Sono giorni che rimugino sulla visita della Boldrini a Nisida e penso alle sue dichiarazioni. Non so come si possa essere così miopi, se lo si è davvero o si finge di esserlo, ma cercherò di dirvi cosa penso di quanto accaduto.
Innanzitutto mi chiedo come si possa definire un carcere ‘un’isola felice’. Cosa c’è di felice nelle sbarre? Nell’essere puniti senza avere una reale possibilità di cambiamento? Nell’essere limitati nelle proprie azioni e negli spazi? Chissà cos’è per la Boldrini la felicità. Per me è solo una cosa, assenza del carcere. Forse per
lei quell’isoletta artificiale, creata per rinchiudervi delle persone per anni, senza prospettive né futuro, è un po’ come l’isola che non c’è, con i laboratori di ceramica e cucina che sanno tanto di ricreazione, momento ludico per eccellenza.
Quanta faccia tosta si può avere per affermare una cosa simile? Ha fatto bene un ragazzo a risponderle che non era così, che c’era un sovraffollamento allucinante, 4 o 5 persone per cella, che in un reparto manca anche l’acqua calda e che lo stesso accadeva a Poggioreale. La situazione delle carceri italiane penso sia nota a tutt@. Ma, nonostante tutto, secondo quanto riportato, in queste gabbie si insegna la “fiducia nelle istituzioni”. Mai espressione fu più assurda. Come si può avere fiducia in strutture che hanno generato un sistema che sa solo punire, reprimere, soffocare ogni gesto di libertà? Come si può avere fiducia in un sistema che si basa su una divisione in classi che genera e genererà sempre violenza? Come si può rispettare chi ti chiede di sottostare ad un potere? Chi ti condanna alla sudditanza senza fine?
Non mi sconvolge ciò che accade nelle carceri, perché ancora prima succede nelle famiglie e poi nelle scuole. Non mi aspetto che il sistema lavori per la sua distruzione, non mi aspetto che all’improvviso questo continuo lavaggio del cervello finisca. Il sistema non ha né mai avrà alcuna intenzione di darsi l’eutanasia. So bene che la rivoluzione, quella vera, dovrà nasce nelle piazze, nelle strade, ma ancor prima nelle menti delle persone. Perché il nostro più grande problema è che non riusciamo a vedere oltre ciò che ci viene offerto/imposto. Il nostro pensiero è dicotomico, lo dobbiamo ammettere, ma la realtà che ci circonda non lo è e bisognerebbe rendersene conto. Non si può pensare che non esista altra scelta oltre le istituzioni, che la loro assenza genererebbe il caos, che alcun@ chiamano anarchia, non sapendo evidentemente cosa sia veramente. Non si può credere nella necessità del carcere (altrimenti regnerebbe l’impunità!): ci può essere anche il recupero senza reclusione. Se continuiamo, proprio noi, ad alimentare quei ragionamenti alla base della cultura che vorremmo cambiare, penso che abbiamo poche speranze di potercela fare.
Durante la sua visita, la Boldrini, non contenta delle affermazioni già fatte, si lancia nel suo altro tema “forte”: la lotta alla violenza di genere. Premetto che mi fa piacere che qualcun@ se ne faccia carico, ma il modo è completamente sbagliato. Si parla di leggi, di attuare quelle esistenti (dai, un passo in avanti rispetto a chi ne voleva altre lo abbiamo fatto) “fino in fondo” , espressione che sprizza giustizialismo da ogni parte. Lo sappiamo tutt@ che la maggior parte delle donne non denuncia per vergogna, perché non sa dove andare, perché ha paura, perché pensa di non esser creduta e quando lo fa, spesso, questi suoi timori si rivelano realtà. Sono la prima a dire che la vittima deve essere tutelata, deve ricevere tutto l’aiuto possibile (legale, psicologico e economico) ma sono anche convinta che questa sia solo una delle tante cose da fare e non quella su cui spendere tutte le energie.
La prevenzione è fondamentale nella lotta al sessismo. Se continuiamo solo a volere più legalitarismo e censura non concluderemo nulla. Parlo di censura perché, la Boldrini, per spiegare il motivo della violenza di genere ha menzionato la pubblicità sessista e le vallette in bikini. Certo, è indubbio che una società maschilista generi un immaginario altrettanto maschilista, è palese l’oggettivizzazione ed erotizzazione delle donne e delle bambine. E su questo va fatto qualcosa, ma non attraverso la censura o l’alimentazione di dicotomie sessiste. Perché la Boldrini, nelle sue affermazioni, posizione le vallette in contrapposizione alle donne magistrato, alle operaie, insegnanti, scienziate ed ect. Non è evidente che la dicotomia santa-puttana è maschilista? Chi le farà capire che le donne con il proprio corpo possono fare quello che vogliono? Basta con questo moralismo, basta con queste divisioni. Se vogliamo combattere l’immaginario sessista allora dovremmo essere le prime a non alimentarlo.
Il problema delle pubblicità non sono i culi o le tette di fuori – di fiche non parlo che non se ne vedono (non sia mai si mostrasse una fica nuda, qualcun@ si potrebbe schokkare) – ma l’immaginario che produce/alimenta: la donna è presentata come un oggetto sessuale e come tale è paragonata all’oggetto-servizio che la pubblicità offre. L’oggettivizzazione a cui è sottoposta la donna fa si che sia privata della sua sessualità, tanto è vero che nelle pubblicità lei è funzionale solo all’aumento di testosterone. Ci viene negata anche un’erotizzazione realmente libera, quindi non normalizzata e normalizzante quale è quella che ci viene proposta. Perché, ammettiamolo, non è l’erotizzazione che ci dovrebbe sconvolgere, ma il modo e il motivo per cui avviene.
Il post porno è una delle forme di attivismo che apprezzo di più perché, senza attuare alcuna censura, libera l’immaginario dalla gabbia di una sessualità eteronormata e permette alle donne e a tutt@ i soggetti subalterni di esprimersi, mostrando una varietà di piacere e desideri che non possono danneggiare nessun@. Non è la sessualità che deve spaventarci ma l’uso normato che se ne fa. Aldilà delle pubblicità, la violenza di genere nasce spesso dalla marcata dipendenza economica che incombe sulle donne, che le porta a non denunciare, a non lasciare situazioni violente, ma anche dall’assenza di servizi che aiutino le donne, che hanno scelto di avere figl@, di poter continuare a lavorare o comunque di potersi liberare da quei ruoli di cura nei quali, in questo periodo di crisi, sono state brutalmente ricacciate dato che sul nostro lavoro gratuito si basa il sistema di ammortizzatori sociali. Ma potrei parlarvi anche delle leggi razziste che impediscono alle donne immigrate di autodeterminarsi e denunciare le violenze subite, o delle prostitute che sono soggette a continue norme repressive o ancora delle compagne che sono state caricate e a volte arrestate solo perché si sono ribellate alla violenza che subiamo ogni giorno dallo Stato. Perché il primo e grande nostro problema è lo Stato che ci stupra in ogni modo e contro cui non si fa nulla. Vogliamo parlare della chiesa? Potrei continuare all’infinito, ma so che conoscete tutte le istituzioni capaci di generare violenza, spesso declinata in violenza di genere, responsabili di ogni stupro, femminidicio, molestia, stalking ecc. ecc. commesso, perché non smetterò mai di ripeterlo: la responsabilità di un reato non è solo di chi lo compie ma anche di chi (cultura-società) ha portato quella persona a compierlo. Se non si contestualizza la violenza, nessuna azione potrà mai portare alla fine della violenza, soprattutto di quella di genere.