacifico [avete visto come si creano, no? Sparando stronzate e calunniando senza uno straccio di prova] e informare i docenti, ma non fare violenza sui piccoli. Chi ha autorità morale – oltre alla Chiesa anche la politica – si faccia sentire, la buona sinistra [la buona sinistra: quella che la pensa come me, detta più semplicemente] parli, dica la sua, ne abbiamo bisogno.

Esattamente quanto avremmo bisogno di ordinari di filosofia meno ignoranti e più onesti, Zecchi.