Mi sono fatta violentare per amore

amor-violacion-emma-gasco-870x561

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla e Elena Zucchini.
Buona lettura!

Da giorni continuo a chiedermi se pubblicare o meno questa storia. La cosa più semplice sarebbe tenerla per me; alla fine, si è trattato di due sole aggressioni delle tante subite nella mia vita. Se sono riuscita a sopravvivere senza traumi, sopravviverò anche a questa… in fondo non è “così grave”…

Alla fine ho deciso di renderla pubblica, per diversi motivi. In primo luogo, perché anche io mi sono resa pubblica e visibile mediaticamente, in particolare su di un tema, quello della prostituzione, che scatena accesi dibattiti all’interno del femminismo. La mia posizione, in quanto prostituta (è così, mi guadagno da vivere prostituendomi dal 1989), è quella di difendere i diritti fondamentali delle persone che esercitano la prostituzione – non quella dei “protettori”, sia chiaro: lotto contro lo stigma della prostituta e il trattamento da “poverette” incapaci di prendere decisioni e assumersi rischi. Inoltre, sostengo che non tutti gli uomini che ricorrono al sesso a pagamento sono maltrattatori o stupratori, ma soprattutto che sono relazioni che si concordano tra adulti (le pratiche sessuali che verranno messe in pratica, l’obbligo dell’uso del preservativo, il tempo, ecc.);

Quando mi chiedono se io sia mai stata aggredita da un cliente – anche solo per mera statistica, dovrebbe essermi successo – la mia risposta è ‘no, non sono mai stata aggredita da nessuna delle decine di migliaia di uomini con i quali ho avuto rapporti’. Quali sono stati e chi sono i potenziali aggressori? Certo, sono stata testimone di aggressioni e ho pianto con alcune compagne, ma nel mio caso, ho imparato ad evitare situazioni potenzialmente pericolose. Allo stesso modo non accetto le molestie di strada e so affrontare i bulli. Dunque, in quale contesto sono stata aggredita? Nella vita quotidiana, fuori dall’ambito della prostituzione, e sempre, sempre, da parte di uomini con i quali avevo un precedente rapporto di fiducia: uomini della mia famiglia, vicini, capi dei miei vari posti di lavoro, colleghi e una delle mie “cotte” (leggasi il “brivido dell’innamoramento”)… Sì, ho subito molestie sessuali, abusi sessuali, e, infine, due violenze da parte di uomini di cui mi fidavo.

Quando ho pubblicato il mio libro ‘Una mala mujer’ (‘una donna permale’)  ho raccontato gli abusi e le violenze tra le quali sono nata e cresciuta, a partire da mio padre e mia madre; poi la violenza da parte dei vicini “teppisti” del quartiere, quando avevo 12 anni, e l’abuso sessuale di uno dei miei capi, in cui davvero mi sono sentita “puttana” e sporca – ma per paura di perdere il lavoro (un lavoro di merda, devo dire, perché non mi permetteva di riscattarmi dalla povertà) ho accettato tutto quello che mi ha chiesto, fingendo che mi piacesse tanto essere “la sua amante”, ma né lui mi piaceva né io volevo fare sesso con lui, lo facevo solo per paura. Non ho raccontato episodi di molestie fisiche, anche in adolescenza, da parte di due cugini, che mi lasciavano a metà tra il sentire l’emozione del proibito e il disgusto che mi dava il loro toccarmi, perché non mi chiedevano il permesso, semplicemente lo facevano e io li lasciavo fare…

E così, con queste premesse, arrivo al punto della questione: Come è possibile che una donna che in 26 anni di prostituzione non è mai stata aggredita da nessun cliente, subisca violenze sessuali – “palpate” sopra i vestiti da parte di una persona conosciuta e che ora non racconterò per non dilungarmi – nel giro di poche settimane? E dopo quell’episodio a 12 anni, che io pensavo mai si sarebbe ripetuto, sono stata violentata a causa dell’innamoramento, per quello stato di imbecillità che mi ha lasciato bloccata e mi ha impedito di reagire.

È un uomo che ho incontrato sui social network, che prima di questo episodio ammiravo molto, che un giorno mi ha approcciato e l’ammirazione che provavo mi ha fatto abbassare la guardia; ha saputo prima illudermi e poi farmi innamorare con belle parole, facendo apprezzamenti rispetto alle mie inquietudini e con un emozionante sesso virtuale del quale ho sinceramente goduto. Alla fine ero arrivata a credere che davvero gli importasse di me come persona, che non si curasse del fatto che mi guadagno da vivere come prostituta, perché mi aveva completamente inclusa nella sua vita quotidiana, mi aveva fatto incontrare la sua famiglia, mi raccontava di essere in procinto di separarsi, diceva di amarmi… Quando è arrivato il momento di incontrarci di persona, desideravo quel rapporto sessuale. Quello che non mi aspettavo, perché nulla del suo atteggiamento me lo aveva fatto sospettare, è che sarebbe stato così aggressivo.

Ci siamo incontrati in un hotel, sono arrivata presto e l’ho aspettato eccitata e ansiosa, tenevo pronto il preservativo sopra al comodino… Lui è arrivato puntuale e dopo quattro baci, quattro baci letteralmente, dati frettolosamente (che già mi dovevano allarmare), ha cominciato a toccarmi aggressivamente, in modo molto brutale, i seni, le parti intime sotto al vestito, e in quel momento mi sono bloccata, non sono riuscita a fermarlo, a frenarlo, a dirgli “non essere così brutale “, a respingerlo. Il resto? Non sono in grado di ricordare i dettagli, so che in un attimo ero a letto senza mutandine; lui si abbassava soltanto i pantaloni e mi penetrava, proprio così. Sì, se ne è venuto subito,  e finito il tutto si è alzato, “Devo andare” … tutto in pochi minuti …

E io piangevo, pensando: “Ma… cosa è successo? Sì… Sono stata violentata!”, E sì, “Non ha usato il preservativo”, “Non mi ha chiesto se potrei rimanere incinta, o se uso contraccettivi”, “Non mi ha chiesto cosa mi piaceva e cosa no”, “Non è stato come avrebbe dovuto”, “Come mai non sono riuscita a lasciare la stanza, e mi sono fatta toccare in quel modo?”… “Ma … ma… come ho potuto lasciare che mi trattasse così? E cosa devo fare adesso?”, “Perché mi è successo e perché ho abbassato la guardia?”. Dopo diversi giorni di riflessione, l’ho raccontato a due “amiche”, che l’hanno percepita più che altro come un’avventura andata storta. Solo una collega di lavoro, vale a dire una prostituta, mi ha dimostrato empatia ed è stata d’accordo con me nell’identificarla come violenza machista, e senza scrupoli, contro le donne –  inclusa sua moglie.

Tutto questo è il riflesso della violenza strutturale di genere. Un grave problema di educazione sessista, che ci portiamo dietro generazione dopo generazione, per cui le donne hanno difficoltà a trovare gli strumenti necessari a gestire emozioni come la paura o l’infatuazione. Quell’ “amore romantico” interiorizzato fin da piccole, e al quale ci arrendiamo, senza domande;  nonostante impariamo e sappiamo essere una costruzione culturale perversa, quanto è difficile non cadere nella sua rete! Colpisce tutte le donne, indipendentemente dal livello socio-culturale, in maggiore o minore misura … E mi fa arrabbiare ancor di più perché, nel mio caso, nel contesto del sesso a pagamento io controllo tutto e reagisco, non mi blocco.

Tanto potente e subdola è la violenza di genere. Tutte le donne sono vulnerabili, dunque c’è molto da fare se desideriamo lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato ed evitare che le future generazioni continuino a riprodurre questo schema. Sono indignata del fatto che non esista una educazione sessuale e affettiva dall’infanzia… non so che altro dire… spero solo che la condivisione di questa esperienza, se ancora c’è chi non riconosce l’entità di questa violenza contro le donne, renda pienamente consapevole di come si manifesta. Violenza non significa soltanto essere violentate con la forza, le minacce e le aggressioni fisiche, una violenza si verifica anche quando uno stato emotivo causato da questo tipo di educazione ci impedisce di reagire, e non solo per la paura di subire una violenza più grande o la paura del rifiuto o la paura che pensino che “sono una fica secca”.

Se mi definisco femminista è perché mi batto affinché le donne possano esprimersi come desiderano, ciascuna nel proprio contesto e nelle proprie circostanze personali, e che non siano più oppresse da questa cultura maschilista che ci rende incapaci di dire: “No, non così!” e “Niente e nessuno mi impedirà, per il fatto di essere donna, di realizzarmi e realizzare i miei sogni!”

 

Una cultura dello stupro, una cultura del raptus

150302-Non-chiamatelo-raptus_photo2

Lo sappiamo da tempo, e l’ultimo fatto di cronaca non fa che ribadirlo: il raptus è tanto usato perché fa comodo, perché impedisce a un discorso non svolto dalla parte dell’oppressore di genere di svilupparsi. Tutto qui. Quando è lo stupratore a dirsi “vittima” di un raptus, è ovvio che il cerchio patriarcale si è chiuso da un pezzo, per tenere ben chiuso dentro il suo abbraccio dispotico qualunque tentativo di evaderne.

Che il raptus fosse sostanzialmente la parola assolutoria nei casi di violenza lo sappiamo da un pezzo, e a conferma dell’ultimo caso di cronaca ci sono anche le parole della madre del reo confesso, che non giustifica ma spiega – così dice lei – la non mostruosità del figlio: con una serie di abbandoni da parte di donne. Altra vecchia storia: anche se subisce violenza, la donna non è mai innocente; almeno è complice, o in persona o come genere.

Per quanto si voglia spiegare, per quanto si voglia ricostruire, una cultura non si cambia neanche con l’evidenza, perché l’utilità di un costrutto sociale vincerà sempre anche sulla più evidente realtà: finché fa comodo al potere vigente, il raptus continuerà a esistere. Le competenze non contano. Chiunque sia minimamente impegnato professionalmente in questioni psicologiche sa che il raptus è anche questo: «impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti», come dice Treccani. Dico anche perché chiunque, come detto, ha un approccio professionale a questi problemi sa che è una definizione insufficiente, perché il comportamento è iscritto, anche quando appare improvviso, in una rete di pensieri sentimenti e questioni consce e inconsce che ne rende ragione, e perché si arriva a commettere un atto, anche non programmato e improvviso, dopo una serie di eventi psichici collegati tra loro.

Questo vuol dire che l’elemento mediaticamente interessante – e socialmente reazionario – del raptus è proprio quello più discutibile: la sorpresa, la sua parte improvvisa e inopinabile. Il patriarcato imperante tiene soprattutto a questo elemento imprevedibile, e per due ragioni: comunica efficacemente l’impossibilità di fermare la violenza (sulle donne, di genere), e ne comunica quindi anche la supposta “naturalezza”, il suo far parte di una inevitabile “animalità” dell’uomo – generalmente negata, ma poi tirata fuori esclusivamente nella accezione negativa di “bestialità”.

Queste due caratteristiche rendono il raptus spendibile in tanti argomenti della comunicazione di massa. Tutto un mondo si muove per raptus, anche se non è nominato ma solo descritto. È un raptus quello dello sportivo che perde la testa in campo; è un raptus quello del politico che in aula si avventa contro l’oppositore; sono raptus quelli sui quali si costruiscono talk show politici, spacciandoli per approfondimenti; è il raptus a permettere di non avere il minimo senso del ridicolo, arrivando a scrivere per un plurimoicidio-suicidio che «per capire come mai lui possa avere all’improvviso premuto il grilletto, potrebbe rivelarsi determinante il fatto che l’uomo da tempo soffrisse di una grave patologia intestinale»; sono descritti come raptus quei commenti sui social che augurano uno stupro a chi scrive qualcosa di antirazzista. Parentesi assolutoria e spettacolare, il raptus è breve, efficace, scioccante e intimidatorio: insomma, perfetto per tutti i media commerciali.

Per chi prova a riflettere e a far riflettere, per affrontare la complessità dei problemi sociali, non c’è speranza, perché il raptus è troppo allettante per un suo uso strumentale. Non a caso per il raptus di Kabobo non ci si è spesi tanto, ma per Simone Borgese – italiano trentenne e belloccio – la madre sostanzialmente lo scusa e nessuno ha da dire nulla, anzi, sui social si sprecano i commenti alla “povero ragazzo”. Quando una cultura intera lavora affinché i fenomeni siano sempre isolati tra loro, siano sempre episodi slegati e imprevedibili, alimentando sia il panico sociale sia il complottismo più becero (quest’ultimo degno contraltare di un potere sistematico), ecco che stupro e raptus sono felicemente alleati: l’uno è lo strumento e l’altro il comodo racconto per uno stesso odioso potere.

Alla cultura del raptus, cioè alla cultura dello stupro, ci si può opporre, ma non da soli. Altrimenti sembrerà un altro raptus.

A Gentleman’s Guide to Rape Culture

I maschi e la cultura dello stupro che avvelena tutti noi

Che cos’è la rape culture

Rape culture is when…

Conosco uno stupratore

ph Bernard Plossu – 1970/1974
ph Bernard Plossu – 1970/1974

Mentre cercavo notizie sullo stupro della sedicenne violentata dagli ‘amici’, durante una festa, ho scoperto il tumblr Je connais un violeur [Conosco uno stupratore].
Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.

Come si legge nell’about del tumblr:

L’immagine dello stupratore psicopatico che vive ai margini della società, è un mito che riguarda solo una piccola minoranza di loro. Nel 67% dei casi, la violenza ha avuto luogo presso la casa della vittima o del carnefice, che è un amico o una persona cara. Nel 80% dei casi, l’autore dello stupro era noto alla vittima. Uno stupro su 3 è commesso dal marito o dal partner abituale.

Quanto alle “false accuse” di cui sentiamo parlare quando si tratta di uno stupro, le statistiche parlano chiaro: sono estremamente rare. Al contrario, solo uno stupro su 10 è riferito alla polizia e il 97% degli stupratori non sconta nemmeno un giorno in carcere.

Erano i nostri amici, i nostri partner, i nostri familiari o membri della nostra cerchia di conoscenti. Conosciamo degli stupratori: permetteteci di mostraveli.

I racconti delle vittime vengono resi in forma anonima da Pauline, 27 anni, attivista femminista, ex studentessa di Scienze Politiche.

Autori degli stupri sono padri, fratelli, amici, amanti, cugini, zii. Uomini appartenenti a tutti i ceti sociali. Solo in pochi casi conoscenti o estranei. Attraverso i racconti si percepisce la vergogna, la paura e il senso di colpa generati dallo stupro nelle vittime. Secondo la psichiatra Muriel Salmona, che figura tra i link del blog stesso, la condivisione di queste storie è terapeutica in sé, perché dà alle vittime la sensazione di non essere sole nella difficoltà di comunicare ciò che è loro accaduto, anche a distanza di anni e nell’incredulità di chi le circonda[1].

Se uscire di casa è ritenuto pericoloso, lo è anche restarci, allora tanto vale andare fuori a reclamare il diritto ad essere in ogni posto, in ogni momento.

 


[1] Le Point.fr, Je connais un violeur : C’est mon père, mon mari, mon oncle…, «http://www.lepoint.fr», 29/09/2013 ore 09:45.

 

Sì vuol dire sì

220px-Margaret_Cho2Grazie a Margaret Cho, a “Yes means yes” e a Drew Falconeer per la sua traduzione.

Mi sorprendo sempre quando penso a quanto sesso ho fatto in vita mia che avrei preferito non fare. Non lo considero propriamente stupro, e nemmeno “date rape”, quanto semmai una specie di stupro dello spirito – una rappresentazione disonesta del mio desiderio per compiacere un’altra persona.

Ho detto di si’ perche’ sentivo troppo complicato dire di no. Ho detto di si’ perche’ non volevo dover difendere il mio “no”, qualificarlo, giustificarlo – meritarlo. Ho detto di si’ perche’ pensavo di essere cosi’ brutta e grassa che dovevo fare sesso ogni volta che me ne offrivano la possibilita’, perche’ chissa’ quando me l’avrebbero offerta di nuovo. Ho detto di si’ a partner che non avevo mai desiderato, perche’ dire di no dopo aver detto di si’ dopo cosi’ tanto tempo avrebbe reso la nostra intera relazione una bugia, cosi’ ho dovuto continuare a dire “si’” per poter conservare il mio “no” come un segreto. E’ un modo veramente incasinato di vivere, e un modo orrendo di amare.

Cosi’ oggi dico di si’ solo quando voglio dire si’. Questo richiede vigilanza da parte mia, per essere sicura che non mi scatti il pilota automatico e le persone facciano quello che vogliono, e mi costringe a essere veramente onesta con me stessa e gli/le altr*. Mi fa ricordare che amare me stessa significa anche proteggermi e difendere i miei confini. Dico di si’ a me stessa.

Margaret Cho, “Sì vuol dire sì”

9781580052573“I am surprised by how much sex I have had in my life that I didn’t want to have. Not exactly what’s considered “real” rape, or “date” rape, although it is a kind of rape of the spirit – a dishonest portrayal or distortion of my own desire in order to appease another person.
I said yes because I felt it was too much trouble to say no. I said yes because I didn’t want to have to defend my “no,” qualify it, justify it – deserve it. I said yes because I thought I was so ugly and fat that I should just take sex every time it was offered, because who knew when it would be offered again. I said yes to partners I never wanted in the first place, because to say no at any point after saying yes for so long would make our entire relationship a lie, so I had to keep saying yes in order to keep the “no” I felt a secret. That is such a messed-up way to live, such an awful way to love.

So these days, I say yes only when I mean yes. It does require some vigilance on my part to make sure I don’t just go on sexual automatic pilot and let people do whatever. It forces me to be really honest with myself and others. It makes me remember that loving myself is also about protecting myself and defending my own borders. I say yes to me.”

Margaret Cho, “Yes means yes”

Cinque motivi per essere un uomo femminista

managainst

Propongo qui di seguito la traduzione di un post apparso in un sito americano, che condivido pienamente. La traduzione – me ne scuso subito – è molto “di pancia” e fatta da me, quindi abbastanza approssimativa; chi vuole commentare per correggerla è il benvenuto. Va anche detto che “femminismo” è una parola che ormai corrisponde a un campo storico e semantico vasto come la letteratura, e quindi nell’adattare un testo americano alla realtà italiana ci sarebbero da fare numerosi distinguo; prima di tutto, riguardo l’uso del termine “femminista” riferito a un uomo, dalle nostre parti. Mi pare comunque che il senso orginale di questi “cinque punti” si sia conservato nella mia versione, e sia ampiamente adattabile al nostro paese. Oltre a ciò che è doveroso, poi, immagino già le bocche storte delle numerose – e numerosi – proprietari del marchio “femminismo” in Italia, quell* che “il femminismo sono io”, punto e basta. Ecco, quest* ultim* li invito con la più cordiale gentilezza a ignorarmi e a continuare pure a coltivare il loro orticello in compagnia di chi è loro più caro.

http://www.bluethenation.com/2013/06/15/five-reasons-to-be-a-feminist-man/

Cinque motivi per essere un uomo femminista

Uno dei più forti pregiudizi riguardo il movimento femminista è l’idea che ogni femminista sia una donna. Anche nei giorni più bui dei rapporti tra razze negli Stati Uniti, nessuno aveva l’impressione che l’intero movimento abolizionista fosse composto da neri, o che tutti gli attivisti per i diritti civili fossero neri. Di fatto i segregazionisti – e i sostenitori della schiavitù prima di loro – erano notoriamente ben consapevoli dell’esistenza dei politici opportunisti e dei provocatori. Ma il femminismo è stato opportunamente ritratto dai suoi oppositori come un’unica landa di lesbiche arrabbiate e misogine che vogliono uccidere i bambini e tagliare il pisello a tutti. Il che è strano, dato che mia madre è una femminista, e non solo ha fatto sesso con un uomo almeno quattro volte – dato che ha avuto quattro figli senza ammazzare nessuno di loro – ma non ha mai, in nessun caso, provato a tagliare il mio o l’altrui pisello.

Lasciatemelo dire chiaramente: sono un maschio. Dico “fratello” spesso, solo circa il 60% delle volte in senso ironico. Ho spalle grosse e la barba. Seguo parecchi sport. Bevo pessima birra e pessimi alcolici, e non so che farmene del vino. Mangio carne rossa più volte di quanto sarebbe salutare farlo. Penso che le pistole possano essere divertenti. Probabilmente ho qualche allergia che ignoro del tutto perché non me ne accorgo. Non lavo i piatti finché non rimango senza piatti puliti. Mi piace giocare a biliardo, a carte, a dadi. Sono un maschio. A volte lo sono in maniera tanto infantile e deliziosa.

Quindi quando dico che sono un femminista, nessuno si deve permettere di considerarmi uno sfigato dicendo “Uff, ecco il solito sgorbio schifoso alternativo, probabilmente legge libri e cose del genere”. E neanche mi si può liquidare come gay, che è un’altra deduzione tipica che fanno i maschi sugli uomini femministi, perché non lo sono. E non si può dire che sia succube della mia donna, perché sono single. E non sono neanche stato “femminizzato” o altre cose del genere, vedi sopra. Diamine, porto un multiuso Leatherman sempre con me nel caso ci sia improvviso bisogno di una pinza o un coltello. Sono un uomo, sono un femminista, e penso che più uomini dovrebbero essere femministi. Ve ne darò cinque buoni motivi, e nessuno di loro sarà “perché alle donne piace troppo, ciccio” oppure “perché pensa alla dua mamma, uomo”. Non dovresti essere femminista per difendere le tue donne, o perché pensi che ti farà scopare di più. Dovresti essere un femminista perché si deve proprio essere un cazzo di femminista, punto. Così ecco qui cinque ragioni per cui dovresti esserlo, ben illustrate [vedi l’originale, ndr] con l’aiuto di Ryan Gosling (comprate il libro femminista di Ryan Gosling, è fantastico!).

1) Non c’è in assoluto un solo argomento morale contro il femminismo. Nessuno.

Questo è, ovviamente, il più importante. Femminismo è la semplice credenza che la gente dovrebbe avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di tutti gli altri, libera da barriere inutili o costruite apposta, senza avere costantemente paura per la propria incolumità, a prescindere dal genere. Se hai qualcosa da opporre a ciò, fottiti. Sei uno stronzo. Se non hai nulla in contrario, congratulazioni. Sei già d’accordo con femministi e femministe su uno dei loro più fondamentali principi ideologici. Ora comportati di conseguenza a quel principio e staremo tutti meglio.

2) Più uomini femministi ci sono, meno donne saranno violentate. Davvero.

Mi spiego. Il ritratto più comune nella nostra cultura di uno stupratore è uno schifoso maschio con baffetti sottili e cappotto, oppure un tizio con la felpa che segue una donna fino a casa, l’agguanta e se la fa tra i cespugli. Può avere o no un furgone chiuso, a seconda di quale episodio di “Law & Order: SVU” ha più influenzato la vostra idea di stupro. Ma non è certo un’idea molto corretta.  La maggior parte degli stupri sono commessi da uomini che sono noti alla vittima. Conoscenti, colleghi, anche familiari o amici. Se vi siete mai chiesti perché alcune donne sono un po’ prudenti prima di stabilire un rapporto amichevole con voi, quella è la causa principale. Quello, e il fatto che loro sanno che il più delle volte volete solo farci sesso.

Questo è il motivo per cui più uomini femministi significa meno donne stuprate. Un buon numero di quegli stupratori che erano conosciuti dalle loro vittime non hanno neanche capito che stavano commettendo un crimine. Sapevate che se una donna è molto più ubriaca o drogata di voi, e ci fate sesso, c’è una buona possibilità che diventiate proprio uno stupratore? Se tu sei come la maggior parte degli uomini di questo paese (e di tutti i paesi, in realtà), non lo sapevi. Sapevi che se una donna dice no la prima volta e quindi dice sì dopo che tu l’hai influenzata in qualche modo, sei appena diventato uno stupratore? Di nuovo, ci sono buone probabilità di no.

Uno degli scopi più importanti del femminismo è educare gli uomini e le donne su ciò che davvero costituisce stupro, aggressione sessuale, etc. Un uomo femminista – seriamente, uno che comprende il femminismo – è molto improbabile che stupri le sue conoscenti, perché la maggior parte delle persone non voglio realmente stuprare nessuno. Ma se non sai in cosa consiste uno stupro – ed è molto facile non saperlo nella nostra cultura – è molto difficile non commetterne.

Un uomo femminista non penserà che dato che la gonna di una donna è corta, allora lei è del tutto disponibile a fare sesso con ogni uomo nel raggio di due miglia. Un uomo femminista non penserà che solo perché ha offerto a una donna qualche drink, ciò significa che ha ottenuto di fare sesso con lei. Un uomo femminista non risponderà mai alla domanda di OKCupid, “Pensi che ci siano alcune circostanze nelle quali una persona è obbligata a fare sesso con te?”, con nient’altro che “No”. Un uomo femminista non proverà a castigare la grocca troppo sbronza in un party, e invece si assicurerà che torni a casa sana e salva – non perché sta cercando di essere “un bravo ragazzo” che poi userà questo episodio come arma per avere sesso “volontariamente”, ma perché sa cos’è uno stupro e vuole comportarsi da essere umano. In breve, un uomo femminista non stuprerà mai nessuno.

3) Quando le donne sono responsabili di qualcosa, fanno davvero un buon lavoro.

Attualmente ci sono più donne nel Congresso di quante ce ne siano mai state. Il 20% del Senato è composto da donne. E a conti fatti, la loro presenza, particolarmente in posizioni di peso nelle commissioni, è stata molto positiva. Sono state capaci di aprire un dialogo attraverso l’una e l’altra parte politica, sia assottigliando i confini ideologici, che separando i democratici più conservatori (Blue Dog) da quelli più progressisti. Un importante traguardo per qualunque progresso, fatto alla faccia di un polo di maggioranza repubblicana ostruzionista, è stato raggiunto grazie agli sforzi delle donne. Per altri esempi dell’efficacia delle donne nelle posizioni di potere, guardate al mondo degli affari, dove le donne in posizioni di comando sono molto apprezzate. Sebbene sia più difficile per una donna raggiungere quelle vette, se lo fa, allora quasi sempre ottiene brillanti riscontri.

4) Quando l’aborto è rigidamente regolato, le persone muoiono.

Ricordate la donna morta di parto in Irlanda perché non le è stato permesso di abortire? Non è insolito in situazioni nelle quali l’aborto è vietato per legge o limitato. Il parto può essere, sfortunatamente, qualcosa di cui morire. E se anche non lo fosse, ci sono altri pericoli insiti nel rendere fuorilegge o molto limitato l’aborto. Il più importante è questo: qualcuno vorrà avere aborti, che siano legali o no. Se sono illegali, avranno i loro aborti con operazioni insicure, fortunose, in luoghi non attrezzati. E certamente, questo può accadere non solo sotto “Roe contro Wade”, ma anche quanto l’aborto è regolato con tutti i crismi della legge, che un medico incapace negli aborti possa essere perseguito. Ecco perché ce ne sono così pochi in giro. Se l’aborto è illegale, non ci sarà scampo. Delle donne moriranno perché un branco di stupidi vecchi bianchi hanno deciso che loro non dovrebbero avere il controllo dei propri corpi.

5) L’oppressione non finisce finché l’oppressore non smette di opprimere.

Lo so, lo so, questa è dura da sentire. Non ti senti come un’oppressore. Ovviamente non ti ci senti. Se ti accadesse, smetteresti di fare cose che opprimono gli altri! Questo è come funziona l’oppressione nel mondo reale. Ci sono molte poche persone là fuori sedute in cerchio a rollarsi i baffi pensando al modo di essere cattivo e far soffrire il prossimo. Nessuno si sente un oppressore. Io non mi sento un oppressore. Ma quasi certamente lo sono, a causa di qualcosa che faccio senza che riesca a comprenderne esattamente tutte le conseguenze.

Ma quando dici a una donna a caso, per la strada, che oggi è bellissima, o che dovrebbe sorridere; quando cerchi di rimorchiare una ragazza al bar senza neanche preoccuparti di tentare di conoscerla prima; quando te ne esci che quello che è successo a Steubenville è stato orribile ma che quella ragazza non avrebbe dovuto ubriacarsi così tanto; quando parli di donne come oggetti sessuali; quando ti dispiace essere colpito dalla “regola dell’amico”; quando tu fai queste e altre migliaia di piccole cose, tu opprimi le donne. Tu contribuisci a una cultura dell’oppressione, a una cultura dello stupro e della violenza sessuale, a una cultura della reificazione delle persone, a una cutura del dominio e della superiorità maschile.

E’ una cultura nella quale le donne possono ancora perdere il lavoro perché rimangono incinte. E’ una cultura protetta da una inquietante moltitudine militarizzata di predatori sessuali e stupratori. E’ una cultura nella quale le donne non hanno ancora gli stessi guadagni degli uomini per lavori analoghi. E’ una cultura che dice alle donne che non dovrebbero “volere tutto” (che significa avere una famiglia e una carriera e una vita sociale) mentre dice agli uomini di essere ambiziosi, andare là fuori e prendere tutto ciò che vogliono. Infine, è una cultura altrettanto dolorosa e frustrante per gli uomini che per le donne. E non è una cultura che tu dovresti aiutare a perpetuare.

Signori, siete già arruolati nella guerra contro le donne. E’ ora di cambiare fronte.