Negli occhi delle madri

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Non sono madre, non lo sono mai stata e mai lo sarò letteralmente: e dunque questo dovrebbe togliermi la parola? L’amore e la compassione sono forse caratteristiche esclusive del mio utero messo a servizio del lavoro riproduttivo?

Vuoi sapere come mi sento a fissare gli occhi degli agnelli a Pasqua?
E non solo i loro, e non solo a Pasqua. Eppure è vero, in questo periodo dell’anno l’orrore mi si fa più intollerabile, perchè è primavera, ed in primavera tutto rinasce, tutto risorge, tranne dio, quello no: rinasce l’erba, e i fiori, e i canti degli uccelli indaffarati a costruire nidi, risorge il sole dal sonno invernale e la nostra voglia di mondo – sopita dal freddo che ci costringeva chius@ in casa in inverno. Condividiamo con qualsiasi altro essere vivente la gioia del sole caldo sulla nostra pelle. Dell’aria pungente al mattino e del tepore di mezzogiorno.

Vorrei scrivere un articolo politico, ma in questi giorni è il cuore che prende il sopravvento, e l’orrore che mi perseguita mi toglie il sonno e la lucidità necessaria. E allora prendo di pancia una decisione, scrivere di getto, con i brividi addosso, scrivere a partire dal mio corpo di animale, il mio corpo attraversato dal dolore di quelle madri, dalla paura di quei figli@. Scrivere di milioni di gole tagliate per i nostri festeggiamenti, di migliaia di sguardi di cuccioli terrorizzati e di madri circondate dal silenzio, in attesa di un ritorno che mai avverrà, più realisticamente del prossimo stupro, del prossimo parto, del prossimo strappo.

Ma io non ho mai voluto essere madre, e quindi mi mancano quelle qualità che mi rendono un’interlocutrice credibile. Il mio corpo non ha registrato ogni piccolo cambiamento della gravidanza, perciò cosa ne posso capire io? Rispondo: con che coraggio essere madre radiosa quando si è circondate di tante madri a cui i figli sono stati rapiti e uccisi? Con che coraggio rubare il latte, i corpi e le vite ad altri madri, ad altri cuccioli per nutrirsene? E come Antigone, conosco la pietà che va contro la legge.

Non sarò madre perchè non lo desidero, ma anche perchè mi vergognerei ad esserlo. Perchè quando vedo una madre umana fissare negli occhi il proprio figlio in estasi, sento i muggiti disperati delle mucche separate dai vitelli, lo sguardo triste delle scrofe nelle gabbie gestazionali e vedo le pecore inseguire il pastore che ruba loro l’agnello. Lo sguardo dell’inerme mi fissa, e a quello sguardo io devo una risposta. Una risposta che scrivo nella mia carne, nella mia mente, nel mio cuore, nella mia politica. E nella mia politica di femminista soprattutto, a cui non serve sentire il proprio ventre gonfiarsi per comprendere il dolore delle madri.

E non voglio nè posso distogliere lo sguardo; i miei occhi sono saldi in quelli degli altri animali, la cui fine violenta è tenuta ben nascosta per limitare al minimo indispensabile l’occasione di farci vergognare, codard@ che non siamo altro; e le mie orecchie percepiscono, in lontananza ma chiaramente, le loro voci inascoltate e i loro lamenti soffocati dalla violenza rumorosa e indifferente delle macchine del mattatoio; ferraglia sporca di sangue azionata da altre macchine, umane, che hanno perso ogni empatia, ogni compassione. Perché per ogni boccone di carne ingurgitato, c’è un essere umano spogliato di qualsivoglia (retorica e inesistente) ‘umanità’, che meccanicamente taglia una gola, poi un’altra, poi un’altra, con le mani sporche del sangue di migliaia.

E in questi giorni, mentre si fanno gli scongiuri augurandosi che il meteo sia clemente, mentre vengono preparate le tovaglie e le coperte per stendersi sui prati e felicemente, gioiosamente festeggiare la bella stagione, quanti avvertono il silenzio che ci circonda, il silenzio delle madri?

Quel silenzio io lo sento nel mio cuore, il silenzio del dolore del più debole che soccombe al capriccio del più forte, anche quando quest’ultim@ lascia che siano altr@ a sporcarsi le mani. E gli occhi delle madri mi guardano, mi interrogano, mi chiedono di rispondere a una domanda implacabile… perché, potendo scegliere la compassione, scegliamo sempre la violenza brutale?

Perché possiamo? Non è una risposta che possa bastare.

Così cerco di dare voce allo strazio di quelle madri di figli@ desaparecidi, immolat@ per il piacere di fauci mai sazie. E decido di condividere il loro dolore in tutto e per tutto, diventando incapace di festeggiare, io che amo la primavera sopra ogni cosa. E ascolto quel silenzio, il silenzio del lutto. Il silenzio che segue alle grida del mattatoio.

Aprile è il mese più crudele.

L’amante migliore

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Ph Ana Alvarez-Errecalde
L’amante migliore, traduzione di Elena Zucchini, revisione di lafra e feminoska.
Pubblichiamo la conversazione su maternità e sessualità intercorsa tra Helena Torres e María Llopis per l’antologia Relatos marranos (Racconti Marrani). Tra gli altri argomenti, si discute di piacere ed erotismo durante la gravidanza, il parto, l’allattamento e la relazione fisica con il bebé.

Traduzione di un dialogo skype tra María Llopis (1) e Helena Torres. María è un’artista multimediale che propone una visione alternativa dell’identità sessuale e del genere – a partire dalla decostruzione del soggetto del femminismo –  per avvicinarsi al femminismo pro sex o al transfemminismo. I suoi video, performance, interviste, workshop e libri spaziano tra i temi dell’orgasmo e la violenza, della sessualità degli anziani, del sesso virtuale e della performatività di genere. Attualmente porta avanti un progetto sulla maternità sovversiva e sul parto orgasmico. Le note alla fine dell’articolo sono commenti alla conversazione di Aida I. Prada, coeditora di Relatos Marranos.

Helena Torres: Raccontami del tuo progetto sulle maternità sovversive.

Maria Llopis : Sono lanciatissima sul tema della maternità e della sessualità (2). Ho appena tenuto un seminario sulle maternità sovversive ad Olba, vicino Castellón, e si sono presentate tutte le madri punk e hippie neo-rurali con le loro creature e la loro nascita orgasmica, l’allattamento orgasmico, le gravidanze orgasmiche… tutto orgasmico! Io volevo realizzare per gioco una sorta di guida alla nascita orgasmica (dico per gioco, perché è qualcosa di molto più complesso rispetto al seguire specifici passi per arrivare ad un obiettivo), e anche se lo abbiamo fatto, è stato molto diverso da ciò che avevo immaginato. Inoltre sto facendo interviste su parto e orgasmo e stanno venendo fuori molti allattamenti orgasmici. Anche io ora sto allattando al seno e lo sto apprezzando immensamente.

H. Quello che non mi torna del [parto] orgasmico è che si tratta di un’esperienza che non riguarda tutte, per mille motivi che non dipendono solo da noi. Il mio parto, per esempio, era stato preparato tutto nel dettaglio: stavo partorendo in casa e per questo so che è vera questa cosa dell’orgasmo, perché l’ho vissuta, ma sono finita in ospedale e di orgasmico non c’era più nulla. Mentre ero in casa le prime contrazioni mi hanno sorpresa, perché non ho mai sofferto di dolori mestruali e non capivo cosa stesse succedendo, da dove venissero, cosa fare. Ho iniziato a respirare come avevo imparato a fare facendo Kundalini e mi sono dissolta, ho iniziato a volare, improvvisamente mi trovavo da qualche altra parte e non c’erano più dolore, né rumore. Sapevo che c’erano persone e suoni, solo che io non ero lì. Suppongo che questa sensazione sia quella che rende possibile avere un orgasmo e che il dolore si trasformi in piacere. Per questo ciò che trovo più frustrante sentendo parlare di parto orgasmico è che venga vissuto quasi come un obbligo.

M. Sì, capisco, sembra quasi sia obbligatorio averlo, come se non fosse sufficientemente cool partorire senza venire. Se la vedi in questa maniera, è come se dovessi essere Wonder Woman: ogni volta che scopi devi venire e ogni volta che vieni devi eiaculare. Ne abbiamo parlato durante il workshop e una delle cose che abbiamo fatto è stata cambiare il nome in “parto estatico”, invece che “parto orgasmico”. Di fatto esistono molti parti in cui le donne non arrivano a sperimentare un orgasmo, ma durante i quali si trovano in uno stato di estasi, di piacere, che le mantiene sulla soglia del dolore (3). È come fare una scopata fantastica senza venire. È stata una brutta scopata? Assolutamente no! Per questo sto prendendo in considerazione l’idea di cambiare nome al libro. Il parto non deve portare all’orgasmo per essere un’esperienza sessualmente soddisfacente. Forse dovremmo toglierci questa pressione dell’orgasmo, non solo per quel che riguarda il parto, ma anche per quel che riguarda le relazioni”.

H: L’importante è sottolineare che nel parto, come nelle relazioni sessuali, esiste il piacere e che la percezione del dolore, se ci sono le condizioni perché sia un parto estatico, non ha niente a che vedere con la percezione del dolore in un altro stato. In questo momento hai un’altra sensibilità, un altro odore, vedi in maniera diversa, con un’altra intensità… Per questo per me è necessario definire il parto come atto sessuale (4), non solo come orgasmo.

M: Esatto. Capire che fa parte della tua sessualità. Quando ho partorito tutta la parte della dilatazione è stata meravigliosa, mi sono connessa con questa sensualità, con questa sessualità. Stavo a quattro zampe come un’orsa, con Dani sotto, sul letto e io sopra, mordendolo, succhiandolo, godendo e dilatando… Dopo però mi hanno raccontato che lui usciva per prendere aria e rinfrescarsi la faccia, perché mettevo il riscaldamento al massimo e lo tenevo immobilizzato al letto. Avevo letto che dilatare la mandibola fa bene, perché aiuta ad aprire la vagina, l’utero e il collo dell’utero, così io lì, giù di morsi! Insomma, io tutta questa parte me la sono goduta moltissimo, anche se non mi ricordo niente.
Però c’è stato un momento, il cosiddetto “Vaso di Pandora”, che è quando sei completamente dilatata ed entri nella fase dell’espulsione. A quanto pare questo è il momento in cui vengono fuori i leoni, le belve, le farfalle o qualsiasi cosa ti tieni dentro senza saperlo. In questo momento ho avuto la visione di un uomo, da lontano, che era l’Uomo cattivo. Ho iniziato a dire: “È arrivato l’Uomo cattivo” e Dani mi ha raccontato che le ostetriche, che fino a quel momento erano molto sicure di quello che stavano facendo, sono rimaste tipo: “Ahi! E adesso che facciamo? Questo non c’era sul manuale!”. Fortunatamente c’era anche una doula fricchetonissima e fantastica, che è venuta e mi ha detto: “Ok, adesso tiriamo fuori l’Uomo cattivo” e con l’Uomo cattivo è arrivato il dolore, un dolore estremo, allucinante… Quel dolore di: “Ci siamo, ecco la testa del bambino” e tu: “Ma cosa stai dicendo? Che bambino e bambino d’Egitto! Aiuto!”. Ma si trattava della spinta finale: non è durato molto, una o due ore a dire tanto ed ecco che Roc era nato.
Adesso sto intervistando molte donne che hanno avuto parti estatici, in cui hanno provato molto piacere, come sarebbe successo a me se non fosse venuto l’Uomo cattivo, che io interpreto come il Signor Patriarcato. Ci sono donne che sono arrivate a venire dal piacere, però non un venire qualsiasi, l’orgasmo del secolo! Questo ha cambiato la loro sessualità e la loro vita. Adesso c’è un prima e un dopo.

H: Adesso che lo dici penso che anche se non ho partorito è stato a partire dal non-parto (n.d.t.: Helena Torres è ricorsa ad un parto cesareo, per questo afferma di “non aver partorito”, pur avendo un figlio) che ho cambiato completamente il mio modo di vivere la sessualità. Non mi riferisco a con chi scopavo o no, non si tratta di una questione identitaria (quella è venuta dopo), ma al mio modo di sentire il mio corpo e di concepire l’orgasmo. È stato tre anni dopo il mio non-parto che ho iniziato a eiaculare come una fontana. All’inizio non sapevo neanche di cosa si trattasse, col tempo mi sono resa conto che mi succedeva anche quando ero adolescente ma che, per vergogna, lo avevo represso.
Allora è uscito quello che potremmo definire il mio lesbismo segreto, perché me la facevo con le ragazze, ma politicamente non mi sentivo lesbica, non mi sembrava una cosa mia, era fuori dalla mia giurisdizione. In realtà quello che stavo facendo era reprimere la mia sessualità, perché non la stavo vivendo come avrei voluto realmente. Solo che allora non lo sapevo.

M: È molto interessante quello che stai dicendo, perché è una delle cose che sono venute fuori durante il workshop e che mi sembra un tema chiave: il fatto che essere madre, aver fatto quest’esperienza (partorendo o meno) ti fa scopare in maniera diversa.

H: È che il rapporto che hai con il tuo corpo, o meglio, la maniera in cui lo senti, cambia completamente. In una settimana tutto il mio corpo aveva iniziato a cambiare. Non solo le tette, tutto… i fluidi, il modo in cui si muoveva il sangue… Non ho avuto un parto orgasmico, ma la mia gravidanza è stata un orgasmo permanente… scopavo tutti i giorni… e lo stesso con l’allattamento. Il primo anno di bebé non volevo scopare. Non potevo. All’inizio la cosa era frustrante, non la capivo, non mi era mai successa. Parlavo con altre madri e mi dicevano: “Benvenuta nel club!”. Allora mi sono resa conto che non volevo scopare, perché stavo già scopando… con il bebé! Ed era una relazione monogama! Nessun altro poteva toccarmi le tette. Ero completamente innamorata. Stavo ore a guardarlo estasiata. Adesso quando guardo le foto di quando era neonato non lo riconosco. Io vedevo un essere che comprendeva tutto nella sua bellezza e fragilità… È come quando stai con qualcuno con cui hai scopato: si tratta di un altro corpo, ma è anche il tuo corpo (5), è una sensazione che non si capisce molto bene.
Un’amica, un paio di mesi dopo aver partorito, quando ci siamo viste per la prima volta dopo il suo parto, dopo un forte e lungo abbraccio, ha cercato i miei occhi e tra le lacrime ha detto: “È devastante!”. Durante il primo anno questa compenetrazione, questi sguardi, questo capirsi, crea momenti in cui se anche c’è un padre, si tratta di un essere a parte, al di fuori di questa relazione… molti padri si sentono rimpiazzati, perché è come se tu passassi da loro al bebé e neanche il bebè ha realmente bisogno di loro, non come ha bisogno di te e del tuo corpo… insomma, io ero come nella mia bolla e ci sono rimasta per tre anni…

M: Chiaro, il periodo dell’allattamento.

H: Quando ho smesso di allattare ho iniziato a scoparmi anche le pietre… E allora ho capito che è questo che ci tengono nascosto: che quando partorisci hai una relazione sessuale con tuo figlio.

M: Una relazione sessuale soddisfacente. Una relazione sessuale con amore infinito (6)

H: Infinito, sì!

M: Sei innamoratissima, il piacere è massimo, l’altra persona è pazza di te: è la relazione perfetta! Mi ha fatto molto riflettere sulle relazioni romantiche che ho avuto nella mia vita e penso a quanto tempo ho perso con l’amore romantico e con queste relazioni! Era questo che cercavo, questa sensazione di completezza!

H: L’amore è questo! (pum! un colpo sulla tastiera)

M: Stiamo uscendo di testa, Helena, stiamo uscendo di testa! Ci chiameranno biomadri! Ci chiameranno con qualsiasi etichetta! (pum! pum! pum! adesso è un libro sulla scrivania)

H e M: Hahahahaha!!!

M: Tornando al tema dell’allattamento c’è una tradizione che si è persa e che è molto importante, che è la condivisione. Noi lo facciamo con il gruppo di madri con le quali ci siamo riunite, in paese. Io sono stata operata quando Roc aveva quattro mesi e non potevo avere contatti con lui, allora ho pensato: che sia qualcun’altra a dargli la tetta! Ma, come esiste la monogamia nelle relazioni sessuali, esiste la monogamia della tetta.

H: Un tempo c’erano le balie…

M: Ma era diverso. Le signore ricche che non volevano allattare pagavano le balie, sì. Era un servizio sessuale, erano mercenarie dell’amore e del latte. La signora che non voleva avere questa relazione con il suo bebé, perché era molto verginale e molto vittoriana, pagava una puttana che gli desse affetto, sesso, piacere e latte. È un tipo di servizio sessuale che è caduto in disuso. Adesso invece di pagare una balia gli dai un biberon pieno di latte Nestlé.

H: (Quello che segue non lo trascrivo perché più che marrano è politicamente scorretto (7). In breve, abbiamo discusso animatamente della negazione dell’allattamento materno come piacevole atto sessuale, come diritto e non dovere, come possibilità e scelta che non tutte possono o vogliono fare.)

H:Credo che questa relazione amorosa così intensa di cui abbiamo parlato è la base di ciò che verrà dopo, per poi poter iniziare a separarsi. Perché non starai tutta la vita così, questo sarebbe un danno per tutti. Se però questa connessione iniziale è stata molto forte, non scemerà, ma si trasformerà. Impari a lasciar andare. Da questo dovremmo imparare che si tratta di un amore autentico perché non hai più bisogno di stare con l’altra persona: sei già con lei. La possibilità di lasciarti e lasciar andare è in questa connessione. Sempre in questo sta la comprensione che esiste solo con le persone con cui hai avuto una relazione molto intensa e ti capisci molto oltre le parole. Se c’è stata una connessione così forte non è solo che tu, in quanto madre, la capisci, l’altra persona anche ti capisce, anche lei ti conosce.

M: A questo non avevo pensato…

H: È che io lo sto vivendo in questo momento… (snif da entrambe le parti).

M: Occhio a quello che dici, perché allora sembra che una donna che non vuole o non può diventare madre non può sapere cosa sia l’amore… Forse la riflessione da fare è che ognuno nella vita trova le cose in un modo o nell’altro e che la maternità può portare a questo, ma può anche non farlo. Si tratta di non negare nessuna realtà. È importante rispettare le decisioni delle persone, ma non è che per rispettarle neghiamo altre realtà.

H: Esatto. Lo stesso vale per il parto orgasmico: non stiamo impostando modelli o guide di comportamento, ma solo possibilità o esperienze… Non tutte le madri devono amare i loro figli o le loro figlie. Possono crescerli con affetto senza essere perdutamente innamorate. Può succedere, oppure no, non bisogna negare nessuna di queste possibilità. I modelli sono sempre frustranti, lasciano sempre qualcosa fuori. Che succede se provi un senso di rifiuto? Se non sopporti questa creatura berciante, se odi la tua pancia gigante, i passi pesanti e i culi da pulire? Ti fanno a pezzi come fanno a pezzi quella che allatta fino ai tre anni…

M: È che i modelli standard di svezzamento, almeno nella Spagna mediterranea, partono dalla negazione della possibilità di questo innamoramento. Secondo questi modelli di svezzamento al più tardi all’anno inizierà l’asilo nido e quanto prima inizierà la scolarizzazione, tanto meglio. Come se l’obiettivo fosse liberarsi del bambino il prima possibile (8). È un argomento molto delicato. Io credo che tutti i problemi dello svezzamento e della maternità abbiano come origine la relazione di coppia stabile e monogama che non funziona in maternità. Ci sono società in cui esistono altri tipi di relazione e che funzionano meglio in questo contesto.

H: È questo modello relazionale di coppia stabile monogama che ha bisogno di negare la sessualità durante la maternità, ma non solo in questo momento, dopo viene la negazione della sessualità durante l’infanzia. Se ci fai caso quanto ti chiedono quando hai avuto la tua prima esperienza sessuale ti stanno chiedendo del coito, della prima scopata con qualcuno, perché si suppone che prima di questo non esista nessuna sessualità. E poi c’è l’esplorazione dei corpi tra la madre e il bebè… toccarsi, coccolarsi, scoprirsi…

M: Questo fa molta paura… Ho una collega che è terapeuta, si occupa di medicina cinese, ha un figlio e mi raccontava di queste interazioni sessuali con lui, in cui lascia che esplori il suo corpo e le tocchi la fica, insomma… Lei dice che la gente non fa differenza tra chi soddisfa i propri desideri sessuali su un bambino indipendentemente dai suoi desideri, senza nessun riguardo, e chi permette che quest* bambin* esplori la sessualità, aiutandol*. Tra queste due posizioni c’è un mondo. C’è la stessa differenza che c’è tra una relazione sessuale consensuale, in cui tutte le parti si tengono in considerazione, e una soddisfazione del proprio desiderio sessuale calpestando tutte le volontà che non sono la mia. Questo è stupro.

H: È importante anche non perdere mai di vista il contesto. Intendo dire quando la situazione è complicata perché sia la madre sia il figlio vivono in una società in cui questo accompagnamento alla scoperta della sessualità è considerato un’aberrazione. Allora bisogna fermarsi o fare molta attenzione, perché questa persona che stai accompagnando è molto piccola e potrebbe andare in giro a dire che vuole scoparsi sua madre senza capire che il mondo penserà che si tratta di una perversione imperdonabile.

M: C’è un’autrice molto interessante, che parla di crescita e svezzamento, si chiama Aletha Solter, a me piace molto e tratta proprio questo tema. Lei dice che se stai con tuo figlio o con tua figlia e provi il desiderio di abusare di lui o di lei (e dico abusare, che non è la stessa cosa di cui stavamo parlando), non devi aver paura, ma chiedere aiuto, perché è molto probabile che tu abbia subito abusi da piccola. Si tratta di eliminare questo tabù, perché ne consegue la perpetrazione dell’occultare, mentire e tenere sotto silenzio. Quest’autrice afferma anche che, se in preda alla rabbia, ti viene voglia di alzare le mani, non devi flagellarti. Punto 1: non picchiare. Punto 2: chiedi aiuto. È probabile che tu sia stata picchiata da piccola. Pensa a come sarebbe diverso il mondo se potessi andare al bar e dire: “Oggi ho sentito l’impulso di picchiare il mio piccolo… devo affrontare questa cosa, lavorarci su”.
Io credo che l’abuso sessuale, la violenza sessuale in generale, siano molto diffusi durante l’infanzia e sarebbe molto diverso se invece di nasconderlo, se ne parlasse apertamente (9).

H: Per questo il tuo libro è così importante, perché si tratta di dare visibilità a queste esperienze…

M: Ah, che bella è stata questa specie di intervista o come la vogliamo chiamare… mi aspettava un giorno di quelli con dentista, caldo, tutto molto poco glamour… e adesso mi è cambiata la giornata…

H: Potremmo chiamarla così: “Come trasformare una giornata poco glamour parlando dell’ amante migliore.

M: Ahahah! Sì! L’ amante migliore! È questo il titolo!

H: Dici?

M: Senza alcun dubbio! Dai, vado ad allattare.

H: A presto, bellezza.

M: Ciao (10).

Note a piè di pagina di Aida I. de Prada
1 http://www.mariallopis.com/  http://mariallopisdesnuda.com/
2 Mentre scriviamo questo libro, un embrione, che ora si può già dire feto, sta crescendo nel mio utero. È una gravidanza desiderata, un punto di partenza molto importante, e per fortuna non sento nessuno dei malesseri temuti, fisici o psichici. In un primo momento attendevo con impazienza l’annunciata estasi ormonale, come quando si prova una droga per la prima volta e si attende con ansia che salga, ma lo sballo che immaginavo non arrivava mai, perché si tratta di qualcosa di diverso, qualcosa di molto diverso da quello che avevo vissuto finora. Non mi sento sballata, né euforica, ma come se mi trovassi in una capsula protettiva, come nei videogiochi. Mi sento mostruosa, guardo e tocco il mio corpo più che mai, perché diventare un mostro mi dà una sensazione piacevole ed estrema: ora ho due teste, due cuori, 40 unghie e magari anche un micropene.Ho anche due sistemi nervosi e non so se è per questo, ma tutto si amplifica. La percezione è diversa. Non voglio vivere il parto come se fosse un intervento chirurgico ad alto rischio e sto preparandomi per evitarlo, ma non voglio farmi troppe illusioni, come hanno già detto non dipende da come io lo vorrei, anche se si verifica a casa. E mi chiedo: e se non raggiungo il piacere e mi invade questo dolore sconosciuto? Può questo dolore essere comunque soddisfacente?
3 Da quello che dite sembra che questo dolore peculiare sarà sempre presente, estatico o meno. Tuttavia, ciò che cambia in entrambe le situazioni è la percezione del dolore. Se la percezione di quel dolore non ha nulla a che fare con la percezione del dolore nell’altro stato, immagino che la stessa cosa accada con il piacere… e mi chiedo potrebbe essere stato il cocktail di dolore e di ormoni che mi ha portato a uno stato di estasi, che ha reso il parto un’esperienza sessuale estrema? Ciò che mi colpisce è che rimango tranquilla mentre faccio un patto con il dolore. Se il mio utero viene represso da una società patriarcale che rende difficile venire nell’atto di espellere un corpo con la mia fica, adotterò anche io questa prospettiva… e se il piacere non arriva, riuscirò a trovare nel dolore un alleato e non una punizione divina? Per ora, ho cominciato a mangiare un sacco di mele.
4 Alle visite all’Asl mi trattano come se fossi in uno stato ad alto rischio, pericolo! Pericolo! Per fortuna, l’ostetrica che mi visita parallelamente, lo identifica come parte della mia sessualità e non come parte di una malattia, il che cambia completamente il quadro. Tenere a mente che ciò che il mio corpo produrrà durante il parto saranno le stessa cose che potrebbero risultare da una scopata piena di felicità (estrogeni) e amore (ossitocina) è molto diverso dal pensare che stanno per sequestrare il mio corpo e che l’unica salvezza saranno iniezioni di ormoni sintetici e l’anestesia spinale iniettata nel mio midollo.
5 A volte sento di avere “un passeggero”, come cantavano i Parálisis Permanente. D’altra parte, so che non si tratta di un altro corpo, è il mio. Per ora non voglio pensare a me stessa come a due, perché penso che questo approccio prima ancora di favorire la logica cosiddetta “pro-life” potrebbe anche contenere lo scollamento tra la maternità e la sessualità, perché se non si capisce che quel corpo è – o è stato – una parte del tuo, è facile intendere questa sessualità come qualcosa di negativo… Ma ecco un tema troppo grande per me, che dire di quelle maternità che non sono passate attraverso una gravidanza? Come la vivono le madri che non partoriscono, le madri che non si riproducono? Questi argomenti non servono… ci deve essere altro… giusto?
6 Questo per ora non mi tocca, ciò che è chiaro è che già durante la gravidanza, il legame tra maternità e sessualità è una lotta. Tutti mi toccano, e questo mi piace, ma di solito si concentrano sul ventre, ed è un po’ strano che ti parlino guardandoti l’ombelico. I sorrisi degli sconosciuti, anche se mi fanno sentire un po’ un’incubatrice, non mi dispiacciono. Ora, questo sì, tutte queste interazioni le sento totalmente desessualizzate. Io non sono un corpo desiderabile, la cosa buona è la paura degli idioti di turno, ma rende anche difficile collegare la maternità e la sessualità. La bellezza del mostruoso è caratterizzata dai cliché, lo sconosciuto che ti dà la precedenza nei posti a sedere, o il fatto che sia più facile trovare un reggiseno per l’allattamento in un negozio di articoli ortopedici che in un negozio di intimo. E poi, con mio grande rammarico, ho addosso il marchio nazionalcattolico. Esistono molti più riferimenti atti a pensare la maternità come altruismo, purezza e decenza, piuttosto che come sessualità e piacere.  Per fortuna i femminismi mi aiutano a smascherare pratiche e discorsi egemonici.
7 Ultimamente mi capita di restare rapita a guardare chi allatta. Ho notato che, spesso, i bambini cercano l’altro seno con la manina e, a volte, con il pollice e l’indice… strizzano il capezzolo!!! Questa immagine mi rimanda ad un’altra, e sì, mi fa andare in cortocircuito… perché, anche se il latte dalle mammelle può essere un feticcio sessuale, sento che le tette smettono di essere qualcosa di sensuale per diventare distributori di cibo, e che il contrario sarebbe perverso. Forse se non ci fosse questo tabù, se il legame tra sessualità e allattamento al seno fosse politicamente corretto, non sussulterei nel vedere un bambino pizzicare un capezzolo, e allo stesso modo i brividi che mi causa un bambino attaccato alla mia tetta. D’altra parte, penso che non mi piace sempre essere toccata sulle tette… e se mi sentissi lo stesso quando allatto al seno? So che l’ossitocina è coinvolta, ma questa cosa degli ormoni non la capisco…
8 Già prima della nascita, – perché una volta che si resta incinte sembra che il tuo corpo diventi pubblico e tutti hanno voce in capitolo e possono esprimere i propri giudizi – mi ha raggiunto questo avvertimento con frasi come: “hai intenzione di portarlo in uno zaino porta-bimbo? Lo rovinerai, è meglio abituarlo a non essere sempre con te ” ” L’allattamento al seno, senza orari programmati? Lo farai diventare un tiranno! ” ” Hai intenzione di dormire con lui? Oops! Che viziato!”. Leggere i vostri pensieri mi fa pensare che forse queste reazioni sono fotografie della forma egemonica di intendere l’amore come scontro e concorrenza, piuttosto che complicità e cooperazione.
9 Da lì in poi cambia tutto, e anche poterlo dare alla luce tranquillamente, senza aver timore di quello che ti è successo da piccola, perché non tutte le persone che abusano hanno subito abusi, e non tutti coloro che sono stati abusati, diventano abusanti.
10 E’ stato un piacere leggere la vostra conversazione, non tanto per la sua “eccezionalità”, ma piuttosto in quanto strumento per modificare e costruire nuovi sistemi con i quali fissare nuovi parametri.

L’istinto materno non esiste

Childfree
«C’è ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres.

Essere donna non implica essere madre, ciononostante le donne subiscono ancora una forte pressione sociale rispetto alla maternità, un’idea che si perpetua attraverso il celebre “istinto materno”. Tuttavia, il desiderio di essere madre (o no) non ha alcuna causa fisiologica provata.

«No, non avrò figli», risponde Alicia Menéndez alle impertinenti domande delle vicine, delle zie, e anche delle amiche. Queste, sorprese, contrattaccano con un  «Ma è perché non ti piacciono i bambini?» o «fra qualche anno cambierai opinione e sentirai la chiamata». Alicia, che ha appena compiuto trent’anni e lavora come assistente amministrativa, assicura che “non voglio avere figli” è il nuovo “non voglio sposarmi”, anche se sostiene che la seconda affermazione non produce lo stesso ‘disordine pubblico’ della prima.

«Ho avuto un compagno per quattro anni ma da poco più di un anno abbiamo deciso di rompere. Lui sapeva di volere dei figli, io sapevo di non volerne. Rispetto, ma a volte mi sorprende – e mi spaventa – la capacità di alcune persone di provare più amore per qualcosa che in ogni caso è un progetto a lungo termine nella propria vita, che per qualcosa che già hanno, qualcosa di reale». Alicia ricorda che giunse un momento in cui l’arrivo di un bambino avrebbe rappresentato una catarsi, il sollievo dopo mesi di discussione. «Capirei se non potessi avere figli, se fossi sterile, ma non accetto che tu non voglia averne potendoli avere», le ripeteva lui.

‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’], di Jenn Díaz

«Esiste ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres. C’è un’idea tacita che giace nelle profondità della nostra mente. Secondo Torres, «si associano la bontà e la generosità a quelle donne che vogliono essere madri, e l’egoismo a quelle che rifiutano la maternità in modo netto, come se queste ultime fossero individualiste che si preoccupano solamente di loro stesse. Nonostante ciò, non restiamo a bocca aperta quando un uomo dice che non vuole essere padre».

Ma cosa accadrebbe se la pressione sociale di cui parla lo psicologo diventasse in una imposizione? Cosa accadrebbe se per legge le donne fossero obbligate a procreare? Questo è ciò che propone Jenn Díaz nel suo ultimo libro, ‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’] (Jot Down Book). La scrittrice prospetta la seguente distopia: un paese nel quale il governo crea un Piano di Ripopolazione Nazionale dopo una grande guerra, secondo il quale le donne devono avere figli. Uno scenario nel quale c’è chi si rifiuta di vedere il proprio utero usato come ‘terreno di coltura’. «La maternità è un tema che mi interessa, per non dire che mi ossessiona. Avevo molta voglia di tornare a creare un mondo immaginario, come feci nel mio primo romanzo (‘Belfondo’). Non so né quando né come iniziò, ma da subito mi sono vista scrivere su una donna che non voleva avere figli, e l’ho voluta mettere in difficoltà», dice l’autrice.

E questo personaggio che Díaz spreme e racchiude tra le sue pagine per metterla di fronte a sé stessa è Rita Albero, sposata con Samuel, un uomo che brama una discendenza. “Se non potessi avere figli, probabilmente mio marito mi abbandonerebbe”, ripete a sé stessa all’inizio del libro. L’identità di donna si può sostituire con quella di madre? «Molte volte si antepone il fatto di essere madre a quello di essere donne. Ma questo avviene in funzione di come la madre vuole affrontare la cosa: lottare per cambiare o assumere il ruolo. Il figlio ti cancella nella misura in cui tu lasci che ti cancelli: la maternità in sé stessa non è cattiva, lo è come la concepiamo da secoli», puntualizza la scrittrice.

Ideologia della madre perfetta

L’argomento che espone Jenn Díaz è simile a la tesi che sostiene Elisabeth Badinter nel suo saggio ‘Le conflit. La femme et la mère’ [‘Mamme cattivissime? La madre perfetta non esiste’, Corbaccio]. La filosofa francese critica la sacralizzazione della maternità, la figura della madre perfetta. “Così com’è concepita la maternità attualmente nella nostra società, presuppone una nuova schiavitù per le donne, perché antepone il bambino a tutto”, scrive Badinter. La figura della madre perfetta (abnegata, che allatta al seno, che ha partorito con dolore ma senza lamentarsi) secondo la saggista, provoca solamente frustrazioni ad entrambe le parti: per il non essere una buona madre e per il non essere una donna realizzata. “L’ideologia della buona madre confina la donna in casa, converte la maternità in una professione a tempo pieno”, critica.

È il cosiddetto ‘istinto materno’ o ‘ruolo biologico della maternità’ ciò che conferisce un ‘carattere scientifico’ al fatto che molte donne desiderano essere madri. «La donna nasce con un numero approssimativo di ovuli, circa 400.000 (nell’età fetale ne ha un milione, ma durante lo sviluppo ne perde più della metà). Poi, dopo la nascita, la donna ne  perde poco a poco, e c’è un’età, attorno ai 40 più o meno, in cui avviene una perdita importante. Quando si raggiunge la menopausa significa che si resta senza ovuli, per cui non si può più essere madre. Questo è l’orologio biologico, che non ha alcuna relazione con il fatto che una donna desideri o no essere madre» spiega il dottor doctor Manuel Fernández, direttore dell’ IVI di Siviglia.

«Prima sì, si metteva in relazione il periodo di ovulazione con il fatto che la donna fosse più ricettiva per la riproduzione, ma lo sviluppo culturale ha modificato tutto questo completamente, da cui ne deriva che il desiderio di essere madre (o no) non ha una causa fisiologica conosciuta», aggiunge il dottor Fernández. Affermando che vanno a consulto coppie in cui  «se la donna non può avere figli, questa si sente molto in colpa, e lo ritiene un problema per il marito». «In culture come quelle gitane o arabe, per ciò che ho potuto vedere, vi sono ancora molti uomini che associano la donna ad una funzione eminentemente riproduttiva» sottolinea.

Il dottor José María Lailla, presidente della Società Spagnola di Ginecologia e Ostetricia (SEGO), spiega che gli ormoni considerati femminili (estrogeni e ossitocina) potrebbero avere una relazione con questo preconcetto. «Se ci basiamo sugli animali, tutte le femmine desiderano essere madri. Tuttavia, quando le si castra, questo desiderio di solito scompare. Nella donna questo non avviene, giacché molte continuano a desiderare di avere dei figli anche quando sono state sterilizzate per motivi medici». Per questo, il dottor Lailla stabilisce che «non ci siano cause fisiologiche dimostrabili», anche se nota che «il desiderio di avere dei figli nelle donne continua a essere maggioritario».

Essere donne non significa essere madri

La sociologa britannica Catherine Hakim, autrice dello studio ‘Childless in Europa’ [Senza figli in Europa], sostiene che «l’istinto materno non esiste, è un mito utile a perpetuare l’obbligo morale di avere figli nelle donne», aggiunge. Perché come sarebbe un mondo in cui le donne rifiutano di avere una discendenza? «Non vogliamo arrivare a quel punto, così diciamo che si tratta di ‘istinto materno’ affinché sembri un desiderio intrinseco al fatto di essere donne. Dunque, le donne che non vogliono avere figli sono anormali?», si domanda la sociologa.

Ángeles Caballero, di trentasette anni, è giornalista e ha una figlia di sei anni e un figlio di tre. Afferma che «la società a volte è crudele con le donne»: «Se non abbiamo figli siamo incomplete, se non ci sposiamo anche. Se decidiamo di non essere madri e persino se siamo biologicamente impossibilitate ad averne ci trasformiamo in bestie rare. Questo agli uomini non succede, o non così tanto», racconta. «Mia sorella non ha figli e mai mi è sembrato un atto di egoismo. Può essere che un giorno si penta, ma conosco donne e uomini che si pentono di essere diventati madri e padri senza valutarne le conseguenze. E questo è irreversibile. Mi riferisco a quella maternità che riflettono molti mezzi di comunicazione, la maledetta ‘superdonna’ che tanto danno continua a farci».

Nel suo romanzo ‘Mujer sin hijo’, la scrittrice parla attraverso la protagonista: «Rita chiarisce che ciò che rifiuta è la maternità imposta e non la maternità in sé stessa. Quando una donna che vuole avere un figlio fa un figlio, ha vinto. Quando una donna che non vuole avere un figlio non lo fa, ha vinto».

Testo originale di Noemí López Trujillo, MUJERES SIN HIJOS. «El instinto maternal no existe», pubblicato su gonzoo.com. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

Maternità e identità Trans

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di Frieda Frida Freddy, transfemminista (e lesboterrorista) in cammino. Traduzione e revisione di Serbilla, Elena Zucchini e feminoska.

Il giorno in cui mi dichiarai Trans fu il giorno nel quale vidi e compresi chiaramente che non mi era necessario, né vitale, essere donna o uomo per esistere. Ancora di più, capii perfettamente che non desideravo in alcun modo esserlo per ancorarmi in una delle due categorie sociali, poiché mai mi ero sentit@ felice o a posto in nessuna delle due. Mi rinominai Frieda perché sono più femminile che mascolina, e perché comprendo che mascolinità e femminilità sono solo due poli di indottrinamento che non determinano nulla, e tanto meno definiscono questo “essere uomo” o “donna” che si conoscono nel nostro mondo sociale. Inventai pertanto questo nome, per il potente dittongo che per me rappresenta il ponte sulla dicotomia dei generi, il mio transitare tra Frida e/o Freddy che sono il passato al quale sono stat@condannat@: ragazzo o ragazza. E dal quale sono fuggit@…

E dunque ora sono liber@, sono Trans. Non transgenere né transessuale. Vedete: c’è una percezione diffusa secondo la quale essere trans significhi, diciamo, nascere A e trasformarsi in B, o nascere B e desiderare di essere A. Come dire, nascere biologicamente “uomo” (per via del pene, che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come una donna. O viceversa. Nascere biologicamente “donna” (per via della vulva che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come un uomo. Senza dubbio questo avviene spesso, ma non rappresenta tutte le esperienze.

Quanto detto significa trasgredire, oltrepassare una categoria di genere perché non c’è mai stata appartenenza né identità con i ruoli che sono stati assegnati; significa respingere una costruzione sociale che è stata imposta da una divisione caratterizzata da un tratto genitale, e sicuramente questo è trasgressivo, ma questa pratica continua ad inserirsi in un codice binario. E con questa affermazione non intendo screditare né attaccare chiunque abbia fatto tutto il possibile per modificare completamente il proprio corpo o le proprie apparenze tramite gli ormoni o la chirurgia e che ora si sente a proprio agio con ciò che è o sembra, poiché il solo fatto di sfidare il genere e transitare completamente da A a B, o viceversa, mi pare degno di tutto il rispetto e l’ammirazione di chi si ribella.

Ma io non desidero questo per me. Io più che trasgredire o oltrepassare (e non restare quello che ero), desidero far esplodere i generi. La mia lotta quotidiana è contro la dicotomia di genere, contro la sudditanza. Per questo mi dedico al transfemminismo. Non voglio imprigionarmi nel genere, o nei ruoli, né rafforzarne gli stereotipi. Voglio andare avanti e indietro, fluire, fluid@ come la mia stessa sessualità (nel senso più ampio, non riducendola a mero atto sessuale); la mia sessualità che è viva, e vive con me. Perché voglio imbrigliarla? Perché ho ​​intenzione di soggiogarmi? Non devo farlo. Non sono tenut@ a farlo.

Non mi imprigionerò nella dicotomia di genere, o in qualsivoglia orientamento sessuale. Io vado e vengo. Per questo mi dichiaro Trans come trasformazione dell’idea egemonica, Trans come attraversare l’eteronormatività, Trans come trasgressione al genere e tutto ciò che comporta. Trans che trasgredisce l’obbligo, che annulla l’ordine. Nat@ A e non sarò mai B, ma che la A si fotta. Possiamo essere X o Z, H o T, o un po’ di tutto questo, o qualsiasi cosa ci passi per la testa. A volte essere anche un pò’ B, e poi basta, per esempio. O essere mostr@. O essere non essendo.

E per coloro che a questo punto del testo, stanno già pensando che sono confus@ e in realtà sono queer, ripeto, io sono Trans e per la decostruzione – distruzione della dicotomia di genere metto oltre al mio discorso, il mio corpo. Ho deciso di impiantarmi delle protesi al seno, sto risparmiando per questo. Seni per una decisione politica, come atto performativo. Non quei grandi seni rotondi, “con i quali non ho avuto la fortuna di essere nato”, per diventare femminile al cento per cento, e quindi “la donna” (come logicamente si pensa), ma piuttosto desidero quei seni per confondere, per abitare lo spazio pubblico così profondamente normato e trasgredirlo, terrorizzare. Non sono neanche interessat@ a dimagrire o comprare abiti alla moda, o camicie scollate; il mio atto sarà anche di post-travestitismo.

Con l’operazione ai seni il mio corpo diventerà un luogo espropriato al sistema (che per primo me lo ha rubato con i suoi obblighi), un’arma di distruzione simbolica. Quindi quello che voglio raggiungere attraverso la chirurgia non è un modello di bellezza patriarcale, ma una performance vivente che si muove nel mondo e porta il terrore Trans in tutti gli spazi, le strade, le città. Questo rappresenta la mia autodeterminazione e la mia scelta, come nel caso della donna dal sesso e genere coincidenti ed eteronormati quando decide di essere “madre”. Ma cosa succede dunque a queste decisioni riguardanti il proprio corpo e prese liberamente, nella stessa società, nel medesimo mondo sociale?

Succede che quando io affermo di essere Trans e racconto della mia decisione di modificare il mio corpo, il mondo mi vede come un appestat@, come un@ folle, mentre la donna incinta è vista come trionfatrice, come se si trattasse del più grande successo nella vita. A lei si assegna un riconoscimento sociale e a me il pubblico ludibrio. Alle donne incinte costruiscono un piedestallo sociale e cominciano a vederle così fragili come se si dovessero rompere, mentre la maggior parte dei transessual@, trans e transgender vede crollare la stima e i legami sociali, buttati fuori dalle proprie case in una società che chiude loro le porte in faccia in quasi tutti gli spazi pubblici. Quando una donna decide liberamente di restare incinta, partorire e crescere dei bambin@, il mondo diventa un luogo pieno di elogi, auguri, benedizioni, dolcezza, complimenti, tutt@ non si stancano mai di lodarla, mentre per le persone trans che hanno deciso e scelto liberamente di fare qualcosa con il proprio corpo e con un progetto di vita, le prese in giro non cessano mai, né gli insulti, l’invisibilizzazione, le battute, gli sguardi di disapprovazione, gli abusi verbali e anche fisici.

Nel caso della donna incinta, la famiglia e gli amici – e la società in generale – si prendono il compito di supportarla e prendersene cura, la mandano dal medico e lo Stato la riceve gratuitamente attraverso i controlli prenatali e gli attivisti la sostengono di fronte alla violenza ostetrica (ma dei tassi di natalità elevati e violenti nessuno dice niente).

Allo stesso modo, quando la persona trans comincia ad assumere ormoni o sta per sottoporsi ad un intervento chirurgico, le famiglie, gli amici e la società in generale si fanno meno presenti, la accusano, e lo Stato la riceve con lo psichiatra, che dovrà riuscire a convincere della propria decisione di transitare. Il settore sanitario la accoglie, anche se il più delle volte con disprezzo e abusi, trattandol@ come deficiente e senza dare ascolto ai suoi sentimenti, solamente somministrando iniezioni di ormoni o farmaci (quando ce ne sono), della serie: se non desideri essere un uomo, tieni, diventa donna! O viceversa. Tutto in fretta e furia, senza chiarire quali siano gli effetti collaterali dell’abbassare o alzare i livelli di testosterone o estrogeni in maniera repentina. E questo nelle poche città dove esistono leggi che lo consentono. Se non ce ne sono, le/i trans dovranno pagare tutto di tasca propria, come possono. Dovranno permettersi trattamenti e interventi chirurgici completi, e se non hanno i soldi, l’olio da cucina o l’antigelo per auto aiuterà a far crescere un po’ le natiche o i seni. Qui tutti se la cavano da sol@ e cercano di sopravvivere, nonostante le relazioni annuali, in cui gli attivisti esprimono la loro preoccupazione per i diritti sessuali di ogni singola persona nel mondo e predicano “progresso”.

Quando decido e scelgo di essere Trans, tutt@ mi diagnosticano, senza essere medic@: soffro di “disforia di genere”, sono malat@ di mente e pazz@. Lo dice la scienza e l’OMS l’ha pubblicato nella sua lista delle malattie mentali. Nessun@ parla di violenza culturale, né di cultura della violenza contro di me e la mia libera scelta, perché quello che faccio è “anormale “, naturalmente, mentre quello che fa la donna incinta non è solo “normale” ma anche “la cosa più naturale del mondo”. Questo il quadro a grandi linee. E io non mi sto vittimizzando nel fare queste analogie. Più avanti chiarirò questo punto.

Ciò che la donna incinta sta davvero facendo (per libera e consapevole che sia la sua decisione), è rafforzare ulteriormente la riproduzione di un sistema eteronormativo, un regime eterosessuale che non è orientamento come ci viene detto, ma un sistema di irregimentazione del mondo sociale, controllore dei corpi e delle vite; quello che sta facendo è seguire rigide regole apprese che stigmatizzano e spesso condannano altre biodonne come lei come “mezze donne, donne incomplete o sbagliate”, perché “non si realizzano attraverso la maternità.”

La scelta libera della donna incinta trascende il personale e si ripercuote negativamente anche a livello politico. Rafforza un mondo sociale che sta massacrando me come molte altre persone dissidenti sessuali, compresa lei stessa, ci sta uccidendo letteralmente (femminicidio, transfemminicidio). Allo stesso modo, quello che faccio con la mia decisione libera è fottermene dell’eterosessualità e delle altre finzioni politiche, delle imposizioni sociali, del regime eterosessuale, distruggerlo, decostruirlo, perché questo sistema semplicemente non è ‘normale’ o ‘naturale’.

Perché in tutto il mondo lo Stato sostiene economicamente la gravidanza, anche nel caso di donne non lavoratrici? Perché gli conviene. Si tratta di un investimento a breve termine in questo modello globale di produzione e consumo. Gli conviene continuare a riprodurre il modello di famiglia e, quindi, ottenerne manodopera a buon mercato e produzione di massa; serve anche a mantenere le persone educate, normate, tranquille, passive e apatiche, immerse nella telenovela dell’amore romantico e del “e vissero felici e contenti”. Dopodiché famiglia e Stato, insieme, manterranno più facilmente controllat@/oppress@ le/i dissidenti sessuali, pianificando di catturarli per normarli, smontarli o sterminarli.

Nel modello di produzione-consumo si costruisce anche la Famiglia, che non è l’unico agente di socializzazione, ma il più significativo. Questo modello sostiene la moralità, la buona coscienza, la coercizione, il dominio, la repressione, la violazione dei diritti umani fondamentali e delle garanzie individuali, è un modello di ricatto emotivo-sentimentale ed economico. La famiglia, oggigiorno riprodotta ugualmente dagli omosessuali misogini e maschilisti e dalle lesbiche patriarcali, è un modello oppressivo che funziona in modo molto visibile attraverso botte, insulti e abusi, o forme delicate e sottili come: “figli@ mio, devi raccontarmi tutto e dirmi ogni passo che fai perché siamo la tua famiglia e tra noi c’è fiducia, vero?”. Oppure: “io ti controllo e ti dico come fare le cose solamente perché ti amo e mi preoccupo per te, faccio tutto per il tuo bene, ti rispetto.”

La chiamano ” educazione”. E con essa violano pesantemente la privacy di ogni membro della famiglia: un legame di sangue non rende un oggetto di proprietà. Ma sì, queste forme saranno sempre camuffate da tanto amore, devozione, buone intenzioni e preoccupazione, perché è per questo che esiste “l’amore familiare”.

Esiste una negazione consapevole del fatto che la famiglia (e lo Stato) diano ordini e puniscano chi non li rispetta; il loro irrazionale potere autoconcepito gli fa credere di avere l’autorità che serve per poterlo fare. Le famiglie controllano, soffocano, a volte lentamente, a volte in poche, rapide mosse. È chiaro che lo Stato non smetterà di produrre famiglie, ma le persone possono smettere di farne parte, scegliendo di non esserlo, non semplicemente cambiando loro nome: famiglie diverse, nuove famiglie, altre famiglie, due mamme, due papà, una madre single. Non vedo nessuna lesbica mettere vestitini ai propri figli. Vedo invece molte donne incinte chiamare principessa il feto “donna”, o “mio re”, guardando l’ecografia, per esempio.

Questa stessa negazione consapevole fa sì che si arrivi a dire che lo Stato “ha firmato e riconosciuto” i diritti sessuali e riproduttivi per dare, a tutta questa diversità sessuale eterosessuata (ma non dissente), ciò che stava chiedendo e quindi tenerla buona, di modo che la smettesse di dare fastidio. Bisogna essere consapevoli di quanto possa essere manipolatore un apparato di governo, come lo Stato, che ha dato prove più che sufficienti di quanto meschino, invadente, corrotto, ricattatore, dispotico e infido sia.

Smettere di creare famiglie, però, è qualcosa di semplicemente impensabile per la maggior parte delle persone. Cos’altro potrebbero fare, se non quello che hanno interiorizzato alla perfezione sin da quando sono nat@? Ma allora che ne è di tutte quelle persone che si dicono femministe, e parlano in continuazione delle proprie preoccupazioni sulla violenza di genere e sulla violenza contro le donne? Coloro che citano tanto Foucault e la storia della sessualità volume uno, due, tre, e non si levano dalla bocca il biopotere e la biopolitica, arrivando a dormire con la foto di Simone de Beauvoir sopra la testata del loro letto a due piazze? Il loro eterocentrismo si vede fin dalla luna. I loro discorsi contraddittori dimostrano la loro incapacità di smettere di fare ciò che alla fine dei conti aggredisce e stigmatizza le stesse persone che dicono di sostenere. Staremo mica battendo l’eteropatriarcato capitalista?

Fare del femminismo istituzionale, metter su famiglia e fare richieste a uno Stato che incarna la figura paterna (maschio protettore, padre benefattore) è semplicemente la prima di questa grandi contraddizioni. Eppure si piccano di essere totalmente consapevoli e deseteropatriarcatizzate, parlano di parità di genere, fossilizzandosi, tanto per cambiare, in una dicotomia carceraria.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.

Per cui, come avrete inteso, quello che sto scrivendo non è un tentativo di vittimizzarmi per chiedere allo Stato di smetterla di trattarmi come una cittadina di serie B: io non voglio niente da lui a livello personale, né sto chiedendo alle femministe attiviste istituzionali di prendersi “maternamente” cura di me durante la mia rinascita Trans. Il mio transfemminismo è anarchico, radicale e autogestito. In ogni caso il fatto che stia suggerendo che lo Stato non dovrebbe sostenere economicamente le gravidanze e ciò che implicano è solo un piccolo contributo che voglio dare, una sorta di omaggio. Chi vuole un figlio che se lo paghi e se lo mantenga a partire da una pianificazione della propria libera scelta. Che sia un suo lusso. Che la si smetta di usare le tasse di tant@ trans per cose di questo tipo, sarebbe anche l’ora di finirla di farci pagare persino la transfobia che subiamo sulla nostra pelle. O per lo meno che, chi vuole diventare “madre”, passi attraverso i colloqui psichiatrici per spiegare il perché di questa sua decisione, in modo da convincere la scienza e l’OMS del perché è sicura di poter partorire, allevare ed educare una nuova persona. L’unico argomento della totale dedizione, della protezione e della premura, radicato in un ruolo di genere inventato, non dovrebbe essere sufficiente. Si tratta meramente di un mito romantico, basato sul regime eterosessuale: pensare che molto amore e molte cure renderanno tutto possibile è solo quello che le è stato fatto credere.

In conclusione, per chiudere qui la mia dissertazione, voglio chiarire alcune cose, visto che una delle lacune del sistema educativo scolastico riguarda proprio la comprensione scritta, e io sono molto stanca del fatto che si dica che io ho detto questo o quello. Per cui questo testo, come avete letto, è totalmente antimaternità, certo, ma non ho scritto da nessuna parte che dovreste smettere di restare incinte e partorire. Quella che sto facendo, qui, è una feroce critica per segnalare qualcosa che pare nessuno voglia dire per paura di suonare politicamente scorrett@, compromettere il proprio curriculum o essere tacciat@ di violenza, di non essere solidale o di aver smesso di esserlo e perdere di conseguenza il sostegno, l’alleanza, essere espuls@ dal collettivo, dalla ONG, fare brutta impressione, o non ricevere più il saluto “fraterno e sorridente” di altr@ compagn@.

Ciò che voglio dire con questo scritto, parlando di quelle che decidono, scelgono e desiderano la maternità e di formare una famiglia, è che si smetta di diffondere nel mondo la chiacchiera per cui una gravidanza, la maternità e il formare una famiglia rappresentano il top, il massimo del massimo, perché anche con i discorsi, il linguaggio e le proprie sciape sensazioni si continua ad alimentare e ricostruire all’ infinito i ruoli di genere nella società.

Ciò che affermo è che bisogna smetterla di raccontarsi fiabe rose e sdolcinate e di comprare happy meal Mcdonalds, e ci si assuma con onestà le atroci responsabilità sociali che implicano la gravidanza, il parto e l’allevamento dei figli@, in un contesto così fortemente capitalista ed eteropatriarcale come quello descritto, e che ci si renda conto, una volta per tutte, che la “libera scelta” di alcun@ non ha luogo nella coppia, né tra le quattro pareti del proprio nido d’amore, né è appannaggio della donna sola, o accompagnata, che decide di farlo: una gravidanza oltrepassa tutto questo e collabora direttamente con il sistema che ci fotte tutt@.

desde el mismo nacimiento la intersexualidad, y después en la socialización del género a la transexualidad, bajo el yugo heterosexual, ¡ahí te encargo!

Io Frieda affermo che la dovete piantare di rispettarmi seguendo la logica del “io non ho alcun problema con le persone trans”, dalla vostra schiacciante posizione di normalità. E di quell@ che, sotto il giogo eterosessuale, tirano su solamente uomini e donne, omettendo dalla stessa nascita l’intersessualità, e successivamente dalla socializzazione di genere il transessualismo: io vi sfido!

Perché siamo le/i trans che la dicotomia di genere non ha potuto normare. E siamo qui, e non staremo zitt@, né ci nasconderemo in un qualche luogo oscuro di modo che le/i vostr@ piccolin@ non si spaventino o “contagino” in qualche modo.

La maternità nella società capitalistica è lo schiavismo del 21° secolo

snowwhiteIl titolo del post è uscito un po’ allarmista, ma mi spiegherò meglio e mi capirete alla perfezione. Ho appena visto un video realizzato da un’azienda che produce biglietti d’auguri. Nel filmato un uomo d’affari offre un lavoro. I colloqui con le/i potenziali candidat@ si svolgono via skype. L’uomo comincia a descrivere il lavoro: bisogna essere reperibili 365 giorni l’anno, notti incluse. Disponibilità assoluta e altre amenità. La situazione si mette male quando spiega che non è prevista alcuna paga, la gente protesta e pensa si tratti di uno scherzo.

Allora il nostro amico ci comunica che il posto è già occupato da migliaia di persone in tutto il mondo: si tratta delle madri.

http://www.youtube.com/watch?v=ZD8yfyaeaxM

Mi sono messa a piangere quando alla fine il gruppo di persone ringrazia la propria mamma e vengono presentati alcuni di questi biglietti di auguri del tipo “per la migliore mamma del mondo.” Problema risolto ragazzi, eh? Tua madre ha lavorato come una schiava per anni senza ricevere nessuno stipendio, e la soluzione del problema è acquistare un merdoso biglietto per la festa della mamma.

Nelle società matriarcali come i Moso in Cina, o matrifocali, come i Minangkabau in Indonesia, le madri hanno una serie di privilegi che almeno non le lasciano completamente indifese, come avviene nel sistema patriarcale capitalista nel quale viviamo. Ad esempio, tra i Minangkabau le donne sono quelle che posseggono la terra, le madri e le/i figli@ sono quelli che hanno case e terreni fertili, di modo che una donna non si troverà mai sola, senza casa e senza un soldo con due bambin@ a carico come avviene qui, nel nostro popolo in-civile, giorno dopo giorno. Che ad ascoltare i telegiornali viene voglia di urlare.

I Moso semplicemente non hanno un’istituzione matrimoniale e si risparmiano i relativi sacrifici. I rapporti sessuali sono liberi e le/i figli@ fanno parte della famiglia della madre. Gli uomini assumono il ruolo di padri delle/i bambin@ delle sorelle. Se vi interessa l’argomento, potete visitare il mio archivio, dove ho pubblicato alcuni testi al riguardo e vi sono state più di due discussioni sulla questione. L’ultima di queste a Vienna, tra l’altro, in un discorso sul matriarcato queer che evidentemente non ho saputo affrontare, visto che mi sono saltat@ alla giugulare. La prossima settimana torno in Austria per un workshop e spero di risolvere il pasticcio.

La mia amata Alicia Murillo dice che la gente nelle proprie discussioni non ha problemi ad esigere un salario per i lavori domestici, ma far pagare le prestazioni sessuali è più complicato. Penso che il problema risieda nell’enorme tabù che la società ha con la prostituzione, e la questione ha a che fare con tutto quello di cui stiamo parlando. Mi spiego:

La ‘signora’ si sveglia alle 7 del mattino (al più tardi) dopo una notte intensa, i bambini si sono svegliati 5 volte, tanto che, tra biberon e latte, questa persona ha a malapena chiuso occhio. Fa un pompino al suo ‘signor’ marito, perché vada al lavoro contento, poi prepara la colazione per tutta la famiglia e le attività che seguono già le sappiamo: pulizie, spesa, medico, figli@, cucinare, lavare. Siamo tutt@ d’accordo che questa ‘signora’ lavora come una schiava e non è giusto che l’unico a lavorare “legalmente” qui sia l’uomo, che lavora otto ore scarse e poi corre a casa sul divano.

Va ancora peggio quando lei lavora anche fuori casa, perché allora fa un doppio lavoro e la situazione è già disperata. Questa è la realtà di milioni di donne da queste parti, in questa rabbiosa e frustrante attualità.

E siamo ancora lontan@, o forse non così tanto, dalla possibilità che questa persona ottenga uno stipendio per il lavoro che fa, e che si prenda in considerazione che tutto questo lavoro fisico eccessivo possa ottenere una compensazione economica in un mondo capitalistico. Questo o cambiamo mondo. E quel pompino o aprire le gambe senza desiderio alla fine di una giornata interminabile, anche questo è lavoro. Sono cure, così come sono cure le attenzioni dedicate ai bambini, cucinare, fare lavatrici, pulire la casa, alzarsi alle due, alle tre e alle cinque del mattino per rispondere al pianto di un bambino malato.

Basta perdio! Con tutto quello che si è detto del crowdfunding su Verkami del libro Maternidades Subversivas, l’attenzione si è concentrata sui parti e sugli allattamenti orgasmici, credo perché sono temi vistosi e mediatici. Ecco, una puttana che gode a partorire, se non è vero che il vizio non conosce limiti… Le donne in questa società non si comportano così, partoriscono, puliscono e crescono le/i figli@ col dolore e il sudore della fronte. Ovviamente, senza stipendio. Si chiama schiavitù. Spero che il libro venga pubblicato e che si dicano un paio di cose ben dette, con l’aiuto di un sacco di persone potenti e di tutti voi.

PS: Vi regalo il link a un bell’articolo sull’origine della festa della mamma e le parole sagge in merito a questo articolo di Rosario Hernández Catalán:
“Il figlicidio e il matricidio informano, purtroppo, la storia. Sicché la femminista Julia Ward convocò un’alleanza di madri contro la guerra, perché la guerra è il più grande figlicidio (uccisione delle/i giovani, delle/i figli@) e il più grande matricidio (sterminio dell’opera materna). La guerra è progettata dal Patrix, la gerontocrazia (il governo dei vecchi) patriarcale. E pensate a come è significativo che la fanteria,il corpo ammortizzatore di un esercito, si chiami così, dal termine infanti (giovani, ragazzi). La grande Victoria Sau nel suo Dizionario Ideologico Femminista, alla voce “guerra” vi illuminerà su questo tema.”

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente e Elena Zucchini (grazie!)

Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.

Riprodursi? Anche no!

 Devo ammetterlo, la questione fino a qualche anno fa non mi interessava proprio… Fino a quando sono stata felicemente immersa in quell’età nella quale la riproduzione è soltanto uno spauracchio (la gravidanza da evitare perché troppo giovane) nonché una questione teorica rimandabile (apparentemente, come tutte le cose spiacevoli – dalla calvizie maschile all’artrite) in un futuro molto più ipotetico che reale. Ma compiuto il giro di boa (non ricordo nemmeno esattamente quando), la questione dell’avere figli è diventato come un mantra. Sia chiaro, non per me: io sono rimasta, da quel punto di vista, quella di un tempo. E tra tante idee del cavolo che mi sono state inculcate dal ‘braccio amorevole del sistema’ (la famiglia), fortunatamente l’inevitabilità del mio destino di ‘fattrice-in-quanto-donna’ non ha mai attecchito particolarmente nei miei genitori, e di conseguenza, in me… Si, ecco, loro erano più il tipo ‘diventerai-un’-avvocatessa-rampante-e-spietata-vivrai-nella-grande-mela-e-il-tuo-guardaroba-sarà-come-quello-di-paperino-ma-pieno-di-costosissimi-tailleur (Acc…papà e mamma, mi spiace… you lose!). Così sono cresciuta in maniera un po’ più ‘selvatica’ dal punto di vista delle mie gonadi, considerando la questione maternità davvero molto lontana dal mio orizzonte esistenziale. Poi il tempo passa, ti laurei, inizi (tristemente) a lavorare, vai via dalla casa dei tuoi, ti trovi un compagno più o meno fisso, e il mondo intorno subisce una rivoluzione copernicana. Tic, toc, tic, toc, scopri di avere un orologio impiantato nell’utero… E da un giorno all’altro ti ritrovi tutti nelle mutande, per dirla chiaramente. Familiari, parenti, vicini di casa, perfino datori di lavoro… tutti a chiederti se hai dei figli, se ne vuoi, perché non ne vuoi, cioè, insomma, alla tua età… sei strana. Strana io? Cioè, pensiamoci un attimo: PERCHE’ DOVREI DESIDERARE UN FIGLIO?

imagesE non penso tanto a ciò che lo impedirebbe in senso negativo (le solite litanie fatte di lavoro precario, garanzia di un futuro di incertezza per il pupo, fino ad arrivare ai problemi globali di sovrappopolazione in un mondo finito, l’inquinamento, financo la minaccia atomica – sto esagerando… più o meno!), ma a quello che la rende un’opzione insensata IN SENSO POSITIVO: guardo alla mia vita di oggi… non ho un figlio, e non mi interessa averlo. Sono alla soglia dei 40, ho un lavoro precario e part-time che mi fa sì guadagnare poco (ma poi ‘poco’ rispetto a quali standard? Non certo per i miei, per i quali il mio guadagno è più che sufficiente a sopravvivere!) ma mi lascia ampi spazi di vera libertà, fatti di tempo da dedicare a ciò che REALMENTE dà un senso alla mia vita… l’attivismo politico, gli animali umani e non umani che condividono la vita con me, le cose che amo fare (leggere, passeggiare in mezzo alla natura, scrivere o disegnare). Sento di avere una vita molto piena (pure troppo!), e anzi, persino quelle 4 ore al giorno che fino ad ora sono stata costretta a dedicare al lavoro per ‘mangiare’ mi paiono ore rubate al mio tempo di vita, tanto che mi sto arrovellando per cercare un modo di limarle ancora un po’!

Non sento vuoti da riempire, né di tempo né affettivi… anzi, a dirla tutta, sì, a volte sento qualche mancanza, perlopiù quando non riesco a vedere persone a cui tengo – quelle con le quali, negli anni dell’università ad esempio, vivevi in simbiosi giorno/notte – perché stritolate in un lavoro full time o, come sempre più spesso accade, tra le due schiavitù fondanti e primarie di questa società: lavoro e casa/famiglia/figli.

3yEdQETAllora io mi chiedo, perché? Perché le persone arrivano con tanta inconsapevolezza all’età nella quale scatta quella programmazione sociale che le porta, contro ogni ragionamento e buon senso logico (individuale e collettivo) a sobbarcarsi l’enorme fatica personale/economica/di tempo di riprodursi (nonché ad aumentare il già troppo esuberante numero di persone che già esistono, e che non solo stanno cancellando dalla faccia della terra le altre specie, ma stanno anche faticando sempre di più ad esistere loro stesse – la torta è sempre quella, baby, ma gli invitati sempre di più!)? Il mondo esubera di bambini che vivono in condizioni pietose, perché questo anelito al ‘proprio’ bambino? Cos’è questo rigurgito che sa tanto di smania di proprietà e illusione di propria immortalità (cioè, davvero vi considerate così speciali)?
Mi rispondo, in parte: imprinting, noia, paura del futuro e anche una buona dose di totale incoscienza. E, prima che nei confronti di questo mondo, nei propri stessi confronti. La quasi totalità delle persone che hanno dei figli sono totalmente incoscienti, di sé stesse e del proprio ruolo all’interno del sistema di cui tanto si lamentano – quasi mai si sono fermate a chiedersi da dove derivino questi ‘insopprimibili impulsi o desideri’ prima di portarli a compimento – della mole spaventosa di responsabilità verso quel nuovo individuo – ma davvero si può essere felici di mettere al mondo un nuovo schiavo (che ci piaccia o no, questa è la realtà con la quale ci troviamo oggi a farei conti) dovendolo poi indottrinare su come piegare la testa abbastanza per riuscire a sopravvivere! – e verso un mondo che non è soltanto nostro – tutti a immaginare sacri, unici e intoccabili i PROPRI nuovi piccoli umani e mandando al macero tutti gli altri, umani e non, che non trovano posto nel nostro ‘piccolo giardino dell’eden’.
Certo, nasciamo imprintati come le papere di Lorenz, e seguiamo il mostruoso pifferaio magico tutt* felici e starnazzanti… ma poi, crescendo, possibile che non arriviamo mai a capire davvero quello che stiamo facendo? Ricordo quell’ossessivo ritornello dei CCCP (ante rincoglionimento di Giovanni Lindo Ferretti): ‘produci-consuma-crepa’, che ci angosciava da ragazzin*, tanto da ripeterlo all’infinito come le preghiere di un esorcismo – quando tutt* pensavamo che noi, così, non lo saremmo diventat*… che ci saremmo ribellat*!
Io ci riconosco in quanto schiav*: siamo schiav* di questo sistema dalla nascita, differentemente ma similmente da tutti gli altri animali, umani e non, e siamo forgiat* per esistere secondo un’idea totalitaria che non ci appartiene. Questa è la nostra origine, e non è una nostra colpa. Ma poi, poi arriva un momento nel quale subentra (o dovrebbe subentrare) la nostra coscienza e la nostra responsabilità, e lì si palesa invece la nostra collusione. Ed è così deprimente vedere le persone inanellare tappe in maniera automatica, aggiungendo schiavitù a schiavitù, invece di tentare di liberarsi da quelle che già ci opprimono (vedi la schiavitù lavorativa, tra le tante), e trasformare la propria vita, ancora acerba e priva di senso, in una corsa ad ostacoli fatta di doveri verso il datore di lavoro, i figli, la società tutta… fino al giorno in cui si potrà finalmente essere liber* di venire rottamat*, o crepare.
Così dopo l’ingresso imprescindibile nel mondo del lavoro suona la seconda campanella irrinunciabile, quella che obbliga a fare figli, e non si ha più tempo per nulla altro, per amic* e rapporti importanti, per la vita politica, la vita della mente… e i soldi non bastano, bisogna lavorare di più per guadagnare di più, il tempo non basta, bisogna svegliarsi prima per fare tutto e andare a letto sempre più tardi e più esaust*, sobbarcandosi il compito di far crescere degli altri individui, quando non si è mai nemmeno dedicato il giusto e necessario tempo a far crescere sé stess*… e quella persona che siamo e che ancora dovrebbe crescere, capire, nutrirsi di nuove idee ed esperienze finisce in un cantuccio schiacciata da ‘doveri’… autoimposti.
Insomma, perché? Cosa credete che manchi alle vostre vite? Io me lo chiedo, e non trovo una risposta.
A volte qualcun* mi dice che mi sto perdendo qualcosa. Credo abbiano ragione, ma non sanno cosa stanno perdendo loro.

1263.kidsnoway E’ una questione di scelte, del resto. Rispetto a chi ha un lavoro full time e dei figli, io ho meno denaro e più tempo. Non conosco la gioia che possono dare dei bambini, ma nemmeno le rinunce e i dolori. Conosco la gioia della libertà che me ne deriva, dei rapporti altri che coltivo, del tempo che posso dedicare alla mia crescita personale, alla vita in un senso assai più ampio ed inclusivo. Questo guardarmi così mortalmente inserita in un tutto che mi trascende, mi fa sentire assai meno speciale, e d’altro canto assai libera. Perdo qualcosa e guadagno qualcosa, perché ogni scelta presuppone vantaggi e rinunce, e credo che, per la persona che sono, questo sia quanto di più desiderabile possa esistere. Peraltro, ne vedo il grande valore aggiunto di poter avere tempo anche per altr*, la mia famiglia allargata, fatta di quegli animali umani e non umani che già esistono, qui ed ora, e purtroppo, spesso, si trovano in difficoltà.
L’estremo lo raggiunge chi mi taccia di egoismo… egoista, io? Sì, bado al mio benessere. Sono felice del mio tempo, sono felice di non dover ‘vivere per i figl*’, ma di scegliere per chi vivere, per me o per coloro che scelgo di amare. Felice anche di poter oziare, o ‘perdere tempo’. E siccome non ho mai creduto a certe bugie, so anche che la mia scelta di non avere figli ha potenzialità – non ignorabili né irrilevanti – di ripercussioni positive sugli altri esseri già viventi e sul pianeta. Ma poi, come posso essere egoista verso qualcuno che non esiste? E non sono invece costretti all’egoismo i genitori i quali, stritolati nelle cure parentali, spesso anche volendo non possono dedicarsi ad altr*?
Non si deve per forza scegliere tra la propria felicità e quella altrui, anzi: io non l’ho fatto, e la mia pratica politica femminista/antispecista e la mia vita mi hanno insegnato che spesso le due cose coincidono. Un altro mondo non arriverà mai, senza il coraggio di mettere in pratica nuove prospettive…
E non mi reputo estinzionista – almeno non nel senso negativo con cui questo termine viene evocato il più delle volte: sono sicuramente per una riduzione drastica del numero di animali umani, ottenibile non attraverso ‘l’epidemia mortale’ o la sofferenza e il dolore, ma semplicemente evitando di riprodursi in maniera incontrollata e irresponsabile. Si può fare, e si deve fare, checché l’astensione dalla riproduzione sia un tema tabù nella nostra società. Nel frattempo, e ad incommensurabile beneficio delle generazioni future (umane e non umane), mi eserciterò a diventare quella persona e immaginare quel mondo che vorrei, così distante nelle forme da quello nel quale mi ritrovo oggi a vivere. Cercando di essere io quella figlia a cui insegnare qualcosa di utile e sensato – a beneficio della mia stessa vita e di quella altrui – sforzandomi di imparare dalle altre persone e di trasmettere quello che di buono mi pare di aver inteso… questa è la maternità migliore che possa portare a termine, quella i cui frutti spero avranno davvero un potenziale trasformativo.
Perché i nostri figli siamo noi, e quell* che già ora ci circondano. Liberando noi stess*, liberiamo anche loro, e quell* che verranno.

Dunque cosa stiamo aspettando?