La libertà trans non ha riferimenti politici?

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L’immagine è tratta dal webcomic Rooster Tails

 

Repubblica ha scritto, giusto un paio di giorni fa, cose interessanti. Non perché scritte da tale giornale, ma per il modo in sono state scritte.

Vediamo: immaginate di svegliarvi e notare che sul portone d’ingresso della basilica di San Paolo di Milano c’è una frase, vergata con bomboletta spray: 20/11, notte di vendetta trans.  Non sono in molti ad avere cognizione di causa circa l’esperienza di vita transessuale e transgender, costellata di ogni esempio di sovradeterminazione, soprusi psicologici, medici e legali in addizione a molti ostacoli legati all’appartenere, molto spesso, a una classe sociale bassa, ove non bassissima. La pur crescente visibilità di questa realtà è ancora molto limitata: tuttavia, soltanto qualcuno privo di ogni percezione sensoriale e di un qualsiasi modo di esperire la realtà che lo circonda può non essersi accorto di alcuni avvenimenti ed essere in grado di affermare che non c’è alcun tipo di riferimento politico.

In Italia, con molta fatica e con molte difficoltà, si sta costituendo pian piano un movimento trans, per ora poco organizzato ma senz’altro effervescente di idee e passione politica.  Ieri diverse persone hanno costituito la prima vera manifestazione trans, la Trans Freedom March, dopo decenni di assenza in seguito alle lotte che hanno portato all’istituzione della legge 164 nel lontano 1982. Che la comunità trans dopo questo lasso di tempo incominci a farsi vedere per le strade proprio in giorni contigui all’evento internazionale dedito al ricordo delle persone transessuali e transgender uccise, il TDoR, dovrebbe essere un evento degno di nota, che sembra segnare il passaggio dalla retorica della vittimizzazione a quella della rivendicazione.

Nel frattempo al Maurice di Torino, proprio oggi, c’è un convegno in cui si parlerà delle prospettive di modifica della legge che attualmente regola i procedimenti relativi alla rettifica anagrafica del sesso. Ci saranno presidenti di organizzazioni che ormai varie persone trans sospettano servano esclusivamente a fare gli interessi della casta degli psichiatri e degli psicologi, troppo spesso esecutori di psicoterapie obbligatorie quando il presupposto di una psicoterapia davvero funzionale al benessere psicologico è la volontà di perseguirla (notate qualche dissonanza?) e l’assenza di squilibri di potere, squilibri previsti e unanimemente considerati legittimi dal protocollo più usato in Italia, quello elaborato dall’ONIG (in opposizione alle linee guida WPATH internazionali, decisamente più liberali in tal senso). Uno di questi è il potere di veto dello psicologo sulla potenzialità della persona di intraprendere la transizione (atto che, negli ambienti trans anglofoni, viene chiamata gatekeeping), squilibrio che rende la relazione terapeutica impossibile e che spinge la persona a mentire o darsi a pericolosi fai-da-te con conseguenze orribili per la salute. Lo scopo di queste psicoterapie obbligatorie è far ottenere perizie, le quali sono nient’altro che un pezzo di carta che serve a spiegare al giudice i motivi della necessità di intervenire chirurgicamente e anagraficamente su di sé, indispensabili al fine di proseguire legalmente il percorso di transizione. L’elargizione di queste avviene per mezzo di salati pagamenti: si parla, nei casi meno catastrofici, di qualcosa come cinquecento euro a documento; evenienza che si interseca diabolicamente, e sinergicamente, con i disgustosi tagli alla sanità.  Queste stesse figure producono (presunte) verità. Dicono che ci serve la loro figura e che ci servono diagnosi per verificare l’effettiva presenza di disforia di genere, perché la condizione trans sarebbe affine alla schizofrenia, rafforzando pregiudizi stigmatizzanti di fronte a verità macroscopiche, e cioè il fatto che le due cose non si assomigliano da nessun punto di vista: una persona trans reagisce con malessere a una situazione oggettiva. Ammantano sé stessi di un’immagine terapeutica, ma non sono che dei mediatori tra lo stato di cose esistenti e i bisogni individuali della singola persona. Non curano (non c’è nulla da curare), ma creano il discorso della malattia  per sembrare autorevoli e autorità. Non v’è traccia attualmente di psicologi rispettosi dell’altrui determinazione, ma non sono gli unici.

Ci saranno avvocati a caccia di parcelle. Ci saranno persone che scrivono, analizzano, elucubrano, fanno profitto e propaganda su di noi, dal punto di vista legale, sociologico, psicologico, politico e chi più ne ha più ne ha metta. Ci sarà chiunque a parlare di noi, fuorché noi: nessuna delle persone invitate a colloquiare è una persona trans. Ripeto: nessuna di questa persone è una persona transessuale o transgender. Si tratta di una decisione politica altamente discutibile di chi ha organizzato l’evento. E la scritta sulla basilica, checché ne dica la stampa, è l’atto politico di chi vuole chiudere con tutto questo. Mai più vittime, mai più fantocci, mai più oggetti, mai più pazienti. Non ci dispiace.

Te la farò pagare. Le classi sociali nell’esperienza trans e autonomia dei corpi

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Quando ho fatto coming out ai miei genitori, rivelando il rapporto un tantinello apocalitticamente e insanabilmente conflittuale tra la mia identità di genere e il mio corpo sessuato, la risposta non è stata delle migliori. La cosa curiosa è che la prima frase che è uscita dalla loro bocca non è stata quella che mi aspettavo: «come ce lo permettiamo?». Le fragilissime accuse di essere contronatura e voler sfuggire all’omosessualità sono arrivate dopo e sono crollate miseramente, perché fin dal principio erano soltanto puntelli per distogliere l’attenzione dal problema principale: la mancanza di soldi. Non a caso una volta stati dalla psicologa, hanno capito benissimo che non intendevo (o intendo, visto che questo per me è ancora un presente) fuggire proprio da nulla se non da una sofferenza che con le persone che amo e/o faccio sesso non ha nulla a che vedere. Accusare tuo figlio di voler fare il finto etero è abbastanza ridicolo, se tuo figlio è la stessa persona che spiattella in giro la sua bisessualità come se non ci fosse un domani; e soprattutto, è un’argomentazione potenzialmente valida solo per una persona trans attratta esclusivamente da generi diversi da quello a cui sente di appartenere (e al quale, pertanto, appartiene). Categoria della quale indubbiamente non faccio parte.

Il denaro è parte integrante della vita in questa società: basta pensare al conto in banca, all’avere un lavoro, acquistare prodotti e via dicendo; il proprio contributo alla società è misurato esclusivamente in termini economici, e questo stabilisce quanto si è degni di esistere. Quel mucchio di gente che si trova ad essere forza-lavoro, in questo mondo ha dignità d’esistenza solo perché produce il plusvalore che capi/padroni estraggono e di cui campano, come parassiti. E ci riescono perfettamente: il miglior parassita è quello che non si palesa, continuando a parassitare l’organismo in cui si trova; e infatti le colpe della società classista finiscono per essere patrimonio degli immigrati e di altri soggetti sfruttati e oppressi. Tra la contraddizione capitale/lavoro e l’esperienza transessuale e transgender c’è un legame fortissimo, anche se non troppo evidente ai più, proprio per la certosina opera di invisibilizzazione che si compie ai danni delle istanze che una volta messe sul tavolo pongono domande scomode e sfuggono al disegno assimilazionista, eterocisnormativo e normalizzatore dell’attuale politica gay e lesbica mainstream. È un legame che si palesa in tanti aspetti.

Una persona transessuale e transgender in una condizione economica privilegiata, può sopperire più facilmente ai costi notevoli della transizione e compierla nei tempi che desidera, possibilmente molto rapidi, sperimentando per molto meno tempo l’incongruenza tra i propri documenti e la propria presentazione di genere. Può permettersi di transizionare nonostante la privatizzazione della sanità e i limiti della stessa. Può permettersi di fare percorsi di studio che gli/le consentono di avere i requisiti necessari per rientrare nelle politiche di diversity management e quindi lavorare, potendo quindi fare affidamento, in futuro, sul reddito che percepirà. Può sfuggire più facilmente alla casta dei gatekeepers, coloro che impongono rigide norme riguardo chi può o non può transizionare: norme che si possono tenere a bada, avendo soldi per poter pagare specialisti privati, o viaggiare per raggiungerli. Norme che le persone trans appartenenti al proletariato e al sottoproletariato hanno dovuto sapientemente aggirare (e devono continuare a farlo, ove necessario) tramite l’adozione di tecniche quali le trans narratives, cioè le narrazioni standardizzate preconfezionate sulla propria storia, la propria infanzia e via dicendo su misura per psicologi e psichiatri, allo scopo di poter passare tra le maglie di un sistema eteronormativo e cisnormativo; e in minor misura in Italia (ma discretamente presente altrove), vi sono altre pratiche come l’autosomministrazione di ormoni, che sono parte di transiti aventi luogo al di fuori del percorso di transizione ufficiale.

Il bypassamento dei gatekeepers risulta essere un fenomeno interessante, in termini storici, di resistenza trans al dominio cissessista; ma a parte questo, il gatekeeping presenta somiglianze con quanto si verifica per contraccezione, protezione dalle malattie sessualmente trasmissibili e aborto. Si negano servizi di sanità pubblica non alle donne in genere, ma esplicitamente alle donne cis lavoratrici, precarie, migranti; non si tolgono diritti a tutte quante, ma si rendono i diritti riproduttivi esclusivamente a portata delle donne cis, bianche e borghesi, le quali avrebbero comunque modo di accedervi. Sono entrambe parte, infatti, di un disegno più ampio: quello neoliberista. Non è un caso che la regressione dei vari diritti ci sia proprio in fase di austerity: le politiche di austerità rappresentano la scusa per acuire con politiche economiche terribilmente antiproletarie la differenza tra ricchi e poveri e per asservire chiunque al capitale ancora più di prima. Quello che si fa è spostare l’asticella dell’autonomia del corpo trans dalla parte di chi pretende di regolamentarlo rigidamente (nello specifico, l’istituzione medica – in particolar modo nella sua variante psichiatrica – e quella statale) e dare legittimità al suo transitare soltanto se al termine della transizione, questo andrà a posizionarsi nel mondo esclusivamente come maschio maschile o come femmina femminile, entrambi votati al binarismo sessuale e di genere e all’eterosessualità senza via d’uscita. Se non vuoi essere obbligatoriamente madre/padre, sei contronatura. Sei vuoi esserlo nei termini che decidi tu, sei contronatura lo stesso, perché cos’è natura lo decide la cultura: quella dominante, quella borghese. Se nasci intersex, dimostri che il binarismo sessuale è pura idiozia, quindi devi essere sottoposto/a a chirurgie che non hanno nessuno scopo, se non quello di adeguarti agli standard di una norma socialmente costruita.

Donne e uomini transessuali, persone transgender e favolosità affini sperimentano la corporeità in maniera differente e sfuggono dai loro percorsi prestabiliti, o si situano in toto al di fuori di questi percorsi; tutte/i quante/i pretendono di modificare i propri genitali oppure mantenerli, ma in una configurazione sessuata nuova, rimappata; sono persone spesso sterili, oppure genitori, sì, ma poco utili, perché con la loro stessa esistenza rappresentano l’atto di privilegiare il proprio desiderio e il proprio benessere sulla normatività di un mondo cisgender e sulle necessità dell’economia, produttiva e riproduttiva. Sono bombe a grappolo sul terreno della biopolitica, perché svelano l’inganno: i nostri corpi non appartengono a noi, ma all’ordine sociale capitalista che pretende di avere l’esclusiva non solo sui mezzi di produzione, ma anche su quelli di riproduzione, poiché ne garantiscono la perpetuazione. Se la riflessione femminista ha messo a nudo tutto ciò, una riflessione transfemminista come può non rilevare dell’altro? una donna transessuale non è vista come donna non perché la sua identità non sia quella e lei non si viva come tale, ma perché agli occhi del capitalismo donna è esclusivamente quell’incubatrice che si fa carico di generare futuri lavoratori e lavoratrici: in altre parole, il corpo trans è denaturalizzato perché non risponde alle necessità della creazione di valore, e nell’incapacità del corpo trans alla riproduzione, non vedo quella che per molti è una mancanza, ma qualcosa che andrebbe valorizzata: la potenzialità sovversiva dello sciopero umano.  La lotta  contro gli ingranaggi dell’oppressione di e del genere nelle nostre vite, è una forma di sabotaggio della macchina del capitale: materializziamola, festeggiamola.

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

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Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

Una veglia non è abbastanza

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Un po’ di giorni fa, ho deciso di partecipare, assieme ad un amico, al mio primo Transgender Day Of Remembrance.

Nella mia vita mi è capitato diverse volte di partecipare a manifestazioni e commemorazioni per-ricordare, in-onore-di e via discorrendo, e la sensazione è sempre stata, più o meno, di tenere in mano un bel pacchetto regalo di rabbia, infiocchettata con senso di impotenza, con tanto di bigliettino allegato contenente aperto disprezzo per chi, nelle circostanze in questione, avesse osato sfoggiare un sorriso. Con un sottile margine di tolleranza per i sorrisi nervosi, così, per non disprezzare proprio tutti tutti.

Questa volta no, e non ci trovo nulla di particolarmente strano. Per quelle e quelli come noi l’incazzatura è quotidianità, e personalmente mi incazzo così spesso che una volta l’anno credo di essermi preso la licenza di non sentirmi in dovere di farlo: ogni tanto è bene che se ne occupi qualcun altro.

Non intendo certamente dire che di queste persone, morte suicide o morte ammazzate, non mi importa niente. Nient’affatto. La rabbia di cui mi parlo è qualcosa che mi tappa la vena. E questo succede ogni volta che apro un articolo del solito giornalista da due spicci bucati che declina una donna trans al maschile, quando sono sulla metro e sento imbecilli prendere in giro qualcuno dalla presentazione di genere androgina, tutte le volte che c’è chi fa misgendering (ovvero sbaglia i pronomi di una persona trans), e tutte quelle violenze e microaggressioni presenti in una gamma pressoché illimitata di situazioni assortite; in strada, a scuola, al lavoro, nella ricerca di un impiego. Praticamente quasi sempre e quasi ovunque.

Quello che mi piacerebbe dire è questo: con quale ipocrisia sfilze di attivisti partecipano a questa giornata, con che coraggio tanti prendono le distanze dalla transfobia un giorno all’anno, quasi a fare ammenda per i restanti 364 giorni di passività? Non basta. No, non basta assolutamente. A maggior ragione se quegli stessi attivisti in separata sede lamentano la scarsità di partecipazione trans alle loro attività, non rendendosi conto né del maggior stigma presente sulla popolazione trans, né delle maggiori difficoltà di una persona trans a intraprendere un percorso militante per molti motivi, ad esempio un livello di disoccupazione preoccupante (nonché la necessità di mantenere un lavoro quando lo si ha) e la discriminazione transfobica all’interno della stessa comunità LGBTQIA+. In che misura è possibile pensare a collettivizzare i propri sforzi se non ce la si fa a tenere in piedi neanche sé stessi? Me lo chiedo.

La morte di tutte queste persone mi rende furioso. Con tutte le fiammelle del candle light vorrei mettere a ferro e fuoco le città. Quando ci picchiano, ci fanno del male, ci uccidono, ci stuprano, ci minacciano io voglio la lotta, voglio vendetta, voglio urlare fino a rimanere senza voce. Ci tengo troppo a tutte e tutti noi, per reputare lo stare in un silenzio ad una veglia qualcosa di sufficiente. Non voglio ricordare i miei morti col dolore, voglio che il periodo in cui sono stati in vita non sia vano. E voglio lottare affinché i vivi rimangano tali. Troppe e troppi di noi sanno cos’è la depressione, hanno pensato almeno una volta al suicidio o l’hanno tentato, soffrono di transfobia interiorizzata e non considerano la propria come una condizione esistenziale, bensì una malattia. Io voglio promettere a ogni persona transessuale e transgender che l’esistenza piena di miserie che ci è riservata non è né meritata, né ineluttabile e che insieme possiamo distruggerla; che la sofferenza è privata, ma il privato è sociale, e il sociale è privato. Non voglio sottovalutare l’importanza del ricordo. Ma la memoria è qualcosa di più del ricordo: è rendergli giustizia. E non legalità, ma giustizia sociale.

Io voglio che si arrivi ad un giorno in cui non bisognerà più preoccuparci per la sicurezza e in cui non ci servirà mai più abituarci all’idea di dover essere pronti a difenderci da qualcuno ogni volta che usciamo di casa, ma finché quel giorno non arriverà, terrò il coltello fra i denti. Ma non lo desidero, quel giorno: lo pretendo.

Procreazione politicamente assistita

Abbiamo trovato questo bell’articolo su Lavoro Culturale e felicemente  lo ripostiamo. Buona lettura!


Un articolo di Beatriz Preciado apparso su Libération del 27 settembre 2013 a margine del dibattito francese sull’estensione della procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali. La traduzione del testo e le note sono a cura di Federico Zappino.

Sostenere che il rapporto sessuale tra un uomo e una donna sia necessario alla riproduzione è così poco scientificamente autorevole, in termini biologici, almeno quanto in passato lo era dire che la riproduzione potesse avvenire solo tra due soggetti che condividono lo stesso credo religioso, lo stesso colore della pelle o la stessa classe. Di conseguenza, se oggi siamo perfettamente in grado di riconoscere in quelle affermazioni precise prescrizioni politiche intrise di ideologie religiose, di razzismo o di classismo, dovremmo esserlo altrettanto quando si tratta di smascherare l’ideologia eteronormativa scandagliando quegli argomenti che rendono l’unione sessuale/politica tra un uomo e una donna la conditio sine qua non della riproduzione.

Dietro alla difesa dell’eterosessualità come unica forma di riproduzione naturale, sostengo, si cela la confusione fallace tra “riproduzione sessuale” e “pratica sessuale”. La biologa Lynn Margulis, ad esempio, ci insegna che la riproduzione sessuale umana è meiotica: la maggior parte delle cellule del nostro corpo è diploide, e ciò significa che sono composte da due serie di ventitre cromosomi ciascuna. Al contrario, gli ovuli e gli spermatozoi sono cellule aploidi: hanno, cioè, solo ventitre cromosomi a testa. La riproduzione sessuale, pertanto, non richiederebbe di per sé l’unione – né sessuale, né politica – di un uomo e di una donna. La riproduzione non è né eterosessuale né omosessuale: è un semplice processo di ricombinazione del materiale genetico di due cellule aploidi.

Le cellule aploidi, va da sé, non si incontrano mai per caso. Tutti noi esseri umani ci riproduciamo in maniera “politicamente assistita”. La riproduzione umana continua infatti a presupporre la socializzazione del materiale genetico dei corpi attraverso pratiche più o meno irreggimentate: la tecnica eterosessuale (l’eiaculazione, cioè, di un pene dentro una vagina), o l’amichevole scambio di fluidi corporei, o mediante un’iniezione in ospedale, o su di una piastra di Petri in laboratorio.

Nel corso della storia, d’altronde, forme tra loro assai diverse di potere hanno tentato di esercitare uno specifico controllo proprio sui processi riproduttivi. Fino al ventesimo secolo, ad esempio, quando ancora non era possibile intervenire a livello molecolare, la forma di controllo più pressante era proprio quella esercitata sui corpi delle donne, i quali erano declassati a meri uteri potenzialmente ingravidabili. Da un lato, l’eterosessualità veniva veicolata culturalmente come tecnologia sociale di riproduzione politicamente assistita. Dall’altro, il matrimonio costituiva l’istituzione patriarcale necessaria a garantire un mondo privo di anticoncezionali o di test di paternità: qualsiasi prodotto uterino era considerato legittima proprietà del pater familias. È in quanto parte integrante di un progetto biopolitico in seno al quale l’intera popolazione è resa oggetto di calcoli demografici, dunque, che l’eterosessualità assurge a dispositivo di riproduzione nazionale.

Tutti quei corpi la cui sessualità non potrebbe dar luogo a una riproduzione vengono esclusi dal “contratto eterosessuale” (per dirla con Carole Pateman[1]
o con Judith Butler[2]) che fonda le democrazie moderne. Il carattere asimmetrico e profondamente normativo di tale contratto, d’altronde, farà dire a Monique Wittig, negli anni Settanta, che l’eterosessualità non è solo una tra le tante pratiche sessuali, ma costituisce piuttosto l’essenza di uno specifico regime politico[3].

Per le persone omosessuali, per alcune persone transessuali, per alcune persone eterosessuali, per le persone asessuali e per alcune persone con diversità funzionali, lo scambio dei propri materiali genetici non può avvenire secondo il format collaudato “pene-vagina-eiaculazione”. Ma ciò non significa che esse non siano fertili o che non abbiano il diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico. Omosessuali, transessuali, asessuali: noi non siamo soltanto delle minoranze sessuali (beninteso: uso l’espressione “minoranza” non in termini statistici, ma alla Deleuze, per indicare un segmento sociale politicamente oppresso). Siamo anche delle minoranze riproduttive.

Fino a questo momento abbiamo pagato il prezzo della nostra dissidenza sessuale anche con il silenzio genetico dei nostri cromosomi. Non ci è stata sottratta solo la possibilità di trasmettere il nostro patrimonio economico: ci è stato confiscato anche quello genetico. Omosessuali, transessuali, e tutti noi corpi considerati come “handicappati”, siamo stati politicamente sterilizzati o messi di fronte al vicolo cieco di accedere alla riproduzione avvalendoci di tecniche esclusivamente eterosessuali. L’attuale battaglia per l’estensione della procreazione medicalmente assistita ai corpi non-eterosessuali è pertanto una battaglia politica ed economica per la depatologizzazione delle nostre vite e per l’autodeterminazione nella gestione dei nostri materiali riproduttivi. Il rifiuto del governo francese di estendere la procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali, mi sembra, supporta le forme egemoniche di riproduzione e ci conferma che il governo di Hollande perpetua la politica dell’eterosessualità obbligatoria di Stato.

Note

[1] Cfr. Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. or., The Sexual Contract, Stanford University Press, Stanford 1988).

[2] Cfr., in particolare, Atti performativi e costituzione di genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista, trad. it. a cura di F. Zappino in Canone inverso. Antologia di teoria queer, a cura di E. A. G. Arfini e C. Lo Iacono, ETS, Pisa 2012 (ed. or., Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in “Theatre Journal”, The Johns Hopkins University Press, 40, 4, December 1988); Ead., Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013 (ed. or.,Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990); Ead., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. or., Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000).

[3] Cfr. The Straight Mind, letto per la prima volta alla Modern Language Association Convention nel 1978 e poi pubblicato in “Feminist Issues”, 1, Summer 1980.

Proposte per una rivolta trans

Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.

Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.

Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.

Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.

È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.

Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è  buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.

Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans  non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione. 

Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e  un punto di vista  politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto  quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.

Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i  cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e  una tolleranza  non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.

Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.

Sono bisessuale, e orgoglioso di esserlo!

 

Sono bisessuale. Non mi piacciono uomini e donne, mi piacciono più generi.

Sono bisessuale. Gli eterosessuali pensano di potermi normalizzare, gli omosessuali credono che io sia un gay velato che non vuole fare coming out. In ogni caso, pare che chiunque ne sappia sempre più di me sul mio orientamento.

Sono bisessuale. È considerato accettabile dire che sono confuso, indeciso e che la mia è solo una fase; affermazione che, se rivolta ad una persona esclusivamente omosessuale, è accolta – giustamente – con orrore.

Sono bisessuale. Il mondo è abituato a vedere monosessualità ovunque, e la percezione del mio orientamento avviene sulla base di chi frequento, e quindi sono invisibilizzato. E se prendo per mano un ragazzo, allora sono ‘finalmente gay dichiarato’,  e se sto con lei, per magia divento un omosessuale che finge di essere etero.

Sono bisessuale. Con scherno, si dice che una persona bisessuale è contenta a prescindere da quello che trova negli altrui pantaloni. Avrete mica paura della liberazione dei generi e dell’accettazione di più di due set predefiniti di corpi sessuati?

Sono bisessuale. Se guardo un film qualunque e c’è un personaggio bisessuale, posso essere sicuro che nella quasi totalità dei casi sarà un personaggio palesemente instabile e con problemi di salute mentale. Se non sarà così, allora sarà descritto/a come gay o lesbica.

Sono bisessuale. Quando lo affermo, automaticamente si dà per scontato che mi piaccia chiunque e che questo sia in qualche maniera un segnale di consenso da parte mia nei confronti di avances di vario tipo.

Sono bisessuale. Se fossi monogamo, mi direbbero che non sono un vero bisessuale e il/la mi@ partner non si fiderebbe di me perché potrei lasciarl@ per una persona del mio o di altri generi. Ma siccome sono poliamoroso, mi dicono che rinforzo stereotipi.  In ogni caso non va bene: rovino l’immagine del gay zitto e buono che si sposa, si ingozza di torta nuziale, è felice così e chissene importa se intanto il tasso dei suicidi lgbtqia+ sale in maniera preoccupante.

Sono bisessuale. Ed ogni personaggio storico con una relazione con una persona del suo stesso sesso è considerato automaticamente omosessuale, a prescindere da quello che effettivamente provava nei confronti degli altri generi.

Sono bisessuale. Conosco molte associazioni omosessuali e poche associazioni transessuali. E di associazioni bisessuali? Soltanto due.

Sono bisessuale. Non dò per scontato che il mondo sia binario, eppure mi sento dire da mille persone che non-si-etichettano o che utilizzano qualche etichetta-ultra-super-inclusiva frasi come no, preferisco dirmi pansessuale e quando chiedo loro perché, mi rispondono che identificarsi come bisessuale implicherebbe affermare l’esistenza di due soli generi e sarebbe transfobico nei confronti delle persone con un’identità di genere nonbinaria. Subito dopo, affermano che a loro piacciono uomini, donne e trans. Come se considerare quel ‘trans’ un mondo a sè stante non fosse transfobico, e soprattutto ignorando che io stesso sono un uomo trans, e sono bisessuale. Tuttavia, se mi identificassi come pansessuale, non esisterei lo stesso perché sarebbe considerata una nuova e inutile etichetta da hipster.

Sono bisessuale. Non ho scelto di esserlo, ma dal momento che lo sono scelgo di vivere la mia vita in maniera favolosa, splendente, liberatoria e rivoluzionaria e piena di rabbia, gioia, solidarietà, orgoglio.  E lotto per la mia liberazione e quella di tutte le persone bisessuali!