Deconstructing Aldo Busi e l’egoismo dualista

puzzlecunt_2Se c’è una cosa inutile e dannosa, in tutti i discorsi che si possono fare riguardo i generi e i sessi, è il dividere il campo in due fazioni: si/no, di qua/di là, con me/contro di me, bene/male, giusto/sbagliato, e così via. Per quanto la propria esperienza sia significativa, i propri studi profondi e le proprie intuizioni geniali, tutto ciò non potrà mai essere il metro di giudizio valido universalmente. Mai, perché nessun dualismo proposto come obbligo potrà mai dare conto della diversità di tutt*, e quindi rispettarne l’intoccabile libertà di scelta.
A quanto pare decenni di vita e pratica letteraria non hanno scalfito l’inossidabile egoismo di Aldo Busi. Chissà, forse gli è necessario per edificare la sua opera. Contento lui. Chi lo legge straparlare di corpi altrui, forse è un po’ meno contento.

Il corpo non si (ri)tocca
Al diavolo la chirurgia…

Guai a chi dà retta ai luoghi comuni su generi, ruoli sociali e sessualità
E soprattutto a chi si fa schiavo della holding della medicina plastica
[solo io leggo, già nel titolo, la volontà di mettere insieme discorsi che andrebbero ben separati e circostanziati? Cominciamo bene…]

Sarà che per me ogni persona umana è preziosa e bella e brutta e maschio e femmina e bianca e nera e colta e incolta per quel che è per come e dove nasce e, soprattutto, per quel che sente [tenete bene a mente questo inizio: per lui ogni persona umana è preziosa soprattutto per quel che sente, lo abbrevio con OPUEPSPQUCS] che non capirò mai perché si debba mettere una maschera industrialseriale a una faccia originale [perché sono affari suoi? Così, la butto là. Intanto, segnatevi la prima coppia: originale vs industrailseriale].

Per esempio, menomare il corpo con i tatuaggi [MENOMARE? Un tatuaggio è una menomazione? Ma è chiaro che significa, in italiano, menomare?] se non sei un Maori o un ergastolano con molto tempo libero da occupare, il piercing se non sei un Pirata dei Mari del Sud o la scarificazione se non sei un indiano Cherokee, con due seni femminili e addirittura una vagina se sei nato maschio [SCUSA? Tatuarsi equivale, o comunque è paragonabile, a cambiare sesso?], con un trapianto di fallo se sei nata femmina; non capirò mai che cosa significhi «sentirsi donna in un corpo di uomo» e viceversa [e chissenefrega se non lo capisci, il mondo è pieno di cose che non capisci che hanno tutto il diritto di starci e di non subire la definizione di menomazioni da te], e sono sicuro che chi dice di sé una tale enormità sta non solo sentendo ma anche pensando all’ingrosso e che, anzi, sia sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Invece di dare ascolto a se stesso, questa crisalide in divenire farfalla… e subito dopo blatta… [blatta è sicuramente un complimento per Busi, perché per lui OPUEPSPQUCS, ricordate?] dà retta ai luoghi comuni sui generi e sui ruoli sociali e sulla sessualità fino a lasciarsene invischiare e a voler modificare il proprio corpo per adeguarvisi [e se anche fosse tutto ciò non sarebbe affatto una menomazione, a casa mia, al massimo grave stupidità], guida al transito verso la mendace metamorfosi e salatissima operazione che, come la chirurgia plastica, sono diventate una vera e propria holding [e perché le distorsioni del mercato definirebbero l’essenza dell’operazione? Se invece di una holding fosse un “artigiano” a fare l’operazione, cambierebbe qualcosa? Aggiungiamo la coppia holding vs “fatto in casa”] che pochi osano sfidare e deridere e la presente considerazione [oddìo, Aldo Busi ci legge] non è una trovata del momento sulla scia di un movimento di opinione atto a porre dei limiti all’intraprendenza umana in fatto di genetica, lo scrivo da trent’anni (l’albina e insospettabile Geneviève d’Orian di Seminario sulla gioventù per darsi un’aria più muliebre si sarà fatta al massimo una tisana al Dente di cane, mai e poi mai un estrogeno) [anche trent’anni fa ci sarebbe sembrata una scemenza transfobica eh, la sostanza non cambia].

Ti senti donna e hai un pene? Ma lasciati crescere i capelli e portali pure con l’onda alla Doris Day o rapati a metà cranio e vestiti da donna (?) se ti va o non ne puoi fare a meno, ma intanto lascia stare il pene dov’è e sappi che la donna piatta, praticamente piatta quanto un uomo e l’uomo che ti ritrovi a essere, piace quanto una donna, ma meglio se donna all’origine, che porta la sesta di reggipetto [“meglio”: l’insindacabile unità di misura di Busi è il suo, di pene. Almeno dicesse perché, mentre vi ricordo che per lui OPUEPSPQUCS]. Ti stufi di sentirti donna e poi di non poter praticare nemmeno la masturbazione femminile? O ti stufi piuttosto di essere fatta sentire nient’altro che una chimera che invecchia e perde i pezzi e ritrova i peli? [Non sono un esperto eh, ma chi vive la condizione di non trovarsi a suo agio nel corpo nel quale è nato mi pare che si possa definire un pochino più che stufo. Giusto un tantinello più.] Tagliati i capelli, ora all’annegata per appuntire l’ovale ormai con una pappagorgia di troppo, anche se resta ancora il miglior ritrovato per camuffare l’impiallabile pomo d’Adamo [ah ah ah, che spiritoso sui corpi e sulle sensazioni altrui – però ricordiamoci che per lui OPUEPSPQUCS], alle minigonne sostituisci i pantaloni e al tacco tredici dei mocassini con la para e non è successo niente di niente a parte il beneficio per il tuo portafoglio [e non è successo niente, perché Busi ha il monopolio di ciò che provano gli altri, e lui può permettersi batuttacce sui tacchi mentre taccia il pensiero altrui di essere sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Complimenti vivissimi].

Perché la grande menzogna che ho sentito dire da tutti gli uomini operati è proprio questa: «L’ho fatto per piacere a me stessa». No, a me non la raccontate: l’avete fatto per piacere agli uomini e ai loro cliché sessisti; l’avete fatto per ovviare alla vostra omosessualità come altri vi ovviano entrando in seminario o nell’esercito [non mi pare proprio la stessa cosa, eh – e poi che senso ha dire che cambiare il proprio corpo è un rimedio all’omosessualità? Insomma, OPUEPSPQUCS, ma gli uomini operati no, so’ bugiardi e ipocriti, al massimo dei poveri imbecilli]; l’avete fatto perché nessuno vi ha fatto ragionare con il dovuto affetto intellettuale [che cos’è l’affetto intellettuale, e perché varrebbe più del comune rispetto? Ah, sì, quella cosa che OPUEPSPQUCS tranne quei poveri deficienti di uomini operati] quando ne avevate bisogno; l’avete fatto nel tentativo disperato di sfuggire a una barbara società di arcaico pregiudizio e siete caduti dalla padella alla brace, anche se la società maschilista, donne in primis [in primis le donne, per Busi, sono maschiliste], apprezza ben di più chi ha fatto il sacrificio di impiantarsi una maschera compromissoria [compromissoria? Ah, dunque chi si tatua o si opera ai genitali – cose che sembrano qui sullo stesso piano – dopo ha risolto? Dopo è “tuttapposto”, finito lì?] anziché affrontare il mondo a muso duro con la faccia, il corpo, i sentimenti che ha [un po’ difficile da fare se quella faccia e quel corpo non li senti i tuoi, Busi, ma a te questo piccolo particolare non interessa, per te è importante solo accettare la propria omosessualità come hai fatto tu, e tutti gli altri sono poveretti o cretini o bambocci manovrati]; l’avete fatto, e quasi sempre da bravi ragazzi siete diventati delle bestiole né-me-né-te da marciapiede, nel grande macello della carne con spaccio annesso [questo modo di giudicare, invece, non è un cliché sessista, vero? Complimenti].

Siccome ultimamente, dopo avere condannato la pratica degli uteri in affitto di madri succedanee, danno dell’omofobo e addirittura del papista a me… a me!… [in effetti bastava “ignorante e presuntuoso”, non c’era bisogno di scomodare parole complicate per chi condanna senza sapere ma dicendo che OPUEPSPQUCS], non parrà vero a questi faciloni venire a sapere ora che condivido nel modo più assoluto la definizione del cardinal Ravasi di «burqa di carne» [condividere un’immagine così delicata e rispettosa – non è un cliché sessista, vero? – con un cardinale dev’essere una fonte di piacere infinita, eh Busi? Contento lei…] per tutte quelle facce di donna e ormai di uomo devastate dalla chirurgia plastica [di nuovo, complimenti per il paragone, degno dei faciloni che sembrano essere il suo pubblico, Busi]. La questione è più pratica che morale, e tanto che diventa economica nel senso del bel risparmio: lavorate sulla mente e lasciate in pace il corpo [certo, perché qui c’è il corpo e là la mente; bentornato Cartesio. Oh, ‘sta moda vintage recupera proprio tutto eh? Terzo dualismo, corpo vs mente]. Tanto, con una mente così sballata che tutto concerta per farla sballare ancora di più, il corpo non potrà che andare a carretta e vi punirà amaramente, anzi, spietatamente e, ahivoi, irreversibilmente [siamo al corpo che si ribella contro la mente. Detto dall’autore di Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) l’anatema suona credibilissimo].

Il maschile e il femminile [quarto dualismo] non è un Giano bifronte dato una volta per sempre in una vita umana: cambiano i canoni esterni, anche del kitsch, figurarsi quello della bellezza, cambia l’età anagrafica e interiore, cambiano i desideri, le aspirazioni, le ambizioni, i fantasmi, la percezione di se stessi, le mode e la fonte stessa delle disillusioni, e cambia anche il dolore di aver fallito perché fallita era in origine la strada intrapresa per anestetizzarlo, ci si incaponisce invece di arrendersi in tempo e dargli ragione, e non si può prendere del cortisone contro un semplice mal di testa [il consiglio di Busi è: dare ragione al dolore di aver fallito. Poprio quello che ha fatto lui, notoriamente, tutta la sua opera è lì a dimostrarlo].

Siate e mantenetevi passeggeri, non impegnate il corpo al monte della pietà che susciterete [però che immagine, si vede che è uno scrittore], non datela vinta ai vostri persuasori interessati, subdoli, patenti o occulti che siano, e tenetevi pronti a scendere a ogni istante dal predellino [fate come Busi: imponete le proprie scelte agli altri accusandoli di non accettarsi e di essere menomati e manovrati, e fatelo dal pulpito di un giornale di destra. Vi guadagnerete tanti amici]. Certo deve essere quello di un treno, più locale è e più fermate fa meglio è, una volta in orbita nessuno vi tirerà più giù: dovreste solo buttarvi giù, e non ne vale né il pene né la tetta. Infine, se gli uomini che aspirano a diventare donna anatomicamente sapessero in anticipo quanto puzzano di fiori sfranti e acque stagnanti e di corsia di ospedale a causa di ormoni, iniezioni di porcherie varie, protesi, tralasciando il conformismo di massa cui si ispirano, se ne guarderebbero bene dall’adulterare il loro naturale, e al confronto tanto più femminilmente afrodisiaco, odore di caprone nato [ed ecco che, puntuale come nel più reazionario e conformista dei discorsi, spunta l’amico di tutti i sessismi: il naturale. Questo sì che spiega cos’hanno in comune Busi e un cardinale. Quarto dualismo: naturale vs artificiale].

Basterebbe far ricorso quando serve alla banalità più edificante per avere la morale della storia più indiscutibile e anche salubre: ma tieniti come sei [ah, il naturale, che bello il naturale], tanto non c’è niente da cambiare fuori se non cambi dentro [il naturale è dentro, l’artificiale è fuori, tu puoi ritoccare il fuori quanto vuoi, tanto non cambi dentro – ma quanto è gretto e violento il discorso dualista? Uomo o donna dentro e fuori, naturale e artificiale… un bel passo avanti per l’umanità, non c’è che dire. Intanto, il quinto e finale dualismo: dentro vs fuori], ti aggiri sempre dalle parti della stessa caverna, e la clava, prova una volta a dartela in testa, magari è la volta buona.

[A casa mia questa si chiama transfobia. Anche se per chi la pronuncia dice che per lui OPUEPSPQUCS. Ma tanto che ne so io, io sono un menomato che legge Oglaf.]

La libertà trans non ha riferimenti politici?

L'immagine è tratta dal webcomic  roostertailcom
L’immagine è tratta dal webcomic Rooster Tails

 

Repubblica ha scritto, giusto un paio di giorni fa, cose interessanti. Non perché scritte da tale giornale, ma per il modo in sono state scritte.

Vediamo: immaginate di svegliarvi e notare che sul portone d’ingresso della basilica di San Paolo di Milano c’è una frase, vergata con bomboletta spray: 20/11, notte di vendetta trans.  Non sono in molti ad avere cognizione di causa circa l’esperienza di vita transessuale e transgender, costellata di ogni esempio di sovradeterminazione, soprusi psicologici, medici e legali in addizione a molti ostacoli legati all’appartenere, molto spesso, a una classe sociale bassa, ove non bassissima. La pur crescente visibilità di questa realtà è ancora molto limitata: tuttavia, soltanto qualcuno privo di ogni percezione sensoriale e di un qualsiasi modo di esperire la realtà che lo circonda può non essersi accorto di alcuni avvenimenti ed essere in grado di affermare che non c’è alcun tipo di riferimento politico.

In Italia, con molta fatica e con molte difficoltà, si sta costituendo pian piano un movimento trans, per ora poco organizzato ma senz’altro effervescente di idee e passione politica.  Ieri diverse persone hanno costituito la prima vera manifestazione trans, la Trans Freedom March, dopo decenni di assenza in seguito alle lotte che hanno portato all’istituzione della legge 164 nel lontano 1982. Che la comunità trans dopo questo lasso di tempo incominci a farsi vedere per le strade proprio in giorni contigui all’evento internazionale dedito al ricordo delle persone transessuali e transgender uccise, il TDoR, dovrebbe essere un evento degno di nota, che sembra segnare il passaggio dalla retorica della vittimizzazione a quella della rivendicazione.

Nel frattempo al Maurice di Torino, proprio oggi, c’è un convegno in cui si parlerà delle prospettive di modifica della legge che attualmente regola i procedimenti relativi alla rettifica anagrafica del sesso. Ci saranno presidenti di organizzazioni che ormai varie persone trans sospettano servano esclusivamente a fare gli interessi della casta degli psichiatri e degli psicologi, troppo spesso esecutori di psicoterapie obbligatorie quando il presupposto di una psicoterapia davvero funzionale al benessere psicologico è la volontà di perseguirla (notate qualche dissonanza?) e l’assenza di squilibri di potere, squilibri previsti e unanimemente considerati legittimi dal protocollo più usato in Italia, quello elaborato dall’ONIG (in opposizione alle linee guida WPATH internazionali, decisamente più liberali in tal senso). Uno di questi è il potere di veto dello psicologo sulla potenzialità della persona di intraprendere la transizione (atto che, negli ambienti trans anglofoni, viene chiamata gatekeeping), squilibrio che rende la relazione terapeutica impossibile e che spinge la persona a mentire o darsi a pericolosi fai-da-te con conseguenze orribili per la salute. Lo scopo di queste psicoterapie obbligatorie è far ottenere perizie, le quali sono nient’altro che un pezzo di carta che serve a spiegare al giudice i motivi della necessità di intervenire chirurgicamente e anagraficamente su di sé, indispensabili al fine di proseguire legalmente il percorso di transizione. L’elargizione di queste avviene per mezzo di salati pagamenti: si parla, nei casi meno catastrofici, di qualcosa come cinquecento euro a documento; evenienza che si interseca diabolicamente, e sinergicamente, con i disgustosi tagli alla sanità.  Queste stesse figure producono (presunte) verità. Dicono che ci serve la loro figura e che ci servono diagnosi per verificare l’effettiva presenza di disforia di genere, perché la condizione trans sarebbe affine alla schizofrenia, rafforzando pregiudizi stigmatizzanti di fronte a verità macroscopiche, e cioè il fatto che le due cose non si assomigliano da nessun punto di vista: una persona trans reagisce con malessere a una situazione oggettiva. Ammantano sé stessi di un’immagine terapeutica, ma non sono che dei mediatori tra lo stato di cose esistenti e i bisogni individuali della singola persona. Non curano (non c’è nulla da curare), ma creano il discorso della malattia  per sembrare autorevoli e autorità. Non v’è traccia attualmente di psicologi rispettosi dell’altrui determinazione, ma non sono gli unici.

Ci saranno avvocati a caccia di parcelle. Ci saranno persone che scrivono, analizzano, elucubrano, fanno profitto e propaganda su di noi, dal punto di vista legale, sociologico, psicologico, politico e chi più ne ha più ne ha metta. Ci sarà chiunque a parlare di noi, fuorché noi: nessuna delle persone invitate a colloquiare è una persona trans. Ripeto: nessuna di questa persone è una persona transessuale o transgender. Si tratta di una decisione politica altamente discutibile di chi ha organizzato l’evento. E la scritta sulla basilica, checché ne dica la stampa, è l’atto politico di chi vuole chiudere con tutto questo. Mai più vittime, mai più fantocci, mai più oggetti, mai più pazienti. Non ci dispiace.

Facebook e la sua millantata apertura alle diversità

1392917512992.cached

Molti sapranno  già delle nuove opzioni di personalizzazione del sesso recentemente introdotte su ogni profilo. C’è già stata qualche critica, ma nulla di distante dalla noia brutale dei soliti noti che si lamentano perpetuamente  delle lettere che vengono, di tanto in tanto, aggiunte all’acronimo LGBT. Giustamente,  preferirebbero che la sigla rimanesse sempre GGGG. Ironia a parte, cosa stiamo festeggiando esattamente?

Ricapitoliamo. Un’azienda californiana fattura molti, moltissimi soldi. Questi introiti gli derivano principalmente dalla vendita di spazi pubblicitari situati sul sito stesso e scelti oculatamente in base alle caratteristiche rivelate dell’utente, come età, sesso, luogo di nascita e di residenza, interessi, hobbies, film, musica preferita e molto altro ancora. Considerando che ogni utente di tale piattaforma è letteralmente la gallina dalle uova d’oro di Zuckerberg, ne conveniamo che l’azienda trae ogni vantaggio possibile dal far sentire a proprio agio i propri dipendenti, ignari o consapevoli. Con tutto questo fiume di denaro, delle possibilità di autodescrizione un po’ meno in bianco e nero non sono poi possibilità così fantasmagoricamente progressiste. Con un po’ di milioni in meno,  si darebbe un certo apporto positivo a questioni “irrilevanti” come la possibilità per le persone trans di accedere alle prestazioni sanitarie che necessitano, arginare la disoccupazione dilagante con relativa assenza di reddito,  fornire servizi per persone trans senzatetto (le quali sono escluse dai già insufficienti servizi esistenti, in quanto spesso divisi per genere). Ma il profitto viene prima delle persone: è il capitalismo, baby.

Qualcuno mi spieghi, poi, l’assurdità per cui posso inserire ogni ipotesi identitaria che mi attraversi anche soltanto per sbaglio l’anticamera del cervello, ma non posso esprimere la mia eventuale attrazione nei confronti di chi la incarna, visto che nella casella delle attrazioni il binarismo di genere rimane: si possono spuntare solo uomini e donne. Oppure perché a realtà come Intersexioni  è impedito di pubblicare alcunché poiché segnalato come sito pericoloso in quanto segnalato come spam, ma veri capolavori di pattume ideologico come Sentinelle in Piedi e Manif Pour Tous sono più che graditi.

Non posso quindi fare a meno di sentirmi preso in giro da chi, in tutta serietà, plaude questo gesto di discutibile inclusione. Si chiama fidelizzazione del cliente (che poi è un dipendente). È marketing allo stato puro, e politicamente parlando, pinkwashing. Possiamo scegliere ben cinquantasei identità di genere diverse, oggi, ma chiediamoci quante di queste possano essere liberamente espresse al di fuori di un campo vuoto da riempire nel nostro diario, perché quando usciamo dal digitale, non possiamo cambiare le impostazioni di privacy della violenza altrui. Purtroppo.

L’autodeterminazione è un diritto! #ddl405

transgender_id_lead-thumb-640xauto-5816

Non è un mistero che le persone transessuali, transgender e intersex subiscano costantemente discriminazioni e violenze. In Italia si può morire di transfobia per un crimine d’odio o per mano propria quando ci si suicida per bullismo transfobico, si può essere costrette/i a non proseguire gli studi per lo stesso motivo, si può fare la fame perché la discriminazione transfobica impedisce di trovarsi un lavoro, ci si può stressare per anni e anni con carta d’identità, patente e via dicendo che non rispecchiano la propria fisicità causando perpetui ed involontari outing, si può nascere con una delle tante forme di intersessualità e dover subire, coercitivamente, interventi che hanno tutto a che vedere con l’ossessione di questo mondo per il binarismo sessuale e ben poco con la salute; si può essere privi di qualsiasi diritto ufficialmente riconosciuto e nonostante questo essere additati come richiedenti di privilegi, si può piangere a reti unificate la morte dell’ennesima/o ragazzina/o  per omofobia, bifobia, transfobia e contemporaneamente negare a milioni di altri ragazzini/e un’esistenza non eccellente, ma almeno entro i limiti della decenza.  Per questo e per un lungo elenco di altri motivi, riteniamo importantissimo sostenere la campagna a favore del disegno di legge 405, il cui testo completo è disponibile qui. Queste sono, in pillole,  le innovazioni che porterebbe la sua approvazione:

  • Sparisce il tribunale dal percorso di transizione, con un netto risparmio in termini economici, di tempo, di uso della pubblica amministrazione. Nessuno è chiamato a giudicare. La procedura di modificazione dell’attribuzione di sesso e del nome di nascita andrà presentata al prefetto, che in 30 giorni dispone il cambio. Sarà possibile cambiare nome e sesso o anche solo il nome. Occorre solo la relazione di disforia di genere per richiedere il cambio anagrafico. Il cambio anagrafico viene richiesto quando il diretto interessato lo desidera, non quando lo concede il giudice (situazione attuale).
  • Resta il ricorso al tribunale per i minori che, non essendo maggiorenni, possono comunque usare questa via per accedere al percorso, al cambio anagrafico e all’operazione. Sarà possibile ricorrere ad un tutore speciale in caso i genitori si oppongano alla volontà del minore.
  • È specificato che, in caso di disforia di genere, l’asportazione di organi sani (apparato genitale) non rientra tra le mutilazioni, ma un normale procedimento di tutela della salute della persona. Non è più necessario ricorrere al giudice per l’autorizzazione all’intervento.
  • Il matrimonio non può più essere sciolto automaticamente ma segue la normale procedura di separazione/divorzio.
  • È vietato qualsiasi intervento chirurgico cosmetico, di riattribuzione forzata del sesso, sui bambini nati con genitali atipici (intersessuali).
  • Tutte le procedure e i trattamenti sono gratuiti
  • È attivato un programma di sensibilizzazione riguardo la transessualità per il personale sanitario.

Qui potete trovare sia le novità di cui sopra, sia il confronto con l’attuale situazione legislativa. È importante, fondamentale, e questa lotta non riguarda esclusivamente le persone transessuali, transgender e intersex, ma tutte e tutti. L’austerità diventa la scusa più utilizzata per opporsi alle lotte per l’autodeterminazione di tutti i corpi: di donna – cis e trans, intersex e di uomo/donna/persona trans in generale, e questo non può essere permesso; non possiamo permetterglielo, non possiamo permettercelo. Firmate la petizione, fatela circolare, twittate e retwittate sull’hashtag #ddl405 e seguite l’account @ddl405. Informazioni, storie e contatti li trovate su questo blog. L’autodeterminazione è un diritto!

 

 

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

1463559_748191905209225_245463739_n

Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

Una veglia non è abbastanza

transphobia-flush-away

Un po’ di giorni fa, ho deciso di partecipare, assieme ad un amico, al mio primo Transgender Day Of Remembrance.

Nella mia vita mi è capitato diverse volte di partecipare a manifestazioni e commemorazioni per-ricordare, in-onore-di e via discorrendo, e la sensazione è sempre stata, più o meno, di tenere in mano un bel pacchetto regalo di rabbia, infiocchettata con senso di impotenza, con tanto di bigliettino allegato contenente aperto disprezzo per chi, nelle circostanze in questione, avesse osato sfoggiare un sorriso. Con un sottile margine di tolleranza per i sorrisi nervosi, così, per non disprezzare proprio tutti tutti.

Questa volta no, e non ci trovo nulla di particolarmente strano. Per quelle e quelli come noi l’incazzatura è quotidianità, e personalmente mi incazzo così spesso che una volta l’anno credo di essermi preso la licenza di non sentirmi in dovere di farlo: ogni tanto è bene che se ne occupi qualcun altro.

Non intendo certamente dire che di queste persone, morte suicide o morte ammazzate, non mi importa niente. Nient’affatto. La rabbia di cui mi parlo è qualcosa che mi tappa la vena. E questo succede ogni volta che apro un articolo del solito giornalista da due spicci bucati che declina una donna trans al maschile, quando sono sulla metro e sento imbecilli prendere in giro qualcuno dalla presentazione di genere androgina, tutte le volte che c’è chi fa misgendering (ovvero sbaglia i pronomi di una persona trans), e tutte quelle violenze e microaggressioni presenti in una gamma pressoché illimitata di situazioni assortite; in strada, a scuola, al lavoro, nella ricerca di un impiego. Praticamente quasi sempre e quasi ovunque.

Quello che mi piacerebbe dire è questo: con quale ipocrisia sfilze di attivisti partecipano a questa giornata, con che coraggio tanti prendono le distanze dalla transfobia un giorno all’anno, quasi a fare ammenda per i restanti 364 giorni di passività? Non basta. No, non basta assolutamente. A maggior ragione se quegli stessi attivisti in separata sede lamentano la scarsità di partecipazione trans alle loro attività, non rendendosi conto né del maggior stigma presente sulla popolazione trans, né delle maggiori difficoltà di una persona trans a intraprendere un percorso militante per molti motivi, ad esempio un livello di disoccupazione preoccupante (nonché la necessità di mantenere un lavoro quando lo si ha) e la discriminazione transfobica all’interno della stessa comunità LGBTQIA+. In che misura è possibile pensare a collettivizzare i propri sforzi se non ce la si fa a tenere in piedi neanche sé stessi? Me lo chiedo.

La morte di tutte queste persone mi rende furioso. Con tutte le fiammelle del candle light vorrei mettere a ferro e fuoco le città. Quando ci picchiano, ci fanno del male, ci uccidono, ci stuprano, ci minacciano io voglio la lotta, voglio vendetta, voglio urlare fino a rimanere senza voce. Ci tengo troppo a tutte e tutti noi, per reputare lo stare in un silenzio ad una veglia qualcosa di sufficiente. Non voglio ricordare i miei morti col dolore, voglio che il periodo in cui sono stati in vita non sia vano. E voglio lottare affinché i vivi rimangano tali. Troppe e troppi di noi sanno cos’è la depressione, hanno pensato almeno una volta al suicidio o l’hanno tentato, soffrono di transfobia interiorizzata e non considerano la propria come una condizione esistenziale, bensì una malattia. Io voglio promettere a ogni persona transessuale e transgender che l’esistenza piena di miserie che ci è riservata non è né meritata, né ineluttabile e che insieme possiamo distruggerla; che la sofferenza è privata, ma il privato è sociale, e il sociale è privato. Non voglio sottovalutare l’importanza del ricordo. Ma la memoria è qualcosa di più del ricordo: è rendergli giustizia. E non legalità, ma giustizia sociale.

Io voglio che si arrivi ad un giorno in cui non bisognerà più preoccuparci per la sicurezza e in cui non ci servirà mai più abituarci all’idea di dover essere pronti a difenderci da qualcuno ogni volta che usciamo di casa, ma finché quel giorno non arriverà, terrò il coltello fra i denti. Ma non lo desidero, quel giorno: lo pretendo.

Proposte per una rivolta trans

Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.

Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.

Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.

Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.

È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.

Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è  buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.

Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans  non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione. 

Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e  un punto di vista  politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto  quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.

Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i  cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e  una tolleranza  non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.

Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.

Non sono un uomo o una donna, sono transessuale

Genderbread-2_1

“Non sono un uomo o una donna, sono transessuale” – discorso di Jamrat Mason al Pride di Hackney, settembre 2010, traduzione di feminoska, revisione di H2O.

(Trascrizione del discorso tenuto al Pride di Hackney nel 2010. Uomo trans e comunista anarchico, Jamrat Mason parla di genere, sessualità e sessismo e degli aspetti sociali più ampi delle questioni transgender).

Mi chiamo Jamrat Mason e ho una vagina. Sono coinvolto nell’attivismo comunitario di East London, ma oggi sono qui per parlare “da persona trans” di questioni transgender. Il termine “transgender” è un termine ampio che si riferisce a uno spettro molto vasto di persone che in qualche modo ‘cambiano rotta’ rispetto al genere che sta scritto sul loro certificato di nascita. Quindi non posso, in alcun modo, rappresentare tutte le persone transgender. Posso solo parlare del mondo per come lo vedo io, da dove mi trovo, nella mia posizione di transessuale.

Sono un transessuale fortunato. Prima di tutto perché sono vivo. E in secondo luogo perché ho una famiglia che mi ama. Queste due caratteristiche non dovrebbero essere questione di fortuna, ma al momento le cose stanno così. La mia esperienza è abbastanza unica, così ho pensato di farvene un breve resoconto: a 3 anni la mia prima frase è stata: “Sono un bambino”, a 7 anni, quando ero ancora convinto che questo fosse vero, i miei genitori mi portarono da uno psicologo. Lo psicologo disse che probabilmente soffrivo di “disforia di genere”. I miei genitori ne discussero a scuola, e mi permisero di portare i capelli corti e indossare la divisa da ragazzo. A 8 anni sono entrato in cura da uno specialista di Londra (a carico dell‘NHS, il sistema sanitario nazionale) che mi ha seguito fino ai 18 anni. A 12 anni mia nonna ha finanziato il mio cambio di nome sui documenti. Ho vissuto come un maschio da quando avevo 7 o 8 anni. Ho attraversato completamente la pubertà femminile e, raggiunti i 21, anni ho cominciato ad assumere testosterone. Mi sono operato a 22 anni. Ora ne ho 24 perciò sono come mi vedete da circa 2 anni.

Non è mia intenzione chiedere semplicemente un’accettazione compiacente delle persone trans o invocare la fine degli insulti e delle legnate … voglio parlare di transfobia come di una questione che ci riguarda tutt* e che possiamo tutt* contribuire a combattere in qualche modo. Come società dobbiamo applicarci meglio alle questioni di genere.

Nel grembo materno tutt* cominciamo il nostro sviluppo come femmine. Le persone che nascono come maschietti cambiano durante la gravidanza, all’introduzione del testosterone. Il clitoride cresce e diventa il pene, e le labbra diventano lo scroto. A prima vista la parola woman sembrerebbe indicare che le donne sono uomini con l’utero (wo-man, come in womb-man). Ma in realtà, sono gli uomini ad essere donne con grossi clitoridi. La maggior parte delle persone alla nascita ha una vagina o un pene, ma alcune persone stanno in qualche modo a metà – queste persone sono ‘intersessuali’. Non appena nasciamo veniamo trattat* in modo molto diverso: ai bambini maschi vengono dati i lego, alle femmine le bambole (e poi ci si interroga sulla mancanza di ingegneri di sesso femminile); le ragazze sono incoraggiate a prendersi cura degli altri e a parlare dei propri sentimenti, mentre ai ragazzi viene detto di dimostrarsi virili. Ogni ragazzo e ogni ragazza, in una certa misura, devono fare i conti con la differenza che c’è tra essere chi si è, e quello che ci si aspetta da un Vero uomo. O da una Vera donna. Ogni corpo soffre per l’invenzione dell’Uomo e della Donna. E io mi considero una vittima estrema di questo meccanismo – in realtà non mi considero un Uomo – ma so, violentemente, di non essere una donna. Penso che le persone trans in genere siano le vittime estreme di questa rigidità.

La società è divisa in uomini e donne, e io non rientro in nessuna delle due categorie. Se dovessi andare in prigione, potrei essere un uomo in un carcere femminile, o un uomo con la vagina in un carcere maschile dove la privacy non è esattamente una delle priorità. Se dovessero arrestarmi, potrei scegliere se essere perquisito da un agente di polizia maschio o femmina. Ma non sono un uomo, non sono di sesso maschile, sono transessuale. Esiste un Certificato di riconoscimento del genere grazie al quale posso essere riconosciuto come uomo o donna da parte dello Stato. Ma non sono un uomo o una donna, sono transessuale. Potrei essere trattato come uomo, andare in un carcere maschile, essere perquisito da un poliziotto uomo, sposarmi con una donna. Ma non voglio sposarmi, non voglio vivere in una società in cui le persone vengono mandate in prigione e perquisite dalla polizia. Non credo in una lotta in cui chiediamo al governo di aver a che fare con noi in modo più efficiente, per opprimerci meglio. Non voglio integrarmi meglio in un sistema marcio, voglio qualcosa di completamente diverso. Voglio partecipare alla creazione di un mondo migliore.

Il pregiudizio contro gli uomini trans, come me, è basato sull’idea che stiamo cercando di farci largo per ottenere il privilegio di essere maschi – privilegio che non meritiamo, perché siamo inadeguati, non abbiamo peni e, se li abbiamo, sono strani, piccoli o fanno schifo. Siamo uomini inadeguati, col culo grosso  e un pisellino ridicolo.

Il pregiudizio contro le donne trans si basa sull’idea che si stiano auto-degradando, che siano ridicole, una caricatura, perché mai vogliono essere donna? Come se stessero cercando un modo per scendere di livello nella scala sociale.

Quindi la transfobia è radicata nel sessismo. Alcune persone credono che le donne trans non possano sapere cosa si prova a essere donna perché non hanno vissuto il sessismo in prima persona. Ma la transfobia che la donna trans deve affrontare è sessismo — moltiplicato per cento!

Secondo alcun*, gli uomini trans cercano di sfuggire al sessismo trasformandosi in uomini. Lasciate che ve lo dica: quando sei transessuale, non sfuggi al sessismo… vieni completamente scaraventato in un‘enorme palude di sessismo. Quando vivi entrambe le condizioni e anche di più, cominci a vedere il sessismo, lo noti quando gli altri non lo percepiscono. Quando tiri in ballo il genere si scatenano le forze della natura.

Il sessismo, e più in particolare, questa forma di sessismo che è una reazione alla devianza dal genere assegnato (non essere un uomo vero, o una donna vera) sembra essere veramente poco riconosciuta. E svolge un ruolo enorme nell’omofobia. Un ragazzino gay dall’aspetto molto maschile e che sa fare a pugni non rischia di diventare vittima di bullismo a scuola. I bambini di solito non giudicano i gusti sessuali dei loro compagni di scuola, ma giudicano come si comportano. I ragazzi effeminati sono vittime di bullismo in quanto effeminati, e vengono apostrofati come omosessuali e finocchi. Ma vengono presi di mira perché non agiscono come veri uomini: e questo è sessismo, ma noi lo chiamiamo omofobia. E quando lo si chiama omofobia, che organizzazioni ci sono per aiutare il ragazzo etero effeminato? Gli si dice che non c’è niente di male a essere omosessuale, ma non c’è nessuno che gli dica che va bene essere un po’ effeminato. Questa è la stessa prepotenza che le persone transessuali vivono elevata a potenza, ma non è in alcun modo riservata a noi.

L’esperienza delle persone transgender è al limite estremo – ed è un estremo letale, il sito Transgender Day of Remembrance mostra che, nel 2009, 130 persone transgender sono state uccise, ma questo è un problema universale, radicato nel sessismo, che colpisce tutt* noi e contro il quale tutt* possiamo lottare.

[L’invenzione del vero uomo e della vera donna è sancita dall’economia. Fino a quando qualcun* dovrà lavorare tutta la settimana per ottenere un salario, per sopravvivere, e fino a quando avremo bambini da accudire, qualcun altr* dovrà lavorare in casa, e occuparsi dei bambini gratis. Al momento, il più delle volte, l’uomo lavora a tempo pieno e la donna lavora gratis in casa. È il lavoro non retribuito che sostiene l’intero sistema. Se venisse meno, tutto crollerebbe. Ma questo non si può cambiare riallineando le questioni di genere oppure scambiando i ruoli e trasformando il patriarcato in un matriarcato, o mescolando tutto, o facendo una volta per uno … o pagando un’altra donna il minimo sindacale per fare il lavoro al proprio posto. Fino a quando questo sistema continuerà a stare in piedi, qualcuno dovrà lavorare gratuitamente in casa. E questa è una delle ingiustizie fondamentali alla base della nostra economia. Per quanto le persone transgender possano evidenziare che questi non sono due ruoli naturali immutabili, non è certamente un appello liberale alla tolleranza che trascinerà il sistema al collasso.]

Voglio ritornare a questa idea che dobbiamo, come società, come comunità, applicarci meglio alle questioni di genere. La transizione da un ruolo di genere a un altro non si limita alla chirurgia, anzi la chirurgia riveste un ruolo veramente minore nella transizione. La transizione è principalmente sociale, perché i ruoli di genere sono sociali. Come ho detto prima, ho vissuto per 12 anni come maschio, senza alcun intervento chirurgico o ormoni di sorta. Ora rientro nella categoria dei maschi, perché le persone mi chiamano ‘lui’ e mi vedono di sesso maschile. Il fatto che la transizione sia di tipo sociale sembra non essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone e quando qualcuno si manifesta come trans, gli altri si limitano ad attendere che quella persona diventi abbastanza virile o femminile da convincerli. L’onere ricade sulla persona trans che deve “comportarsi come un uomo” o “comportarsi come una donna” per poter vedere rispettata la propria identità. Questo spesso significa che vengono ricompensati gli uomini trans che si comportano come degli idioti esagerando gli aspetti macho, perché solo allora la gente ne rispetta l’identità. Dovrebbe essere responsabilità di tutti rispettare l’identità di chi ci sta davanti, fare la propria parte nel cammino che si fa per sentirsi a proprio agio nella propria pelle.

Che cosa vogliamo, con le nostre marce dell’orgoglio e il nostro attivismo?

La libertà di camminare per strada, vestiti come ci piace, baciando chi ci piace, in un paio di aree da vip in centro Londra? Perché non baciarsi a Clapton? A Stratford? A East Ham? Essere liber* nelle comunità operaie nelle quali effettivamente viviamo? Sentirci liber* di esprimere il nostro amore, il nostro genere, il nostro corpo, senza temere di essere linciat* da bande di teppistelli? E che dire dei ragazzi adolescenti? Dei nostri vicini di casa? Quand’è che quel ragazzo adolescente si sentirà libero di fare un pompino al suo compagno, o di indossare un abitino, senza la paura di venire completamente rifiutato o senza pensare che questo potrebbe fare di lui una persona completamente diversa?

La tentazione potrebbe essere forte, per quegli omosessuali benestanti che hanno raggiunto la propria libertà, che camminano felicemente mano nella mano nella stradina di casa ad Hampstead, di prendere le distanze e non essere associati con i transgender, con noi devianti, o con noi queer di origine proletaria che viviamo in zone come Hackney, circondat* da omofobia, transfobia, sessismo. La vediamo eccome, quella tentazione, quando vediamo come è diventato il Pride di Londra. Ed è per questo che è importante che esistano eventi come questo, per mantenere il nostro attivismo di base, e non accontentarci di niente che non sia la libertà completa e assoluta.

 

Piselli, patate e altri ortaggi: brevissima guida alla sessualità trans*

il_fullxfull.334859494

Intanto, mi presento: scrivo quanto segue per chiarire le idee su argomenti molto poco discussi, in particolare in un paese dove di transessualità, transgenderismo, genderqueer e compagnia bella non si parla praticamente mai. e Questo intende essere il primo di tanti altri scritti, ognuno su tematiche e stereotipi relativi al mondo trans*.

Si dà per scontato che ad un genere corrisponda un determinato set di caratteristiche perché abbiamo una cultura fortemente binaria: non vediamo oltre l’Adamo macho virile cazzomunito ed Eva femmina fertile vaginadotata. Per questo, di fronte all’ipotesi di avere una relazione con una persona trans* o esserne attratt@, solitamente vengono sfoderate delle risposte del tutto assurde, inerenti soprattutto la mancanza dei genitali solitamente collegati alle persone del genere che attrae l’interlocutore. Queste non sono altro che frutto di pregiudizi, sì, ma quali?

La prima grossa supposizione è che tutte le persone trans* abbiano delle determinate caratteristiche comuni, fatta eccezione per la disforia. Esistono persone trans* che prendono ormoni e quelle che non; quelle che si operano e chi sta bene così com’è, persone alte, basse, magre, grasse, glabre, pelose, etero, gay, bisessuali, pansessuali, asessuali, sessuali, monogam*, poliamoros*, sadomasochist*, vanilla, binari@ e genderqueer, con più generi, senza generi, con corpi diversi e transizioni diverse: sono tutt@ divers@, esattamente come il resto del pianeta. Bisognerebbe farsene una ragione.

La seconda grossa supposizione è che l’avere un determinato set di caratteristiche legate al sesso di nascita significhi automaticamente “utilizzarle” nella stessa maniera in cui lo si farebbe se si fosse stati cisgender. Una persona trans* potrebbe  volere che le persone si rapportino ai suoi genitali con dei nomi e approcci differenti da quelli che pensavate, avere dei limiti che non vogliono oltrepassare o non averne affatto. Inoltre, la genitalità di una persona trans* può e spesso è diversa da quella di una persona cisgender, in particolar modo se si sottopone a ormoni/chirurgia/eccetera. Mai dare niente per scontato, dialogare è indispensabile a capire come agire.

La terza grossa supposizione è che essere attratt* da una persona trans* comporti automaticamente l’attrazione per il suo sesso genetico. Peccato che ciò non tenga in considerazione un uso, appunto, alternativo dei genitali discordanti che si hanno oppure la presenza di nuovi genitali. Prendiamo ad esempio il famoso stereotipo per cui chi va con una prostituta transessuale non operata è segretamente omosessuale, oppure ha in sè una qualche componente di fluidità sessuale e bisessualità. Si sottintende in questo stereotipo che quella donna sia un uomo (grazie car*, ma di transfobia ne abbiamo abbastanza). Direste lo stesso di un tale che si fa penetrare con qualcosa di diverso da un pene dalla fidanzata ma rifugge totalmente gli uomini, oppure una ragazza cisgender che si masturba? il piacere meccanicamente ottenuto da parti del proprio corpo non è intrinsecamente connesso all’orientamento sessuale: la clitoride non sta mica a guardare chi ci gioca, la prostata non fa differenze fra pelle e silicone.  Ad ogni modo, se c’è chi crede seriamente che un uomo gay che si fa penetrare da un ftm stia sperimentando l’amore per la vulva solo in virtù del fatto che il suo partner con la vulva c’è nato, deve essere davvero imbecille. E per contrastare ciò, credetemi,  non c’è acculturamento che tenga.

Per approfondimenti, consiglio assolutamente la lettura di questo opuscolo.

 

Appunti per conversazioni non transfobiche

CARTEL-MANI-TRANSFOBIA-2011
Ecco alcune azioni che dovrebbero essere categoricamente evitate nel parlare con e di una persona trans*:

– Chiamarl* con nomignoli storicamente insultanti che la persona t* non usa. Rientrano spessissimo nella categoria “transettone”, “travello”, “travone” e affini. Molt* di noi credono nella riappropriazione politica dei termini, è vero, ma questo non vuol dire certo che ognun* di noi si senta a proprio agio con il reclamare l’uso di alcuni o di tutti i termini in oggetto. Vuoi sapere se li usa e quali usa? Solitamente, salvo essere ciechi e/o sordi, è sufficiente ascoltare o leggere la persona interessata per scoprire questo arcano, e ad ogni modo è molto meno imbarazzante porre una domanda che darsi a improbabili scivoloni dialettici per spiegare mancanze etiche ingiustificabili.

– Riferirsi a l*i con nomi e linguaggi che non usa. Può essere il maschile per alcuni, il femminile per altre, e c’è anche chi preferirebbe forme neutre. Rispetta questa necessità. Non si tratta di egoismo linguistico e non iniziare dibattiti linguistici sulla correttezza di asterischi e via discorrendo. Le persone vengono prima dei nazismi grammaticali.

– Rammentare alla persona t*, costantemente ma anche occasionalmente, in una maniera o nell’altra, che la genetica l’ha generat* in una certa maniera. Ciò che si chiama “disforia” è, molto banalmente, il malessere derivante – sorpresa! – dal non corrispondere fisicamente a ciò che si sente. Spiattellare dunque fascismi biologici è molto poco carino e genera in qualunque persona t*  il genuino desiderio di smolecolarizzarti l’arteria femorale a morsi.

– Fare humour a casaccio sull’argomento senza premurarsi di sapere cosa ne pensa la persona, per poi avere diverbi e molestarl* con amenità come “scusa, non volevo offenderti”. Se commetti una cagata, la cosa migliore da farsi è ammetterlo e scusarsi genuinamente senza spostare la responsabilità del proprio agire alla reazione di l*i. La sua rabbia, il suo scazzo e qualsiasi altra emozione ed opinione è legittima a prescindere dai toni con la quale questa viene espressa, purché non siano -isti o -fobici e più semplicemente oppressivi essi stessi.

– Cooptarl* a priori in quella che potremmo chiamare “altrizzazione”. Le donne trans* sono donne, gli uomini trans* uomini. Poi chiaramente ci sono persone genderqueer che sfuggono le categorie, e probabilmente in una palla tridimensionale dei generi c’è chi si trova in posti assai complicati. Questo non autorizza nessun* a considerarl* inclus* in una sorta di terzo genere degli indefiniti. Non è indefinit* – si identifica in maniera ben precisa, se e quando si identifica. Parlare di  donne, uomini e trans* è terribilmente offensivo visto che un sacco di persone trans* sono uomini o donne. Si potrebbe sostituire questa espressione con donne, uomini e persone nonbinarie.

– Una persona trans* non si “identifica” soltanto in un genere, ha un genere; quel genere. Frasi quali si sente donna/uomo/nonbinari@  sono a dir poco raccapriccianti, in particolare se abbinate a pronomi sbagliati. Noto anche che si prova ad usare persone che si identificano uomo/donna per essere più inclusiv*, ma l’unico risultato ottenuto nella pratica è perpetuare la degenderizzazione delle persone trans*, perché – ad esempio – nella mentalità dell’italiano medio rimarrà normale usare “donna” per riferirsi alle donne cisgender e “donna trans”, o più spesso solo “trans”, per riferirsi alle donne trans. Questo implica che il genere delle persone cisgender è automaticamente più valido, ma ciò è falso. Il sentire di ognun@ è valido.

– Non riferirsi a “corpi maschili” parlando di donne trans* e “corpi femminili” parlando di uomini trans*. La biologia non è un destino, e soprattutto non può essere ciò che si trova tra le gambe a determinare la definizione del resto del suo corpo. Autodeterminazione anche nei linguaggi, please!

Non c’è in questa lista la pretesa di essere esaustiv*, assolutamente, ed in ogni caso l’unico metodo sempre affidabile per rivolgersi ad una persona senza mancarle di rispetto è domandarle quali sono i suoi confini, limiti, off-limits, eccetera. Buona chiacchierata 🙂