Un compagno ha bisogno di aiuto

È un bel po’ che di questo blog non rimane che un archivio. Ma vi chiediamo un ultimo sforzo finale per uno di noi che se la sta passando molto male, e che ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non possiamo fare altro che linkarvi il crowdfunding messo su dalle persone a lui più care e sperare nella solidarietà militante di cui ci facciamo parecchio vanto.

Salve a tutti. Siamo Elena, Varxh e Chiara, tre persone molto vicine a Den. Abbiamo deciso che quest’ultima se la cavava meglio con le parole, e le abbiamo chiesto di parlarvi di lui. 

È sempre strano cercare di strizzare in qualche riga tutto quello che si dovrebbe sapere di un essere umano, ma per amor di sintesi tenteró. Conosco Den da qualche anno, e mi è sempre sembrato una persona fantastica. È comprensivo, pirotecnico, folle il giusto, e curioso di tutto. In un giornata tipo lo si trova a divorare (metaforicamente) libri di Hawking o di qualunque altro astrofisico conosciuto (la grande passione), o variegati pezzi letterari e non di scibile umano, solitamente circondato da palle di pelo miagolanti. Ha solo 21 anni, e giá ha all’attivo vari articoli su giornali online (argomenti: intersezionalità, femminismo, critica sociale), unapartecipazione mensile su Radio Onda Rossa, vari interventi in eventi di centri sociali romani. Insomma, oltre a essere un umano fantastico è anche molto coinvolto socialmente, cosa che gli riesce benissimo. Scrittore insonne, ha anche un blog, dove trovate poesie e pezzi suoi, scritti probabilmente alle 4 del mattino in raptus creativi improvvisi (con immancabile essere micioso annesso). Beh, immaginate un Baudelaire giovane e post-moderno che al chiaro di luna batte a macchina fantasie meravigliose e avete piú o meno l’immagine che cerco di trasmettere (togliete l’assenzio e rimpiazzatelo con camomilla fumante). Qui e qua troverete il resto che fa. 

Venendo al punto saliente: perché aiutarlo? Se le immagini accattivanti descritte prima non bastassero come motivazione, ne aggiungerei una ulteriore. La vita, giá prima ma recentemente peggio, lo ha preso a sassate innumerevoli volte in molti ambiti diversi. È una persona che, con le adeguate risorse e possibilità sará grandi cose, senza dubbio. E il fatto che per casualità lui non le abbia non mi sembra un buon motivo per cui non dovrebbe riuscire a fare qualcosa di meraviglioso nella vita. Tutti noi quindi abbiamo deciso di aiutarlo, creando questa campagna, con un piccolo contributo da ognuno la situazione migliorerà di sicuro. Spero di avervi fatto conoscere almeno un pó la persona che conosco io.

Ritorniano a noi: aprire un crowdfunding implica avere una posizione precisa. È l’idea che il singolo non debba essere abbandonato a se stesso, che la partecipazione collettiva non debba ridursi a sporadici atteggiamenti di elemosina e pietismo, ma essere un sostegno attivo, permanente, reciproco, umanizzato, solidale: responsabilità verso gli altri. Vogliamo che gli scogli, gli ostacoli di ogni giorno non siano solo un problema di Den e le persone a lui immediatamente vicine.

Da molti anni soffre di gravi forme ansiose e depressive, non trattate perché nessuno si è mai accorto e in ogni caso, nessuno aveva risorse per farlo, ormai diventate ingestibili e pericolose. C’è urgentemente bisogno di un intervento immediato.  Si trova a venire a patti con varie problematiche fisiche – tra cui dolori neuropatici mai arrivati a attenzione medica – che uniti alla sua condizione di autistico annullano drasticamente le possibilità di spostarsi da casa senza un mezzo di trasporto idoneo, non posseduto. Non siamo più disposti a tollerare la marginalizzazione, l’indifferenza, il rimando, l’abilismo di servizi che si sottraggono al prenderlo in carico, individuando nel suo sostegno qualcosa di accessorio e in cui non investire: chiediamo partecipazione di tutti nel garantirgli una psicoterapia, un sostegno medico, mezzi di trasporto idonei, un computer che è l’unico mezzo con cui può lavorare. Tutte cose che non si può permettere viste le disastrose condizioni economiche della sua famiglia.

Speriamo vivamente nella vostra solidarietà <3 

Guadagnarsi il diritto di essere vegan: Sull’intersezione tra privilegio abilista e potere specista

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ultimamente, nel leggere il sempre provocatorio blog Vegans of color, ho provato sentimenti contrastanti. Riflettendo sui conflitti razziali, posso affermare in tutta onestà di essere stato molto più fortunato della maggior parte delle/i vegan di colore, a parte alcuni casi di rilievo. Il conflitto reale che ho dovuto affrontare nella mia esperienza di vita è un pò diverso da quello della maggior parte della gente di colore, perché sono cresciuto in mezzo ad altre persone di colore, in un ambiente autenticamente multiculturale. In quanto membro di una famiglia genuinamente multiculturale (e onnivora), ogni conflitto vegan/onnivor* è sorto quasi esclusivamente a causa di questioni relative all’abilismo.

L’ “alterità” che ricopre un ruolo importante nella mia Persona politico-sociale ha la forma della disabilità: “paralisi cerebrale” significa che mi è stata diagnosticata una disabilità di apprendimento e che sono parzialmente sordo a causa di un incidente di pattinaggio. Ora, prima di pensare: “Ecco, ora comincia la triste storia”, lasciatemi dire che l’unico scopo di questo post è quello di esaminare le interconnessioni di dominazione che tanto affliggono i rapporti umani; questo non è, in alcun modo, un concetto nuovo nell’ambito del discorso abolizionista animalista, né è necessariamente indicativo (spero) di un mio voler stimolare, attraverso speculazioni filosofiche, reazioni di pietà. Se si è vegan diversamente abili costrett* ad affrontare il problema concreto di dipendere da persone speciste (non importa quanto comprensive) per la sopravvivenza quotidiana (alimentare e non), si ha sicuramente voce in capitolo, anche solo per schiarirsi le idee.

Il paternalismo specista subito dalle persone diversamente abili tende ad essere molto più insidioso rispetto ad altre questioni di intersezionalità, semplicemente perché è apparentemente molto più logico di primo acchito. Chi può incolpare il genitore tormentato dal dover organizzare pasti differenti per chi è convintamente vegan, ma fisicamente e/o mentalmente mal equipaggiato per esserlo?

Il pregiudizio abilista può esprimersi anche attraverso forme più insidiose, in quell’attivismo per i diritti degli animali che presuppone un’intima familiarità con ogni singolo ‘argomento caldo’ del movimento, o per lo meno la possibilità di mostrarsi ben versati nelle svariate discipline che vanno dalla legge, alla sociologia, all’etica. Anche se ciascuna di queste discipline è senza dubbio attinente alla più ampia questione dei diritti degli animali – e può essere utilizzata con grande efficacia – sarebbe così strano se la persona vegana, che per qualsiasi ragione (ad esempio disabilità) non possa onestamente affrontare in maniera così approfondita questi problemi, leggesse questa richiesta come una porta sbattuta in faccia? Sono davvero stanco di vedere i miei problemi psicoeducativi /organizzativi usati per demolire la logica del’essere vegan. Il veganismo, con una condiscendente pacca sulle spalle, diventa non una posizione etica con la quale fare i conti, ma un favore benevolo concesso dall’onnivoro gentile e sensibile al petulante e ipersensibile “amante degli animali”.

L’infido assunto costantemente ripetuto è che dovrei “guadagnarmi il diritto di essere vegan” attraverso forme di indipendenza che mi permettano di raggiungere più rapidamente quel giorno felice nel quale le mie capacità organizzative, le mie disabilità di apprendimento e la mia memoria, tutte comincino a funzionare secondo un parametro oggettivo di riferimento esterno che mi conferirà il “diritto” di vivere come un non-specista. Capite perché nessun criterio esterno in materia di “liceità” del veganismo sia credibile? Non la cultura, non la tradizione religiosa, non la capacità, non una formazione costosa o specialistica. Non si finisce mai di imparare alla scuola di pensiero abolizionista animalista, e il costo del biglietto è scandalosamente basso.

Tutte le persone devono diventare vegan per gli animali, indipendentemente dalle loro abilità. L’attivismo di ognun* è importante, e non nella modalità condiscendente in stile “siamo tutt* vincenti”, ma, come ho detto più volte su questo blog, perché ognun* di noi è l’unica persona che può raggiungere tutte le altre. Non riesco a fare ciò che fai tu, tu non puoi fare ciò che faccio io. Peter Singer non è davvero, in ogni caso, il modello per qualsiasi tipo di movimento per i diritti degli animali, ma è interessante che il supposto “padrino” del movimento sposi punti di vista che potrebbero essere definiti quasi-eugenisti. Siamo davvero così ansios* di essere parte di un movimento composto solo da coloro ai quali è concesso valore in base a certi criteri predefiniti, quando stiamo combattendo proprio la validità dell’esistenza di criteri predefiniti?

Dobbiamo rifiutare di impegnarci nell’ “utilitarismo pratico” nel nostro attivismo. Abbiamo un disperato bisogno di una rielaborazione radicale del significato del veganismo nel discorso sociale, al di fuori di un paradigma di privilegio alla moda. In realtà, il correttivo di tutto questo è abbastanza semplice. L’idea che io abbia il “diritto” (guadagnato o meno) di essere vegan è al suo interno alimentato dallo specismo. Invece, è vero il contrario: Non ho il diritto di non essere vegan. Il veganismo non è una scelta, di per sé. Lo “scelgo” solo nel senso in cui mi rendo conto che vivendo in un mondo specista, sono moralmente obbligato a vivere l’abolizionismo nella mia vita.

Né il veganismo è una montagna russa filosofica attraverso la quale mostrare le proprie incredibili capacità logiche. Si tratta di un imperativo assoluto che tutt*, indipendentemente dalla propria eloquenza, istruzione e capacità di mettere in pratica decisioni personali dovrebbero abbracciare. Poco importa agli animali non-umani che la vostra posizione possa essere sostenuta con riferimenti incrociati ad ogni brano di letteratura attinente, o anche che non cuciniate tanto bene. Gli unici che hanno a cuore tali banalità sono specist* o vegan con qualcos’altro da dimostrare.

Compagn* attivist* vegan, io umilmente domando una rinnovata consapevolezza delle esperienze vissute da altr* vegan; il veganismo è semplice; lasciamo che sia semplice, e usiamo tale semplicità per attirare tutte le persone possibili. Ricordate che non stiamo combattendo la stupidità, ma l’ignoranza; sosteniamo non la conoscenza riservata a pochi, ma il comune senso morale. Il veganismo è semplice, così spesso affermiamo, e così è, in linea generale; ma alcun* di noi stanno compiendo questo viaggio con un passo meno leggero e un pò più zoppicante.

* Se sei un* giovane che vive da abolizionista animalista sotto la tutela di genitori onnivori, sappi di avere il mio più profondo rispetto. Continua la tua buona battaglia – non sei sol*.

Stronzate che le femministe bianche devono evitare

tumblr_inline_myf7ulnaPi1qib5epArticolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di frantic.

Sono una femminista bianca, e lasciate che vi dica una cosa: il femminismo bianco* è una bella merda. E’ escludente, oppressivo, ed è utile a marginalizzare ulteriormente le persone maggiormente oppresse dalla misoginia. Sfortunatamente, il femminismo bianco è anche lo status quo del femminismo occidentale, nel senso che le femministe bianche hanno accesso alle più importanti piattaforme, maggiore accesso alle risorse e ai media, e sono generalmente considerate la voce del femminismo. In teoria, chi fosse così sinceramente preoccupat* dell’eguaglianza userebbe questi vantaggi per amplificare la voce delle donne di colore. Nella pratica, la supremazia bianca è reale e le femministe bianche spesso sembrano dimenticare che il proprio privilegio bianco rende loro una passeggiata calpestare le donne di colore che lottano per smantellare il patriarcato.

Pertanto, in onore della giornata Internazionale delle Donne, ecco una lista non esaustiva delle stronzate che le femministe bianche devono evitare:

1. Credere che le proprie esperienze di marginalizzazione siano universali

Alle femministe bianche piace far finta di capire. Lo capiscono perché ci sono passate. Hanno sperimentato il sessismo. Hanno sperimentato la misoginia. Sono state superate in caso di promozioni, hanno fischiato loro dietro per strada, e hanno dovuto stare a sentire tipi noiosi alle feste – quelli che hanno bisogno di circa dieci anni del vostro tempo per spiegarvi quanto siano incredibilmente affascinanti. Queste donne bianche sono state nella trincea femminista per anni, e alla stregua di vostro nonno, oramai disilluso, hanno visto tutto. Capiscono l’oppressione di tutte le donne, chiaro?
Tranne che non è così. L’intersecarsi delle diverse forme di oppressione significa che le donne queer, razzializzate, disabili o trans sperimenteranno la misoginia in modi molto diversi (e spesso più letali) di quanto le donne bianche facciano. Affermare che, in quanto donna, comprendi perfettamente tutti i diversi modi attraverso i quali le donne sono emarginate non solo è terribilmente inesatto, è anche chiaramente ignorante. Solo perché non disponete del privilegio maschile non vuol dire che non siate orgogliose portatrici di tutta una serie di altri tipi di privilegio. E che vi piaccia o no, queste varie forme di privilegio determinano come le altre persone ti trattano. Le donne bianche non sono le uniche depositarie della donnità, e non devono spiegarla alle donne di colore. Fine della storia.

2. Lamentarsi di come siamo tutte nella stessa squadra

Altrimenti detto: «Perché sei così cattiva con me?»
Le femministe bianche hanno solitamente questa fantasia nella quale affrontiamo questa belva schiavista e gigantesca chiamata Il Patriarcato, e poi una volta portato a termine questo compito, tutto sarà magico e i problemi del mondo saranno risolti. Spiegano in maniera vaga che distruggendo il Patriarcato finirà anche il razzismo, la transfobia, l’omofobia e praticamente tutti gli altri soprusi sociali, ma non sembrano avere una idea chiara di come esattamente questo avverrà. Ma succederà! Lo dice la scienza.
Queste femministe sceglieranno cause specifiche da sostenere – spesso quelle delle quali beneficiano maggiormente donne etero, bianche, cisgender – ed esiteranno, se qualcuno le metterà in discussione sul perché ignorino altri tipi di marginalizzazione che hanno un impatto maggiore, ad esempio, sulle donne di colore o transessuali. Ma siamo tutte nella stessa squadra, twitteranno freneticamente. Pensavo fossi dalla mia parte. Siamo tutte donne, no? Il sottotesto è: devi aiutarmi ora con le cose che mi danneggiano direttamente, e poi forse un giorno ti aiuterò. Non sembrano mai chiedersi perché sono sempre loro che decidono i confini tra “le parti”, o perché sono sempre loro a decidere chi è in che squadra.

3. Disquisire di Hijabs (o burqa, o dell’aborto selettivo, o qualsiasi altra cosa, in realtà)

Davvero: Voglio solo vedere tutte le femministe bianche farsi da parte quando si parla di hijab. E’ incredibile come queste donne parlino di libera scelta quando si tratta di gravidanza, ma poi diano di matto quando una donna decide di coprirsi i capelli.
Sentite, ho capito. Pensate che queste donne siano oppresse, anche quando molto gentilmente e pazientemente vi spiegano che non lo sono. Ma voi lo sapete meglio di loro, giusto? Perché vi siete liberate dall’oppressione di … qualcosa? Pensate che la loro cultura o religione le stia costringendo a fare qualcosa che in realtà non vogliono, e se la pensano in modo diverso, beh, è solo la loro misoginia interiorizzata a parlare. Donne bianche: non siete davvero più illuminate di chiunque altr*. Smettetela di parlare. Andate a dormire.
Inoltre, spiegatemi esattamente come, dire ad una donna che non dovrebbe indossare uno specifico articolo di abbigliamento sia “autodeterminazione”. Mi pare che limitare le scelte delle donne sia l’opposto del femminismo.

4. Essere convinte che tutte le sex worker siano disgraziate infelici che odiano le proprie vite

Questo non è in realtà specifico delle donne bianche, ma lo includerò perché ho visto un sacco di femministe bianche tirare fuori questa merda, che francamente è spazzatura.
Cioè, questo è letteralmente quello che state dicendo: “Credo che le donne abbiano capacità di decidere per sé stesse e siano in grado di prendere decisioni sulle loro vite, tranne quando si tratta di lavoro sessuale, a quel punto devo supporre che o qualcun* le stia sfruttando o che siano traditrici di genere autolesioniste, a cui importa solamente dello sguardo maschile.”
Dunque, solo per essere chiare, pensate che le donne siano in grado di fare delle scelte, tranne quando si tratta di una scelta con la quale siete in disaccordo, a quel punto siete decisamente sicure che si tratti di coercizione. Siete anche convinte che le sex worker debbano essere “salvate”, anche se sono contente di quello che fanno. Preferireste vedere le donne messe ulteriormente ai margini da leggi anti-prostituzione, piuttosto che trovare il modo di provvedere alla sicurezza delle sex worker. Anche in questo caso, mi spiegate in che modo questo si configuri come un atteggiamento pro-donna?

5. Sostenere che tutte le altre forme di oppressione sono finite e che abbiamo bisogno di concentrarci sulle donne

ARQUETTE TI STO GUARDANDO.
Sentite, so che il suo discorso in occasione degli Oscar è stato criticato e analizzato a morte, perciò non mi dilungherò troppo su questo punto, ma – che diamine, dai! Prima di tutto, affermare che abbiamo bisogno che “tutte le persone omosessuali e le persone di colore per le quali tutte abbiamo lottato, combattano per noi ora” insinua in qualche modo che nessuna di quelle persone omosessuali o di colore fosse donna, no? In secondo luogo, davvero, leggi un libro o informati in altro modo, perché il razzismo e l’omofobia e la transfobia sono tutt’altro che finiti. Terzo, sei una donna bianca che ha beneficiato di un enorme privilegio nel corso della sua intera vita. Non puoi dire agli altri gruppi marginalizzati cosa fare.
So che le sue osservazioni erano ben intenzionate. Lo capisco. Ma proprio questo costituisce gran parte del problema – le femministe bianche lanciano merdate di questo tipo a casaccio, quindi si sentono offese quando vengono criticate, e si ritorna direttamente al punto 2 di questa lista. Trattenete il vostro privilegio per un interminabile secondo, e smettetela di blaterare su come tutt* siano cattiv* quando vi fanno notare le vostre cazzate.
Femministe bianche: questo è un invito a piantarla con le stronzate. Il senso dell’uguaglianza non è quello di arrivare in cima con le unghie e coi denti, in modo da poter trattare le altre persone tanto male quanto hanno trattato voi dei tizi bianchi – abbiamo bisogno di sostenerci l’un l’altr*, amplificare le rispettive voci, e magari lasciare che qualcun’altr* ci dica se ci è permesso di stare nella loro squadra. Perché, come dice Flavia Dzodan, se il femminismo non è intersezionale, allora mi dispiace, ma è una stronzata totale.

* Con “femminismo bianco” intendo una certa tipologia di donne bianche etero, cisgender e normodotate, convinte che il loro “femminismo” sia migliore e più “autentico” di quello di chiunque altr*

Auguri, Intersezioni!

queer-your-tech-header_FINAL_640webL’intersezionalità non è una teoria perfetta.

L’intersezionalità è una teoria – e una pratica – che ci permette di affrontare questioni stringenti quali il privilegio, che ci riguarda tutt@ e funziona, come sottolinea pattrice jones, perchè si rende invisibile ai nostri stessi occhi.

L’intersezionalità rende visibili le connessioni, non solo tra le teorie o tra le lotte, ma quelle esistenti fra tutti gli esseri appartenenti al vivente. Avere un approccio intersezionale significa fare spazio all’altr@, a ciò che per l’altr@ è importante, fare spazio ai dolori, alle fragilità, alle difficoltà vissute dagli altri animali, umani e non; fare spazio ai desideri, non avere paura di sé stess@, nè sentire di aver già capito ogni cosa…tutto questo è intersezionalità.

Intersezionalità è confronto, rapporto, inclusione. E’ partecipazione, comunione, ascolto.

L’intersezionalità esiste nell’esperienza vissuta dall’altr@, dai suoi desideri frustrati, dalle sue speranze, dalla sua ricerca di spazio, fisico, mentale, di esistenza, di agibilità politica; nell’autocritica che ci spinge a svestirci dei nostri comodi panni per indossare quelli altrui, che ci spinge ad andare oltre ai nostri limiti, oltre alla nostra visione ristretta delle cose del mondo e alle nostre convinzioni.

L’ottica intersezionale (e queer, e transgender e…) supera i confini di spazio, di pelle, del dato una volta per tutte; rimescola le carte e il dna, amplia orizzonti togliendoci i paraocchi, ed è questa la sua potenza,  questa la sua qualità, questa la sua insopprimibile speranza: smascherare le nostre fragilità, i nostri attaccamenti, i privilegi che ognun@ di noi ha e che detestiamo dover guardare, per scoprire che quotidianamente agiamo le stesse dinamiche di sopraffazione che siamo così pront@ a criticare in quell@ che identifichiamo come “nemici”.

L’intersezionalità ci fa scoprire di essere meglio inserit@ nel sistema di quanto credessimo. Ci fa scoprire di essere confus@ e contraddittori@, ci mette di fronte ai nostri limiti e ci costringe ad accettarli, ma anche a volerli superare, in uno sforzo e una tensione estrema, e non abbassare mai la guardia. Perché in qualsiasi momento l’oppressor@ che è in noi può prendere il sopravvento, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

L’intersezionalità è uno strumento prezioso, e sicuramente ne verranno di migliori, ma oggi, nella nostra pratica di femministe, antispeciste, di persone che stanno cercando di smascherare un sistema di sfruttamento totale, l’intersezionalità è necessaria.

Vogliamo tutto, dicevamo un tempo: ma siamo anche disposte a rinunciare a tutto*?

 

* Quantomeno, a tutto il privilegio che riduce l’altr@ a …niente?

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

L’intersezionalità in discussione: la depoliticizzazione bianca (prima parte)

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Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza. (bell hooks, Elogio del margine)

Proponiamo la traduzione di un articolo pubblicato in originale qui, sul tema dell’intersezionalità. Le critiche mosse dall’autor@, che mette in guardia sui pericoli insiti nell’appropriazione del termine da parte di soggett@ bianch@ e anche da parte di certo ambito accademico ci ha dato notevoli spunti di riflessione, che abbiamo deciso di condividere qui.

Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Buona lettura!

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L’uso del termine intersezionalità in riferimento all’inclusione in un’ottica di lotta militante di razzismo, sessismo e lotta di classe è stato proposto da Kimberle Crenshaw all’interno di un articolo scientifico, disponibile qui in lingua francese. Se l’articolo è stato pubblicato nel 1991, possiamo dire che l’intersezionalità esisteva da quando le donne schiave, poi i/le colonizzat* e gli/le sfruttat*, hanno resistito contro il dominio di razza, classe e genere che le colpiva, indipendentemente dal fatto che la cosa fosse o meno teorizzata. Si è comunque avuta una forte scossa militante nell’attivismo degli anni 1970: le lotte delle donne nere hanno acquisito status politico. Nacquero così il Black feminism, e più tardi il Womanism. Le donne di colore erano ormai al centro, non ai margini.

Purtroppo, l’intersezionalità ha subito sempre più un processo di depoliticizzazione da parte di accademic* bianch*. In un articolo intitolato “Lost in translation? Femminismo nero, Giustizia sociale, e Intersezionalità” Patricia Hill Collins, figura di spicco del femminismo nero, si interroga su quello che è andato perso nel passaggio dall’intersezionalità della pratica militante femminista nera alle università. Sirma Bilge parla anche di “sbiancamento dell’intersezionalità”. Oltre alle/gli accademic* bianch*, sono coinvolt* nella sua depoliticizzazione le/gli attivist* bianch*, anche slegat* dal mondo accademico.

Sono dunque tre, al momento, i problemi principali che riguardano l’intersezionalità, o meglio ciò che ne viene fatto:
1) Trasmissione elitaria del concetto
Se l’intersezionalità nasce dalla lotta degli oppressi negli Stati Uniti, mi sembra che l’avvento dell’intersezionalità in Francia sia stato reso possibile dall’università. Quando un concetto viaggia e arriva dall’università, o viene reso visibile dall’università (che non è lo stesso), o dalla parvenza di attivismo all’interno delle pratiche che discendono da quello stesso elitarismo accademico e che mobilitano reti accademiche, esiste necessariamente un pregiudizio di razza e classe su chi se ne approprierà, anche se alcune delle cose offerte dal mondo accademico in materia sono piuttosto interessanti.
2) Intersezionalità come sinonimo di “convergenza delle lotte”
Penso che questo sia il punto che più m’infastidisce. L’intersezionalità non è stata costruita per creare alleanze militanti tra bianch* e non bianch*, soprattutto perchè le alleanze miste sono quasi sempre a vantaggio de* dominant* che impongono la propria visione. L’intersezionalità è stata, e per alcun* è ancora, e deve restare, un modo per le/gli oppress* non bianch* su diversi piani di essere AL CENTRO e non AL MARGINE. Noi non dobbiamo far convergere le lotte, perché questa espressione dimostra che le lotte continuano ad essere pensate da posizioni che non sono le nostre, e che si tratta semplicemente di evocare ciò su cui queste lotte si uniscono (e vedremo chi è che evoca…).
Noi SIAMO la convergenza. Noi non abbiamo nulla su cui convergere. Noi siamo l’intersezionalità, punto. E qui, noi significa donne, trans, queer, intersessuali, omosessuali, disabili non bianch*. Ponetevi la domanda: perché sono sempre bianch* di sinistra a parlare di “convergenza delle lotte”? Dal nostro punto di vista esiste una confusione terribile tra il nostro interrogarci sui punti deboli della nostra politica (legittimo) e il fatto che le/i bianch* impongono la “convergenza delle lotte ” (illegittimo), che spesso equivale a dire “seguite la nostra agenda politica”.
L’intersezionalità è sempre più sradicata, e la sua storia cancellata. Piuttosto che essere uno strumento delle comunità nere e non bianche, diventa uno strumento “femminista”, uno strumento di lotta “globale” contro il sistema. No, no e no. L’intersezionalità non è femminista, è femminista-nera o womanist negli Stati Uniti, è afro-femminista in Francia, come viene chiamata sui social network, e potrebbe servire alle/i trans e gay non bianch* se comprendono il valore di questa parola (perché in realtà, a parte la parola, il processo al quale rimanda l’intersezione è già esistente). Ma non è certo un giocattolo per le/i bianch* per dire alle/i non bianch* di seguire la loro agenda o le loro modalità di lotta, con il pretesto della “convergenza delle lotte!”
3) Intersezionalità come un modo per non mettere più in discussione le questioni razziali
Ecco, questo è l’aspetto “vetrina” dell’intersezionalità. Io sono bianc*, mi proclamo “intersezionale”. Ok, va bene, guadagno punti. Definirsi intersezionale non significa nulla se si è bianc*. Nulla.
Usare il termine in questo modo è una cosa oscena, e le/i bianch* sapranno leggere molto bene lo scopo nelle mie critiche, vale a dire una presunta immunità che si guadagnerebbe  sulla base di una rimessa in discussione dei discorsi e delle pratiche, solo perché si dichiarano “intersezionali”. Basta essere dalla parte giusta su alcune questioni, come, guarda caso, essere contro la violenza della polizia nel suo aspetto razzista, essere contro l’islamofobia e il divieto di indossare il velo, e alcun* bianch* credono di avere il diritto di fare o dire di tutto e soprattutto di venire a spiegare come va  la vita alle/i post – colonizzat*, rimproverare le/gli  antirazzist* di non essere abbastanza “intersezionali”, ecc .
Chi siete voi per credere di avere il diritto di chiedere una qualunque cosa alle/i antirazzist* non bianch*? Credete che solo perché vi accorgete che Valls è razzista potete avere il diritto di interferire e comportarvi con paternalismo? Ma davvero, vaffanculo! Che sia chiaro (diciamo così) alleat* bianch*: le/gli antirazzist* non- bianch* non vi devono niente, neanche uno stuzzicadenti.
Le femministe afro, le femministe decoloniali, le persone gay, trans e queer non- bianch* stanno facendo il nostro lavoro, e non abbiamo aspettato voi per conoscere le nostre convergenze e i nostri limiti tra di noi, politicizzat* o meno. Il nostro lavoro sarebbe anche meno difficile, se voi vi faceste i cavoli vostri, e penso qui alle questioni che riguardano la (omo)sessualità. L’intersezionalità non è mai stata, non è e non dovrà mai essere un modo per le/i bianch* di sottrarsi all’autocritica sui propri comportamenti militanti, prima di tutto le loro interferenze e il loro paternalismo.
Le etichette (intersezionali, anti coloniali, ecc) sono inutili. Solo le azioni contano. E tra le azioni escludo la realizzazione di tweet o post su FB in cui ci si dimostri “alleat*” delle/i colonizzat*.

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.

Compagno? Anche no.

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Amo la parola compagno. Mi suona dolce e bellissima: in una parola, meravigliosa. Proprio per questo motivo, vorrei che fosse utilizzata con un po’ più di parsimonia: ne detesto l’utilizzo casuale. Non c’è alcuna ragione per cui uno che si dichiara anarchico dovrebbe essere automaticamente un compagno, per me.

Magari è uno che si dice antiqualcosa. Salvo poi fare la faccia annoiata quando parli di quel qualcosa, non leggere i materiali che gli mandi, e tanti altri bei comportamenti. La politica è qualcosa che si “fa”, non è che si “è”, quindi se “sei” antiqualcosa ma ti comporti da proqualcosa, sei proqualcosa. E se fai l’indifferente, sei proqualcosa lo stesso: l’indifferenza non va mai a beneficio di chi è svantaggiato.

Magari è uno che se gli parli di privilegio diventa paonazzo e ti accusa di dargli dell’oppressore. Senza accorgersi che lo è di fatto, che i suoi presunti sentimenti feriti non hanno la priorità sull’esperienza di chi è oppresso, e che negare la sua posizione lo rende ancora più oppressivo. Insomma, uno che i suoi privilegi col cazzo che li ammette e men che meno tenta di combatterli, che tutta la merda sistemica che gli esce dalla bocca proprio non la vede.

Magari è uno che fa battute offensive in continuazione. Poco humour? sarà. Ma l’umorismo non è qualcosa che accade in un vacuum al di là di questa dimensione, dove tutti i rapporti di potere di questa società non esistono. Io battute e frecciatine su: maschi, bianchi, eterosessuali, cisgender, borghesi non ne sento praticamente mai. Puro caso? anche no, visto che quelle poche volte che succede si sbraita di “sessismo” e “razzismo” al contrario, di eterofobia e cisfobia, eccetera. Forse questo senso dell’umorismo non è né sviluppato né egualitario, checché se ne dica.

Magari è uno che legge queste parole, e si affretta a dire che queste persone non sono davvero compagni, ignaro dell’esistenza della fallacia logica del nessun vero scozzese.

Magari è uno per cui esiste soltanto la lotta di classe e quella contro lo stato, e il resto si fotta. Al massimo verrà dopo la rivoluzione, dice. Ma finché i panni sporchi non si laveranno in piazza e il personale non sarà davvero politico, non si riuscirà nemmeno a fare militanza assieme senza dover tirarci le sedie, figurarsi il rovesciamento dell’attuale ordine sociale. Senza abbattimento del patriarcato in tutte le sue declinazioni, dello specismo, dell’eterocisnormatività e di tante altre cose, non ci sarà alcuna rivoluzione possibile.

Ah, e i miei compagni, le mie compagne, me li scelgo e me le scelgo io. Così, tanto per essere lapalissiano.