L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

Daniza, cronaca di una morte annunciata

daniza01…E alla fine ce l’hanno fatta. Come ogni volta.

Daniza, la mamma orsa che a Ferragosto aveva osato ferire un umano per difendere i propri cuccioli, è stata uccisa dalla dose di anestetico impiegato per catturarla. I cuccioli separati, uno catturato e da adesso ‘monitorato’, l’altro chissà dove, solo, indifeso, disperso.

A nulla sono valsi gli appelli, perché  in un mondo intriso di specismo fino al midollo, quando un animale non umano osa reagire, o ferire (ancorché non gravemente, come in questo caso) un umano, esiste una sola, fascistissima risposta: la morte, o nel ‘migliore’ dei casi, il confino a vita in gabbie anguste.

Questo è lo specismo, la prima, più pesante e pervasiva forma di discriminazione di chi è percepito come irrimediabilmente altro. Lo specismo che ci viene insegnato da quando siamo in fasce, e che diventa efficace  modello su cui plasmare altre discriminazioni, come quelle intraspecifiche quali sessismo e razzismo. Lo specismo che non concede attenuanti, né pietà alcuna e non guarda in faccia a madri, piccoli, legami familiari e affettivi – da tanta parte dell’umanità dichiarati sacri ed intoccabili valori (quanta ipocrisia, quanta ingiustizia!)

Questo è quello contro cui combattiamo e ci ribelliamo: eppure mentre noi, sempre in poch*,  sempre con fatica – anche nell’ambito dell’attivismo militante – ragioniamo di come il concetto di umanità sia da mettere pesantemente in discussione, mentre pensatori visionari immaginano di rinnovare la meraviglia nel mondo reintroducendo i selvatici, quello che realmente succede è che gli animali non umani hanno due possibilità di esistenza: o schiavi – se domestici – a cui sottrarre la vita, torturabili, spendibili, sacrificabili a miliardi, numeri senza volto; o fuggiaschi, apolidi, clandestini braccati, fantasmi sempre sotto assedio, in territori spogliati delle risorse necessarie a garantirne il sostentamento, perché comunque, quel poco che c’è, devono spartirlo con l’umano padrone del globo terracqueo.

Gli animali non umani dovrebbero divenire tutti peluches: morbidosi, senza esigenze, senza corpo, anima, volontà e desideri.

Avete ucciso una madre che ha protetto i suoi cuccioli da un altro animale potenzialmente pericoloso, avete lasciato due orfani disperati e sperduti, e parlate ancora di tutela, protezione, reintroduzione? Come si possono reintrodurre orsi, o lupi, se a questi ultimi non vengono dedicati spazi adeguati per vivere, se al primo allevatore che piange i suoi poveri capi (che avrebbe poi macellato lui stesso nel giro di poco tempo)… tutti pronti con le armi in pugno? Se gli animali reintrodotti si trovano poi, loro malgrado, nel selvaggio west, perchè lo specismo, l’ignoranza e la grettezza  – anche di chi sarebbe in teoria incaricato di tutelarli – è senza fondo?

Restare uman*? E perchè, a quale scopo? Riconoscersi animali – quello che siamo! – è l’unica strada percorribile per molt* di noi. E io spero di vedere sempre più animali umani alzare la testa e ribellarsi, e trovare la forza di smascherare la verità dell’umano: l’orrore che siamo diventati.

L’orrore… l’orrore.