Vorrei che il 2015 portasse via la precarietà, sarebbe bello se bastasse davvero un desiderio, un rintocco di lancette per spalare via tutta questa merda ma non è così, nessun cambiamento è mai arrivato in modo semplice ed indolore.
Alla fine dell’estate scorsa ho perso il lavoro. Non ne andavo fiera. Lavoravo a nero e con uno stipendio che sfiora l’assurdo, ma l’ho accettato perché non potevo dire di no. Essere indipendenti, ma rettificherei scrivendo “provandoci ad esserlo”, non è facile se attorno a te non trovi che sfruttatori/trici che fanno leva sul tuo bisogno per proporti lavori ad orari e stipendi assurdi. Quando ho provato a parlare della mia condizione c’è stato chi mi ha capito, chi si è mostrat@ solidale e chi, invece, mi ha detto che era colpa mia, che, infondo, me lo meritavo perché, accettando, avevo alimentato il mercato del lavoro a nero. Credo che si tratti delle stesse persone che, se vieni stuprata, ti dicono che te la sei cercata, come quando il poliziotto che ti ha spaccato il muso e rotto la testa ti dice che “se stavi a casa tua questo non succedeva”. E’ sempre colpa della vittima, lo abbiamo capito.
Da quando ho perso il lavoro ho provato a mantenere la calma e fare mente locale su tutte le possibilità che avevo a disposizione. E’ iniziata così la ricerca estenuante di un lavoro. Ho risposto a non so quanti annunci, messo non so quanti volantini per strada, ma ben poche sono state le chiamate ricevute.
Mi hanno chiamata per dare ripetizioni a due bambini per 50 euro al mese ciascuno, ma, almeno in questo caso, la famiglia era davvero con le pezze al culo quindi il prezzo era tale per impossibilità. Poi è stato il turno di una donna che pretendeva la stessa cosa nonostante non fosse per nulla indigente. Ho rifiutato entrambe le “proposte”, ma, non mi vergogno a dirlo, solo per la prima ho provato dispiacere.
I mesi passano e i pochi soldi che avevo risparmiato iniziano a decimarsi. Ero così al verde che ho dovuto chiedere al mio compagno, con cui ho una storia a distanza, di accettare il fatto che, per alcuni mesi, fosse solo lui a venire a Napoli a trovarmi perché non potevo più neanche permettermi il regionale per raggiungerlo.
Pian piano ho dovuto privarmi di tutte quelle piccole cose che mi regalavano momenti di gioia. Ma a quello sono abituata, non è la prima volta che ho dovuto farlo. Ciò a cui non ci si abitua è il panico, le crisi di pianto forti, il respiro che diventa affannoso e pesante fino a darti la sensazione di strozzamento. E’ la paura del domani, del futuro incerto, la paura di perdere la persona che ami perché “quanto può durare così?”, la sensazione di sentirsi inutile, la frustrazione e la vergogna, perché non avere soldi e doverlo dire per giustificare i tanti “non posso venire, non facciamoci regali, non ho potuto farti il regalo” ti fa vergognare come se, la tua indigenza, fosse colpa tua.
In alcuni momenti, quelli più critici, ho addirittura pensato che la mia precedente condizione di schiava-lavoratrice pagata pochi euro ad ora fosse più dignitosa di quella di disoccupata che, in casi estremi, deve ritornare a chiedere i soldi ai propri genitori. Lo so che è assurdo ma è la follia di questo sistema che ti fa nascere certi pensieri in testa.
Dopo mesi di ricerca, stremata da telefonate inutili e curriculum inviati senza mai ricevere una risposta, come se tu non fossi degn@ neanche di un “non ci interessa”, arriva una donna che mi chiede lezioni per 100 euro al mese, la cifra non cambia mai, ma almeno questa volta era per un solo bambino. Da allora lavoro tutti i giorni, sapendo che altrove, per lo stesso mio lavoro, percepiscono molto di più, ma io vivo a Napoli che, come nel resto del sud Italia, l’unico lavoro che trovi è a nero e sottopagato. Non lo accetti, questo mai, perché sai che è sfruttamento all’ennesima potenza, ma sai anche che devi sopravvivere e quindi lavorare.
Non so come spiegarvi i sentimenti che provo quando vado a lavoro. Da una parte l’angoscia che avevo dentro, causata dal sapere di non possedere neanche più un euro in tasca, si è calmata perché almeno ora so che ho una cifra su cui organizzare le mie spese, e dall’altra c’è la rabbia di sapere di percepire ancor meno di quello che percepivo nel precedente lavoro per le stesse ore e quindi di aver fatto un ulteriore salto indietro. Sfruttata, sì, mi sento così ma quando a farlo sono persone che, a loro volta, sono sfruttate ti chiedi che fine abbia fatto l’espressione “dignità umana”. Perché invece di fregarci a vicenda non freghiamo chi ci frega? Perché ci impantaniamo in rapporti di forza, dove chi è un pochino più forte schiaccia l’altr@ invece di schiacciare insieme chi ci soffoca?
Ho provato solidarietà per la famiglia da cui lavoro fin quando non ho capito che stavano inventando, ogni giorno, scuse ed escamotage per rinviare il pagamento del mio misero stipendio. Ho atteso che prima o poi mi dicessero qualcosa, anche un “so che dovrei pagarti ma per il momento mi è impossibile”. Non ne sarei stata felice ma almeno avrei apprezzato la sincerità. Quando mi sono resa conto che, se non avessi fatto pressioni, sarebbe passato anche questo mese senza percepire lo stipendio, la mia solidarietà si è trasformata nella rabbia di chi non viene rispettato.
Quello che mi ferisce di più, infatti, che mi si creda o meno, non sono i soldi che stentano ad arrivare ma il fatto che mi si dicano solo bugie per non darmeli. Insultare la mia intelligenza quando la si sfrutta già ampiamente è troppo.
Ed è questo odio che si crea tra chi detiene un potere – anche se minuscolo – di tipo economico e chi ne dipende, che rende o fa credere impossibile la solidarietà tra soggetti subalterni. Eppure, in questo mondo merdoso, qualcosa di fantastico accade ancora, come il raggiungimento dell’obiettivo di Mina, una carissima amica che è riuscita a pagarsi il dottorato in Ecuador grazie alla solidarietà di amic@ e sconosciut@. Sono questi piccoli gesti, grandi vittorie, che mi fanno sperare ancora nelle persone e nella loro capacità di empatizzare con l’altr@, che sia umano o non.
Vi racconto questa mia esperienza sia per ricollegarmi al post di frantic sia per farvi gli auguri di fine anno: personalmente per il 2015 vorrei una rivolta, solo perchè la rivoluzione la percepisco troppo lontana ed, onestamente, non so neanche se mai la vivrò. Ma so che tanti fuochi, tutti quelli che incontro quotidianamente, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono per ricordare e ricordarci che siamo persone e non pochi euro all’ora. Per il 2015 vorrei che ritornassimo a dare significato ad espressioni/parole come “dignità umana”, “libertà”, “lotta alla discriminazione”, “lotta di classe”, “solidarietà” e tanto altro.