Maternità e identità Trans

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di Frieda Frida Freddy, transfemminista (e lesboterrorista) in cammino. Traduzione e revisione di Serbilla, Elena Zucchini e feminoska.

Il giorno in cui mi dichiarai Trans fu il giorno nel quale vidi e compresi chiaramente che non mi era necessario, né vitale, essere donna o uomo per esistere. Ancora di più, capii perfettamente che non desideravo in alcun modo esserlo per ancorarmi in una delle due categorie sociali, poiché mai mi ero sentit@ felice o a posto in nessuna delle due. Mi rinominai Frieda perché sono più femminile che mascolina, e perché comprendo che mascolinità e femminilità sono solo due poli di indottrinamento che non determinano nulla, e tanto meno definiscono questo “essere uomo” o “donna” che si conoscono nel nostro mondo sociale. Inventai pertanto questo nome, per il potente dittongo che per me rappresenta il ponte sulla dicotomia dei generi, il mio transitare tra Frida e/o Freddy che sono il passato al quale sono stat@condannat@: ragazzo o ragazza. E dal quale sono fuggit@…

E dunque ora sono liber@, sono Trans. Non transgenere né transessuale. Vedete: c’è una percezione diffusa secondo la quale essere trans significhi, diciamo, nascere A e trasformarsi in B, o nascere B e desiderare di essere A. Come dire, nascere biologicamente “uomo” (per via del pene, che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come una donna. O viceversa. Nascere biologicamente “donna” (per via della vulva che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come un uomo. Senza dubbio questo avviene spesso, ma non rappresenta tutte le esperienze.

Quanto detto significa trasgredire, oltrepassare una categoria di genere perché non c’è mai stata appartenenza né identità con i ruoli che sono stati assegnati; significa respingere una costruzione sociale che è stata imposta da una divisione caratterizzata da un tratto genitale, e sicuramente questo è trasgressivo, ma questa pratica continua ad inserirsi in un codice binario. E con questa affermazione non intendo screditare né attaccare chiunque abbia fatto tutto il possibile per modificare completamente il proprio corpo o le proprie apparenze tramite gli ormoni o la chirurgia e che ora si sente a proprio agio con ciò che è o sembra, poiché il solo fatto di sfidare il genere e transitare completamente da A a B, o viceversa, mi pare degno di tutto il rispetto e l’ammirazione di chi si ribella.

Ma io non desidero questo per me. Io più che trasgredire o oltrepassare (e non restare quello che ero), desidero far esplodere i generi. La mia lotta quotidiana è contro la dicotomia di genere, contro la sudditanza. Per questo mi dedico al transfemminismo. Non voglio imprigionarmi nel genere, o nei ruoli, né rafforzarne gli stereotipi. Voglio andare avanti e indietro, fluire, fluid@ come la mia stessa sessualità (nel senso più ampio, non riducendola a mero atto sessuale); la mia sessualità che è viva, e vive con me. Perché voglio imbrigliarla? Perché ho ​​intenzione di soggiogarmi? Non devo farlo. Non sono tenut@ a farlo.

Non mi imprigionerò nella dicotomia di genere, o in qualsivoglia orientamento sessuale. Io vado e vengo. Per questo mi dichiaro Trans come trasformazione dell’idea egemonica, Trans come attraversare l’eteronormatività, Trans come trasgressione al genere e tutto ciò che comporta. Trans che trasgredisce l’obbligo, che annulla l’ordine. Nat@ A e non sarò mai B, ma che la A si fotta. Possiamo essere X o Z, H o T, o un po’ di tutto questo, o qualsiasi cosa ci passi per la testa. A volte essere anche un pò’ B, e poi basta, per esempio. O essere mostr@. O essere non essendo.

E per coloro che a questo punto del testo, stanno già pensando che sono confus@ e in realtà sono queer, ripeto, io sono Trans e per la decostruzione – distruzione della dicotomia di genere metto oltre al mio discorso, il mio corpo. Ho deciso di impiantarmi delle protesi al seno, sto risparmiando per questo. Seni per una decisione politica, come atto performativo. Non quei grandi seni rotondi, “con i quali non ho avuto la fortuna di essere nato”, per diventare femminile al cento per cento, e quindi “la donna” (come logicamente si pensa), ma piuttosto desidero quei seni per confondere, per abitare lo spazio pubblico così profondamente normato e trasgredirlo, terrorizzare. Non sono neanche interessat@ a dimagrire o comprare abiti alla moda, o camicie scollate; il mio atto sarà anche di post-travestitismo.

Con l’operazione ai seni il mio corpo diventerà un luogo espropriato al sistema (che per primo me lo ha rubato con i suoi obblighi), un’arma di distruzione simbolica. Quindi quello che voglio raggiungere attraverso la chirurgia non è un modello di bellezza patriarcale, ma una performance vivente che si muove nel mondo e porta il terrore Trans in tutti gli spazi, le strade, le città. Questo rappresenta la mia autodeterminazione e la mia scelta, come nel caso della donna dal sesso e genere coincidenti ed eteronormati quando decide di essere “madre”. Ma cosa succede dunque a queste decisioni riguardanti il proprio corpo e prese liberamente, nella stessa società, nel medesimo mondo sociale?

Succede che quando io affermo di essere Trans e racconto della mia decisione di modificare il mio corpo, il mondo mi vede come un appestat@, come un@ folle, mentre la donna incinta è vista come trionfatrice, come se si trattasse del più grande successo nella vita. A lei si assegna un riconoscimento sociale e a me il pubblico ludibrio. Alle donne incinte costruiscono un piedestallo sociale e cominciano a vederle così fragili come se si dovessero rompere, mentre la maggior parte dei transessual@, trans e transgender vede crollare la stima e i legami sociali, buttati fuori dalle proprie case in una società che chiude loro le porte in faccia in quasi tutti gli spazi pubblici. Quando una donna decide liberamente di restare incinta, partorire e crescere dei bambin@, il mondo diventa un luogo pieno di elogi, auguri, benedizioni, dolcezza, complimenti, tutt@ non si stancano mai di lodarla, mentre per le persone trans che hanno deciso e scelto liberamente di fare qualcosa con il proprio corpo e con un progetto di vita, le prese in giro non cessano mai, né gli insulti, l’invisibilizzazione, le battute, gli sguardi di disapprovazione, gli abusi verbali e anche fisici.

Nel caso della donna incinta, la famiglia e gli amici – e la società in generale – si prendono il compito di supportarla e prendersene cura, la mandano dal medico e lo Stato la riceve gratuitamente attraverso i controlli prenatali e gli attivisti la sostengono di fronte alla violenza ostetrica (ma dei tassi di natalità elevati e violenti nessuno dice niente).

Allo stesso modo, quando la persona trans comincia ad assumere ormoni o sta per sottoporsi ad un intervento chirurgico, le famiglie, gli amici e la società in generale si fanno meno presenti, la accusano, e lo Stato la riceve con lo psichiatra, che dovrà riuscire a convincere della propria decisione di transitare. Il settore sanitario la accoglie, anche se il più delle volte con disprezzo e abusi, trattandol@ come deficiente e senza dare ascolto ai suoi sentimenti, solamente somministrando iniezioni di ormoni o farmaci (quando ce ne sono), della serie: se non desideri essere un uomo, tieni, diventa donna! O viceversa. Tutto in fretta e furia, senza chiarire quali siano gli effetti collaterali dell’abbassare o alzare i livelli di testosterone o estrogeni in maniera repentina. E questo nelle poche città dove esistono leggi che lo consentono. Se non ce ne sono, le/i trans dovranno pagare tutto di tasca propria, come possono. Dovranno permettersi trattamenti e interventi chirurgici completi, e se non hanno i soldi, l’olio da cucina o l’antigelo per auto aiuterà a far crescere un po’ le natiche o i seni. Qui tutti se la cavano da sol@ e cercano di sopravvivere, nonostante le relazioni annuali, in cui gli attivisti esprimono la loro preoccupazione per i diritti sessuali di ogni singola persona nel mondo e predicano “progresso”.

Quando decido e scelgo di essere Trans, tutt@ mi diagnosticano, senza essere medic@: soffro di “disforia di genere”, sono malat@ di mente e pazz@. Lo dice la scienza e l’OMS l’ha pubblicato nella sua lista delle malattie mentali. Nessun@ parla di violenza culturale, né di cultura della violenza contro di me e la mia libera scelta, perché quello che faccio è “anormale “, naturalmente, mentre quello che fa la donna incinta non è solo “normale” ma anche “la cosa più naturale del mondo”. Questo il quadro a grandi linee. E io non mi sto vittimizzando nel fare queste analogie. Più avanti chiarirò questo punto.

Ciò che la donna incinta sta davvero facendo (per libera e consapevole che sia la sua decisione), è rafforzare ulteriormente la riproduzione di un sistema eteronormativo, un regime eterosessuale che non è orientamento come ci viene detto, ma un sistema di irregimentazione del mondo sociale, controllore dei corpi e delle vite; quello che sta facendo è seguire rigide regole apprese che stigmatizzano e spesso condannano altre biodonne come lei come “mezze donne, donne incomplete o sbagliate”, perché “non si realizzano attraverso la maternità.”

La scelta libera della donna incinta trascende il personale e si ripercuote negativamente anche a livello politico. Rafforza un mondo sociale che sta massacrando me come molte altre persone dissidenti sessuali, compresa lei stessa, ci sta uccidendo letteralmente (femminicidio, transfemminicidio). Allo stesso modo, quello che faccio con la mia decisione libera è fottermene dell’eterosessualità e delle altre finzioni politiche, delle imposizioni sociali, del regime eterosessuale, distruggerlo, decostruirlo, perché questo sistema semplicemente non è ‘normale’ o ‘naturale’.

Perché in tutto il mondo lo Stato sostiene economicamente la gravidanza, anche nel caso di donne non lavoratrici? Perché gli conviene. Si tratta di un investimento a breve termine in questo modello globale di produzione e consumo. Gli conviene continuare a riprodurre il modello di famiglia e, quindi, ottenerne manodopera a buon mercato e produzione di massa; serve anche a mantenere le persone educate, normate, tranquille, passive e apatiche, immerse nella telenovela dell’amore romantico e del “e vissero felici e contenti”. Dopodiché famiglia e Stato, insieme, manterranno più facilmente controllat@/oppress@ le/i dissidenti sessuali, pianificando di catturarli per normarli, smontarli o sterminarli.

Nel modello di produzione-consumo si costruisce anche la Famiglia, che non è l’unico agente di socializzazione, ma il più significativo. Questo modello sostiene la moralità, la buona coscienza, la coercizione, il dominio, la repressione, la violazione dei diritti umani fondamentali e delle garanzie individuali, è un modello di ricatto emotivo-sentimentale ed economico. La famiglia, oggigiorno riprodotta ugualmente dagli omosessuali misogini e maschilisti e dalle lesbiche patriarcali, è un modello oppressivo che funziona in modo molto visibile attraverso botte, insulti e abusi, o forme delicate e sottili come: “figli@ mio, devi raccontarmi tutto e dirmi ogni passo che fai perché siamo la tua famiglia e tra noi c’è fiducia, vero?”. Oppure: “io ti controllo e ti dico come fare le cose solamente perché ti amo e mi preoccupo per te, faccio tutto per il tuo bene, ti rispetto.”

La chiamano ” educazione”. E con essa violano pesantemente la privacy di ogni membro della famiglia: un legame di sangue non rende un oggetto di proprietà. Ma sì, queste forme saranno sempre camuffate da tanto amore, devozione, buone intenzioni e preoccupazione, perché è per questo che esiste “l’amore familiare”.

Esiste una negazione consapevole del fatto che la famiglia (e lo Stato) diano ordini e puniscano chi non li rispetta; il loro irrazionale potere autoconcepito gli fa credere di avere l’autorità che serve per poterlo fare. Le famiglie controllano, soffocano, a volte lentamente, a volte in poche, rapide mosse. È chiaro che lo Stato non smetterà di produrre famiglie, ma le persone possono smettere di farne parte, scegliendo di non esserlo, non semplicemente cambiando loro nome: famiglie diverse, nuove famiglie, altre famiglie, due mamme, due papà, una madre single. Non vedo nessuna lesbica mettere vestitini ai propri figli. Vedo invece molte donne incinte chiamare principessa il feto “donna”, o “mio re”, guardando l’ecografia, per esempio.

Questa stessa negazione consapevole fa sì che si arrivi a dire che lo Stato “ha firmato e riconosciuto” i diritti sessuali e riproduttivi per dare, a tutta questa diversità sessuale eterosessuata (ma non dissente), ciò che stava chiedendo e quindi tenerla buona, di modo che la smettesse di dare fastidio. Bisogna essere consapevoli di quanto possa essere manipolatore un apparato di governo, come lo Stato, che ha dato prove più che sufficienti di quanto meschino, invadente, corrotto, ricattatore, dispotico e infido sia.

Smettere di creare famiglie, però, è qualcosa di semplicemente impensabile per la maggior parte delle persone. Cos’altro potrebbero fare, se non quello che hanno interiorizzato alla perfezione sin da quando sono nat@? Ma allora che ne è di tutte quelle persone che si dicono femministe, e parlano in continuazione delle proprie preoccupazioni sulla violenza di genere e sulla violenza contro le donne? Coloro che citano tanto Foucault e la storia della sessualità volume uno, due, tre, e non si levano dalla bocca il biopotere e la biopolitica, arrivando a dormire con la foto di Simone de Beauvoir sopra la testata del loro letto a due piazze? Il loro eterocentrismo si vede fin dalla luna. I loro discorsi contraddittori dimostrano la loro incapacità di smettere di fare ciò che alla fine dei conti aggredisce e stigmatizza le stesse persone che dicono di sostenere. Staremo mica battendo l’eteropatriarcato capitalista?

Fare del femminismo istituzionale, metter su famiglia e fare richieste a uno Stato che incarna la figura paterna (maschio protettore, padre benefattore) è semplicemente la prima di questa grandi contraddizioni. Eppure si piccano di essere totalmente consapevoli e deseteropatriarcatizzate, parlano di parità di genere, fossilizzandosi, tanto per cambiare, in una dicotomia carceraria.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.

Per cui, come avrete inteso, quello che sto scrivendo non è un tentativo di vittimizzarmi per chiedere allo Stato di smetterla di trattarmi come una cittadina di serie B: io non voglio niente da lui a livello personale, né sto chiedendo alle femministe attiviste istituzionali di prendersi “maternamente” cura di me durante la mia rinascita Trans. Il mio transfemminismo è anarchico, radicale e autogestito. In ogni caso il fatto che stia suggerendo che lo Stato non dovrebbe sostenere economicamente le gravidanze e ciò che implicano è solo un piccolo contributo che voglio dare, una sorta di omaggio. Chi vuole un figlio che se lo paghi e se lo mantenga a partire da una pianificazione della propria libera scelta. Che sia un suo lusso. Che la si smetta di usare le tasse di tant@ trans per cose di questo tipo, sarebbe anche l’ora di finirla di farci pagare persino la transfobia che subiamo sulla nostra pelle. O per lo meno che, chi vuole diventare “madre”, passi attraverso i colloqui psichiatrici per spiegare il perché di questa sua decisione, in modo da convincere la scienza e l’OMS del perché è sicura di poter partorire, allevare ed educare una nuova persona. L’unico argomento della totale dedizione, della protezione e della premura, radicato in un ruolo di genere inventato, non dovrebbe essere sufficiente. Si tratta meramente di un mito romantico, basato sul regime eterosessuale: pensare che molto amore e molte cure renderanno tutto possibile è solo quello che le è stato fatto credere.

In conclusione, per chiudere qui la mia dissertazione, voglio chiarire alcune cose, visto che una delle lacune del sistema educativo scolastico riguarda proprio la comprensione scritta, e io sono molto stanca del fatto che si dica che io ho detto questo o quello. Per cui questo testo, come avete letto, è totalmente antimaternità, certo, ma non ho scritto da nessuna parte che dovreste smettere di restare incinte e partorire. Quella che sto facendo, qui, è una feroce critica per segnalare qualcosa che pare nessuno voglia dire per paura di suonare politicamente scorrett@, compromettere il proprio curriculum o essere tacciat@ di violenza, di non essere solidale o di aver smesso di esserlo e perdere di conseguenza il sostegno, l’alleanza, essere espuls@ dal collettivo, dalla ONG, fare brutta impressione, o non ricevere più il saluto “fraterno e sorridente” di altr@ compagn@.

Ciò che voglio dire con questo scritto, parlando di quelle che decidono, scelgono e desiderano la maternità e di formare una famiglia, è che si smetta di diffondere nel mondo la chiacchiera per cui una gravidanza, la maternità e il formare una famiglia rappresentano il top, il massimo del massimo, perché anche con i discorsi, il linguaggio e le proprie sciape sensazioni si continua ad alimentare e ricostruire all’ infinito i ruoli di genere nella società.

Ciò che affermo è che bisogna smetterla di raccontarsi fiabe rose e sdolcinate e di comprare happy meal Mcdonalds, e ci si assuma con onestà le atroci responsabilità sociali che implicano la gravidanza, il parto e l’allevamento dei figli@, in un contesto così fortemente capitalista ed eteropatriarcale come quello descritto, e che ci si renda conto, una volta per tutte, che la “libera scelta” di alcun@ non ha luogo nella coppia, né tra le quattro pareti del proprio nido d’amore, né è appannaggio della donna sola, o accompagnata, che decide di farlo: una gravidanza oltrepassa tutto questo e collabora direttamente con il sistema che ci fotte tutt@.

desde el mismo nacimiento la intersexualidad, y después en la socialización del género a la transexualidad, bajo el yugo heterosexual, ¡ahí te encargo!

Io Frieda affermo che la dovete piantare di rispettarmi seguendo la logica del “io non ho alcun problema con le persone trans”, dalla vostra schiacciante posizione di normalità. E di quell@ che, sotto il giogo eterosessuale, tirano su solamente uomini e donne, omettendo dalla stessa nascita l’intersessualità, e successivamente dalla socializzazione di genere il transessualismo: io vi sfido!

Perché siamo le/i trans che la dicotomia di genere non ha potuto normare. E siamo qui, e non staremo zitt@, né ci nasconderemo in un qualche luogo oscuro di modo che le/i vostr@ piccolin@ non si spaventino o “contagino” in qualche modo.

Perchè un discorso antimaterno è necessario

childfree_catsUno degli articoli pubblicati su Intersezioni che ha scatenato, dal suo primo apparire, commenti accesi e forti opposizioni è sicuramente la traduzione de Costruendo un discorso antimaterno di Beatriz Gimeno.

Appare dunque necessaria qualche ulteriore riflessione in merito, in particolare riguardo a quello che pare essere il motivo del contendere, ovvero la scelta di Gimeno di definire questo nuovo discorso come “antimaterno”. Il suffisso anti-, “che si oppone a”, è stato equivocato da più parti. Ci si potrebbe domandare, in effetti, se l’autora non avrebbe potuto descrivere la propria proposta come “non-materna” più che “antimaterna”… sicuramente, da un punto di vista lessicale, questo sarebbe stato forse utile ad evitare molti fraintendimenti, quali quelli in cui sono cadute tante donne (anche femministe) che hanno scelto consapevolmente la maternità, e in quell'”anti-” ci hanno visto di tutto: da un giudizio sulle proprie scelte personali, ad una discriminazione al contrario, ad una valutazione tout court negativa in merito all’esperienza della maternità, ecc.

Nulla di più lontano dalla realtà, in effetti. E non solo perché Beatriz Gimeno, è madre – triste doverlo sottolineare, ma purtroppo alcune hanno pensato di basare in massima parte la propria critica all’articolo sul presupposto (errato) che chi l’aveva scritto non doveva aver provato sul proprio corpo il ‘miracolo della maternità’, e perciò prendeva posizione in merito ad un’esperienza che non conosceva in prima persona; ma anche perché ciò che, almeno a nostro avviso, traspare in maniera cristallina da questo articolo è esclusivamente la necessità di costruire uno spazio di agibilità per un discorso non materno, e questo non solo in seno alla società, ma anche, evidentemente, e forse ancor di più nel discorso femminista.

Alcune hanno definito superflua questa richiesta, portando ad esempio la propria esperienza opposta di donne che si sono viste osteggiate in una legittima scelta di maternità – rendendo pertanto questa opzione molto più sovversiva rispetto alla scelta di non avere figli@. Non volendo mettere in dubbio la veridicità di tali vissuti personali, pare però difficile definire come norma quella che a tutti gli effetti risulta un’eccezione rispetto ad un sistema che si basa, sia a livello sociale che economico, sui ruoli di cura non retribuiti delle donne in qualità di madri, mogli, parenti  (o anche retribuiti scarsamente, tra mille disagi e soprusi, come avviene per badanti e colf): sempre pronte, attente e sacrificabili sull’altare dei bisogni altrui.

Inoltre si commette spesso l’errore grave di pensare che una realtà come quella occidentale,  nella quale comunque – per quanto poco e male, e tra mille continui tentativi di boicottaggio – un certo grado di agency è appannaggio delle donne, rappresenti la ‘condizione della donna’ attuale a livello globale… E in ogni caso anche la nostra autodeterminazione, tra obiezione di coscienza, assunzione della responsabilità riproduttiva a quasi esclusivo appannaggio femminile, assenza totale di educazione sessuale e all’uso degli anticoncezionali a disposizione – il tutto condito dal precariato galoppante – non se la passa esattamente bene.

Il discorso sulla non maternità è un discorso di libertà quando il discorso dominante punta in tutt’altra direzione. E nella nostra società ancora profondamente patriarcale, impregnata di sessismo, privilegio e discriminazione, è così. Questo perché, a prescindere dall'”hardware” proprio di ogni persona, il software dominante non lascia davvero scampo alle donne – è ovvio, si parla in linea generale, ma la linea generale è, di solito, quella prevalente – addestrate fin da piccole alla predilezione per certi ruoli, incapaci di sottrarsi a certe richieste (la cura, appannaggio esclusivo delle ‘femmine’ – della casa, dei bambini, degli anziani, degli uomini – che si esplicita in senso di dovere o compulsione), richieste sconosciute alla maggior parte degli uomini, e per i quali comunque si configurano, eventualmente, come scelta consapevole e non coazione a ripetere schemi introiettati fin da piccole… schemi a volte odiati, come quando capita di rivedere con rabbia e sgomento, in noi stesse, donne a noi vicine – mamme, zie, nonne, sorelle – che hanno vissuto una vita di infelicità e subordinazione, delle quali dicevamo che “noi non saremmo finite così”.

Il discorso sulla non maternità è ancora necessario quando tante, troppe donne, si sentono oppresse dalle aspettative uterine illegittime di genitori, parenti, compagni, amici, persino datori di lavoro o semplici conoscenti, aspettative che esistono e sono opprimenti.

Aspettative che definiscono coloro le quali non vi si conformano come donne cattive, arriviste, immature o zitelle, lesbiche o acide, donne mancate, sbagliate, incomplete. Soprattutto donne ingrate, egoiste e dissolute alla ricerca dei soli piaceri solipsistici della vita, o al contrario donne danneggiate che riversano su cure alternative (la zoofilia, ad esempio) una mancanza non confessata (che non è mai solo d’amore, si badi bene, ma di quel figlio che non ne ha occupato l’utero per 9 mesi).

Questi discorsi non sono anacronistici, sono la realtà vissuta da tante donne – e comunque donne privilegiate, donne che possono permettersi di non avere figli@, cosa assolutamente non scontata al di fuori dei nostri limitati orizzonti.

Ecco spiegato il motivo della necessità di quell’articolo, e di tanti altri a seguire. Perché l’articolo di Gimeno parla di tutte quelle donne che vivono disagi e discriminazioni perché scelgono di non avere figli@, donne che chiedono semplicemente uno spazio di esistenza legittima.

Il discorso antimaterno non è un attacco alle donne, né alle madri. Non è una guerra tra oppress@, non è una rivendicazione di valore: il discorso antimaterno è  una questione di libertà, e se alcune donne dicono di non sentirsi libere di non fare figli@, e di voler lottare per questo, le altre, quelle che le/i figli@ li hanno fatt@  e magari felicemente, dovrebbero sostenere questa istanza. Quello che il femminismo dovrebbe insegnarci è il valore del reciproco ascolto, e non il posizionarsi su opposte e inconciliabili fazioni.

Dunque perché il termine anti- pare comunque adatto a questo argomento, quanto – se non più – del termine non-? Perché il discorso antimaterno va a decostruire non la maternità in quanto esperienza umana legittima, ma quel ‘discorso materno’ – che, attenzione, non è il discorso DELLE madri ma SULLE madri – che è appannaggio del sistema patriarcale, il cui scopo è spingere le donne, per i più svariati fini, a scegliere acriticamente questa opzione come unica valida e degna di rispetto. Sulla base di questo discorso, che è ancora quello  dominante, si costruiscono false categorie di valore che relegano molte donne, non così consapevoli, a ruoli di cura solo in apparenza scelti liberamente – ma in realtà mai veramente messi, quantomeno intimamente, in discussione – e altre ad un ruolo di paria per il semplice fatto di non conformarvisi.

Appare dunque evidente che il problema non sta nella scelta o meno di essere madri – perlomeno quando questa scelta è fatta con consapevolezza – ma nella arbitraria assegnazione di minor valore e nel giudizio svalutante che una delle due scelte, di solito quella di non avere figli@, riveste di fronte all’altra.

Per approfondimenti leggi anche: Riprodursi? Anche no!

 

Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.