Maschio e femmina dio li creò!? Il binarismo sessuale visto dai suoi zoccoli, di Lorenzo Bernini

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Inauguriamo oggi una nuova categoria, l’Archivio Intersezionale, nella quale saranno pubblicati tutti quegli articoli scovati in rete che, a nostro personalissimo giudizio, meritano di essere raccolti in un ‘archivio del pensiero’ intersezionale. L’articolo che segue, pubblicato su Nazione Indiana nel 2008, è l’estratto di una lezione su transgenderismo e intersessualità che Lorenzo Bernini ha tenuto il 9 settembre 2008 presso il corso di dottorato di ricerca in Studi Culturali dell’Università degli Studi di Palermo.

Pur non trovandomi assolutamente d’accordo su una delle conclusioni tratta dall’autore – la chiusa della prima parte auspica un ‘progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. […] La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno’ – reputo questo articolo puntuale sotto molti aspetti e meritevole di attenzione… buona lettura!

 

1. Perché questi punti, perché questi zoccoli: Il titolo che ho scelto per questa lezione è una citazione del versetto 1, 27 della Genesi – “Maschio e femmina Dio li creò” – a cui ho aggiunto un punto esclamativo e uno interrogativo. E per iniziare vorrei spiegarvi il senso di questa aggiunta poco elegante e piuttosto “pop”. Ho aggiunto il punto esclamativo per esprimere un tono imperativo: infatti, dal momento che tutto quello che Dio fa è cosa buona e giusta, le descrizioni degli atti divini contenute nella Bibbia devono essere lette come prescrizioni. In particolare, il versetto 1, 27 della Genesi deve essere letto come una frase che ci ordina: “Tu devi essere maschio oppure femmina – punto esclamativo! – perché così vuole Dio”. Il punto interrogativo simboleggia, invece, la collocazione che ho scelto di assumere di fronte a questa ingiunzione divina. Per illustrarvi questa collocazione, mi è però necessaria una breve digressione.
In un breve saggio del 1950, Hannah Arendt riflette sul proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, e per farlo assume il punto di vista delle uova. Il testo si intitola, infatti, The Eggs Speak Up: Le uova prendono la parola. La filosofa ebrea sostiene che al proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, le uova preferirebbero il principio enunciato da Clemenceau in occasione dell’affaire Dreyfus. Nel 1894, quando Alfred Dreyfus, capitano dello stato maggiore francese di origini ebraiche, fu ingiustamente accusato di alto tradimento, Georges Benjamin Clemenceau (che sarebbe poi diventato presidente del consiglio francese) ne prese le difese sostenendo che “l’affare di uno è affare di tutti”. Con queste parole, Clemenceau intendeva affermare che nessun cittadino francese poteva sentirsi garantito nelle sue libertà di fronte a uno stato che discriminava gli ebrei, perché la libertà delle minoranze è garanzia anche della libertà della maggioranza. Parole che non dovremmo dimenticare di fronte alle attuali politiche sull’immigrazione del governo italiano, ma che ci saranno utili anche per comprendere l’attuale biopolitica dei sessi.
Con il punto interrogativo ho voluto segnalare che la mia collocazione, nell’analisi che sto per fare, non sarà quella di un soggetto che si pretenda universale e neutrale, ma sarà consapevolmente particolare e parziale. L’oggetto del mio intervento sarà il binarismo sessuale, cioè quel dispositivo biopolitico che impone alla nostra sessualità una divisione netta a due termini: maschio-femmina, uomo-donna. Seguendo la lezione di Arendt, nelle mie riflessioni cercherò di dare la parola a quelle uova che devono essere rotte per fare quelle frittate che sono le identità tradizionali degli uomini e delle donne – ai soggetti intersessuali e transgender che non si conformano a queste identità, che di fronte alle alternative binarie del sesso e del genere non sanno che cosa scegliere e restano perplessi. Per usare un’altra metafora che chiarirò in seguito, potrei dire che vorrei dare la parola a quegli zoccoli che restano piantati, e stritolati, negli ingranaggi della fabbrica della sessualità. Questo spiega il sottotitolo che ho scelto per questo seminario: “il binarismo sessuale secondo i suoi zoccoli”.

2. Premesse di metodo. Ma prima di parlarvi dei soggetti intersessuali e transgender, vorrei soffermarmi sui tre criteri diagnostici, sulle tre coppie di concetti opposti – di concetti binari – con cui oggi psichiatri, psicologi e sessuologi classificano le identità sessuali delle persone. E ancor prima vorrei fare qualche precisazione sul mio metodo: nella mia analisi seguirò l’impostazione inaugurata da Michel Foucault nel primo volume della sua Storia della sessualità, intitolato La volontà di sapere (1976). In questo libro, il filosofo francese sostiene, contro le teorie della “rivoluzione sessuale” che erano molto in voga nei movimenti della contestazione degli anni settanta, che la relazione che lega potere e politica non è principalmente la repressione: a suo avviso il potere, piuttosto che reprimere la sessualità, la produce. Agendo attraverso la cultura, la socializzazione, l’educazione, il potere produce dialetticamente tanto la norma sessuale, quanto le identità perverse che le sono correlate. La sessualità per Foucault, lungi dall’essere un nucleo di desideri originario e naturale come volevano le teorie della “rivoluzione sessuale”, è un dispositivo della biopolitica – è uno dei meccanismi attraverso cui il potere esercita la sua presa sulla vita biologica della specie umana plasmandola in una specifica forma di vita. Nell’analisi di Foucault, che poi è stata ripresa dal pensiero femminista e dalla rielaborazione che di quest’ultimo ha operato Judith Butler, il dispositivo di sessualità è un meccanismo culturale complesso attraverso cui convenzioni linguistiche, religiose, morali, scientifiche, giuridiche si applicano all’individuo condizionando i suoi rapporti con gli altri e con se stesso. Gilles Deleuze ha sostenuto che uno dei grandi insegnamenti di Foucault consiste proprio nell’aver messo in evidenza che “il dentro” altro non è se non “un fuori ripiegato” – che il modo in cui il soggetto pensa la propria interiorità deriva da significati culturali che provengono dall’esterno. Ognuno impara infatti a nominare se stesso, a interpretare i propri desideri, a relazionarsi alle altre persone attraverso l’educazione, la cultura, la morale: attraverso un mondo esterno che lo determina, e che gli offre i sostantivi, gli aggettivi, tutti gli strumenti linguistici e teorici con cui gli è possibile pensarsi come dotato di un’identità.

3. La recente storia degli invertiti. Affermare che la sessualità non è legata alle profondità della natura, significa aprire la possibilità di analizzare la sessualità nella superficialità dei suoi eventi, tratteggiandone una storia. Secondo le ricostruzioni di Foucault, ad esempio, l’omosessualità non è esistita da sempre: l’omosessuale è, piuttosto, un personaggio che appare soltanto nell’Ottocento. Presso gli antichi, nel Medioevo e ancora all’inizio dell’età moderna, la sodomia designava infatti una tipologia di atti vietati, ma non un’identità: solo a partire da uno studio del 1870 dello psichiatra Karl Friedrich Westphal (Die Konträre Sexualempfindung) l’omosessuale maschio è diventato invece un «tipo umano». Da quel momento in avanti, l’omosessualità ha cessato di essere un problema di atti ai quali il soggetto può decidere se abbandonarsi o no, ed è diventata una questione di desideri, di fantasie, di personalità che richiede tutto un lavoro di comprensione e di decifrazione che il soggetto può condurre nel confessionale con il prete, sul lettino con l’analista, o attraverso un silenzioso dialogo con se stesso. Questo lavoro coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali: anch’essi sono costretti a confessare i loro desideri omosessuali, a riconoscerli per allontanarli da sé e per accedere così all’identità eterosessuale.
Ne La volontà di sapere, Foucault rivolge però la sua attenzione al solo concetto di omosessualità, trascurando di ricostruire la genealogia del concetto di transessualità. In realtà la categoria di könträre Sexualempfindung (sensibilità sessuale invertita), coniata da Westphal e a lungo utilizzata nella letteratura medica, non faceva differenze tra omosessualità e transessualità, e le comprendeva entrambe in quanto inversioni tra gli elementi maschili e femminili della psiche. Soltanto nel 1953, nel saggio Transvestitism and Transexualism di Harry Benjamin, l’identità dell’invertito si è “sdoppiata” nelle due identità dell’omosessuale e del transessuale come le conosciamo oggi. È stata così concettualizzata la differenza tra sesso, genere e orientamento sessuale con cui oggi medicina e psicologia pensano non solo l’omosessualità e la transessualità, ma anche l’eterosessualità.

4. Criteri diagnostici della sessualità contemporanea. Come sapete, per “sesso” si intende la dotazione genotipica e fenotipica di un individuo: essere maschi significa avere nella propria dotazione genetica un cromosoma X e uno Y, avere pene e testicoli, e poi avere spalle larghe, barba baffi e un po’ di peli, il pomo d’adamo e la voce profonda; essere femmine significa invece avere due cromosomi X, avere vagina ovaie e seni, avere fianchi larghi e meno peli, e una voce sottile e possibilmente aggraziata. Per “genere” si intende invece l’adesione al modello culturale di mascolinità e femminilità che agisce nella propria società di appartenenza. Non basta essere maschi per essere uomini, né essere femmine per essere donne. Ad esempio un maschio che indossi abitualmente minigonna e tacchi alti difficilmente dirà di sentirsi uomo nella nostra società. Il sesso quindi è una dimensione fisica, il genere una dimensione psicologica e assieme culturale. L’”orientamento sessuale” designa invece la direzione prevalente dei propri desideri: è eterosessuale chi desidera persone di sesso opposto al proprio, omosessuale chi desidera persone del proprio stesso sesso.
Nelle società del nostro mondo globalizzato, attraverso la psichiatria, la psicologia, la medicina, ma anche e soprattutto attraverso la cultura e – come vedremo – attraverso il diritto, sull’identità sessuale agisce quindi una sorta di «operatore logico», che possiamo chiamare binarismo sessuale. Questo operatore logico impone alle identità sessuali alternative a due termini che riguardano il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Combinando i concetti del binarismo sessuale si possono comporre differenti identità: uomini etereossesuali, gay, bisessuali; donne eterosessuali, lesbiche, bisessuali; donne transessuali o transessuali MtF (male to female: persone nate maschi che vogliono diventare donne) che possono a loro volta essere eterosessuali, lesbiche o bisessuali; uomini transessuali, o transessuali FtM (female to male: persone nate femmine che vogliono diventare uomini) che possono a loro volta essere eterosessuali, gay o bisessuali. Ci sono poi le persone transgender, di cui vi parlerò tra poco, che possono desiderare uomini, donne, o altre persone transgender. Se consideriamo tutte queste soggettività nella prospettiva teorica di Foucault, se li consideriamo come prodotti di quel dispositivo di sapere-potere che è la sessualità, appare evidente come i concetti di sesso, genere e orientamento sessuale, messi a punto negli anni cinquanta del secolo scorso, definiscano ancora oggi tanto la norma sessuale quanto la “perversione”. Non si tratta, infatti, di categorie puramente descrittive, ma di concetti che servono per istituire una gerarchia: per classificare gli esseri umani attribuendo solo ad alcuni di essi, considerati “normali”, e non ad altri, considerati “anormali”, lo statuto di un’umanità “piena” – di un’umanità pienamente meritevole di godere dei diritti umani, pienamente tutelata giuridicamente.

5. Una nuova Bibbia che fabbrica zoccoli. Nel DSM (Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders), l’elenco ufficiale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association che dagli anni cinquanta del secolo scorso è considerato una sorta di Bibbia della psichiatria, l’identità sessuale viene definita appunto attraverso quei tre “criteri diagnostici” che sono il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Ma in questa definizione, la Bibbia della psichiatria contemporanea ha ereditato il punto esclamativo della Bibbia ebraico-cristiana. Infatti, sulle pagine delle quattro edizioni del DSM, l’eterosessualità non è mai comparsa come malattia mentale, mentre vi sono comparse altre identità prodotte dal dispositivo binario della sessualità. L’omosessualità è stata definitivamente depennata dal DSM solo il 17 maggio 1990 – e questa è la ragione per cui la data del 17 maggio è stata scelta come “giornata mondiale contro l’omofobia”. Mentre ancora oggi transessualità e transgenderismo sono considerate affezioni psichiatriche e catalogate come GID: Gender Identity Disorder, disturbo dell’identità di genere – definizione rispondente all’imperativo che impone coerenza tra sesso, genere e orientamento sessuale. Quindi: se nasci maschio ma ti senti donna, o se nasci femmina e ti senti uomo, per il DSM sei affetto da un disturbo psichiatrico. L’intersessualismo invece non compare nel DSM – non perché l’associazione psichiatrica americana non lo consideri un malattia, ma perché non lo considera un malattia mentale. Come dirò più avanti, dalla medicina contemporanea l’intersessualismo è infatti considerato una malattia fisica, e quindi una malattia da correggere con il bisturi prima che con gli psicofarmaci.
Nella prospettiva costruttivista di Foucault, quindi, anche transessualità, transgenderismo e intersessualismo sono prodotti del dispositivo di sessualità – ma prodotti difettosi, scarti, malfunzionamenti. Io vorrei invitarvi, appunto, a porvi nella prospettiva di questi malfunzionamenti, a cercare di immaginare la loro perplessità, il punto interrogativo che è la loro reazione di fronte agli imperativi del binarismo sessuale. Vorrei invitarvi a seguire il principio di Clemenceau e di Arendt (“l’affare di chi viene patologizzato dall’attuale dispositivo biomedico di sessualità è affare di tutti”), dando la parola alle uova che servono per cucinare la frittate delle identità di genere – a quelle uova che però preferisco chiamare zoccoli – e ora vi dirò perché.
Provate a pensare al dispositivo binario della sessualità come a una fabbrica di zoccoli, che con i suoi ingranaggi produce soprattutto zoccoli “normali” – zoccoli maschi e uomini e zoccoli femmine e donne – ma che ogni tanto, con gli stessi ingranaggi produce per errore anche “zoccoli difettosi”: gay, lesbiche, transessuali, transgender, intersessuali… In francese zoccolo si dice “sabot”, e dal sostantivo “sabot” deriva il verbo “saboter”, che significa “fabbricare zoccoli”, ma anche “sabotare”! Lo zoccolo era infatti, un tempo, la calzatura dei poveri, e quindi degli operai. Calzatura che all’occorrenza poteva diventare un efficace strumento di lotta politica: lo zoccolo poteva infatti essere incastrato ad arte tra gli ingranaggi di una fabbrica, anche della stessa fabbrica che lo aveva fabbricato, per arrestarne la produzione. Questa è la ragione per cui ho scelto di utilizzare questa poco elegante metafora degli zoccoli. Nella prospettiva interpretativa di Foucault, o almeno nella mia lettura di essa, le identità perverse, le minoranze sessuali – e in particolare le soggettività transgender e intersessuali -, non sono situate “prima”, “fuori”, o “oltre” il dispositivo binario della sessualità (come vorrebbero le teorie della rivoluzione sessuale): esse stanno, semmai, piantate (e stritolate) come zoccoli tra le sue ruote dentate. Ed è proprio da questa posizione, e non da un immaginario “fuori” (“prima” o “oltre”) della fabbrica, che le minoranze sessuali possono sabotare il sistema che le produce, senza pretendere di farlo saltare in aria, ma cercando di rinnovarlo per renderlo più accogliente, cercando di assumere al suo interno una posizione più confortevole. Si tratta sicuramente di un progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. Anzi mi sembra che questa sia la strada fino ad ora percorsa, più o meno consapevolmente, dal movimento lesbico gay trans – una strada tutt’altro che conclusa che occorre continuare a edificare.
La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno. Per tentare di reinterpretarle, di renderle più vivibili per tutti senza pretendere di sussumere l’identità di tutti sotto un’unica categoria – come a volte mi sembra accadere in una certa vulgata queer. Judith Butler utilizza a questo proposito il verbo “to displace”, dislocare. Per Butler è possibile dislocare i significanti del binarismo sessuale, senza illudersi si dislocarsi al di fuori di essi. Come una lingua parlata evolve nel tempo a opera dei parlanti, così è possibile modificare i significanti culturali dell’identità mediante la stessa ripetizione delle pratiche che li generano. È quello, mi pare, che è successo nel movimento lesbico-gay-trans quando è stato coniato il termine “transgender”: categoria che non pretende di designare un oltre del binarismo sessuale, ma che opera una risignificazione fluida e non esclusiva della sua logica binaria. È, appunto, di questa categoria che vorrei parlarvi ora…

6. Violenze giuridiche su corpi trans. Per affrontare la questione del transgenderismo, occorre affrontare preventivamente la questione della transessualità. I primi interventi di riassegnazione chirurgica del sesso sono stati praticati negli anni cinquanta, e infatti, come già ho ricordato, solo dagli anni cinquanta nella letteratura medica è stata operata la distinizone tra transessuale e omosessuale attraverso quelle categorie di sesso, genere e orientamento sessuale che sono oggi utilizzate anche per definire l’eterosessualità. Si tratta naturalmente di una distinzione che ha le sue ragioni pratiche oltre che teoriche, e che non ho alcuna intenzione di mettere in discussione.

Poco ragionevolmente giustificabile e molto discutibile mi sembra invece l’attuale trattamento giuridico della condizione transessuale in Italia. Un trattamento in cui appare evidente come, ancora nelle nostre società postmoderne, il binarismo sessuale mantenga pesantemente il suo carattere imperativo (il suo punto esclamativo). Come vi dicevo prima, secondo il DSM gay e lesbiche non sono persone malate – fino al 1990 sì, gay e lesbiche erano malati, ma dal 1990 sono tutti guariti! Le persone trans invece sono malate tuttora, affette da disturbo dell’identità di genere. E chi è malato deve essere curato. La cura a cui un transessuale FtM deve sottoporsi prevede assunzione di testosterone, mastectomia (asportazione del seno), isterectomia (asportazione di utero ed ovaie) ed eventualmente falloplastica (ricostruzione chirurgica di un simil-pene). La cura a cui una transessuale MtF deve sottoporsi consiste invece nell’assunzione di estrogeni e di farmaci antagonisti del testosterone, nella rimozione di pene e testicoli ed eventualmente nella mastoplastica additiva (ricostruzione chirurgica del seno) e nella vaginoplastica (ricostruzione chirurgica di una simil-vagina). Vaginoplastica e falloplastica sono interventi molto pesanti, che durano anche 10 ore, e che danno spesso scarsi risultati. La falloplastica nella maggior parte dei casi dà forti reazioni di rigetto: spesso la protesi viene rifiutata dal corpo. La vaginoplastica invece, oltre ad essere un intervento molto invasivo, talvolta va ripetuta perché la vagina artificiale tende a chiudersi (il termine medico è stenosi). Ma soprattutto la vaginoplastica spesso comporta la rinuncia al piacere sessuale.

Fortunatamente nessuno e nessuna è obbligato a sottoporsi a questi trattamenti contro la sua volontà; tuttavia in Italia è necessario sottoporvisi per chi vuole che il proprio desiderio di cambiare genere sia riconosciuto dalle istituzioni. Infatti, secondo la legge 164, del 14 aprile 1982, tuttora in vigore, questi interventi (almeno nella loro forma demolitiva) sono necessari per poter ricevere l’autorizzazione di cambiare il nome sulla carta di identità. Quindi l’identità di genere per lo stato italiano dipende non dal senso di sé di un soggetto, ma esclusivamante da ciò che un soggetto ha tra le gambe, si tratti di un organo genitale naturale o di una sua copia artificiale. Il nostro sistema giuridico risponde quindi a una logica binaria molto rigida: o sei maschio e quindi devi essere uomo, o sei femmina e quindi devi essere donna. Se sei maschio ma vuoi essere donna, il nostro sistema giuridico ti concede di diventare legislativamente donna o uomo solo a patto che tu ti faccia demolire ed evenualmente ricostruire i genitali, anche se probabilmente questo potrebbe farti rinunciare al piacere dell’orgasmo o dare forti reazioni di rigetto, e anche se l’operazione di ricostruzione genitale potrebbe non riuscire affatto.

Non vorrei che le mie parole venissero fraintese: io difendo fermamente il principio secondo cui le persone trans debbano avere il diritto di autodeterminare i propri corpi, anche intervenendo chirurgicamente su di essi se lo desiderano. Ma credo anche che il diritto di autodeterminazione debba includere un’informazione completa e dettagliata sui risultati realmente possibili e soprattutto un contesto istituzionale e legislativo che renda la scelta realmente libera. Le mie critiche non sono quindi in alcun modo rivolte alle persone transessuali, ma sono rivolte alla legge secondo cui il riconoscimento giuridico dell’identità di una persona transessuale deve passare dall’intervento chirurgico. Non è così in tutta Europa: ad esempio in Spagna nel 2007 è stata approvata una legge che afferma il principio secondo cui “il riconoscimento giuridico dell’identità di genere non deve necessariamente dipendere dall’intervento chirurgico di riattribuzione dei genitali”. E già dal 1980 in Germania è prevista quella che vien chiamata “piccola soluzione” (kleine Lösung), cioè il cambiamento dei dati anagrafici senza alcun intervento né chirurgico, né ormonale. La legge italiana, rendendo obbligatoria l‘operazione genitale per il cambio dei documenti, a mio avviso è una legge violenta, che induce le persone ad operarsi per normalizzarle secondo i criteri del binarismo. Un uomo con ovaie, utero e vagina o una donna con testicoli e pene per la legislazione italiana sono soggetti intrattabili.

7. Soggetti intrattabili (1). Il fatto è che questi soggetti intrattabili in realtà esistono, si autodefiniscono transgender, e a mio avviso possono essere assunti come figure esemplari di possibili pratiche di riappropriazione creativa del binarismo sessuale. “Transgender” è un termine polisemico che si è diffuso nel movimento lesbico gay trans in seguito alla pubblicazione, nel 1992, di un libro di Leslie Feinberg intitolato Transgender Liberation. In senso stretto, si definiscono transgender le persone che si identificano con il genere opposto al sesso di nascita ma che scelgono di non sottoporsi alla riassegnazione chirurgica del sesso: si può essere transgender ad esempio vestendo i panni del genere desiderato, scegliendo per sé un nome proprio del genere desiderato, assumendo eventualmente ormoni e modificando alcuni tratti del proprio corpo, ma senza intervenire chirurgicamente, o intervenendo solo parzialmente, sui propri genitali. In senso lato, la categoria può essere estesa anche alle persone transessuali, che sono invece quelle persone che desiderano modificare anche i propri genitali per diventare il più possibile simili al “sesso” di elezione: secondo questa interpretazione “transgender” è un termine di ampio significato che contiene al suo interno tanto il concetto di transessuale, quanto quello di transgender in senso stretto. Ma si definiscono transgender anche persone come Leslie Feinberg, l’autrice/autore di Transgender Liberation, e anche di altri saggi come Transgender Warriors (1996); Trans Liberation (1998), e dei romanzi Stone Butch Blues (1993) e Drag King Dreams (2006) (http://www.transgenderwarrior.org/). Feinberg è nata con corpo femminile e ha avuto in sorte un nome, Leslie, che in inglese è sia maschile sia femminile. Nel tempo ha reso il suo corpo parzialmente somigliante a un corpo maschile, ma non ha voluto completare la transizione verso il sesso maschile, e ha poi scelto per sé un genere intermedio come il suo nome. Oggi lascia ai suoi commentatori la libertà di scegliere il pronome con cui sostituire il suo nome, e al tempo stesso insiste sulla necessità di introdurre nel vocabolario pronomi personali intermedi come “s/he” (she/he) e aggettivi possessivi come “hir” (her/his). “Transgender” indica quindi anche quei soggetti che nel corso della vita hanno sperimentato differenti ruoli di genere, e che collocano la propria identità tra il maschile e il femminile. Un esempio italiano è Porpora Marcasciano, militante del Movimento Identità Transessuale (http://www.mit-italia.it/) e autrice/autore di libri come Tra le rose e le viole (manifestolibri, 2002), Antologaia (Il dito e la luna, 2007), e Favolose narranti (manifestolibri, 2008): Porpora è nata con un corpo maschile che ha in parte modificato per renderlo somigliante a un corpo femminile, e oggi, come Feinberg, usa per sé indifferentemente il genere maschile e femminile.

In un testo del 2004, La disfatta del genere, Butler utilizza il termine transgender per contestare il senso comune (che, come vi ho mostrato, è anche senso medico e giuridico) secondo cui il genere è una conseguenza del sesso. Assumendo la prospettiva genealogica di Foucault, Butler opera un interessante rovesciamento di prospettiva e sostiene che sono le norme di genere a rendere culturalmente significative le differenze sessuali dei corpi, anche le differenze genitali: è il sesso che deriva dal genere, e non il genere dal sesso. Butler si spinge ancora oltre: fin da Scambi di genere (1989) ha sostenuto infatti che nell’ordine simbolico tradizionale il genere è un epifenomeno dell’orientamento sessuale. Al cuore del binarismo sessuale si troverebbe cioè il dogma dell’eterosessualità obbligatoria: sarebbe il dovere dell’eterosessualità a rendere culturalmente significativa le differenze tra i generi, e sarebbe poi l’importanza culturalmente attribuita alle differenze tra i generi a rendere culturalmente significative anche le differenze corporee tra i sessi. Una legge che impone con nettezza il binarismo sessuale, come la legge italiana, rendendo giuridicamente intrattabili i soggetti transgender, secondo Butler sarebbe quindi in ultima istanza riconducibile a una rigida interpretazione del dogma dell’eterosessualità obbligatoria: poiché la norma eterossessista impone che gli uomini debbano desiderare le donne e viceversa, allora è fondamentale che non esistano ambiguità nello stabilire chi è uomo e chi è donna. E affinché non ci siano ambiguità, la norma stabilisce che a decidere siano i genitali: naturali o chirurgicamente ricostruiti. Il fatto è che, in realtà, non è affatto detto che i genitali siano il modo migliore per disambiguare le identità sessuali, e ora vorrei dirvi perché. Vorrei infatti concludere sulla questione dell’intersessualismo, l’altra condizione a cui allude il punto interrogativo del mio titolo, l’altro zoccolo piantato negli ingranaggi della fabbrica moderna della sessualità.

8. Soggetti intrattabili (2). Come ho anticipato, il DSM non comprende l’intersessualismo tra i disturbi mentali, perché l’intersessualismo è una condizione fisica prima che psicologica. Intersessuale è infatti un individuo il cui corpo presenta caratteri intermedi tra quelli maschili e quelli femminili. Secondo le stime statistiche dell’Intersex Society of North America (http://www.isna.org/), nasce intersessuale un bambino ogni duemila. Questo significa che, se la popolazione italiana è stimabile attorno ai 60 milioni di abitanti, le persone intersessuali in Italia sono probabilmente attorno alle 30 mila unità. Ma naturalmente anche se fossero meno, quello che vi dirò non sarebbe meno valido, perché abbiamo detto che gli zoccoli di cui abbiamo assunto il punto di vista, vorrebbero essere trattati secondo la massima di Clemenceau e di Arendt: “l’affare di uno è affare di tutti”. Al di là dei dati statistici, mi sembra infatti che l’intersessualismo, al pari del transgenderismo, possa valere come cartina tornasole per comprendere la violenza insita nel binarismo tradizionale così com’è stato interpretato nelle società tradizionali, e come ancora è interpretato nel nostro ordinamento giuridico. Come le persone transgender, infatti, anche le persone intersessuali sono considerate intrattabili dal nostro sistema giuridico e simbolico, e per questa ragione vengono “trattate” dal nostro sistema sanitario.

Un esempio di intersessualismo, è la sindrome di Klinefelter (cfr. wikipedia), che è l’esito di una variazione genetica: chi ne è affetto non ha due cromosomi sessuali (i canonici XX delle femmine, e XY dei maschi), ma tre: due cromosomi X e un cromosoma Y. Per la presenza del cromosoma Y, i portatori della sindrome, o meglio le persone XXY – come loro preferiscono chiamarsi – sono classificati dalla medicina come maschi. Alla nascita, in effetti, appaiono maschi, ma quando giunge la pubertà non sviluppano i caratteri secondari maschili: non hanno barba, né pomo d’adamo, né spalle larghe, né voce profonda, non sviluppano pene e testicoli di dimensioni “normali”. Hanno invece voce sottile, fianchi arrotondati, spalle spioventi, e spesso sviluppano il seno. Un altro esempio di intersessualismo è la sindrome di Morris (http://www.sindromedimorris.org/): le persone che ne sono affette, geneticamente sono uomini XY, ma, per una incapacità di razione agli ormoni maschili durante la gravidanza, nascono come bambini micropenici con testicoli introflessi. Hanno quindi genitali ambigui: il loro pene assomiglia a una clitoride, ma lo scroto introflesso forma una piccola cavità cieca, che non sfocia in una vagina. Non avendo i testicoli non produrranno mai testosterone, e quindi non potranno in adolescenza acquisire i caratteri secondari maschili. Un altro caso che può essere associato all’intersessualismo è quella che una volta veniva chiamata sindrome adrenogenitale, e che ora si preferisce chiamare iperplasia surrenale congenita (http://www.adrenogenitale.it/): può colpire sia uomini, sia donne, e consiste in un malfunzionamento delle ghiandole surrenali che producono poco cortisolo e poco aldosterone. La conseguenza è un aumento di testosterone, che nelle donne provoca la comparsa di caratteri secondari maschili: peli, barba, voce profonda. Il testosterone agisce anche sulla conformazione dei genitali: le donne affette da iperplasia surrenale congenita presentano spesso una clitoride ipertrofica, simile a un pene, e in alcuni casi una vagina poco profonda e la fusione delle grandi labbra.

Nella storia dell’umanità le persone intersessuali sono state celebrate da miti e leggende (pensate a Ermafrodito e a Tiresia), ma sono anche state ampiamente perseguitate. Nel 1978 Foucault ha curato la pubblicazione delle memorie di Herculine Barbin, detta Alexina B., un intersessuale francese vissuto nell’Ottocento. Nelle memorie si legge che ad Herculine Barbin, soprannominata Alexina, alla nascita fu attribuito il sesso femminile. Fu quindi educata come una bambina, in un convento. Con l’adolescenza scoprì di essere attratta dalle compagne, si innamorò di una di esse e ne divenne amante. Per questo fu processata, e la sentenza decretò la sua trasformazione legale in uomo, stabilendo che il suo vero sesso fosse quello maschile, e che i medici che l’avevano visitata da neonata avessero commesso un errore: in una società dominata dal dogma dell’eterosessualità obbligatoria, se un soggetto si innamora delle donne, allora è un uomo. E se è un uomo, allora deve essere anche biologicamente maschio. Così Alexina fu costretta a indossare abiti maschili – e si suicidò.

9. Violenze chirurgiche su corpi intersessuali. Nel caso ottocentesco preso in esame da Foucault, quindi, le autorità mediche cercarono nel corpo intersessuale di Alexina, e soprattutto nella sua biografia, i segni del suo “vero sesso”. Invece a partire dalla metà del Novecento, da quando si è iniziato a praticare interventi di riassegnazione genitale, negli Stati Uniti e in Europa, e in buona parte del mondo, i medici hanno iniziato a intervenire direttamente sul corpo delle persone intersessuali, normalizzando chirurgicamente poco dopo la nascita l’aspetto dei genitali ambigui, e in seguito modificando i caratteri sessuali secondari con terapie ormonali. Questo avviene abitualmente anche in Italia. Anche in questo caso, la mia intenzione non è di negare, ma al contrario di difendere il diritto delle persone intersessuali a modificare chirurgicamente il proprio corpo e ad assumere ormoni in modo da adeguare il proprio corpo alla propria identità. Ma la mia intenzione è anche quella di contestare la normalizzazione forzata delle persone intersessuali, denunciando il fatto che il sistema giuridico italiano da un lato impedisce a persone transgender maggiorenni di cambiare genere sui documenti a meno che non si sottopongano a un intervento chirurgico, e dall’altro permette a genitori e medici di intervenire chirurgicamente sul corpo di minorenni o peggio ancora di infanti per “normalizzarli” secondo i dettami del binarismo sessuale. Non è così in tutto il mondo: in Colombia è vietato intervenire sui genitali ambigui di persone che non abbiano ancora raggiunto l’età del consenso. E a me sembra una legge giusta: perché questi interventi chirurgici e queste prescrizioni di ormoni, se sono praticati su neonati incapaci di scegliere sulla propria identità e il proprio corpo, oppure se sono presentati come cure necessarie o come unica scelta possibile a degli adolescenti in situazione di grave disagio emotivo, altro non sono se non mutilazioni genitali e corporee dettate dal dogma del binarismo sessuale. L’occidente grida giustamente allo scandalo di fronte all’infibulazione che viene praticata in alcuni paesi islamici africani; ma farebbe bene a farsi un esame di coscienza e a proibire una volta per tutte le mutilazioni genitali che vengono praticate nei propri ospedali.

Vorrei farvi un esempio: la storia di Cheryl Chase, la fondatrice (nel 1993) dell’Intersex Society of North America. Nata con genitali ambigui, fino a 18 mesi è stata cresciuta come un bambino. Poi i medici hanno detto ai suoi genitori che si trattava in realtà di una bambina, e che bisognava quindi procedere all’asportazione della pronunciata clitoride. A 8 anni è stata operata di nuovo per rimuovere ciò che in seguito ha saputo essere la porzione testicolare delle sue ovaie-testicoli. Oggi vive come una donna lesbica, ma le operazioni subite l’hanno privata della sensibilità clitoridea e della risposta orgasmica, proprio come succede alle donne infibulate in Africa. Il caso di Cheryl Chase dimostra quindi che la logica con cui questi interventi vengono praticati spesso non è il rispetto degli interessi soggettivi, come il mantenimento della possibilità di provare piacere, ma l’obbedienza a un imperativo di normalizzazione.

Secondo questo imperativo, alla nascita un pene non deve misurare meno di 2,5 cm; e una clitoride non deve essere più grande di 0,9 cm. Bambini con membri tra 0,9 e 2,5 cm sono quindi considerati inaccettabili e bisognosi d’intervento chirurgico. La maggior parte degli intersessuali viene fatta diventare donna semplicemente perchè è più facile costruire una simil-vagina piuttosto che allungare un micropene. Così ad esempio, le donne affette da sindrome adrenogenitale subiscono un intervento di “apertura” della vagina e di “accorciamento” della clitoride, anche a costo di perdere la sensibilità clitoridea. Ma anche chi ha la sindrome di Morris, pur essendo genotipicamente maschio (XY), a causa della micropenia e dei testicoli introflessi viene ricondotto al genere femminile: si accorcia il pene, si pratica una vaginoplastica, si prescrivono estrogeni. Un uomo diventa così una donna dotata di una similvagina a rischio di stenosi, che spesso va rioperata nel corso degli anni. Sembra che i medici non abbiano dubbi: è meglio essere una femmina imperfetta piuttosto che un maschio imperfetto – forse perché il regime del binarismo sessuale è un regime maschilista, in cui le donne sono considerate imperfette per natura.

A chi è affetto da sindrome di Klinefelter, invece, una volta giunto all’età dell’adolescenza, i medici “prescrivono” la mastectomia (l’asportazione del seno) e la somministrazione di testosterone. L’assunzione dell’ormone provoca la comparsa di caratteri secondari maschili (barba, peli, voce profonda) ma provoca anche cambiamenti caratteriali nella sfera della libido e dell’aggresività che in alcuni casi possono produrre profondo turbamento e perdita del senso di sé. Non sono poche nel mondo le persone XXY che rifiutano questo trattamento forzato: alcune scelgono la strada della femminilizzazione, altre rivendicano per sé il diritto di essere semplicemente quelle che sono – di mantenere il proprio corpo intersessuale e la propria personalità ipodesiderante – (si veda, a questo proposito, la testimonianza di Michael Noble), ma tale diritto, di solito, viene loro riconosciuto con grande fatica dai medici con cui hanno a che fare.

10. Il sabotaggio del binarismo: le teorie transgender. Di fronte a questi fatti, credo che sia facile intuire come le teorie transgender, che mettono in discussione la rigidità del binarismo sessuale dichiarando la possibilità che un’identità abiti uno spazio intermedio tra il genere maschile e quello femminile, possono diventare uno strumento prezioso per rinnovare il nostro ordinamento giuridico, per rendere più vivibile la vita delle persone intersessuali e trans (transessuali o transgender), e per allargare la gamma delle definizioni identitarie disponibili per tutti.

Transgenderismo e intersessualismo sono condizioni psicologiche e fisiche prodotte dalla logica binaria del dispositivo moderno della sessualità e rese intelligibili dalle sue categorie. Non rappresentano pertanto un “oltre” del binarismo, perché non negano il fatto che la sessualità degli umani, così come riusciamo a pensarla oggi, si dia tra gli estremi del maschile e del femminile. Però la presa di parola di soggetti transgender e intersessuali, la loro rivendicazione di una piena umanità, può provocare un dislocamento del binarismo sessuale, un suo sabotaggio che potrebbe portare a un suo migliore funzionamento. Dare ascolto ai soggetti transgender e intersessuali significa infatti disporsi ad accettare che la sessualità non si esaurisce in un’alternativa rigida e netta tra il maschile e il femminile, ma si configura come una gradazione tra il maschile e il femminile ricca di sfumature. Guardare alla fabbrica moderna della sessualità assumendo il punto di vista di quegli zoccoli difettosi che si trovano piantati e stritolati tra i suoi ingranaggi, induce a concludere che all’interno di quel continuum tra maschile e femminile che è la sessualità umana, ogni essere umano dovrebbe avere il diritto di scegliere dove collocare il proprio corpo e la propria identità. Senza condizionamenti e pregiudizi, ognuno dovrebbe avere il diritto di sperimentare quale sia la collocazione che più gli risponde – quella da cui potrà trarre maggior piacere.

Testo di Lorenzo Bernini (lorenzo.bernini@unimi.it)

La femminista specista, ovvero facciamola finita con l’idea di ‘natura’ solo se non è in gioco la mia bistecca!

2008-07-16-speciesist

Io amo le femministe, davvero.
Mi dichiaro femminista e antisessista da molto tempo, e lo faccio con orgoglio:  il femminismo ha avuto, ha (e auspico avrà!)  un ruolo essenziale nel mio percorso di donna e di persona che lotta per la propria – e l’altrui – libertà di autodeterminarsi all’interno di questo sistema.
Un sistema che, tra i tanti paradigmi dell’oppressione che agisce sui diversi soggetti che si ritrovano – loro malgrado – catturati al suo interno, vede nel sessismo una delle proprie punte di diamante.
E’ stato il femminismo (più ancora dell’antispecismo, al quale in realtà cronologicamente ero arrivata prima) che non solo mi ha liberato, ma mi ha aperto gli occhi anche su tutti i legami esistenti tra le diverse forme di discriminazione e di oppressione che prima sentivo più distanti dal mio cuore e dal mio attivismo.
Perché, ne sono convinta, se abbracci il femminismo veramente, tutto intero, nella sua dirompente capacità di rottura, se ti ci lasci attraversare, lacerare, se lasci che faccia luce anche sulle tue zone d’ombra, se permetti che rivoluzioni DAVVERO il tuo modo di pensare, allora ti cambia tutto… cuore, mente e pratiche politiche, tanto che la tua vita e la tua politica diventano un tutt’uno inscindibile.
Ed è per questo che ogni persona che si avvicina al femminismo (già, ogni persona, non ogni donna, che il femminismo rivoluziona anche gli uomini quando lo abbracciano, alla faccia di quegli altri così piccini e aggrappati al loro ruolo di genere che li definiranno con ridicoli neologismi come ‘maschiopentiti’, o quelle donne che definiranno il femminismo ‘cosa nostra’ in quanto Femmine con la F maiuscola, come se la rivoluzione la si potesse fare solo sui cromosomi XX senza per forza coinvolgere anche tutte le altre possibili combinazioni) è per me una gioia, una conquista, una speranza di quel mondo che oggi non esiste ma per il quale lotto… e del quale ho comunque la fortuna di vedere delle splendide avanguardie, già qui, già ora, in quelle  ‘Zone Temporaneamente Autonome’ (Taz) di libertà, che fortunatamente a tratti emergono nello stagnante oceano di inciviltà nel quale cerchiamo di galleggiare. Ma ahimé, spesso anche in ambito femminista mi scontro con realtà che mi deprimono, mi scoraggiano e avviliscono.

Bazzicavo sulla pagina Facebook di Femminismo a Sud, uno degli spazi che ho contribuito ad animare e al quale mi sento ancora molto legata, e mi trovo davanti agli occhi un post con una frase attribuita a Gary Francione, noto e controverso attivista animalista (sui suoi meriti e demeriti non mi soffermo in quanto la frase poteva essere attribuita, per quanto qui mi interessa, anche ai soliti Jim Morrison, Martin Luther King o Madre Teresa di Calcutta).

La frase, tradotta in maniera un pò zoppicante (cercherò di renderla un pò più scorrevole), è la seguente:

“Se dichiari di essere femminista… ma non sei vegana, hai le idee confuse, perché qualsiasi teoria femminista coerente richiede il veganismo. Una vera femminista si oppone alle gerarchie basate sul potere. Prima di tutto, il nostro consumo di prodotti animali non è null’altro che un’espressione di potere. Consumare prodotti animali ha lo stesso valore dello stupro in quanto rappresentano l’imposizione di sofferenza (ad altri) basata su questioni di potere. Secondariamente i prodotti animali, in particolare quelli dell’industria lattiero-casearia, derivano dallo sfruttamento della maternità.”

Nei commenti, molte sono state le femministe che hanno reagito negativamente a questa frase, spesso in maniera quantomeno verbalmente violenta e riportando brevi luoghi comuni al posto di ragionamenti articolati – it’s facebook baby! – ed a loro dedico le righe che seguiranno.

A prescindere perciò da chi sia Gary Francione, e dal tono catechizzante della frase che sicuramente ha avuto un effetto boomerang (visto che fa mettere le persone sulla difensiva anziché metterle nella disposizione d’animo di ascoltare e mettersi in discussione) poiché parlare di ver* femminista o antispecista o antirazzista non ha alcun senso ed è una delle peggiori piaghe dell’attivismo che definirò purista, o ‘a punti militanti’ – quello che per scardinare delle gerarchie ne crea altre di supposto merito basate su differenti parametri, ma seguendo le stesse logiche contro cui si scaglia –  quello che noto è che forse, a volte, sopravvaluto il potere del femminismo di rivoluzionare la vita delle persone. Non perché non sia una pratica dirompente, anzi: ma perché, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

E a malincuore devo dire che molte femministe, donne che lottano anche strenuamente per liberarsi e liberare altre donne dal giogo patriarcale, hanno, nei confronti dell’antispecismo lo stesso atteggiamento di dileggio, sfottò, quando non aperta rabbia e fastidio, del più becero dei maschilisti di fronte all’antisessismo.

Se c’è una cosa che ho imparato del mondo dell’attivismo in generale, è che essere attivist* non coincide automaticamente con l’essere non solo eroi/eroine, ma nemmeno persone particolarmente coerenti/empatiche/aperte… o persino socievoli!

Perciò sono consapevole che anche in questo, come in ogni ambito, troverò persone di ogni tipo – con le proprie incoerenze, idiosincrasie, disinteressi e limiti.
E va bene così, fintantoché quello che traspare non è aperto disprezzo, cosa che non sono in grado di tollerare.
Per quanto mi riguarda, il discrimine tra un comportamento accettabile e uno inaccettabile – in generale, ma soprattutto e ancor di più in ambito militante – sta nella capacità di ascolto e di confronto nella differenza. Facile restare nel proprio mondo rotondo di certezze acquisite, è quello che ci insegnano a fare nel sistema nel quale siamo scagliat* alla nascita, a fare quello son buon* tutt*.

Difficile ascoltare e accogliere, soprattutto quando ci mette in discussione in prima persona, dimostrandoci senza tanti giri di parole che il sistema di dominio è un sistema non verticale, piramidale, ma complesso e multiforme, nel quale nessuno è vittima tout court, ma tutt* anche carnefici di altre vite ed altre esistenze, che non possono restare inascoltate e respinte quando le loro grida, la loro sofferenza, il loro anelito di vita viene spento nella violenza (ancorché tenuta ben lontana dal ‘paradiso artificiale’ – si fa per dire – nel quale ci vogliono immers*).

Dei legami tra femminismo e antispecismo (senza escludere antifascismo e antirazzismo) si parla tanto e già da tanto, come sanno ormai tante persone.
Abbiamo dato vita al progetto intersezioni proprio perché sentiamo che quei luoghi dove si parla SOLO di femminismo, o di antispecismo, o di antirazzismo, o di antifascismo non ci corrispondono, o meglio, noi vogliamo di più … vogliamo tutto!

‘Nessun* sarà liber* finch* qualcun* sarà oppress*’.
La libertà non può e non deve essere prerogativa di poch*, o tant*, deve essere prerogativa irrinunciabile di tutt*, altrimenti non è libertà ma privilegio.

E l’ultimo baluardo di privilegio, quello più irrinunciabile per molt*, uomini e donne, è quello che ci dona acriticamente, in quanto ‘esseri umani’ (categoria del pensiero e non di natura inventata allo scopo di sfruttare altri esseri viventi e anche altri umani, modulando sulla presenza o meno delle ‘migliori’ prerogative umane – essere umani, bianchi, maschi, abbienti e di classe elevata – la gerarchia dello sfruttamento di tutt* coloro che non possiedono l’optimum dei requisiti) – il dono di FOTTERCENE APRIORISTICAMENTE della dose di violenza che imponiamo ad altri animali, umani e non, spesso comodamente per interposta persona, ma non per questo meno orrendi.

Fatevene una ragione: siamo animali, che vi piaccia o meno.
Abbiamo, come animali, caratteristiche peculiari? Sicuramente, come tutte le altre specie, vedi quelle che volano senza ausili meccanici, o nuotano e non affogano.
Sono queste nostre caratteristiche peculiari motivo sufficiente per sfruttare ed uccidere gli altri animali?
Non proprio, considerato che ci siamo creat* una scala di valori a nostro personale uso e consumo (la ‘razionalità’ un valore? Eh sì, tanto quanto la dotazione di un pene!) e abbiamo potuto farlo semplicemente costruendo il nostro privilegio con l’imposizione della forza e di immane violenza su altre e altri.

A quelle femministe che derubricano ad inessenziale, dileggiano o apertamente osteggiano l’antispecismo voglio far notare che nel non prendere in considerazione il proprio ruolo di oppressione sugli altri animali, nel non lasciare aperta la porta alla novità e al cambiamento, nel non mettere in dubbio il proprio ‘privilegio’ umano, voltano le spalle ad una enorme potenzialità, e non solo rivoluzionaria per loro stesse ma anche per la ‘causa’ per cui dicono di lottare, ossia quella delle donne, le cui istanze sono inscindibili dalla messa in discussione di un sistema basato sull’oppressione di determinati gruppi su altri, in tutte le possibili e immaginabili combinazioni.

Non è ancora giunta l’ora di mettere in discussione anche i propri privilegi oltre a quelli patriarcali?
Meditate femministe, meditate.

Ps: Affermare lapidariamente che antispecismo e femminismo non c’entrano nulla, sminuendo così il lavoro di tante studiose femministe che hanno contribuito con i loro preziosi scritti a porre nella giusta luce la questione animale e quella femminista in un’ottica intersezionale è, come dire… un pò superficiale, e dimostra di non avere le idee molto chiare a riguardo. Perciò, dopo aver affermato con soddisfazione che la terra è piatta, sarebbe possibile guardare senza pregiudizi a quelle teorie che la postulano rotonda?

Approfondimenti:
Guarda il video ‘intersections’ di Breeze Harper sottotitolato in italiano:

Esauriente bibliografia ecovegfemminista.
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zoofobia
mentalità della carne
antifascismo e antispecismo
prede

La sexy parodia di Blurred Lines realizzata da Mod Carousel: il rovesciamento dei generi che invita alla riflessione.

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Del video originale avevamo parlato qui.

Oggi leggiamo sull’Huffington Post:

Considerata la massiccia polemica – per non parlare del successo clamoroso – della hit dell’estate ‘Blurred Lines’ di Robin Thicke, non è sorprendente che alla fine qualcun* abbia deciso di realizzare una versione del video a ‘ruoli invertiti’. La recente parodia realizzata da Mod Carousel, è intelligente, stimolante e molto sexy!

Mod Carousel, una troupe boylesque con sede a Seattle, ha ricreato il video con Caela Bailey, Sydni Devereux e Dalisha Phillips alla voce – che assumono i ruoli che, nel video originale, erano rispettivamente di Thicke, Pharrell e TI – mentre Trojan Original, Paris Original e Luminous Pariah dei Carousel assumono qui il ruolo delle semi-vestite (o per lo più nude, a seconda della versione) modelle presenti nel video di Thicke.

Anche i testi sono un pò cambiati. “Vado a prendermi un bravo ragazzo,” Bailey canta e continua, “Sei così virile …. Tu sei il c…o più caldo qui.” […]

In proposito, i Mod Carousel affermano: “E ‘nostra opinione che la maggior parte dei tentativi di mostrare l’oggettivazione femminile nei media scambiando i ruoli di genere servano più a ridicolizzare il corpo maschile che ad evidenziare la misura in cui le donne vengono reificate, e ciò rende a tutt* un cattivo servizio. Abbiamo perciò realizzato questo video proprio per mostrare l’ampio spettro della sessualità, e presentare sia le donne che gli uomini in una luce positiva, in cui gli uomini possono essere resi oggetto e dove le donne possono essere forti e sexy, senza ripercussioni negative per entrambi.”

Ed ecco il video: che ne pensate?

 

 

Intervista a Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione femminile in Bolivia.

La femminista radicale boliviana Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione nell’universo femminile.

di Sheryl Green e Peter Lackowski

Articolo pubblicato da upsidedownworld Tradotto in italiano da TheHighPeak, revisionato da Feminoska, H2o e Alice89

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La Ekeka verso la libertà. Creazione di Danitza Luna

Mujeres Creando è un’organizzazione femminista radicale che  affronta la struttura patriarcale della società boliviana dagli anni ’80. Abbiamo parlato con una delle sue fondatrici, Maria Galindo, nel ristorante del loro piccolo hotel e centro culturale nella Capitale La Paz, mentre la stazione radio di Mujeres Creando, che trasmette/in onda dalla stanza a fianco, risuonava dagli altoparlanti in sottofondo.Quando Maria ci ha raggiunto era in compagnia di un altro nordamericano, Phillip Berryman, un insegnante e traduttore professionista e ci ha spiegato che poiché anche lui le aveva richiesto un’intervista avrebbe risposto alle nostre domande insieme.

Sheryl Green: La prima grande domanda è sull’amministrazione di Evo Morales: come sono state gestite le questioni specificatamente femminili? Sono stati fatti progressi? Il giornale di oggi dice che l’11% dei punti della Costituzione approvata tre anni fa è stato convertito in legge – che impatto ha questo sulle questioni femminili? Certo, l’obiezione è che tutte le questioni sono questioni femminili. Ma l’aborto ad esempio, e le altre cose che per te riguardano direttamente il benessere delle donne.

Maria Galindo: Allora, in generale il discorso su Evo Morales è molto complesso; in lui c’è stata una sorta di evoluzione. L’Evo Morales di oggi non è l’Evo Morales degli inizi. All’inizio c’erano molta speranza, molta aspettativa sociale e la relazione tra MAS [Movimiento Socialista] e il governo era davvero molto forte. In questo sesto anno invece di svilupparsi in modo positivo ha preso una brutta piega. Per esempio, Evo Morales, intendo il suo governo, dice “dobbiamo avere un grande controllo sulle organizzazioni sociali per rimanere al potere. Per sviluppare questo controllo dobbiamo comprare i capi di queste organizzazioni sociali.” E allora  adesso i/le dirigenti delle organizzazioni sociali sono controllat* dal governo. Ma non le basi. Significa che i/le dirigenti delle organizzazioni sociali hanno preso soldi dal governo e sono stati incaricati dei progetti, ma non significa che vi sia una reale aderenza delle organizzazioni sociali con le loro richieste. È una sorta di teatrino. Qui abbiamo con noi la gente, ma solo gli amici di Evo Morales e amici che ci sono perché ne traggono dei vantaggi. Il che impedisce una trasformazione sociale reale, perché non stanno lavorando sui problemi concreti di ogni parte della società, ma stanno lavorando solo per far pensare e sentire a tutti che Evo Morales sia l’unica soluzione per chiunque in Bolivia. E così abbiamo un processo di “caudillizacion.” Lui è il cambiamento, il cambiamento è lui, lui è tutto, è il difensore, e provoca un degrado nel processo politico e sociale.

SG: Quindi c’è una gerarchia…

MG: Non solo una gerarchia, ma lo dico in spagnolo: è un processo di “caudillizacion” [la creazione di un “caudillo” o leader carismatico]. La figura di Evo Morales è al centro di tutto. Ed è veramente un grosso errore. Per le donne è molto contraddittorio ed è ben mascherato. Perché? La prima legge, che era la più importante, è stato lo stanziamento di una somma di denaro, la “bono Juana Asurdo” (chiamata come un’eroina della rivoluzione contro la Spagna del diciannovesimo secolo.) È un pagamento che viene fatto a ogni donna che fa un figli* – come è stato fatto da ogni governo fascista. Non è molto: mille ottocento boliviani (261 dollari statunitensi). Non ci si fa nulla. Ma d’altra parte, “donne” significa “bambini.” Le donne più povere in Bolivia – magari loro potrebbero aver bisogno di quei soldi. Ma per ottenerli devono andare dal dottore, che ti dà un foglio che dice che avrai un bambino, e poi devi andare in banca per prendere il sussidio dallo stato. Ma le donne boliviane più povere non hanno la carta d’identità da presentare in banca. Quindi è davvero assurdo. Ed è una specie di ritratto del modo di pensare di questo governo.

Dall’altro lato, a partire dagli anni novanta, per una politica delle Nazioni Unite, c’è una sorta di quota di donne in ogni partito politico. È una politica liberale, non socialista, questa politica della “parità.” Quindi ogni partito ha una percentuale di donne, che vengono in certa parte elette come deputate e senatrici. È un processo iniziato negli anni novanta, ed è copiato ovunque in America Latina, non è originariamente boliviano. Il movimento sociale delle donne qui non ha mai chiesto di avere una rappresentazione parlamentare. È venuto dall’ONU. Dagli anni novanta, i partiti, anche di destra, hanno detto “OK, siamo gentiluomini, approveremo questa legge.”

E quindi dagli anni novanta c’è una bassa percentuale di donne in parlamento, donne che vengono elette per rappresentare il partito. Non per rappresentare la società o le donne nella società. E questa percentuale di donne non costituisce mai una voce per le donne. Loro rappresentano una voce femminile per il partito, che fa una bella differenza. È un fenomeno consueto della politica in tutta l’America Latina. Evo Morales ha preso la stessa idea dominante e l’ha messa nella sua politica. Ora c’è una percentuale più alta di donne, credo che sia intorno al 40%, non sono sicura, in realtà non ci faccio molto caso. E la stessa politica si applica ai ministri di governo e ai giudici. Ma con le stesse regole: le donne del nostro partito faranno quello che vogliamo noi. Le donne che hanno responsabilità per la sanità, per molti aspetti non fanno in realtà nulla per le donne. Perché è sufficiente essere lì e dire, “Sono qui, sono una voce per le donne.”

E quindi fanno una selezione accurata delle donne per tenere fuori quelle che sono pericolose, che alzano la voce, che pensano con la loro testa. C’è un sacco di ostilità nei confronti delle donne ribelli nei movimenti sociali oggi in Bolivia. Non è responsabilità di Evo Morales, è semplicemente come stanno le cose in questo momento.

Perciò, quello che dicevi sull’aborto – è come andare con un autobus sulla luna. Siamo molto lontan* da quel punto. Ho intervistato tutte le donne del governo [Maria conduce un programma alla radio, trasmesso da Mujeres Creando], tutte le dirigenti di movimenti per le donne che sono con Evo Morales, Bartolina Sisa (un movimento chiamato come un’eroina Aymara del 1700 che combattè contro gli spagnoli) ho intervistato tutt* quell* che fanno parte di questi movimenti. Ho chiesto loro dell’aborto. Perché l’aborto è un problema di povertà. Le giovani donne bianche, se hanno 400 dollari possono ottenere un aborto. Le indigene, giovani povere che non hanno i soldi, abortiscono con grossi rischi, e muoiono. E sono molto spaventate.

SG: Ci sono dottori nel paese che praticano un aborto sicuro per 400 dollari?

MG: È tutta una questione d’ipocrisia. Prova ad andare al grande cimitero di La Paz – mentre cammini vedrai su entrambi i lati della strada piccole cliniche. E lo sai, una stanza non può essere una clinica. E tu vedi clinica, clinica, clinica, clinica… “Se hai una domanda, vieni qua, clinica femminile”. Tutti quei posti sono per gli aborti. Lo sanno tutti, non è un segreto.

SG: E il governo non interferisce?

MG: No no, non fanno nulla. Ma per esempio, lo scorso dicembre una giovane donna a Santa Cruz ha ucciso il suo bambino – il bambino è nato e lei l’ha ucciso. È finita in prigione per omicidio. E lei ha detto, “Sono stata violentata. Questo bambino non lo volevo.” La polizia non fa nulla. I dottori fanno soldi, non tanti, ma li fanno. Ma quando una donna è così sola, così vulnerabile, come quella ragazza, allora finisce in prigione. È un caso d’ipocrisia. Ma nessuna donna di questi movimenti sociali locali è favorevole a parlare positivamente del diritto – non il mio diritto, di femminista – ma del diritto di scelta di quelle ragazze della campagna. Non sono pronte – ho chiesto a ognuna delle donne presenti in parlamento dell’aborto. Sono tutte contro. Tutte. Non ce n’è una che dica, “OK, hanno il diritto di scegliere.” Dobbiamo combattere per questo diritto, che è molto concreto.

SG: E probabilmente la maggior parte di loro ha qualcuna nella famiglia allargata o conosce qualcuna…

MG: Oh certo, certo, certo… Perché l’aborto in Bolivia è un problema di massa, non è il problema individuale di una ragazza in particolare. Perché non c’è educazione sessuale nella legge e nelle scuole. C’è una sorta di cultura maschilista nella sessualità, che significa che ogni ragazzo vuole mostrare il suo potere su una ragazza. Quindi è davvero un enorme problema di massa. E si vedono molte donne giovanissime con figli, e nessun padre. Alla nostra radio facciamo una lista di padri che non pagano per i propri figli, ed è un grande successo. Trasmettiamo il loro nome, la loro età e dove lavorano. Cinque volte il giorno, e nessuna donna deve pagare per questo [servizio]. Ed è molto interessante perché non è diretto solo a quelli che vengono nominati, ma è un messaggio per l’intera società.

SG: Mujeres Creando – legame con il governo, influenza. Hai due ruoli qui – magari correlati – sei una giornalista e sei parte di questa comunità. Qual è il legame, la relazione, il riconoscimento dell’amministrazione verso Mujeres Creando?

MG: Riconoscimento assolutamente no. Ma penso che noi, Mujeres Creando, abbiamo influito profondamente sulla società, perché alziamo molto la voce. E non ci limitiamo a parlare, facciamo anche le cose. Esercitiamo una forte influenza, lo sento ovunque, costantemente. Questo governo di Evo Morales agisce come se noi non esistessimo, come se non ci fossimo, come se non facessimo nulla. Ma non significa nulla perché non siamo fissate sull’idea che la sola politica che ha successo è la relazione con lo stato. Lo abbiamo analizzato per molti, molti anni: cosa vogliamo dallo stato? Non vogliamo nulla dallo stato. Non solo le leggi – le leggi non cambiano nulla. Molti movimenti in Bolivia hanno in mente la formula, “Otteniamo la legge, otteniamo un cambiamento della situazione.” Ma noi non chiediamo una legge, non chiediamo di essere in parlamento, non chiediamo di avere soldi dal governo, ma prendiamo posizione su ogni politica di governo.

Noi non viviamo sull’Isola che non c’è, ma non pensiamo che ci debba essere un riconoscimento da parte dello stato. Per esempio, quando il processo costituzionale era in corso quattro o cinque anni fa in Bolivia, abbiamo sviluppato un’interessante teoria sociale. Abbiamo detto, “Non vogliamo la parità tra uomini e donne, questa non è la nostra prospettiva. Vogliamo una ‘despatriarcalizacion’ della società.” Non posso tradurlo perché è una parola che abbiamo inventato noi (de-patriarcalizzazione). E ora qualsiasi documento governativo che riguardi le donne contiene la “despatriarcalizacion.” Hanno preso da noi la parola. È la prova della nostra grande influenza sul loro pensiero, ma non è una realtà perché, ad esempio, non ci chiedono mai di discutere che cosa questa “despatriarcalizacion” significhi. È una relazione complicata.

SG: È un grosso dibattito anche negli Stati Uniti in questo periodo. C’è forte movimento esterno al governo, il cui obiettivo non è lavorare per il partito, per far eleggere le persone. È un periodo eccitante: vuoi lavorare dall’esterno, o vuoi provare a inserire qualcuno all’interno? E quindi le persone stanno facendo scelte davvero interessanti. Sembra che la tua scelta sia quella di lavorare all’esterno e di influire profondamente non solo sulle donne ma sulla società nel suo complesso, stimolando idee più chiare e analisi più approfondite e aiutando le persone a considerare i loro stessi modelli sotto una luce diversa.

MG: Esatto, non è che pensiamo di dire alle persone quale sia la verità, questo è molto importante. Sei andata dritta al punto. Per noi, le donne sono “soggetti politici”, protagoniste. Quindi lavoriamo in questo senso, considerando le donne soggetti politici, non “beneficiarie,” “oggetto di vulnerabilità, ” “Oh, povere donne!” e roba così. Non ci limitiamo a parlare. Noi agiamo. Per esempio, abbiamo piccoli programmi che hanno una metodologia molto interessante, programmi che funzionano e programmi che sono fatti per le persone. Ce n’è uno davvero interessante sulla violenza contro le donne che è molto pratico, e agiamo in ogni situazione in cui ci è possibile, abbiamo un programma per le madri che riguarda il pensare al ruolo di madre in un altro modo. Entrambi influiscono profondamente sulla società, ma non raggiungiamo molte donne perché lavoriamo su piccola scala. Ma sono esempi – non siamo solo pront* a parlare, siamo pront* ad agire.

Questa è la grande differenza, perché in Bolivia trovi molt* intellettuali, alcun* migliori, altr* che non sono granché — che sono brav* per quel che riguarda il pensiero critico e parlano, anche, ma si limitano a parlare. Noi pensiamo che sia un grosso errore. Ci sono così tanti anni di pensiero politico boliviano in cui puoi trovare i minatori, puoi trovare gli indigeni, puoi trovare i giovani e mai le donne. Tutti i movimenti sociali hanno una sorta di faccia maschile, e alle donne si pensa come a un pezzo vulnerabile di società, dobbiamo proteggere le donne, dobbiamo proteggere le donne in quanto madri e quella è l’idea dello stato. E quell’idea non è cambiata. Siamo allo stesso punto di sempre.

Phillip Berryman: Capisco cosa intendi riguardo alle donne in politica. Vedi donne infrangere i ruoli tradizionali in altre aree come quella degli affari?

MG: Penso che ci sia una grande confusione al riguardo in generale, non solo in Bolivia. Ad esempio qui in Bolivia ci sono donne nell’esercito. E’ una prova di ribellione? E’ una prova di un qualche miglioramento? Possiamo festeggiare? Le donne lavorano, ma in quali condizioni?

SG: Giusto l’altro giorno c’era un sacco di polizia vicino alla capitale, e c’erano delle donne. Per caso ho guardato in basso e una poliziotta indossava stivali a punta con i tacchi alti, e ho pensato, “come può fare quello che potrebbe dover fare con i tacchi alti?” Mi ha colpita, e l’ho trovato molto ironico.

MG: Ironico, ecco la parola. In molti di questi esempi c’è tanta ambiguità. Non è una vittoria  per la società boliviana se le donne entrano nell’esercito. L’esercito ha commesso un sacco di abusi nei confronti delle reclute. Molti sono morti. Ai tempi si pensava che ci fosse la possibilità che rifiutassero il servizio militare. Così il governo ha detto, “OK, per i ragazzi è obbligatorio, non possono scegliere. Ma le donne possono entrare, e possono scegliere.” E le donne stavano in coda dalle 5 del mattino per arruolarsi nell’esercito. Avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di entrare. Perché? C’è una grande contraddizione. Il neoliberalismo e il liberalismo in America Latina dicono che ne hai il diritto. Devi lottare per i tuoi diritti, ma li hai – sei uguale. Abbiamo ora, in tutto il mondo, un sacco di donne con un sacco di potere. Che cosa significa? E’ una grande domanda per noi anche come femministe, perché nessuna donna al potere, in Bolivia, Germania, o dovunque, è lì grazie al pensiero femminista. E’ lì grazie al pensiero patriarcale.

Non m’interessano molto Cristina Kirchner o Merkel, a me interessa la massa. Nella massa delle donne c’è un impulso ad occupare lo spazio degli uomini, e sono pronte a pagare lo scotto di assumere valori maschili – quali competizione, uso della forza, uso della violenza. C’è una massa di donne che la pensa così. E così qui in Bolivia ci sono donne che vogliono entrare nella polizia. Ma la più alta percentuale di violenza sulle donne nella vita privata è fatta proprio da poliziotti. E allora vedi l’ironia di cui parlavi. Loro arrivano lì, ma poi sono… le donne. A che punto siamo? Ma dall’altro lato, per rispondere alla tua domanda  si vede un sacco di ribellione sociale di massa delle donne. Per esempio, molte donne sono pronte a denunciare la violenza, e questo è un atto ribelle. Molte donne vanno all’università. Io ho insegnato all’università pubblica. Il 50% degli studenti in tutti i campi sono donne.  Non c’è un campo in cui gli uomini possano dire, “Questo è il nostro campo.” Ma nei campi delle donne non trovi uomini. Questa rivoluzione non è dal lato dell’essere uomo, dell’essere maschile.

SG: Quindi   ad esempio in educazione della prima infanzia, o in sviluppo umano o in storia delle donne, non ci sono uomini?

MG: Vi devo raccontare una cosa: la storia di Ekeko.  E’ un riflesso di quello che sta succedendo con le donne nella società boliviana ora. Questa statuina è stata creata da una giovane artista del nostro movimento. Ha vent’anni. Io ne ho quarantasette e lavoriamo insieme. Conoscete la storia di Ekeko? Ve la racconto. Ekeko è un dio andino dell’abbondanza. E’ un ometto piccolo e basso che si porta tutto sulla schiena. Cibo, macchine, apparecchiature elettriche, tutto quello che vuoi. Risale a centinaia di anni fa, almeno alla fine del Settecento. Se veneri l’immagine di Ekeko, avrai tutto quello che vuoi nella tua casa. E’ chiaramente la deificazione del padre che porta tutto quello di cui hai bisogno, ed è falso.

La statua di Ekeko si trova in un posto speciale della casa, e ogni venerdì la donna di casa deve dargli una sigaretta. Deve metterla in bocca alla statua e accenderla. Ha anche un simbolismo erotico – trovi molti Ekeko con il pene eretto. Quindi lui ti darà tutto, benessere e piacere. In molte case trovi quest’ometto nel posto migliore.

Quindi abbiamo messo una donna al suo posto. [Ci mostra una statuetta, circa venti centimetri in altezza e in lunghezza. E’ una donna con un fagotto grosso quanto lei sulle spalle, mentre dietro c’è la figura di un uomo stravaccato, che dorme con una bottiglia in mano.] Invece di lui, c’è lei. Nel fagotto che porta sulle spalle c’è il suo cuore, che non è danneggiato. E poi ha tutto il resto: una casa, e musica, cibo – tutto quello che serve. E ha le ali, perché vuole la libertà. Ha libri perché vuole imparare. Se andassi in una scuola serale, vedresti che ci sono molte donne, perché tantissime hanno dovuto lasciare la scuola, ma ora vogliono studiare. Lei ha anche una valigia, perché se ne sta andando. Questo è un altro sentimento ribelle che molte donne hanno: “Sono pronta a lasciarti.” E la valigia ha un’etichetta, lì dentro ci sono sogni, speranze, ribellione, e felicità.  Sta lasciando il piccolo dio Ekeko – ubriacone, pigro, macho. E la lettera che gli lascia dice, “L’Ekeka sono sempre stata io.”

Vendiamo queste [statuine] nel nostro banco al mercato. Venderle è un atto politico. Parliamo alle donne, e loro ridono di gusto. Ogni donna [ne] capisce [il senso]: la donna che vende il pane, la donna che lavora in ufficio, e la donna che è in parlamento.

SG: Vendono bene?

MG: Sì. Non costano poco, perché vogliamo che la ragazza che le fa ci ricavi qualche soldo. La cosa più importante è che vogliamo entrare nell’immaginario popolare, che ha un posto nel cuore delle persone.

SG: E cosa mi dici di quest’altra figura, un uomo con un* bambin* sulla schiena, una borsa della spesa in una mano e una scopa nell’altra?

MG: Quest’uomo è Evo Morales. Sta portando un* bambin* sulla schiena come una donna indigena. Nessun uomo porterebbe un* bambin* in questo modo, sarebbe contro la sua dignità. Ed è pronto per pulire la casa e andare al mercato. Questo è stato l’uomo più importante della rivoluzione boliviana (che in realtà non è stata una rivoluzione.) Queste  le abbiamo davvero vendute come il pane. Ora non più perché lui ormai non è così popolare. Una volta, quando era ancora all’apice del potere, sono andata a un grosso evento politico e gliene ho regalata una . Lui l’ha presa e l’ha lanciata a una delle sue guardie del corpo. Non l’ha presa ridendo, era ostile, disgustato dalla statuina. Quello era un segnale! Mi sono chiesta, “Perché non era disposto a riderne con noi, e dire, ‘Perché no?’ o ‘Interessante!’ o ‘Grazie mille,’ o chessò.”

Questo è lo stato attuale della ribellione delle donne. Senza capire potresti dire, “Ah, queste donne stanno dicendo che ogni uomo è un ubriacone….” Ma è molto più di così, è un simbolo.

SG: Riguarda più le donne…

MG: Sì. Prima di venire qua stavo intervistando una donna. Vuole separarsi dal suo uomo. Quando aveva quattordici anni, un membro della sua famiglia l’ha data in dono a un militare ventottenne, che aveva un figlio di cui qualcuno doveva occuparsi. E così lei è andata con il militare ed è stata con lui, ai miei occhi, come schiava. Ma agli occhi della società come una moglie. Stava piangendo al mercato e una donna le ha chiesto, “Perché piangi?” Quando lei ha spiegato il motivo, la donna le ha detto, “Vai da queste donne.” [Mujeres Creando]

SG: Quanti anni ha ora?

MG: E’ tra i cinquanta e i sessant’anni. Ha avuto quattro figli con il militare, pensando per tutta la sua vita, “Lo lascio.” Non diresti che queste storie possano essere vere ancora oggi, ma in realtà lo sono. Le nostre storie non sono tutte così. Quella non è la mia storia. Ma noi, come donne, siamo nella stessa situazione storica e sociale di quella donna. Se la consideriamo una sorella, lei era, o è, in schiavitù.

Ho lavorato parecchio con la prostituzione, e conosco davvero bene il problema, ho fatto molte cose in quell’universo. In Bolivia, ogni prostituta deve essere legalmente registrata. Significa che deve dare il suo vero nome, il suo indirizzo, il posto in cui lavora come prostituta, e poi le fanno una foto e un documento. Devi avere quel documento dal ministero della sanità per lavorare come prostituta. Inoltre, devi andare dal dottore una volta a settimana, solo per fargli controllare la  vagina. Solo quello. Se hai un problema agli occhi o qualsiasi altra cosa, non importa, ti controllano solo la  vagina. E ottieni un foglio che dice ‘autorizzata.’ Si preoccupano solo per la salute degli uomini. E questo succede ora, non cento o duecento anni fa.

Questa [indicando una foto appesa al muro] è la fotografia di una prostituta dell’inizio del 1900. La polizia faceva queste fotografie a ogni prostituta: due scatti, di fronte e di profilo. In quei giorni una donna doveva indossare un panno nero in testa per mostrare che era una prostituta. La polizia aveva quegli archivi. Dal 2000 la polizia non fa più fotografie, ora è il Ministero della Sanità che fa i controlli vaginali per dire che puoi andare con un cliente.

Ho fatto centinaia di seminari, progetti, lettere, qualsiasi cosa. Abbiamo creato un’organizzazione per lavorare con le donne. Per il nostro punto di vista tutto andrebbe fatto con la donna. Per esempio la donna in condizione di schiavitù: è lei quella a volerne  uscire. Non sono io a dire che deve farlo. E’ molto importante. Ogni donna deve dire che cosa vuole fare. Loro trovano in noi delle amiche, un gruppo politico, quello che volete, ma sono loro che devono scegliere.

PB: Vedi segnali di cambiamento negli atteggiamenti degli uomini?

MG: Non in Bolivia. Non vedo cambiamento nell’universo degli uomini. Vedo molto cambiamento in alcune parti dell’universo delle donne – perché non siamo tutte un pezzo unico, siamo complesse – ma non vedo quasi nessun cambiamento nel mondo degli uomini. L’uomo è in crisi profonda. Le donne stanno cambiando e gli uomini restano lì, non riescono a cambiare. Per esempio, qui c’è un grosso mercato della prostituzione. Chi si rivolge a quel mercato? Potrei mostrarti uomini giovanissimi e uomini vecchissimi che ne usufruiscono. Vedi minatori e professionisti che se ne servono, è solo una questione di prezzo. Puoi trovare una prostituta molto economica e una molto cara. Il mercato della prostituzione sta crescendo. Gli uomini vanno lì per comprare una donna. Non vedo alcun cambiamento in questo.

Che cosa succede agli uomini? Nel mio programma radio ho donne che parlano della violenza sulle donne. Ho aperto uno spazio per gli uomini per parlare della violenza sulle donne, ma nessun uomo vuole venire. Gli uomini vogliono parlare della rivoluzione, del prezzo della benzina o del gasolio, della rappresentanza politica, o della storia, ma non vogliono parlare di se stessi. E’ difficile chiedere loro di parlarne, come se fosse un’offesa, come una mancanza di rispetto.

PB: In Colombia ho visto un po’ di propaganda contro la violenza domestica – un cantante reggaeton o qualcosa del genere.

MG: Puoi vederlo anche in Bolivia, uomini famosi che sono pagati – non significa nulla. Il governo allestisce il suo teatrino con i soldi della cooperazione internazionale – non ci sono soldi dallo stato boliviano. Non è una cosa ben pianificata, solo una messinscena – molto facile a dirsi. Se si osserva l’uso delle donne nei mass media – mi fa schifo. Dovunque, per qualsiasi cosa, e senza limiti.

SG: Le donne in carcere – abbiamo parlato con una donna che lavora con le carcerate e abbiamo saputo che le donne possono tenere i figli con loro in prigione, che possono lavorare per guadagnare, che si autogovernano. Come vedi i programmi per le donne in prigione?

MG: Non ho una grande conoscenza delle prigioni. Ho iniziato una serie di programmi radio ogni quindici giorni da una prigione. Noi andavamo lì e le donne parlavano. Era fantastico, avevamo il permesso per dodici puntate, ma ne abbiamo fatte solo due. E’ vero, le donne possono tenere i bambini con loro in prigione. I bambini vanno a scuola e dopo tornano alla prigione. Dipende dalla loro età. Lavorano in prigione, ma non si tratta di programmi organizzati: il punto è che lo stato non ha soldi per la prigione e non vuole spenderne, vuole una prigione economica. Le donne lavorano perché, se non lo facessero, morirebbero di fame. Non potrebbero sopravvivere là dentro senza lavorare.

Il motivo per cui mi hanno tolto il permesso per fare più programmi è stato che le donne fanno il bucato, prendono nove boliviani ogni dodici pezzi. Da questi nove boliviani, la polizia prende qualcosa. Ma non avrebbe il permesso di farlo. Le donne ne hanno parlato alla radio e così tutti l’hanno saputo. Quindi hanno messo la donna che l’ha detto in isolamento, c’è stato un grosso scandalo, ed io ho perso la mia autorizzazione – basta programmi.

Potresti andarci. Se conoscessi qualcuno, potresti andare senza alcun permesso e dire che hai fissato una visita così e così e vedresti, hanno costruito una piccola società. Ma hanno due docce in centosessanta donne, e pagano per la doccia. Hanno due tipi di spazi. Uno spazio per dormire, per quello non devono pagare. Ma poi escono in un grosso spazio aperto tutto il giorno. In quello spazio hanno costruito posti per passare la giornata. Per averne uno devono pagare. Una donna che non ha un boliviano non ha un posto tutto il giorno. Tutto quello che hanno, è il prodotto della loro lotta.

La dignità dell’orango

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In Animal equality: language and liberation, Joan Dunayer afferma:

“Applicato all’essere umano, il semplice nome di un altro animale diventa insulto: ‘Tu sorcio, puzzola, serpe…’ Perché? Perché le altre specie sono ritenute inferiori.[…] Il linguaggio specista, oltre a supportare una gerarchia arbitraria che vede gli animali umani al vertice, afferma una falsa dicotomia tra animale e umano. Per quanto molte persone odino ammetterlo, SIAMO TUTT* ANIMALI. Ciononostante, l’epiteto ‘animale’ designa una persona che ha compiuto un atto particolarmente brutale (verso un’altra persona). Al contrario, proferiamo le parole ‘pienamente umano’ con un palpito di reverenza. I nostri occhi si appannano di fronte alla nostra peculiare umanità e il nostro autocompiacimento impenna. In tali momenti, dimentichiamo che la gorillità è più pacifica, la gufità più acuta visivamente, e l’apità più ecologicamente benigna. Le altre specie hanno capacità e qualità che a noi mancano, per quanto possiamo analizzare e inventare.”

Di sicuro, l’oranghità ha, tra le proprie caratteristiche peculiari, l’intelligenza e la dignità, caratteristiche che evidentemente mancano a taluni individui che, purtroppo, rappresentano vestigia di grettezza umana delle quali vorrei, con tutta me stessa, poter perdere la memoria.

Sarebbe bene però, che tutt* coloro che si sono indignat* nell’udire il termine ‘orango’ indirizzato alla Ministra Kyenge, fossero consapevoli che davvero la parte lesa è l’orango**. Sentirsi offes*, indignat*, sconvolt* dal nome di un altro animale utilizzato per designare un animale umano dimostra come, purtroppo, anche l’attenzione a talune forme di discriminazione ed oppressione, se non inquadrate in un’ottica intersezionale ed includente, non è sufficiente ad evitare di replicare, su altri piani, lo stesso ragionamento oppressivo dal quale sembra voler prendere le distanze. Il risultato è tornare a ragionare per dicotomie, opposizioni nette. Bianco/nero, bene/male, uomo/donna, umano/animale, superiore/inferiore, vincitori/vinti…ecc.ecc. L’incontro non avviene, differenza fa rima con diffidenza, le comunicazioni cessano. Lo scontro diventa – nuovamente – inevitabile.

Tutto questo può essere evitato rifiutandosi di parlare la lingua del dominio, e di alimentare continuamente quello scontro creato ad arte di (apparentemente) opposti valori.

Come affermava Virginia Woolf in Craftmanship riguardo alle parole:

“Tutto quello che possiamo dirne è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle […] Detestano essere utili; detestano fare soldi; odiano le conferenze. In breve, detestano qualsiasi cosa che le fissi in un significato o che le confini ad una posa, perché è nella loro natura cambiare. Forse è questa la loro caratteristica più sorprendente – la loro necessità di cambiamento. Poiché la verità che cercano di catturare ha tanti aspetti, e la trasmettono rimanendo sfaccettate, mettendola in luce prima in un modo, poi nell’altro. Così significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; sono inintelligibili a una generazione, chiare come la luce del sole alla successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare cose diverse per differenti persone, che sopravvivono.”

Per questo sono convinta che essere paragonat* ad un orango non sia un’offesa… ancor di più quando il termine di paragone umano che ha proferito tali parole è… quello che è.

L’orango, che è stato unanimemente – e in maniera assolutamente bipartisan –  preso a termine di paragone quale essere inferiore. Potere del linguaggio specista.

Certo, l’intento era chiaro: offendere, provocare, ecc.ecc. E sappiamo anche bene da quale retaggio profondamente razzista proviene l’accostamento (le pseudo-teorie del razzismo scientifico che consideravano i neri come stadio evolutivo intermedio tra le scimmie e gli esseri umani, partendo però, per chi non se ne fosse accort*, dal pregiudizio specista menzionato nella citazione di Joan Dunayer) … si capisce perciò anche la reazione ad una simile affermazione.

Ma se quella frase ha colto nel segno, se il termine orango è salito alla ribalta su tutte le maggiori testate come imperdonabile offesa, non è soltanto per il suo passato razzista (della parola e di chi l’ha proferita), ma soprattutto perché chiunque, in un mondo specista, riconosce il nominare una persona con il termine che designa un animale non umano tra i peggiori insulti.

** E non perché, come ha asserito l’assessore regionale alla protezione civile del Veneto, Daniele Stival, sul proprio profilo Facebook “Riteniamo vergognoso che si possa paragonare un povero animale indifeso e senza scorta a un ministro congolese”. Sembra superfluo puntualizzarlo, ma già che ci siamo preferiamo mettere i puntini sulle i, e rincarare la dose chiedendoci come sia possibile che, in questo paese, figure pubbliche possano esprimersi in tale maniera senza pagarne alcuna conseguenza.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

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Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.

Dice che Robin Thicke c’ha il cazzo grosso

Un ineccepibile articolo scritto dal nostro pluritalentuoso amico Sdrammaturgo: Enjoy!

In this Country, you gotta make the money first.

Then when you get the money, you get the power.

Then when you get the power, you get the women.

 Da Scarface di Brian De Palma

 

Il problema non è la valletta nuda. Il problema è il presentatore vestito.

C’è questo videoclip di tale Robin Thicke.

thicke

L’idea è semplice: fondo bianco, tre modelle nude dall’occhio vacuo che fanno balletti scemi e ammiccano intorno a tre cantantucoli trendy e cool che la sanno lunga.

In fondo sono sempre grato ai video rap sessisti: mi fanno scoprire ogni volta nuova passera mitologica di cui altrimenti avrei ignorato l’esistenza. E infatti in questo caso la brunette pallida è subito balzata nella zona Champions delle mie donne preferite.

Tralasciando la qualità della canzone in sé, che naturalmente è lassativa, il problema di questo videoclip non è tanto il sessismo, quanto il fatto che si tratta di un’occasione persa.

Pensate quanto sarebbe stato meglio così: nella prima parte, ragazze nude che fanno balletti scemi intorno a uomini vestiti di tutto punto. Nella seconda parte, cambio: ora le ragazze sono vestite eleganti e stavolta tocca ai ragazzi essere nudi e fare balletti scemi. Poi, tutti vestiti prima del gran finale in cui olé, tutti nudi.

Altrimenti, Robinthì, con questo video che m’hai voluto dire? “Sono ricco e famoso, sono un maschio alfa, sono pieno di figa sottomessa”.

Capirai che novità. A ‘sto punto sarebbe bastato un fermo immagine di quattro minuti e trentuno secondi sul tuo estratto conto.

E poi quella scritta, “Robin Thicke has a big dick”. Guarda che l’altro giorno negli spogliatoi della palestra in cui vado c’era uno che si vantava con un amico di avere il cazzo grosso.

Ma come, “sono un cantante famoso”, “vado alle feste con le modelle di intimo”, “frequento la gente che conta”, “Hugh Hefner me fa ‘na pippa”, per poi esprimere gli stessi concetti di uno che va in una palestra sulla Tiburtina?

E annamo, e daje.

E bada bene, non ti sto facendo la solita morale veterofemminista sulla mercificazione di qua e il corpo delle donne di là e l’omologazione dei canoni estetici di sopra e l’interiorità di sotto.

Io tra Emma Goldman e Melissa Satta uscirei con Melissa Satta, figurati.

Ho gusti estremamente convenzionali. L’occhio vacuo me piace pure. E ti dirò, la trovata delle modelle strafighe che fanno balletti scemi non mi sa manco male.

Di 73.272.161 visualizzazioni che hai ottenuto, 73.272.160 sono le mie.

RobinThicke-BlurredLines

L’arrapamento mi ha fatto pure passare sopra alla presenza dell’agnello spaurito. Come dire, talvolta il mio antispecismo finisce dove comincia il mio testosterone.

Probabilmente ho più cose in comune con te che con un responsabile di un centro antiviolenza.

Mi piace la figa quanto te. Anzi, pure più di te, considerando che ne ho molta meno di te, data la mia posizione sociale.

Pensa che non riesco nemmeno ad avercela coi manifesti pubblicitari sessisti, perché uscire ed essere circondato da culi sodi mi mette fondamentalmente di buonumore.

Quello che mi offende dei manifesti pubblicitari non è l’uso del corpo femminile, ma la pubblicità. Se sui cartelloni ci fossero donne bellissime fini a loro stesse che non pubblicizzassero nessun marchio se non la propria stessa avvenenza, non avrei niente in contrario. E poi vedere veterofemministe scandalizzate è per me sempre motivo di gaudio.

Bellezza gratuita a mo’ di memento: “Ricordati che tutto sommato vale la pena vivere”.

Di contro, la pubblicità anche senza l’uso del corpo femminile mi esorta ad augurarmi l’estinzione della specie.

Però mi chiedo: perché solo e sempre le donne? Perché noialtri dobbiamo rimanere sempre vestiti?

Certo, perlopiù siamo quasi tutti brutti, sono d’accordo. Ma di uomini che meritano di avere la propria nudità esposta ce ne sono, eh.

Tu stesso sei un bel ragazzo, non ci sarebbero state affatto male le tue chiappe in bella vista accanto a quelle delle tre superbone.

Il paritarismo a cui anelo io piacerebbe pure a te, sono sicuro: tutti nudi.

Quindi, visto che tanto ti sono eternamente debitore per avermi messo al corrente delle tette di Emily Ratajkowski, per il prossimo videoclip chiamami e ci penso io. Qualche idea più originale di quella la escogito di sicuro.

Non temere, ti garantisco che ci saranno persino ancor più modelle ignude. Ma mi auguro che quanto appare scritto nel tuo video non sia una cazzata, perché con me il mondo scoprirà la verità.

Non sono un uomo o una donna, sono transessuale

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“Non sono un uomo o una donna, sono transessuale” – discorso di Jamrat Mason al Pride di Hackney, settembre 2010, traduzione di feminoska, revisione di H2O.

(Trascrizione del discorso tenuto al Pride di Hackney nel 2010. Uomo trans e comunista anarchico, Jamrat Mason parla di genere, sessualità e sessismo e degli aspetti sociali più ampi delle questioni transgender).

Mi chiamo Jamrat Mason e ho una vagina. Sono coinvolto nell’attivismo comunitario di East London, ma oggi sono qui per parlare “da persona trans” di questioni transgender. Il termine “transgender” è un termine ampio che si riferisce a uno spettro molto vasto di persone che in qualche modo ‘cambiano rotta’ rispetto al genere che sta scritto sul loro certificato di nascita. Quindi non posso, in alcun modo, rappresentare tutte le persone transgender. Posso solo parlare del mondo per come lo vedo io, da dove mi trovo, nella mia posizione di transessuale.

Sono un transessuale fortunato. Prima di tutto perché sono vivo. E in secondo luogo perché ho una famiglia che mi ama. Queste due caratteristiche non dovrebbero essere questione di fortuna, ma al momento le cose stanno così. La mia esperienza è abbastanza unica, così ho pensato di farvene un breve resoconto: a 3 anni la mia prima frase è stata: “Sono un bambino”, a 7 anni, quando ero ancora convinto che questo fosse vero, i miei genitori mi portarono da uno psicologo. Lo psicologo disse che probabilmente soffrivo di “disforia di genere”. I miei genitori ne discussero a scuola, e mi permisero di portare i capelli corti e indossare la divisa da ragazzo. A 8 anni sono entrato in cura da uno specialista di Londra (a carico dell‘NHS, il sistema sanitario nazionale) che mi ha seguito fino ai 18 anni. A 12 anni mia nonna ha finanziato il mio cambio di nome sui documenti. Ho vissuto come un maschio da quando avevo 7 o 8 anni. Ho attraversato completamente la pubertà femminile e, raggiunti i 21, anni ho cominciato ad assumere testosterone. Mi sono operato a 22 anni. Ora ne ho 24 perciò sono come mi vedete da circa 2 anni.

Non è mia intenzione chiedere semplicemente un’accettazione compiacente delle persone trans o invocare la fine degli insulti e delle legnate … voglio parlare di transfobia come di una questione che ci riguarda tutt* e che possiamo tutt* contribuire a combattere in qualche modo. Come società dobbiamo applicarci meglio alle questioni di genere.

Nel grembo materno tutt* cominciamo il nostro sviluppo come femmine. Le persone che nascono come maschietti cambiano durante la gravidanza, all’introduzione del testosterone. Il clitoride cresce e diventa il pene, e le labbra diventano lo scroto. A prima vista la parola woman sembrerebbe indicare che le donne sono uomini con l’utero (wo-man, come in womb-man). Ma in realtà, sono gli uomini ad essere donne con grossi clitoridi. La maggior parte delle persone alla nascita ha una vagina o un pene, ma alcune persone stanno in qualche modo a metà – queste persone sono ‘intersessuali’. Non appena nasciamo veniamo trattat* in modo molto diverso: ai bambini maschi vengono dati i lego, alle femmine le bambole (e poi ci si interroga sulla mancanza di ingegneri di sesso femminile); le ragazze sono incoraggiate a prendersi cura degli altri e a parlare dei propri sentimenti, mentre ai ragazzi viene detto di dimostrarsi virili. Ogni ragazzo e ogni ragazza, in una certa misura, devono fare i conti con la differenza che c’è tra essere chi si è, e quello che ci si aspetta da un Vero uomo. O da una Vera donna. Ogni corpo soffre per l’invenzione dell’Uomo e della Donna. E io mi considero una vittima estrema di questo meccanismo – in realtà non mi considero un Uomo – ma so, violentemente, di non essere una donna. Penso che le persone trans in genere siano le vittime estreme di questa rigidità.

La società è divisa in uomini e donne, e io non rientro in nessuna delle due categorie. Se dovessi andare in prigione, potrei essere un uomo in un carcere femminile, o un uomo con la vagina in un carcere maschile dove la privacy non è esattamente una delle priorità. Se dovessero arrestarmi, potrei scegliere se essere perquisito da un agente di polizia maschio o femmina. Ma non sono un uomo, non sono di sesso maschile, sono transessuale. Esiste un Certificato di riconoscimento del genere grazie al quale posso essere riconosciuto come uomo o donna da parte dello Stato. Ma non sono un uomo o una donna, sono transessuale. Potrei essere trattato come uomo, andare in un carcere maschile, essere perquisito da un poliziotto uomo, sposarmi con una donna. Ma non voglio sposarmi, non voglio vivere in una società in cui le persone vengono mandate in prigione e perquisite dalla polizia. Non credo in una lotta in cui chiediamo al governo di aver a che fare con noi in modo più efficiente, per opprimerci meglio. Non voglio integrarmi meglio in un sistema marcio, voglio qualcosa di completamente diverso. Voglio partecipare alla creazione di un mondo migliore.

Il pregiudizio contro gli uomini trans, come me, è basato sull’idea che stiamo cercando di farci largo per ottenere il privilegio di essere maschi – privilegio che non meritiamo, perché siamo inadeguati, non abbiamo peni e, se li abbiamo, sono strani, piccoli o fanno schifo. Siamo uomini inadeguati, col culo grosso  e un pisellino ridicolo.

Il pregiudizio contro le donne trans si basa sull’idea che si stiano auto-degradando, che siano ridicole, una caricatura, perché mai vogliono essere donna? Come se stessero cercando un modo per scendere di livello nella scala sociale.

Quindi la transfobia è radicata nel sessismo. Alcune persone credono che le donne trans non possano sapere cosa si prova a essere donna perché non hanno vissuto il sessismo in prima persona. Ma la transfobia che la donna trans deve affrontare è sessismo — moltiplicato per cento!

Secondo alcun*, gli uomini trans cercano di sfuggire al sessismo trasformandosi in uomini. Lasciate che ve lo dica: quando sei transessuale, non sfuggi al sessismo… vieni completamente scaraventato in un‘enorme palude di sessismo. Quando vivi entrambe le condizioni e anche di più, cominci a vedere il sessismo, lo noti quando gli altri non lo percepiscono. Quando tiri in ballo il genere si scatenano le forze della natura.

Il sessismo, e più in particolare, questa forma di sessismo che è una reazione alla devianza dal genere assegnato (non essere un uomo vero, o una donna vera) sembra essere veramente poco riconosciuta. E svolge un ruolo enorme nell’omofobia. Un ragazzino gay dall’aspetto molto maschile e che sa fare a pugni non rischia di diventare vittima di bullismo a scuola. I bambini di solito non giudicano i gusti sessuali dei loro compagni di scuola, ma giudicano come si comportano. I ragazzi effeminati sono vittime di bullismo in quanto effeminati, e vengono apostrofati come omosessuali e finocchi. Ma vengono presi di mira perché non agiscono come veri uomini: e questo è sessismo, ma noi lo chiamiamo omofobia. E quando lo si chiama omofobia, che organizzazioni ci sono per aiutare il ragazzo etero effeminato? Gli si dice che non c’è niente di male a essere omosessuale, ma non c’è nessuno che gli dica che va bene essere un po’ effeminato. Questa è la stessa prepotenza che le persone transessuali vivono elevata a potenza, ma non è in alcun modo riservata a noi.

L’esperienza delle persone transgender è al limite estremo – ed è un estremo letale, il sito Transgender Day of Remembrance mostra che, nel 2009, 130 persone transgender sono state uccise, ma questo è un problema universale, radicato nel sessismo, che colpisce tutt* noi e contro il quale tutt* possiamo lottare.

[L’invenzione del vero uomo e della vera donna è sancita dall’economia. Fino a quando qualcun* dovrà lavorare tutta la settimana per ottenere un salario, per sopravvivere, e fino a quando avremo bambini da accudire, qualcun altr* dovrà lavorare in casa, e occuparsi dei bambini gratis. Al momento, il più delle volte, l’uomo lavora a tempo pieno e la donna lavora gratis in casa. È il lavoro non retribuito che sostiene l’intero sistema. Se venisse meno, tutto crollerebbe. Ma questo non si può cambiare riallineando le questioni di genere oppure scambiando i ruoli e trasformando il patriarcato in un matriarcato, o mescolando tutto, o facendo una volta per uno … o pagando un’altra donna il minimo sindacale per fare il lavoro al proprio posto. Fino a quando questo sistema continuerà a stare in piedi, qualcuno dovrà lavorare gratuitamente in casa. E questa è una delle ingiustizie fondamentali alla base della nostra economia. Per quanto le persone transgender possano evidenziare che questi non sono due ruoli naturali immutabili, non è certamente un appello liberale alla tolleranza che trascinerà il sistema al collasso.]

Voglio ritornare a questa idea che dobbiamo, come società, come comunità, applicarci meglio alle questioni di genere. La transizione da un ruolo di genere a un altro non si limita alla chirurgia, anzi la chirurgia riveste un ruolo veramente minore nella transizione. La transizione è principalmente sociale, perché i ruoli di genere sono sociali. Come ho detto prima, ho vissuto per 12 anni come maschio, senza alcun intervento chirurgico o ormoni di sorta. Ora rientro nella categoria dei maschi, perché le persone mi chiamano ‘lui’ e mi vedono di sesso maschile. Il fatto che la transizione sia di tipo sociale sembra non essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone e quando qualcuno si manifesta come trans, gli altri si limitano ad attendere che quella persona diventi abbastanza virile o femminile da convincerli. L’onere ricade sulla persona trans che deve “comportarsi come un uomo” o “comportarsi come una donna” per poter vedere rispettata la propria identità. Questo spesso significa che vengono ricompensati gli uomini trans che si comportano come degli idioti esagerando gli aspetti macho, perché solo allora la gente ne rispetta l’identità. Dovrebbe essere responsabilità di tutti rispettare l’identità di chi ci sta davanti, fare la propria parte nel cammino che si fa per sentirsi a proprio agio nella propria pelle.

Che cosa vogliamo, con le nostre marce dell’orgoglio e il nostro attivismo?

La libertà di camminare per strada, vestiti come ci piace, baciando chi ci piace, in un paio di aree da vip in centro Londra? Perché non baciarsi a Clapton? A Stratford? A East Ham? Essere liber* nelle comunità operaie nelle quali effettivamente viviamo? Sentirci liber* di esprimere il nostro amore, il nostro genere, il nostro corpo, senza temere di essere linciat* da bande di teppistelli? E che dire dei ragazzi adolescenti? Dei nostri vicini di casa? Quand’è che quel ragazzo adolescente si sentirà libero di fare un pompino al suo compagno, o di indossare un abitino, senza la paura di venire completamente rifiutato o senza pensare che questo potrebbe fare di lui una persona completamente diversa?

La tentazione potrebbe essere forte, per quegli omosessuali benestanti che hanno raggiunto la propria libertà, che camminano felicemente mano nella mano nella stradina di casa ad Hampstead, di prendere le distanze e non essere associati con i transgender, con noi devianti, o con noi queer di origine proletaria che viviamo in zone come Hackney, circondat* da omofobia, transfobia, sessismo. La vediamo eccome, quella tentazione, quando vediamo come è diventato il Pride di Londra. Ed è per questo che è importante che esistano eventi come questo, per mantenere il nostro attivismo di base, e non accontentarci di niente che non sia la libertà completa e assoluta.

 

CORPI REAGENTI – MySlut Walk e qualche considerazione a margine

corpireagenti

Questo weekend segnaliamo, per chi si trova a Torino, un appuntamento imperdibile… anzi due!

A conclusione del progetto ‘What’s Body?’ che il collettivo Sguardi Sui Generis ha portato avanti nel corso dell’anno con diversi incontri, il discorso sul corpo verrà approfondito attraverso due giornate dedicate alla sperimentazione e alla performatività.
CORPI REAGENTI sarà articolato in due giornate:

– SABATO 15 GIUGNO @ csoa ASKATASUNA (corso Regina, 47)
alle ore 15: laboratorio MY SLUTWALK a cura del collettivo femminista Le Ribellule Collettivo Femminista (leribellule.noblogs.org)
…a seguire aperitivo danzante in compagnia de Le Elettrosciocchine!

– DOMENICA 16 GIUGNO @ circolo Maurice (via Stampatori, 10)
alle ore 15: MASCHILITA’ DI CHI? laboratorio di Kinging a cura del Lab. Sguardi Sui Generis
…a seguire merenda queer!

Rimandiamo al post pubblicato da Sguardi Sui Generis per maggiori info sull’argomento.

A prescindere da questa bella iniziativa, alla quale speriamo aderiate numeros*, vorremmo con questo post dare l’avvio ad una riflessione più generale sulla SLUT WALK, sui suoi significati (e contraddizioni) e sulle sue prospettive future.
Abbiamo in proposito tradotto parte di un articolo scritto da Yasmin Nair, che riflette su alcune delle zone d’ombra della Slut Walk: lo abbiamo scelto perché alcune delle questioni sollevate risuonano dei dubbi che a volte ci attanagliano, e perché vorremmo con tutte le nostre forze evitare ciò che la Nair prefigura, quando si chiede:

La Slutwalk rappresenta la fine del femminismo?

‘Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.’

[…] Nel 2011, mentre sfilavo con migliaia di persone radunatesi in una splendida giornata estiva, e mi trovavo in piedi sopra una tribuna improvvisata a declamare un breve discorso, non ho potuto fare a meno di sentirmi eccitata alla prospettiva di assistere a ciò che per me rappresentava il riaffacciarsi, pieno di significati e importanza, del femminismo, un movimento che consideravo agonizzante – per non dire quasi scomparso.

Ho nuovamente tenuto un discorso alla Slut Walk di quest’anno, e mi sono trovata a chiedermi dove fosse finita tutta quell’energia. I travestimenti erano sempre quelli, così come i cartelli, provocatori e spesso molto divertenti, anche se le persone presenti erano molte meno. Nell’osservare la folla per la seconda volta, mi sono chiesta perché così poco fosse cambiato, e se questa volta, la Slutwalk rappresentasse non l’inizio ma la fine del femminismo.

La Slutwalk è nata a causa di un poliziotto di Toronto, il quale disse che “le donne dovrebbero evitare di vestirsi come puttane, se non vogliono diventare vittime”. Queste parole sarebbero state già gravi di per sé, ma il venir proferite durante un forum di prevenzione della criminalità fu molto peggio, perché implicava che le donne che si vestono in un certo modo meritano quello che capita loro. Tali parole ebbero l’effetto di provocare innumerevoli discussioni, e le donne marciarono in massa per rivendicare e decostruire il termine “puttana.”
La popolarità della Slutwalk, lo scorso anno, ha portato alcun* ad asserire che essa rappresenti il futuro del femminismo.

[…] “Femminista” non è un’etichetta che mi piaccia utilizzare. Mi sono trovata spesso in disaccordo con quello che solitamente viene definito femminismo, soprattutto negli Stati Uniti, dove il termine è purtroppo associato a quelle donne bianche privilegiate i cui interessi sono principalmente il controllo delle nascite e il diritto d’aborto, e oltre a questo poco altro. In realtà, anche il linguaggio dei diritti, nella sua problematicità insita nel privilegiare il singolo soggetto invece di compiere un’analisi sistemica dei rapporti di potere, è stato soppresso dalle femministe americane tradizionali. […] Nonostante tutte questi aspetti problematici, e il fatto che io spesso rabbrividisca quando mi viene chiesto se sono una femminista, di solito rispondo di sì, perché penso ancora che questo termine, così come la parola “queer”, abbia una qualche potenzialità – forse non di rottura, ma che in ogni caso detenga in sé ancora una qualche promessa spettrale o minaccia di cambiamento.

La prima Slutwalk dunque, ha rappresentato la piattaforma necessaria per discutere pubblicamente – e ricominciare a combattere – il sessismo e la misoginia profonda che pervade la nostra vita pubblica e privata, anche nei mondi apparentemente più illuminati della sinistra.

Nei mesi successivi, la Slutwalk è stata sia lodata che criticata. I/le critic* hanno sottolineato che rivendicare la parola “puttana” è problematico, in quanto il termine è spesso usato per sminuire e infantilizzare le donne di colore. Trovo la critica in sé offensiva, poiché presuppone che le donne di colore siano impotenti e passive, per sempre intrappolate nel ruolo delle vittime. E’ anche un argomento essenzialista, che dà per scontato che tutte le donne di colore abbiano le stesse opinioni. Mi sento di affermare inoltre che il privilegio, come ad esempio il privilegio di definirsi una puttana, non è un’esclusiva delle persone bianche; troppa cultura di sinistra sostiene erroneamente che le comunità di colore non vogliano o non possano riprodurre dinamiche di privilegio o non siano in qualche modo influenzate dal capitalismo/neoliberismo.

[…] Molte delle discussioni emerse nell’ambito della Slutwalk sono centrate su narrazioni fortemente personali, che ignorano i modi in cui il femminismo si sia storicamente impegnato a resistere anche contro gli squilibri strutturali, quali la politica ed economia dell’ineguaglianza. Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.

La richiesta delle persone di non essere molestate – o peggio – in virtù di come si vestono non è per nulla una questione insignificante: ma rivendicare la parola “puttana” deve essere solo l’inizio. Esiste una forma particolarmente insulsa di attivismo che ha invaso il mondo della sinistra progressista, dove persone di colore e  altri gruppi oppressi diventano narratrici/tori di un “racconto”. Questa pratica funziona come i cerchi di tamburi, un lamento infinito dei propri guai personali che ignora le componenti strutturali del capitalismo, e consente la realizzazione di un neoliberismo più feroce e più potente, che sfrutta l’ambito del personale per cancellare in noi la consapevolezza della distruzione delle nostre risorse sociali, politiche ed economiche.

Se il femminismo vuole rimanere sostanziale, deve dunque conservare il proprio carattere di rottura, non perderlo, e deve continuare a mettere in discussione anche ciò che esiste oltre al personale.

FAMoLo PRIDE sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

famolonano

Condividiamo l’appuntamento di domani pomeriggio a Torino (e condividiamo in tutto e per tutto le questioni poste dall’appello!)
A domani!

FAMoLo PRIDE

Sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

“Essere legittimati/e dallo Stato significa entrare a far parte dei termini della legittimazione offerta e scoprire che la percezione di sé in quanto persona, pubblica e riconoscibile, dipende essenzialmente dal lessico di tale legittimazione”.
”Interrogarsi su chi desidera lo Stato, chi può desiderare ciò che lo Stato desidera e perché”
Judith Butler

Il Torino Pride del 2013, che si svolgerà sabato 8 giugno, ha come focus il tema delle famiglie: www.torinopride.it/index.php/documento-politico
Ma cos’è realmente una famiglia?
Se osservata nel tempo e nello spazio, chi la studia ci dice quanto sia difficile darne una definizione precisa: più semplice appare certamente l’analisi di come si faccia famiglia, piuttosto di quella sul cosa essa sia. A fronte di alcune caratteristiche più o meno indispensabili  -solidarietà, aiuto reciproco, sodalizio economico, affetto  (non sempre) sesso, ecc. -, le declinazioni appaiono molto varie: storicamente, geograficamente, culturalmente e socialmente definite.

Il movimento “gay” negli anni ’70 si rivelava quanto meno avverso alla famiglia, se non il suo ideale distruttore; oggi quello lgbttqi chiede forse un po’ troppo insistentemente di partecipare ad una visione specifica e normativa della stessa, “omologata” e “omologante”? La richiesta è forse quella di entrare a far parte di quei “privilegi” che una determinata forma affettivo/relazione ben definita (che parte dal duale, dalla coppia adulta), permette di raggiungere, rispetto alle altre?

L’insistenza della richiesta è certamente comprensibile alla luce di alcuni effetti pratici non facilmente negabili e tanto meno banalizzabili- spesso legati alla vita quotidiana- che un tale riconoscimento permetterebbe di raggiungere, ben espressi nel documento politico del Torino Pride 2013 e un po’ in tutte le piattaforme del movimento lgbttqi degli ultimi anni: riconoscimento bimbi/e per @ genitor@ non biologico, possibilità di adozioni, questioni ereditarie, diritto alla cura e vicinanza al/la partner, ecc.

Inoltre, come sostiene Anthony Giddens in merito all’analisi delle “relazione pura”, pensiamo che le coppie/famiglie non eterosessuali siano spesso portatrici i aspetti innovativi e di “democratizzazione” rispetto alla classica concezione patriarcale, ipocrita, illiberale e repressiva della famiglia d’ispirazione borghese: rispetto alla strutturazione dei ruoli in generale e di genere in particolare, del “riconoscimento” reciproco dei/lle componenti il nucleo, degli aspetti (auto)riflessivi, della comunicazione interna, della contrattazione (continua), della gratificazione relazionale, dell’educazione della prole, ecc.

E proprio a proposito di prole, segnaliamo come spesso l’opposizione “da destra” al matrimonio nasconda fobie legate alla filiazione e alle adozioni: preoccupazioni economiche legate al controllo della trasmissione dei patrimoni per via ereditaria, paura di mettere i discussione modelli di riproduzione ed educazione della “specie”, funzionali al mantenimento di prestabiliti ruoli di genere, ma anche della purezza di una “razza” e di una cultura.

Ma, pur in presenza di aspetti positivi inerenti il riconoscimento delle famiglie lgbttqi, restano certamente alcuni dubbi:

l’inclusione lgbttqi nell’istituzione del matrimonio traccia immediatamente una linea di esclusione di tutt@ coloro, lgbttqi e non, che invece non vogliono sposarsi, e di quelle pratiche sessuali che non vogliono farsi istituzionalizzare: cosa comporta questo per la comunità de@ non coniugat@, de@ single, dei divorziat@, di coloro che non sono interessat@ al matrimonio, di coloro che non sono monogam@? Che riduzione subirà la leggibilità della sfera sessuale una volta che il matrimonio venga considerato la norma?

quanto c’è di “conservatore” nell’accettare che certe garanzie di welfare passino solo attraverso il matrimonio?

In periodi di crisi e in assenza di politiche di welfare ad ampio raggio, infatti, la “famiglia” diviene l’ancora di salvezza e il sostituto delle mancanze “istituzionali”, della sottrazione di risorse economiche alle politiche di “solidarietà sociale”, su cui lo Stato fa strumentalmente appoggio. E, parallelamente, tali momenti difficili accrescono il bisogno di riconoscimento di ciò che non viene considerato famiglia, per “spartirsi” quel poco che rimane dei privilegi economici spettanti alle famiglie “normate”.

A noi interessa porre invece l’accento su un concetto allargato e non normativo di famiglia: pensiamo siano le relazioni umane ad ampio raggio a crearle (e non quelle più o meno definibili “di sangue”). Sottolineiamo l’importanza delle varie modalità che le persone si costruiscono per “stare in famiglia/e” (amicizie ed altre reti di relazione, ad esempio) e delle diverse forme di solidarietà che esulano dal concetto normativo di famiglia, e vorremmo valorizzare l’aspetto “familiare” che la modalità di “comunità”, in specie lgbttqi, in qualche modo sottende.

Fai come Dolce Remì

Unisciti alla nostra “comunità familiare” de@ “senza famiglia”

Famolo insieme, famolo strano, famolo pride!

Promuovono l’appello:

C.S.O.A. Gabrio
Federazione Anarchica Torinese
Laboratorio Sguardi sui Generis
Maurice lgbtq
Samba Band Torino
Collettivo Altereva
Network Antagonista Torinese
Rete Genitori Rainbow