Dubbi sul queer: alcune risposte

imagesRiportiamo con piacere la risposta di Mina a questo articolo che pone dei dubbi sul queer. Invitiamo, chi lo desidera, a dirci cosa ne pensa. Buona lettura!

Nota: le frasi presenti in parentesi quadre sono da attribuirsi a Mina e non all’autrice dell’articolo in questione

Cara Anacronista,
volevo controbattere ad alcuni punti del tuo articolo. Tipo a tutti, ora che ci penso.
Parto col dire che mi auto-colloco nella sfera queer e con questo non significa che sono uguale ad altre persone che si definiscono queer, con cui magari arriviamo a conclusioni anche abbastanza diverse. Questo, perché, il movimento queer è ben lungi dall’essere un modello in quanto, nonostante alcuni punti di partenza comuni, non offre un prototipo identitario o comportamentale o un’universalità di precetti, ma include tutte le forme che sfuggono o si pongono in maniera problematica verso le forme di essere e di relazionarsi “permesse” dalla società. Di seguito risponderò punto per punto alle tue osservazioni:

Allo Sfamily Day, si paventava – in modo piuttosto accennato e sfuggente – la possibilità di un legame tra la precarietà del lavoro e quella delle relazioni.

E’ un’ipotesi, si può argomentare, condividere o meno (io personalmente riconosco questa correlazione)

Il “modello” queer, che per quanto rifiuti la definizione di modello lo è in qualche modo anch’esso [ma anche no visto che manca il fondamento stesso per essere un modello: cioè che non fornisce un’idealtipo], prende – fra l’altro – atto della precarietà strutturale di tutte le relazioni.

Non so se tutt* coloro che si riconoscono queer siano d’accordo, personalmente per me vale il principio panta rei, tutto scorre, per cui cambiando continuamente la condizione anche i singoli momenti non possono che dirsi finiti.

Mi sfugge cioè il perché sarebbe necessario far coincidere la vita relazionale col modello economico dominante. Di fatto, la precarietà è grande sfaldatrice di relazioni. Ma di diritto? Perché dovremmo prendere quel modello a esempio emotivo, sessuale, eccetera? Semmai, argomentiamolo in altri modi. Non escludo che questo legame normativo fosse uno scivolone momentaneo: mi sembra troppo assurdo che si prenda a modello della vita relazionale il nuovo capitalismo.

Ma di fatti non è più lontano dalla realtà: il movimento queer niente ha a che fare con il capitalismo, né vecchio né nuovo. Hai preso due ipotesi più o meno accettate e le hai unite traendone una tua interpretazione personale: il movimento queer riconosce una precarietà strutturale delle relazioni (ovvero sia non ne riconosce l’immutabilità nel tempo), c’è una correlazione tra precarietà economica e precarietà di relazioni, allora il movimento queer ricalca la precarietà relazionale sul modello di vita basato sul/imposto dal nuovo capitalismo.
Capitalismo che, mi preme ricordarlo, ha usato il genere (insieme a razza, ceto sociale, ecc.) come terreno di costruzione di frammentazione sociale e di controllo.

Mi ha colpito in particolare, nel leggere il manifesto queer recentemente tradotto in italiano [cfr. link sotto], che il queer è “contro il trauma del divorzio”. Come nascono, le relazioni finiscono, e non bisogna farne un dramma, cambiando appunto a monte modello emotivo-relazionale. Il presupposto implicito sembra essere che se di solito si soffre per la rottura di alcuni legami, non è perché ciò faccia in quanto tale soffrire, ma perché la sofferenza deriva dall’interiorizzazione del modello tradizionale di relazione, quello cioè per cui – per esempio – la fine di un matrimonio è un lutto, un trauma e via dicendo. In sé non farebbe soffrire, è il modello sociale di riferimento la vera causa di questa sofferenza.

Il verso che citi è il seguente: gli amori queer non condividono gli aneliti di eternitá ne’ il trauma del divorzio, perché si godono le storie finché finiscono, felici di averle sentite e senza la sensazione d’aver perso nulla “per sempre”.
Aneliti di eternità e trauma del divorzio rimandano a sofferenze derivanti dall’interiorizzazione del modello tradizionale di relazione imposto a livello sociale-istituzionale, ad un tipo di relazione basata sull’ideale dell’amore romantico e dell’immutabilità della vita e di noi stessi prima ancora che di una relazione e ad una forma di vincolo riconosciuto come ipocrita e prescrittivo.
Qui, invece, si ci concentra a vivere una storia giorno per giorno, in libertà e senza vivere nell’angoscia di una sua possibile fine, così da poter essere felici fino in fondo di averla sentita. Senza la sensazione di aver perso nulla per sempre, perché già sappiamo che il per sempre non esiste, e comunque tutto ciò che ho vissuto e condiviso e appreso rimarrà parte di me.
Non si parla mai di anaffettività relazionale, né di assenza del dolore. E’ una tua interpretazione che tra l’altro viene smentita da altri versi.

[…]
– domanda: non è che per caso, così dicendo, si vuole negare la realtà spesso dolorosa delle relazioni? Il fatto, cioè, che ogni legame affettivo forte ha un contenuto di angoscia, un nocciolo distruttivo e/o prensile, il desiderio di afferrare infinitamente l’altro sempre impossibile da soddisfare, e quindi un minimo di frustrazione profonda e un’ inappagabilità strutturale? La paura dell’abbandono, l’attaccamento eccetera? O anche questa è una costruzione sociale deformante e oppressiva?

La mia risposta? Sì, lo è. Il contenuto di angoscia di cui parli e che deriva dal desiderio di “afferrare” l’altr*, dalla paura dell’abbandono, dall’attaccamento, è naturale? Secondo te è una conformazione dell’animo umano o del Dna? O forse deriva dal modo di intendere il costrutto sociale chiamato “amore”? (con questo non sto dicendo che l’amore, l’affettività non esistano a priori, ma che il modo di concepirlo sia un costrutto chiaramente sociale, che infatti cambia in base a geografie ed epoche storiche).
La gelosia è naturale, o piuttosto è qualcosa che fin da piccoli c’hanno insegnato a provare spacciandocela addirittura come indice di innamoramento, sottacendo il senso di possesso che ne è alla base e che si dissimula con il concetto di appartenenza? Se mi relaziono con te da pari e non “voglio averti” perché dovrei avere paura di perderti?

Ergo: che succede quando una “persona queer” si innamora? Ogni relazione profonda diciamo così, amorosa – è in sé estremamente ambivalente, sicché accanto alla felicità convive un senso profondo di angoscia, per i più svariati motivi. Anche perché si cerca nell’altro quel qualcosa che colmi un vuoto interiore, e la libertà dell’altro coincide immediatamente con la possibilità, sempre presente, che esso ci abbandoni da un momento all’altro. Accanto allo stare insieme persiste sempre un più o meno vago senso di paura. Tutto ciò è ascrivibile semplicemente alla sezione “oppressività interiorizzata della monogamia”, o è qualcosa di più intrinseco? Boh, pongo domande.

Perché si cerca nell’altro quel qualcosa che colmi un vuoto interiore”. Scusami se mi esprimo così, ma brrrrr.
Se parto da un IO (e quindi non cerco qualcun* che colmi un vuoto interiore) e come tale mi relaziono con un altro IO, e non cerco di ritrovare un IO dentro una relazione con qualcun altr*, perché dovrei avere l’ansia o l’angoscia della perdita, o provare un’ inappagabilità strutturale?
Questo non significa che non esista dolore, che quando finisca una relazione intensa, per quanto si possa razionalizzare, non si viva un lutto, una fase fisiologica di transizione.
E’ come la si elabora e la si decostruisce a fare la differenza, è l’onestà intellettuale ed emotiva che si riserva a se stessi e agli/lle altr*.

Naturalmente, parlo di sentimenti, non solo di sessualità. [Naturalmente anche io, mi sembra]Da quel che ho visto, il punto di vista queer non restituisce se non molto vagamente lasfera dei sentimenti. Sembra cioè troppo “autocentrato”, poco orientato a ragionare sulladimensione affettiva della relazione e su tutto il corredo di dolore che, romantica o non romantica,la relazione amorosa sembra come tale recare in dote.

“L’amore queer non esclude il sesso dal sentimento, ne’ il sentimento dal sesso. Le Relazioni queer non dividono la popolazione tra gente con cui si scopa e gente della quale ci si innamora, perché chiunque é scopabile e amabile. gli amanti e le amanti queer assumono le loro contraddizioni e non distinguono tra corpo e anima, mente ed emozioni ma le vivono come un tutto, accettando e arricchendosi con la complessitá dei sentimenti e del desiderio umano.” (tratto da Il manifesto degli amori queer)

Poi, quanto all’identità di genere, il considerarla esclusivamente come frutto di una pratica discorsiva sociale può essere problematico. Credo infatti che ci sia un’imponente dosedi normatività nella costruzione del genere, ma parimenti penso che ci sia un limite. Come ha detto Luce Irigaray [PS: non aderisco al pensiero della differenza, nda], “non godiamo di una libertà infinita”. C’è un limite. E non è detto che questo limite sia di per séoppressivo. Anzi, il pensiero di essere tutto e niente può generare angoscia. L’identità è una cosa preziosa -siamo esseri situati o esseri astratti? penso la prima -, perché dovreitogliermela? (Al proposito, cfr. link sotto). E’ sede di oppressioni e costruzioni culturali, ma può anche essere sede del punto X (o G, come preferite) a partire dal quale essere e agireconsapevolmente, direzione libertà, una volta che si sono riconosciuti e per quanto possibile problematizzati e decostruiti i livelli di normatività che esso contiene.

Ci sono due livelli sui quali si agisce: la rivendicazione politico-istituzionale di riconoscimento di certi diritti o della tutela di un determinato fenomeno (per cui io mi rivendico, per esempio,
non solo l’espressione violenza di genere ma anche il termine femminicidio, o il mio essere lesbica); e la lotta politico sociale che guarda ad un cambio culturale (per cui mi rivendico il superamento dei generi e delle definizioni gay- lesbica per esempio). Ovvero: se da un lato lavoro per mitigare i danni attuali, dall’altro cerco di costruire qualcosa che superi questa società.
Per quanto riguarda i limiti…che te devo dì? E’ ovvio che dei limiti ci sono: per esempio nascere è sempre frutto di sovradeterminazione, avere un corpo è la base della vita (almeno di quella che conosciamo 😛 ), si nasce con un pene o una vagina (in alcuni casi intersex) e quello è il punto di partenza a prescindere da quello che si sceglierà poi come percorso. Ma a parte questo non ci sono molti altri limiti, a parte quelli che si ci autoimpone, perché anche i limiti si scelgono. (Per come la vedo io).
Avere la possibilità di più possibilità può paralizzare e generare angoscia, ma magari si può partire proprio da qui, dall’accettazione e dall’elaborazione di questo senso di angoscia.
Citando una buona compagna di viaggio, Viviana: “Ma perchè la libertà fa così paura? Tanto che si arriva a dire “mica una libertà infinità è cosa buona”?[…] Ed è questa cultura dei confini, dei limiti, delle definizioni “altrimenti non so come pensarmi” che ci fregano, che ci immobilizzano.. è come se non riuscissimo a pensare oltre ciò che ci è stato insegnato.
Questa è la paura che riscontro anche quando parlo di anarchia… mi si dice: ma senza regole come si fa?? A parte l’ignoranza sull’anarchia che non è assenza di regole ma prevede regole condivise, io mi meraviglio sempre di come l’idea di poter “fare ciò che si vuole” faccia più paura delle norme limitanti e censorie.”

Insomma, pur riconoscendo molti aspetti positivi al punto di vista queer, come movimento “negativo”, di decostruzione delle norme, di liberazione dai modelli istituzionalizzati di relazione-genere&sessualità, penso al contempo – come si è convenuto con Eleonora (Ciao anche a te, Eleonora) – che nel rifiutare ogni norma come intrinsecamente lesiva della libertà si ponga esso stesso come norma potenzialmente non meno oppressiva e che inoltre si scontri con il problema principale del decostruzionismo che è appunto quello del limite.

Non si rifiuta ogni norma a priori come lesiva di libertà…Si fa un’intensa attività di decostruzione in cui finisce che qualcosa lo scarti, qualcosa lo modifichi ma lo tieni e magari qualcosa lo tieni così com’è. Non si tratta di rifiuto a priori ma di consapevole scelta.

Avere una vagina e avere un pene, essere omosessuali, transessuali, bisessuali o etero è per il queer completamente indifferente? Mi si risponderà: puoi essere in certi momenti etero, in altri omo, eccetera. Si tratta di esplorare tutte le infinite sfaccettature del proprio potenziale sessuale, della propria sconfinata identità. Il che è molto interessante. Ma, ripeto: il limite? i sentimenti? il dolore? l’identità? tutte finzioni?

Non è indifferente in senso lato, ma in un’ottica di superamento di forme e definizioni che puntano ad incasellarci, a dividerci e a cristallizzarci in una condizione immutabile sì.
L’identità è mia, nessun* potrà mai privarmi di me, della mia essenza…ma non lascio che qualcun* mi dica chi essere, come crearmi un’identità, come sentirmi.

Si diceva da qualche parte, per esempio, che il coming out fosse un’esperienza derivata da una sorta di violenza epistemico-sociale, per cui definendosi come X si viene ingabbiati per sempre in X. Questo è un punto importante e condivido l’analisi sul coming out, ammenoché non sia frutto di una scelta di lotta politica ben definita (per cui definendomi lesbica in modo plateale irrompo nei codici usuali, eteronormati, e pongo il problema). Il coming out presuppone, cioè:
– da un lato, che l’essere diversi dalla massa etero, comporti di necessità il proprio rimarcarlo, e che quindi non affermando nulla si sarebbe per “tacito accordo” etero;
– dall’altro, un’irruzione nell’intimità della persona che, come insegna Foucault, è profondamente asimmetrica, perché questa società che ti entra nelle mutande non è prevista allo stesso modo per le persone etero.
In questo senso la prospettiva queer potrebbe fra l’altro dare degli embrionali strumenti per liberarsi da quello che in parte presiede al coming out, cioè il presupposto della fissazione in un modello sessuale/identitario/sociale immutabile.

Sono i due livelli di lotta di cui parlavo prima: da un lato mi definisco lesbica per rivendicare dei diritti sul piano politico-istituzionale e per rivendicare una diversità, dall’altro però lotto contro un incasellamento che mi vuole rispondente ad un determinato stereotipo, che mi vuole immutabile e che esige che la mia diversità sia uno scotto da pagare alla società che mi dà il permesso di esistere, ma alle sue condizioni.

Tuttavia, per tornare all’inizio del post, vorrei vederci semmai un minimo di critica delmodello sfiancante e alienante di vita proposto dal nuovo capitalismo, e nonun’imitazione dei suoi modelli trasposti nell’ambito esistenziale, emotivo e relazionale. Questonon vuol dire affatto che l’istituzione relazionale familiare classica vada preservata in quanto tale oche. Vuol dire che è necessario capire i termini con cui giustifichiamo tutto ciò e fare iconti con la dimensione affettiva, con il bisogno di stabilità emotiva, con il problema “dolore”spesso intrinseco a quello dei “sentimenti”. Leggendo qualcosa sul queer ho sempre cioè avuto un’impressione di grande anaffettività. Ok, sevale soltanto per il sesso libero ok. Ma quando lo trasferiamo a una dimensione più articolata direlazione mancano punti di riferimento, mancano griglie di lettura. Che non escludo possanoesserci, al momento mi limito a ragionare su quel – poco, riconosco – che ho letto e sentito sultema.

Ripeto, le varie teorie queer non si adeguano al modello capitalistico, ma semmai si propongono come vie per un suo superamento.
Quando parli di anaffettività mi sembra che tu abbia un pregiudizio da luogo comune, ti consiglierei di rileggere meglio il Manifesto degli amori queer, che tu stessa hai citato, e di informarti meglio in genere.
A me il confronto non dispiace e sto puntualizzando tutto in maniera diretta ma in toni pacati (se ci dovessero essere dubbi, visto che il tono non si evince da un testo scritto), non pretendo che arrivi a pensarla come me o a convincerti della bontà del queer, però essere tacciata di anaffettività mentre tutti i percorsi queer ruotano attorno a consapevolezza, responsabilità individuale, affettività, relazioni e sessualità…me rode un po’ er culo, e ti inviterei a parlare con meno leggerezza.

Se volessimo polarizzare i modelli, da un lato quindi abbiamo il modello patriarcale,oppressivo e odioso, dall’altro il modello-non-modello queer. Il primo non mi riconoscecome soggetto, o meglio mi riconosce solo previa accettazione di tutte le sue categorie normative(il che equivale a non riconoscermi). Il secondo mi riconosce come fantasma, asessuato oipersessuale, potenzialmente tutto e niente, che in modo ostentatamente glaciale liberamentesceglie e rompe legami come fossero bruscolini.Visto così, il queer sembra davvero l’irruzione del postmoderno nelle mutande. Tutto èsfaldato, tutto è decostruibile, tutto è mistificazione, quindi dobbiamo vivere in una zona franca didecostruzione – esiste? può esistere? – coincidente con la libertà (davvero?).

Il soggetto queer non è certo un fantasma, ma una persona con la libertà di scoprire, elaborare e rivendicare un’ identità partendo da quello che scopre dentro di sé e che sceglie, scevro (o comunque cercando, tramite opera di decostruzione, di essere scevro) dai dettami della società e dalle griglie imposte.
La glaciazione di cui parli non ho mai avuto modo di vederla, subirla, sentirla in ambienti che si pongono determinate problematiche, cosiddette queer.
Parlare di legami che si rompono come bruscolini e di anaffettività mi ti fa rimandare al commento di cui sopra.
In quanto al postmoderno, se con tale termine ti riferisci al rifiuto delle grandi narrazioni assolute e universali eteroimposte (nel senso proprio di imposte da altri) come “naturali”, allora forse il movimento queer è postmoderno, e non solo nelle mutande, ti assicuro.

Ora, queer è buono nella sua istanza di allargamento delle maglie della libertà. Per una sessualità meno socialmente rigida. Per decostruire il modello, fallito, di “amore romantico” o il diktat sociale della “coppietta” e tutto il suo corredo. Per inoculare in modo più radicale il germe del dubbio sul carattere “naturale” dei generi. D’altro canto, “non abbiamo una libertà infinita” e non è detto che una libertà infinita sia una cosa buona e meno oppressiva della libertà zero.

Re-citando la mia amica Viviana: ma perché la libertà fa così paura?
E’, azzardo, forse perché in questo modo tutto dipende da te e dalla tua responsabilità e non c’è nessun* che ti offre la possibilità di deresponsabilizzarti?

Infine ti lascio con una citazione di Ascanio Celestini:
“Il modello attuale è come una vecchia macchina che consuma tanto e inquina. Qualcuno vorrebbe sostituirla con un’auto ecologica. Io (e molti altri come me) non voglio l’automobile.”

Mina
(e ringrazio il collettivo Intersezioni per la possibilità di elaborazione corale)

Una risposta a “Dubbi sul queer: alcune risposte”

  1. Il movimento queer riconosce una precarietà strutturale delle relazioni. Forse perché si intende una “relazione” come un qualche cosa di statico, immobile. Nulla vieta ad una relazione fra esseri umani di modificarsi nel tempo. Come una rete che imbriglia le persone coinvolte fissandole in una serie di regole immodificabili… Tutto ciò che non riesce ad adattarsi allo scorrere del tempo, a mutare assieme al contesto che muta, è destinato a morire.
    Gli esseri umani cambiano nel tempo: cambia il nostro aspetto ma cambiano anche le nostre convinzioni, cambiano i gusti, cambia il modo di affrontare e gestire le situazioni. Viene da sé che due soggetti capaci di costruire giorno per giorno una relazione adattandola ai mutamenti dei soggetti coinvolti e del contesto, possono portare avanti una relazione all’infinito.
    Tutto sta nella definizione che diamo al termine “relazione”. In sociologia una relazione è un rapporto tra due o più individui che orientano reciprocamente le loro azioni. Sono le persone coinvolte che creano la relazione, senza di esse non esiste una “relazione”. Chi crea la relazione ne stabilisce anche le caratteristiche, quindi ritengo che in sé e per sé una relazione non possa essere né necessariamente duratura né necessariamente soggetta al decadimento, perché l’unico elemento necessario ad una relazione è la volontà dei soggetti coinvolti.

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