Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice

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Negli ambienti militanti e non, si sta diffondendo la solidarietà e la partecipazione attiva alla campagna Genuino Clandestino, promossa dall’associazione Campi Aperti per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. La campagna si è nel tempo trasformata in una rete dalle maglie mobili di singol* e di comunità in divenire che, oltre alle sue iniziali rivendicazioni, propone alternative concrete al sistema capitalista vigente.

Andando a leggere il manifesto che è stato discusso nell’estate di quest’anno emergono dei punti assolutamente condivisibili, che però meritano di essere contestualizzati e analizzati per quello che in realtà comportano e per le contraddizioni che fanno emergere.

I punti sono i seguenti:

  1. costruire comunità territoriali che praticano una democrazia assembleare e che definiscono le proprie regole attraverso scelte partecipate e condivise;
  2. sostenere e diffondere le agricolture contadine che tutelano la salute della terra, dell’ambiente e degli esseri viventi, a partire dall’esclusione di fertilizzanti, pesticidi di sintesi, diserbanti e organismi geneticamente modificati; che riducono al minimo l’emissione di gas serra, lo spreco d’acqua e la produzione di rifiuti, e che eliminano lo sfruttamento della manodopera;
  3. praticare, all’interno dei circuiti di economia locale, la trasparenza nella realizzazione e nella distribuzione del cibo attraverso l’autocontrollo partecipato, che svincoli i contadini dall’agribusiness e dai sistemi ufficiali di certificazione, e che renda localmente visibili le loro responsabilità ambientali e di costruzione del prezzo;
  4. sostenere, attraverso pratiche politiche (come i mercatini di vendita diretta ed i gruppi di acquisto) il principio di autodeterminazione alimentare ovvero il diritto ad un cibo genuino, economicamente accessibile e che provenga dalle terre che ci ospitano;
  5. salvaguardare il patrimonio agro alimentare arrestando il processo di estinzione della biodiversità e di appiattimento monocolturale;
  6. sostenere percorsi pratici di “accesso alla terra” che rivendichino la terra “bene comune” come diritto a coltivare e produrre cibo; sostenere esperienze di ritorno alla terra come scelta di vita e strumento di azione politica;
  7. sostenere e diffondere scelte e pratiche cittadine di resistenza al sistema dominante;
  8. costruire un’alleanza fra movimenti urbani, singoli cittadini e movimenti rurali, che sappia riconnettere città e campagna superando le categorie di produttore e consumatore. Un’alleanza finalizzata a riconvertire l’uso degli spazi urbani e rurali sulla base di pratiche quali l’auto-organizzazione, la solidarietà, la cooperazione e la cura del territorio;
  9. sostenere le comunità locali in lotta contro la distruzione del loro ambiente di vita.

Nel manifesto viene inoltre specificato che Genuino Clandestino è un movimento con un’identità volutamente indefinita, che al suo interno convivono singoli e comunità in costruzione, che è aperto a tutt*, che diffida di gerarchie e portavoce e non richiede nessun permesso di soggiorno o diritto di cittadinanza. Infine Genuino Clandestino si autodefinisce un movimento antirazzista, antifascista e antisessista.

Il manifesto letto in questi termini non può essere che condivisibile, ma la realtà dei fatti fa emergere alcuni dubbi sulle scelte che il movimento Genuino Clandestino sta intraprendendo.

Sono assolutamente convinto che una delle lotte principali dei prossimi tempi sarà la riappropriazione della sovranità e dell’autodeterminazione alimentari, chiavi di volta del capitalismo e della società del consumo, però una simile lotta rischierà di essere viziata da profonde contraddizioni se non si focalizzano da subito quali sono i punti fondamentali attraverso cui combatterla.

La prima cosa che va chiarita è il significato di “ritorno alla terra”. La storia e cultura contadina è sempre stata connotata da un livello elevato di dominio, dove a tutti i livelli si connotava la dinamica di sfruttatore e sfruttato. Per non ricadere negli errori del passato ritengo fondamentale il concetto di “riappropriazione della terra” piuttosto che di “ritorno alla terra”, andando pertanto a ridefinire le modalità di utilizzo della terra “bene comune”. A maggior ragione vista la connotazione politica che nel manifesto viene associata al “ritorno alla terra”.

A tal proposito è indispensabile sfatare in modo categorico il concetto di Fattoria Felice, che porta ad immaginare l’idea fasulla della ‘nostalgia dei bei tempi passati’ in cui si era contadin* e contenti. In nostro aiuto accorrono i Troglodita Tribe con il libello “La fattoria (in) felice – animali e contadini“.

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In questo semplice ed esaustivo testo vengono analizzate, da un punto di vista antispecista nonché intersezionale, le motivazioni per cui il concetto della fattoria felice sia un inganno che non ha nulla a che fare con il mondo contadino.

Oltre a chiarire come il concetto di ‘fattoria felice’ sia funzionale a nascondere l’orrore dello sfruttamento animale, viene sottolineata la catena di dominio che caratterizzava la civiltà contadina nella sua totalità. Al di là di disneyane fantasie bucoliche quindi, ecco uno dei passaggi salienti utili ad una analisi politica onesta del cosiddetto “ritorno alla terra”:

Ai tempi della Fattoria (in)Felice i bambini venivano educati con il bastone e la frusta ed erano dominati dagli adulti. Le donne erano dominate dagli uomini, i braccianti erano sfruttati dai contadini che, a loro volta, subivano le angherie dei proprietari terrieri.

In un contesto di questo tipo ogni vittima esercita potere su un’altra vittima fino ad arrivare all’ultimo anello di questa catena, il più debole, quello che ha minori possibilità di ribellarsi, di protestare: gli animali.

La catena del dominio è una dinamica che si ripete molto spesso in tutte quelle situazioni in cui il potere viene esercitato con estrema decisione e violenza. Il dominio, in altre parole, ha questa orribile capacità di riprodursi e di passare attraverso le sue vittime che tendono ad esercitarlo su altre vittime.

In questo contesto si crea una spirale (anzi una catena) dalla quale è molto difficile riuscire a liberarsi perché ogni tentativo di devianza viene punito in modo esemplare. Ogni forma di devianza spaventa tutti i dominatori che riconoscono in essa la possibilità di essere spodestati”.

I Troglodita Tribe citano poi un testo tratto dal blog della Civiltà Contadina Molisana:

Nascere donna nel mondo contadino era condanna sicura per dover affrontare una vita grama e piena di rinunce. Avere una figlia femmina era considerata quasi una condanna. Infatti, quando ci si sposava si augurava agli sposi “Auguri e figli maschi”!

Appena messa da parte la bambola di pezza alle donne, la sorte le affidava poi da giovinette molti compiti: fare il bucato, cucire o rattoppare i panni, rassettare la casa, preparare il pane e i pasti, seppur frugali, accudire agli animali domestici e all’orto di casa, e, qualche volta contribuire anche ai duri lavori dei campi con i genitori dove cantavano stornelli d’amore e tradimenti. A loro veniva affidato il compito di accudire ai fratelli minori.

Insomma, non stavano mai ferme. A loro era demandato il compito di attingere con la tina presso il pozzo o alla fontana. Qualcuna gettava l’acqua della tina per strada per tornare alla fonte per rivedere l’uomo che la ammirava di nascosto.

Quando giungeva il fidanzamento, spesso era imposto dai genitori per interessi e non le era consentito né parlargli né avvicinarlo. Se uscivano assieme potevano farlo solo con la stretta vigilanza della mamma o di una sorella. L’impegno economico più gravoso da parte dei genitori non era quello dello studio che veniva reputato inutile per una donna che doveva solo pensare a “portare la rima a casa”, era impegnativo, invece, farle la dote dei panni che avrebbe portato a casa del marito. Un marito che a stento conosceva e che la usava come una cosa, chiamandola non per nome ma “uagliò”.

Era spesso punita con botte e con epiteti irrepetibili. La loro femminilità veniva esaltata con il taglio delle trecce portate da ragazza per passare al “tuppe” capelli raccolti con una spilla, una camicetta ricamata con una catenina o “birlocco”, un fazzoletto in testa e una gonna che scendeva fino ai piedi. Divenivano serve di tutti in famiglia, anche di suoceri o cognati che vivevano sotto lo stesso tetto. Le prime ad alzarsi e le ultime a coricarsi. Apparentemente fragili di natura, avevano forza d’animo, tenacia e spirito di sopportazione. Erano sempre loro ad essere le custodi della pace familiare, sopportando sempre tutto per il bene dei figli”.

Sono sicuro che chiunque faccia parte del movimento Genuino Clandestino non condivida un ritorno a quanto sopra descritto. Bisogna allora prendere le distanze da questo passato, reinventandosi e reinventando questo movimento sulla base delle istanze che i movimenti sociali hanno fatto crescere nella coscienza politica di ognun* di noi.

Sicuramente la sfida è grande, e pone il movimento di fronte a una contraddizione che attraversa anche altre lotte sociali, ovvero se sia possibile spezzare la catena del dominio solo in un punto, trovandosi poi nel tempo inghiottit* da quella stessa dinamica.

La storia ci ha dimostrato quanto questo limite sia labile e sia manipolabile da chi detiene il potere, e l’unica soluzione passi attraverso il rifiuto totale di dinamiche di dominio volte all’oppressione. Non si può immaginare una “riappropriazione della terra” che accetti lo sfruttamento animale, senza accettare politicamente quella dinamica del dominio che ha portato e porta lo sfruttamento del più debole. Una visione specista della realtà porta dentro di sé l’accettazione del ruolo di dominatore e sfruttatore – e di dominato/sfruttato.

Purtroppo il movimento è talmente indefinito ed aperto a tutt* che non si è posto – o perlomeno esplicitato – questo problema, accettando silenziosamente la presenza di contadini dediti allo sfruttamento animale. Sicuramente l’immaginario della fattoria felice ha contribuito a permettere l’approvazione politica dello sfruttamento animale. L’ennesimo girarsi dall’altra parte per convenienza, e la storia si ripete.

Nel libello dei Troglodita Tribe vengono affrontati e sfatati tutti i comuni miti della fattoria felice, quali il latte appena munto, i pollai amatoriali, la trazione animale, il maiale di cui non si butta via niente, la benedizione degli animali, l’operosità dell’asino e del mulo.

In definitiva emerge che “La fattoria, qualunque fattoria, nel passato e nel presente, è il luogo dove determinati animali sono rinchiusi, è il luogo dove vengono forzati tutti quei processi naturali necessari alla produzione di latte e uova, il luogo dove gli animali devono ingrassare per essere uccisi quando hanno raggiunto il peso ottimale, il luogo dove chi non produce e non serve viene immediatamente ammazzato, il luogo dove il padrone decide chi deve accoppiarsi e con chi lo deve fare, il luogo dove tutto ciò che avviene è finalizzato a soddisfare gli interessi di chi comanda e dirige l’esistenza di tutti gli altri, di chi detiene il dominio assoluto”.

Immaginare e costruire una Fattoria veramente felice è possibile, ed è un posto nel quale la rinuncia totale allo sfruttamento degli animali non umani annienta la catena del dominio, invece di spezzarne solo qualche anello. Un posto nel quale rinunciare finalmente a tutte le forme di oppressione, non solo a qualcuna.

E solo lì il maialino pirata, tristemente guercio, potrà veramente trovare la felicità, libero da sofferenza, tortura e morte.

2 risposte a “Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice”

  1. interessante approfondimento, effettivamente questa identità fluida di GC lascia un po’ troppo spazio a oppressioni non notate, soprattutto speciste ma non solo… non è mai facile capire come decostruirsi, ma sarebbe meglio spingere sempre in quella direzione 🙂

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