Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice

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Negli ambienti militanti e non, si sta diffondendo la solidarietà e la partecipazione attiva alla campagna Genuino Clandestino, promossa dall’associazione Campi Aperti per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. La campagna si è nel tempo trasformata in una rete dalle maglie mobili di singol* e di comunità in divenire che, oltre alle sue iniziali rivendicazioni, propone alternative concrete al sistema capitalista vigente.

Andando a leggere il manifesto che è stato discusso nell’estate di quest’anno emergono dei punti assolutamente condivisibili, che però meritano di essere contestualizzati e analizzati per quello che in realtà comportano e per le contraddizioni che fanno emergere.

Leggi tutto “Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice”

Nu Project: la vera bellezza

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Traduzione di questo articolo a cura di Serbilla – Enjoy!

“La nudità femminile non è difficile da trovare nei mezzi di comunicazione di questi tempi: ma i corpi che vediamo normalmente rappresentano una gamma abbastanza limitata di forme e dimensioni.”

Corpi senza un grammo di grasso, proporzionati, atletici e la maggior parte dei quali ritoccati magicamente con Photoshop. Nu Project è una collezione di foto di nudo scattate dal fotografo Matt Blum, di Minneapolis, con il quale si vorrebbe aggiungere un po’ di varietà e perché no, il riconoscimento alla bellezza autentica al di là degli stereotipi e delle etichette.

AtHome049-2B7K0748 Blum ha dato vita al progetto nel 2005 lavorando assieme a sua moglie, Katy Kessler.

“Quando cominciai a fotografare nudi, non avevo in progetto questo. I lavori che ho visto usano modelli con misure ideali o standard che sembrano estremamente perfetti o imponenti. Pensai che doveva esserci un modo per catturare la bellezza di una donna reale (di qualsiasi forma e corporatura), che funzionasse da modello e fotografarle belle e rispettosamente.”

Le modelle di questo progetto sono tutte volontarie, nel sito web dello stesso si possono apprezzare gallerie di donne nordamericane così come sudamericane; sebbene il tipo di donna che ha fotografato è l’unione di distinti corpi ed etnie, Blum assicura che gli piacerebbe che più donne avessero il coraggio di partecipare e si spogliassero delle loro insicurezze.

Il fotografo spera che queste immagini ispirino le donne a sentirsi meglio con il loro corpo.
“E’ stato molto emozionante ascoltare le reazioni della gente di fronte alle immagini (…) Abbiamo ricevuto molti commenti di donne (soprattutto) che hanno lottato per vedersi come le bellezze che sono e questo progetto le ha aiutate in questo cammino”.

 

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

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Traduzione di questo articolo uscito sull’Huffington Post di Marco Reggio e feminoska, revisione di Eleonora.

N.B.: Nel testo in questione viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, sia nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Qualche giorno fa, ventiquattro intellettuali scuotevano l’opinione pubblica per far emergere finalmente una riflessione collettiva sullo status giuridico degli animali, considerati finora come delle “cose” dal Codice Civile francese.
In risposta a tale appello, Guy Birenbaum ha pubblicato una nota indignata: com’è possibile emozionarsi per la sorte degli animali mentre il paese versa in una così grave situazione? – ha spiegato Birenbaum in sostanza (sostanza che il “bilancio” da lui aggiunto in fondo alla nota, in fin dei conti, non riesce a mitigare). Non analizzerò qui il ricorso – probabilmente considerato spiritoso dall’autore – a prese in giro nei confronti delle/gli intellettuali e a metafore sessuali, per non dire sessiste (“anche se non sono un intellettuale, voglio che vengano protette le cagne a pelo lungo, i maiali e le pecorine “). Ciascun* potrà apprezzare o no… Io vorrei analizzare la sostanza.
La sostanza è la seguente: la sofferenza animale dovrebbe, pare, restare assolutamente inespressa. Ciò che sconvolge il signor Birenbaum, – e non è un caso isolato – non è il dolore che viene inflitto, ma il fatto che qualcuno abbia l’impudenza – o il cattivo gusto? – di evocarlo. Straordinario. Puo darsi che sia questo, d’altronde, il senso di quella legge americana approvata recentemente, che mira non a prevenire le torture nei confronti degli animali (quasi sistematicamente impunite nei fatti), ma a vietarne la… diffusione (e dunque la denuncia)! Straordinario. I social network sono la dimostrazione di questa impossibilità di evocare la questione: citare il dolore animale porta in modo quasi sistematico e istantaneo a una deviazione del dibattito verso esplicite prese in giro, verso la denigrazione dell’umanità del messaggio o la derisione in riferimento all’uso alimentare dell’animale in questione. Non è questa la sede per analizzare questo malessere le cui radici sono molto profonde. Che nessun carnivoro, o quasi, sia capace di guardare in faccia – e dunque di accettare – ciò che accade realmente ed effettivamente in un mattatoio è problematico in relazione alla coerenza delle nostre scelte di vita. Senza dubbio. Ma si tratta di un’altra questione.
Atteniamoci ai fatti: non è ragionevole sostenere che il nostro spazio mediatico sia invaso da manifesti riguardanti gli animali. Innegabilmente, la questione del loro status giuridico – di cui sarà facile mostrare la centralità dal punto di vista filosofico, etico e scientifico – non occupa affatto il dibattito! Ma i pochi secondi di eco mediatica che questo appello ha suscitato sono già troppi per Guy Birenbaum.
Tutte le sue argomentazioni, se così le vogliamo chiamare, poggiano sull’idea implicita che lo status giuridico attuale degli animali sia un’ovvietà. Un’ovvietà come potrebbero probabilmente esserlo anche le rappresentazioni della terra come piatta o dei neri come inferiori. Che potrebbero e che, senza dubbio, dovrebbero. Ma non voglio arrischiarmi a andare oltre, per rispetto di Guy Birenbaum. Il problema deriva interamente dal fatto che questa “ovvietà” è un errore scientifico. Lo studio dei comportamenti, così come quello dei neurotrasmettitori e della struttura cerebrale, mostra esattamente l’opposto. Questo non implica, in sé, che sia necessario cambiare comportamento nei confronti degli animali. Ma mostra, quantomeno, che se si continua a considerarli come delle “cose” o dei “beni”, bisogna farlo tenendo in grande considerazione le conseguenze logiche ed etiche di tale decisione.
Anche supponendo che la questione animale sia effettivamente secondaria, qual è il senso dell’avvertimento di Guy Birenbaum? Oggi ogni sei secondi un bambino muore di fame. Si tratta incontestabilmente di un abominio insopportabile. Ma dovremmo quindi dedurne che evocare ogni altra questione (poichè ognuna delle altre questioni può effettivamente essere considerata secondaria in rapporto a questa) sia indegno?
La reificazione di cui gli animali sono oggi vittime è di una violenza senza precedenti. Qual è dunque la logica – quella cui fa riferimento implicitamente ed energicamente la nota di Guy Birenbaum quando insiste sul tempismo disastroso – che permette di affermare che finché persiste il dolore umano, ogni altra preoccupazione che non lo riguardi direttamente non è accettabile? Un doppio errore sottende l’argomentazione: da un lato lascia intendere che prendersi cura degli uni (o, potremmo dire, massacrarli con meno violenza) implicherebbe trascurare le/gli altr*; dall’altro, presuppone che verrà un tempo in cui questa questione potrà finalmente essere affrontata, poiché i guai degli esseri umani saranno scomparsi. Queste due ipotesi sono inesatte. Se avessimo dovuto attendere che tutti i nostri mali fossero svaniti per preoccuparci d’arte, di sport o di fisica di base, non avremmo mai iniziato ed evidentemente non inizieremmo mai!
È straordinario come, quand’anche il destino degli animali risultasse perfettamente indifferente a Guy Birenbaum, costui non consideri l’idea che l’empatia verso gli uni si accompagni quasi strutturalmente a empatia verso le/gli altr*. Naturalmente alcuni contro-esempi vengono in mente (no, non Hitler, che come ormai sappiamo probabilmente non era nemmeno vegetariano) ma la questione dello status giuridico degli animali e il riconoscimento giuridico della loro capacità di soffrire – che la scienza ha oggi confermato senza lasciar spazio a dubbi – non può non riecheggiare la nostra indifferenza verso altre sofferenze umane. Queste questioni non sono opposte, anzi. Se la parola “comunità” ha ancora un significato oggi, è certamente quello di “comunità dei viventi”.
Così poco, pochi secondi alla radio, tra i risultati di calcio e il meteo, per accennare l’articolata questione dello status giuridico degli animali che oggi subiscono un trattamento che mai ha avuto precedenti nella storia, è quindi già troppo…
Guy Birenbaum non ci ha risparmiato nulla. Né la presa in giro nei confronti delle/gli intellettuali (di second’ordine, suppongo…), né i luoghi comuni più triti riguardo alla questione animale (fino alla scelta della fotografia e della didascalia), né l’eterno ritornello trito e ritrito: gli esseri umani soffrono, è dunque indegno (o meglio indecente) preoccuparsi – fosse anche solo per qualche istante – degli animali. La più ridicola delle preoccupazioni o informazioni umane (e ne abbiamo già in abbondanza!) sarebbe dunque più degna e decente di una discussione, così breve, sullo status giuridico degli animali. Straordinario. Questo anche se i progressi dell’etologia e della biologia – l’unica cosa che Guy Birenbaum non contesta, perché non può farlo – hanno dimostrato che le loro sofferenze e i loro dolori sono, nella maggior parte dei casi, del tutto paragonabili ai nostri. E lascio peraltro in sospeso una questione fondamentale: anche se fossero diversi dai nostri, questo cambierebbe la loro realtà, perdendone quindi in legittimità? Fino a che punto possiamo spingerci con questo criterio pericoloso della somiglianza come criterio di dignità?
Io ho alcune riserve, che ho esplicitato in altri contesti, su alcune delle opere filosofiche di alcuni delle/dei firmatari* di questo appello. Ma, data la reazione di Guy Birenbaum, è chiaro che passano più che in secondo piano. La sua reazione non è nemmeno insolita visto che molti dei media più importanti hanno ritenuto di dover trasmettere l’informazione come se si trattasse quasi di una… burla.
Il manifesto pubblicato – come ci si poteva aspettare e probabilmente come era necessario – era più che prudente. Non abbatteva alcun tabù. Chiedeva il minimo indispensabile: la presa in carico dell’evidenza dei fatti, vale a dire lo status giuridico degli animali come “esseri senzienti”. Ma era già troppo per Guy Birenbaum. Così “troppo” da mostrarsi visibilmente offeso e decidere di rendere pubblica la sua rabbia.
No! Questo “niente”, questo appello che sarà probabilmente dimenticato nel giro di pochi giorni, questa aspirazione a cominciare a considerare possibile porre un freno all’infinito, incondizionato e inalienabile diritto di infliggere agli animali una sofferenza illimitata e deregolamentata , io non trovo affatto che fosse troppo. E anzi quell’impegno – siatene certo, signor Birenbaum – non mi impedirà di continuare a sostenere i diritti dei rom e degli irregolari, per citare solo alcuni dei “temi caldi” attuali e nazionali. Conoscere la sofferenza degli animali non mi fa amare meno gli umani. È anzi l’esatto contrario. Queste lotte non sono in contrasto tra loro. Non avrebbe alcuna ragion d’essere, se non quella di decidere – arbitrariamente – di renderle reciprocamente esclusive.
Lascio a Kundera il compito di concludere: “La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità (quella più radicale, che si situa ad un livello così profondo da sfuggire al nostro sguardo) è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. Ed è qui che giace il fallimento fondamentale dell’umanità, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.”

Ma forse già si trattava di un intellettuale folle? Uno in più, uno… di troppo?

Nancy Fraser, you lose!

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Ovvero, perché Nancy Fraser ha toppato alla grande e la responsabilità degli ‘intellettuali’ nella divulgazione delle idee.

Nei giorni scorsi abbiamo partecipato con interesse al dibattito scatenatosi a seguito della traduzione dell’articolo di Nancy Fraser dal titolo COME IL FEMMINISMO DIVENNE ANCELLA DEL CAPITALISMO – E COME RISCATTARLO.

Essendo particolarmente interessat* – e sentendoci in qualche modo parte,con tutti i limiti del caso, in quanto bianch* occidental* – a femminismi altri rispetto a quello descritto nell’articolo, è venuto spontaneo sottolineare gli errori di prospettiva e soprattutto le lacune e omissioni che l’articolo in questione mostrava… Questo ha avuto diversi effetti, tra i quali quello di vederci posta una domanda assolutamente fuori luogo, ma interessante come esempio di ‘reazione difensiva’ che ha la potenzialità di ‘porre il veto’ alle critiche costruttive.

La domanda è la seguente: “Gli intellettuali, o i pensatori, di turno, hanno diritto di parlare?”
Domanda alla quale, di primo acchito e senza troppo riflettere, ho risposto: “Certo che sì, ma prendendosi la responsabilità delle proprie parole (dato che purtroppo in una società verticale quelle parole hanno un certo peso) e tenendo comunque conto di avere un approccio situato e per molti versi privilegiato, in nessun modo ‘super partes’”.

In un secondo momento però, mi sono accorta di essere caduta in una trappola doppiamente infida: prima di tutto perché il “diritto di parlare degli intellettuali” non solo non è mai stato in discussione, ma anzi ha sempre avuto un peso e una valenza assai più grande di quello dei “comuni mortali” – ed anche maggiori possibilità di essere ascoltato e divulgato dai mass-media in generale. Anche in conseguenza di questa realtà, dagli ‘intellettuali’ mi aspetto, proprio in virtù della loro posizione, un approfondimento e una prospettiva assai più articolata (e forse questo caso esemplifica come questa “aspettativa” sia una presunzione infondata).

E invece, il privilegio di molti intellettuali di poter parlare di più e in maniera più visibile (o meglio, ascoltabile) dei ‘comuni mortali’ non sempre è così meritato: già solo il rendersi conto di far parte di una casta dovrebbe essere messo in discussione dagli stessi intellettuali, e questo raramente avviene. Inoltre, mentre si lavora su questo aspetto del privilegio, capire come utilizzare in maniera responsabile questo vantaggio sarebbe il minimo che ci si possa aspettare da loro.

La mia contro-domanda è un’altra: “posso io comune mortale – benché dotata di intelletto e perciò in qualche modo ‘intellettuale’ pure io, seppure senza stellette di merito nell’Accademia – criticare il verbo dell’intellettuale, senza sentirmi rimessa “al mio posto”, senza venire accusata di “invidia” (apertamente o tramite allusioni più o meno evidenti)? Altrimenti si entra in un loop nel quale, se voglio esprimere una ragionevole critica in merito alle parole del “sommo” di turno, devo aspettare che un altro, riconoscibile come pari rango, si esprima in merito.

A questo proposito, mi è stata segnalata la traduzione di un contro-articolo dal titolo La sindrome del fardello della femminista bianca di Brenna Bhandar, che sostanzialmente sostiene le stesse cose che abbiamo notato io e altr* del collettivo Intersezioni in merito all’articolo della Fraser. Per carità, bell’approfondimento, e siamo content* di sapere che non abbiamo vaneggiato, ma perché dobbiamo legittimare il nostro pensiero sempre e solo attraverso chi ha maggiore credito in virtù di ‘stellette accademiche’ o di visibilità?

La nostra critica è semplice ma puntuale: la Fraser ha toppato alla grande!

Sarebbe bastato aggiungere al titolo di quell’articolo una parola, ad esempio: “come CERTO femminismo divenne l’ancella del capitalismo… ecc.ecc.” E sforzarsi di inserire anche un solo paragrafo sui femminismi altri (magari facendo qualche nome, e aggiungendo qualche link ad esperienze di grande valore e ingiustamente ignorate), per dare un taglio tutto diverso al pezzo.
Ma invece no, il focus resta su quel certo femminismo che da sempre, invisibilizzando tutti gli altri, si è arrogato il diritto di essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone come il ‘Femminismo’ tout court.

Fraser si rende colpevole anche di appropriazione nel momento in cui, da femminista bianca e accademica, ripete critiche al femminismo bianco e interclassista (anche se lo addita solo in quanto interclassista senza riconoscerne la bianchezza) già note e popolari presso altri femminismi (quelli di bell hooks, Angela Davis, Patricia Hill Collins, Gayatri Spivak e Gloria Anzaldúa, per dire), senza citare neanche *una* personalità di questi femminismi… Questo è colonialismo. Che i bianchi si approprino del duro lavoro – intellettuale e non – delle persone di colore* è storia. E la storia si ripete: quando le stesse cose le dice la femminista di colore non se la fila nessuno e rimane ai margini, se lo dice Fraser viene acclamata – e tra l’altro malinterpretata da alcun* e utilizzata, in parte, come ‘l’utile idiota’ per delegittimare i femminismi in toto, anche se lei parla di riappropriazione.

Da questo punto di vista l’articolo è davvero pessimo, ma pare dar credito alla regola del ‘bene o male, l’importante è che se ne parli’. E infatti la Fraser solo di quel femminismo parla, degli altri femminismi non fa nemmeno il nome, e questo fatto è casomai ancora più grave se consideriamo che, come intellettuale, le sue parole hanno un potere di gran lunga superiore a quello di tant* di far penetrare concetti ed esperienze altre all’interno del dibattito mainstream. Cosa altro potremmo aggiungere per far capire ai nostri interlocutori quale grande occasione si sia – di nuovo – persa?

Conosco uno stupratore

ph Bernard Plossu – 1970/1974
ph Bernard Plossu – 1970/1974

Mentre cercavo notizie sullo stupro della sedicenne violentata dagli ‘amici’, durante una festa, ho scoperto il tumblr Je connais un violeur [Conosco uno stupratore].
Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.

Come si legge nell’about del tumblr:

L’immagine dello stupratore psicopatico che vive ai margini della società, è un mito che riguarda solo una piccola minoranza di loro. Nel 67% dei casi, la violenza ha avuto luogo presso la casa della vittima o del carnefice, che è un amico o una persona cara. Nel 80% dei casi, l’autore dello stupro era noto alla vittima. Uno stupro su 3 è commesso dal marito o dal partner abituale.

Quanto alle “false accuse” di cui sentiamo parlare quando si tratta di uno stupro, le statistiche parlano chiaro: sono estremamente rare. Al contrario, solo uno stupro su 10 è riferito alla polizia e il 97% degli stupratori non sconta nemmeno un giorno in carcere.

Erano i nostri amici, i nostri partner, i nostri familiari o membri della nostra cerchia di conoscenti. Conosciamo degli stupratori: permetteteci di mostraveli.

I racconti delle vittime vengono resi in forma anonima da Pauline, 27 anni, attivista femminista, ex studentessa di Scienze Politiche.

Autori degli stupri sono padri, fratelli, amici, amanti, cugini, zii. Uomini appartenenti a tutti i ceti sociali. Solo in pochi casi conoscenti o estranei. Attraverso i racconti si percepisce la vergogna, la paura e il senso di colpa generati dallo stupro nelle vittime. Secondo la psichiatra Muriel Salmona, che figura tra i link del blog stesso, la condivisione di queste storie è terapeutica in sé, perché dà alle vittime la sensazione di non essere sole nella difficoltà di comunicare ciò che è loro accaduto, anche a distanza di anni e nell’incredulità di chi le circonda[1].

Se uscire di casa è ritenuto pericoloso, lo è anche restarci, allora tanto vale andare fuori a reclamare il diritto ad essere in ogni posto, in ogni momento.

 


[1] Le Point.fr, Je connais un violeur : C’est mon père, mon mari, mon oncle…, «http://www.lepoint.fr», 29/09/2013 ore 09:45.

 

Eid-ul-Adha

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Domani, 15 ottobre 2013, sarà Eid-ul-Adha, ovvero la Festa del Sacrificio.

Nel corso di una delle più sentite celebrazioni musulmane – che rappresenta la commemorazione della disponibilità del profeta Abramo a sacrificare il proprio figlio a Dio – avverrà in tutto il mondo, Italia compresa, un cruento massacro di massa di animali (pienamente coscienti) per dissanguamento, tramite giugulazione.

Trovo assai difficile e pericoloso parlare di questo argomento, poiché si tratta di un tema capace di fomentare l’intolleranza e l’odio di molte persone, che piegano e strumentalizzano le tematiche antispeciste in chiave razzista. Da una breve ricerca in rete, ho scoperto dell’esistenza di diversi blog/siti di musulmani vegani per i diritti animali, sui quali l’argomento dei sacrifici rituali animali è assai dibattuto e in maniera decisamente critica.

Da un articolo intitolato Musulmani, per favore risparmiate gli animali in occasione di questo Eid, di Bina Ahmad e Farah Akbar:

“Il primo incontro di molti musulmani di tutto il mondo con gli animali avviene in occasione delle celebrazioni di una gioiosa festa religiosa – Eid-ul-Azha. In molti paesi musulmani, le famiglie acquistano una capra, mucca, o altro animale domestico dai mercati di animali, settimane prima della festa. In alcune culture, i membri della famiglia decorano con delicatezza l’animale con corone di fiori, perline variopinte e colori. Spesso i bambini si affezionano a queste creature, per via della naturale affinità che i bambini sentono per gli animali. Ciononostante, il giorno dell’ Eid-ul-Azha, giunge per i bambini la traumatica e straziante esperienza di assistere alla macellazione dell’animale a cui si sono affezionati, ucciso pienamente cosciente tramite l’utilizzo di un coltello affilato. E in molti casi, l’uccisione avviene proprio all’interno delle mura domestiche.”

Il sacrificio non è obbligatorio secondo il Corano, ma fa parte di quelle consuetudini che vengono male interpretate come legge. Il testo scritto recita:

“Le loro carni e il loro sangue non giungono ad Allah, vi giunge invece la vostra devozione”(Quran 2:196 ; 2:28 . 35-37)

Syed Rizvi, fisico e fondatore della associazione “Engineers and scientists for Animal Rights”, scrive in proposito:

“Ancora una volta, i musulmani di tutto il mondo hanno “sacrificato” milioni di animali (circa 100 milioni ogni anno, n.d.t.) nel corso di tre giorni durante il mese di Eid-ul-Adha, per onorare Dio.
Eppure sacrificarsi significa, in senso stretto, rinunciare a qualcosa di molto caro, e provare quindi una certa dose di sofferenza nel farlo. Abramo era pronto a sacrificare il figlio, che amava molto e a cui era molto legato.
Questo atto di Abramo rappresenta il vero spirito del sacrificio.

Se io oggi sacrificassi un vecchio divano per una causa più alta, sicuramente verrei deriso, perché un vecchio divano non significa nulla per me. Ma questo mio atto ipotetico non è molto diverso da quello di qualcuno che sgozza una capra per onorare Dio e lo chiama sacrificio, dal momento che la persona non prova alcun attaccamento all’animale se non per i pochi soldi che ha pagato e che sono in fretta dimenticati.
Mi domando se è questo quello che Dio immaginava quando ci ha chiesto di seguire le orme di Abramo e della sua devozione a Dio. Quello che avviene oggi per le strade di Karachi durante l’Eid-ul Adha è una presa in giro della devozione di Abramo per Dio. Va oltre alla mia comprensione come il nostro Dio, che dipingiamo come compassionevole e pietoso, provi piacere nel vedere un cammello indifeso, legato a terra per una delle zampe anteriori e con quelle posteriori legate assieme così strettamente da non poterle muovere, le mascelle legate così strette da non poter emettere alcun suono, e una persona dall’aspetto caritatevole infilare un coltello nella gola del cammello. Il cammello sanguina per decine di minuti, in un’agonia lunga e dolorosa fino alla morte.”
Qui, qui e qui alcuni esempi.

L’articolo prosegue sottolineando come l’argomento della necessità del sacrificio animale sia attualmente molto dibattuto dagli studiosi musulmani, e termina affermando lapidariamente che:
“Quello che succede per le strade di Karachi nei tre giorni della festa dimostra come il ‘sacrificio’ si sia trasformato in un’orgia di sangue che si sottrae a qualsiasi norma di decenza umana.”

 

Attivismo e rappresentazioni della violenza

Usare o non usare certe immagini, questo è il problema!

Nell’ambito dell’attivismo femminista e antispecista esistono diverse scuole di pensiero a riguardo: c’è chi sostiene che l’uso di immagini forti sia controproducente, in quanto indurrebbe una reazione di rifiuto in chi osserva – con il risultato di rendere la comunicazione inefficace – chi invece sostiene che sia l’unico modo per mettere le persone di fronte a realtà che vengono loro celate o preferiscono non conoscere.

Comunicare la violenza visivamente non è mai facile: prima di tutto perché viviamo ormai bombardati di immagini, spesso violente, reali o artefatte. Inoltre il risultato non sarà mai completamente prevedibile… quello che noi troviamo efficace può scatenare reazioni di disgusto in alcun*, cinismo e disinteresse in altr*.

Eppure, la violenza va in qualche modo documentata o rappresentata, perché spessissimo agisce nell’ombra in modo tale che nessun* possa testimoniarla e/o intervenire per evitarla, e non c’è dubbio che un immagine efficace colpisca la nostra immaginazione più di mille parole.

In questi giorni mi è capitato di vedere due diversi tipi di immagini relative a rappresentazioni di violenza sugli animali non umani,  e sinceramente non so quale delle due sia più efficace nel veicolare il proprio messaggio, ma vale la pena spenderci sopra qualche parola.

La prima immagine è questa:

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In essa si vuole rappresentare la violenza che subiscono le cosidette ‘ mucche da latte’, le quali, ingravidate artificialmente (potremmo definirle anche come  vittime di stupro interspecifico, visto che colui che agisce l’inseminazione è solitamente un animale umano di sesso maschile) al momento del parto vedono il proprio vitello strappato alle loro cure, poiché il latte che producono deve chiaramente essere destinato al consumo umano. Questo momento straziante, nel quale la mucca e il suo vitello muggiscono disperatamente per tentare vanamente di ricongiungersi, avviene in luoghi distanti dai nostri occhi (e dal nostro cuore), e si ripete diverse volte nella vita di una mucca, fintantoché può produrre ancora una quantità di latte sufficiente… come è scontato, appena non più produttiva, viene mandata prontamente al macello.

Che senso ha, qualcun* chiede, utilizzare un’immagine di donna che ha appena partorito a cui viene strappato via il proprio bambino e che sta per subire lo stesso destino delle mucche, per veicolare quel contenuto? Dal mio punto di vista immagini come queste hanno un loro senso. Prima di tutto, perché spesso le persone non vogliono affrontare la realtà della violenza (sugli animali o sulle persone, poco importa), e più ancora, la realtà della propria complicità e accettazione passiva rispetto a molte pratiche violente e di abuso di potere.

Inoltre, lo specismo nel quale siamo immersi fin da bambini, ci desensibilizza efficacemente nei confronti della sofferenza animale: mille volte capita di trovarsi di fronte alla completa inconsapevolezza e incapacità di lettura – quando non completa indifferenza – della sofferenza di un animale da parte delle persone…

Da questo punto di vista, l’immagine in questione di sicuro cattura l’attenzione, e ristabilisce la connessione tra la sofferenza degli animali umani e quelli non umani. Quest’immagine dice:

“Se non sei capace di leggere la sofferenza negli occhi e nei gesti di una mucca, riesci a leggerli in quelli di un’appartenente alla tua specie? Riesci a stabilire una connessione?” L’unico dubbio che ho rispetto all’efficacia di questa immagine, e delle immagini simili a questa, risiede nel fatto che lo specismo è potente e pervasivo, e sebbene sicuramente esistono molte persone inconsapevoli dello sfruttamento estremo e brutale subito dagli animali non umani, molte altre semplicemente se ne fregano. Lo specismo è una forma di esercizio del dominio che ci viene inculcata fin dalla più tenera età come ‘naturale’, pertanto la maggior parte delle persone è incapace di vedersi per ciò che veramente è, qualcun* che con ogni giorno rinforza l’uso e l’abuso e la distruzione non necessaria ma consuetudinaria di vite animali assolutamente a noi corrispondenti in termini di emotività, sensibilità, e desiderio di felicità.

La seconda immagine è relativa ad un’opera che circola da ieri nelle strade del Meatpacking district (non a caso!) a NY… si intitola the Sirens of the Lambs, ed è realizzata da Banksy, nell’ambito del suo nuovo progetto di street art “Better out than in”.

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Un camion per il trasporto animali – verso il macello – pieno all’inverosimile di pupazzetti di animali  -molti tipici animali da carne, ma tra essi c’è pure un panda – animati, che con i loro versi attirano l’attenzione dei passanti e sembrano chiedere aiuto. In un audio guida dedicata all’opera, presente sul sito dell’artista, si danno due diverse letture della stessa: una chiaramente riferita alla rappresentazione della realtà di violenza dell’industria zootecnica, l’altra alla perdita dell’innocenza che subiamo crescendo in questa società (impossibile non pensare ai bambin* quando vediamo i peluche).

Personalmente mi fa anche pensare alla costante desensibilizzazione che subiscono i bambini, i quali sono tipicamente molto empatici di fronte agli animali (e alle loro sofferenze), mentre crescendo perdono questo ‘dono’ e spesso in età adulta non riescono più a riacquistarlo.

Questa immagine è disturbante, bizzarra, ma non traumatica, comunque meno truculenta della prima: sarà comunque efficace nel veicolare la sofferenza reale degli animali? O forse l’effetto complessivo risulta troppo paradossale per indurre alla riflessione, quantomeno un pubblico adulto?

A giudicare dalle reazioni di fuga e disperazione di alcuni dei bambin* presenti nel video, è probabile che nel loro caso il collegamento funzioni: ma quale sarà la reazione degli adulti, riflessione o ridicolizzazione?

La questione rimane aperta.

Vedi il video di The sirens of the lambs su youtube

 

RU486, storie di ordinaria follia!

Volentieri condividiamo il resoconto fatto da Guerriera (grazie!) sulla sua esperienza in merito all’accesso alla RU846, sperando che la tenacia con la quale è riuscita a tenere testa ad una situazione allucinante possa infondere coraggio e determinazione a tutte quelle donne che dovessero trovarsi nella stessa situazione… ecco perché è più che mai necessario continuare a lottare! Buona lettura!

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RU846, storie (sur)reali!

Sono nel mondo arabo, ho appena scoperto di essere incinta. Cazzo, potevo fare più attenzione… nel senso, avevo un dubbio prima di partire ma mi sono detta: “Ok, sarà lo stress pre-partenza.. eppoi, ti pare che capita proprio a me e proprio in questo momento?”
Sono dall’altra parte del mondo, ma non facciamoci prendere dal panico. Faccio le analisi, confermato il risultato positivo del test. Mentre cerco di prenotare un volo il più presto possibile, inizio a spulciare i siti sull’argomento e ad avvisare le mie amiche a Roma e Bologna… perché l’obiettivo è uno: RU846!
Panico! Sui siti le informazioni sono tantissime e diversissime. Ognun* pare la pensi a proprio modo. Le informazioni raccolte dalle amiche confermano il delirio di info che non coincidono e si contraddicono.
Contatto Vita di donna, associazione di supporto alle donne, di Roma, sono super disponibili: le ricontatto appena atterrata.

08/10
Devo recarmi al San Camillo alle 6,30 del mattino, all’ambulatorio apposito per la questione, in un sottoscala del reparto di ginecologia. Prendo il treno da Termini per stazione Trastevere, ma sono stanca e super confusa. Sbaglio treno e mi ritrovo a Zagarolo, merda! Arrivo al San Camillo alle 10. Parlo con una infermiera ed una ginecologa, niente da fare, devo tornare il giorno successivo alle 6,30, così da fare l’ecografia e vedere se sono ancora in tempo. Ma non mi fido molto! Il San Camillo è uno dei pochi ospedali a dare la pillola (dubbio rimane su Ostia, dove al telefono sono stati veramente poco disponibili… quando si sono degnati di rispondere, ossia dopo 3 giorni di tentativi). La ginecologa mi dice che comunque prima del 16 non può inserirmi… stiamo parlando della RU846 per la quale il massimo previsto dalla legge è 49 giorni dopo il primo giorno dell’ultimo ciclo, o di un parrucchiere super alla moda? P.s. (non fidatevi di questo conteggio.. 49 giorni dal primo giorno di ultimo ciclo nel caso di ciclo super regolare… la gestazione può infatti cominciare dopo… per cui fate un’ecografia, potete scoprire di essere ancora in tempo nonostante i vostri calcoli sfavorevoli). Chiamo l’ospedale Maggiore di Bologna… al massimo, se dall’ecografia risulterò essere ancora in tempo, prendo il primo treno e me ne vado al Nord. Da Bologna mi avvertono che è necessario il Certificato legale per l’interruzione volontaria (che invece non è necessario a Roma) rilasciato o dal medico di famiglia (il mio è obiettore… ovviamente… strascichi d’infanzia!) o dai consultori familiari. Chiamo il consultorio di Garbatella, domani mattina, dopo l’ecografia al San Camillo, volo da loro per il certificato.

09/10
Arrivo al San Camillo alle 6h30. Scopro che l’ambulatorio apre alle 8. Fanno andare prima le ragazze perché così appena aprono consegnano le carte per chi è lì per la prima volta; se sei assente in questa distribuzione che avviene dalle 8 alle 8h15… sei fuori! Ok, metodo di merda, ma è comunque un metodo. Ma l’ambulatorio è chiuso per davvero… nel senso che siamo 7 ragazze, fuori, sotto la pioggia ad aspettare l’apertura delle porte di vetro oltre le quali si vede già tutta la gente all’interno. E mi sembriamo ree, lì in attesa di estirpare una colpa. Aprono le porte e mi infilo in questa catena di montaggio… stanza 1 consegna primo foglio, stanza 2 consegna altri documenti, stanza per ecografia e la tipa che grida: “Sei fuori!”
Ok, adesso sono in una partita di baseball.
“Scusi, cazzo vuol dire che sono fuori?”
“Che non ce la fai a prendere la pillola”
“Ok, lei però si limiti a dirmi se potenzialmente sarei in tempo”
“Ma le ho detto che non ce la fa, qui abbiamo le liste d’attesa, la infilo nella prassi del chirurgico”
“Senta, mi dia la diagnosi delle settimane di gestazione, che provo altrove”
“Lei è a 6 settimane + 1 giorno, avrebbe 6 giorni ancora, ma qui non è possibile e non pensi di poter trovare una struttura che le riservi un trattamento migliore”
“Mi dia l’ecografia e stia zitta”
“Non si può, è un documento privato”
“La MIA ecografia è un SUO documento privato?”
Finisco nella prassi di “quella che se ne vuole andare” come gridava quella deficiente di infermiera per il corridoio alle sue colleghe. Non tutte sono così idiote, ad alcune spiego le mie intenzioni, capiscono, mi appoggiano e mi fotocopiano in segreto l’ecografia con le settimane di gestazione.
Secondo step: consultorio della Garbatella per il certificato legale e poi Bologna.
“Mi spiace, non c’è la ginecologa oggi”
“Ma come, avevo chiamato ieri, avevo detto per cosa dovevo passare…” Vabbè, si fanno perdonare in fretta… sono due angeli e mi aiutano tantissimo. Le loro informazioni sono completamente scorrette; il San Camillo stesso ha fatto circolare un documento in cui il limite previsto per la RU846 è di 5 settimane + 5 giorni; sto 10 minuti a spiegare alle infermiere che non è così. Chiamano il San Camillo per conferma. Ovviamente, ho ragione io! Chiamano ogni consultorio di Roma per sapere se c’è un ginecologo o una ginecologa disponibili… Nessuno… in tutta Roma, pare che i ginecolog* siano tutt* in aggiornamento/conferenza/vacanza/cazzo ne so! E non solo non ci sono ginecolog* disponibili, ma ovviamente ogni infermiera ha diverse indicazioni sulle procedure per cui ogni volta è un combattere per far valere la nostra versione e non la loro! Trovata una… che a quanto dicono le infermiere è anche la coordinatrice di tutto il settore ginecologico di Roma: ‘sta beneamata sostiene che il certificato fatto a Roma non abbia valore in Emilia Romagna… e meno male che sei la responsabile di ‘sta cippa, ignorante!
[comunque, prima di arrivare al consultorio della Garbatella, da casa, ho chiamato io stessa vari altri consultori; a Roma funziona che in base a dove abiti ti devi rivolgere al consultorio della tua circoscrizione, per cui avevo una serie di indirizzi falsi, (domicilio) da dare in base al consultorio che chiamavo… cacchio me ne frega!… annotazione: uno dei peggiori che ho trovato è il consultorio spenser, della circoscrizione della Prenestina: loro risposta “Possiamo farti venire non prima del 17 per farti parlare con l’assistenza sociale e il 18 con la ginecologa”… e il 19 con quello stronzo di tuo fratello!!! ]
Quando non ci credevo più neanche io, troviamo la dott. Maiocchetti. Fantastica… dice di correre da lei. Si tratta del consultorio di Via Silone 100, 3 ponte (metro Laurentina, bus 776); ho un’ora e mezza di tempo prima che chiuda. CORRO! Arrivo, compilo le carte, mi firma il certificato segnando la postilla urgenza… e non “La invitiamo a pensarci 7 giorni” ; scambiamo due chiacchiere… ci lamentiamo entrambe di questo trattamento riservato alle donne, è uno schifo… nella Asl non sono autorizzate a dare la RU846 ma possono fare l’ IGV chirurgico… incredibile! Dobbiamo lottare, dice lei, sì cara dottora, dobbiamo lottare!
[altro post: all’ospedale di Sant’Andrea, sono stata 15 minuti a spiegare la differenza alla tipa con cui ho parlato tra una ‘pillola del giorno dopo’ che si dà al Pronto soccorso in codice bianco e la RU846!!!]
L’infermiere della Garbatella aveva anche richiamato l’ospedale di Bologna, per avere conferma del fatto che se fossi stata presente il giorno dopo, mi avrebbe subito inserito nella pratica dell’IVG farmacologica. Dicono di sì, ma che devo assolutamente essere alle 8 del mattino al centro d’analisi in Via Marconi 35 e poi da lì sarei stata trasferita al Maggiore.
Prendo il primo treno… merda quanto costa! Arrivo a Bologna la sera… sono stanchissima!

10/10
Ospedale Maggiore, dai sono al Nord, saranno stereotipi, ma mi sento già più al sicuro. Arrivo a via Marconi… il numero 35 non esiste! Chiamo l’ospedale.
“Senta, io non ho segnato il suo nome, ma lei ieri con chi ha parlato? Perché è al Marconi, che c’entra?”
“Ma come con chi ho parlato? Voi avete il telefono in mezzo alla strada e chiunque passa può rispondere scusi?”
“Io qui sono la responsabile e le dico che non deve far nulla di quello che ‘non so chi’ le ha detto di fare. Ora la segno, venga qui all’ospedale alle 10h30”
Ok, sono in ospedale… aspetto… aspetto… la ginecologa non c’è… le infermiere non la trovano. Ne cercano un’altra… una certa Adelaide. Dopo 4 ore d’attesa, mi fa entrare mi fa un’altra ecografia. 6+4. Ma come 6+4… ieri era 6+1!
“Lo so, ma ogni macchinario ha la sua sensibilità e dato che devo essere io a firmare l’autorizzazione io faccio riferimento ai miei macchinari”
“La sensibilità dei macchinari?? La mia vita è nella mani della sensibilità di un macchinario? Senta, io sono venuta apposta da Roma perché mi era stato garantito che ce l’avrei fatta qui”
“Se fosse stata a 6+1 ce l’avrebbe fatta ma oggi non si può fare, giovedì non le facciamo (????) e poi c’è il week-end (??????) e quindi salta a lunedì e lei non è più in tempo. Vada a prendere l’appuntamento per il chirurgico”
Inizio a sospettare che prendano soldi per ogni chirurgico che fanno! Nel frattempo sento ridere le infermiere di me e del mio esser venuta da Roma. Che faccio, entro e spacco tutto? No, non ti preoccupare, ci penserà il karma, tu continua per la tua strada! Mi prenoto l’appuntamento per il chirurgico, non si sa mai. Nel frattempo però, qualche giorno prima, avevo chiamato Lamezia (unico ospedale della Calabria a fornire il servizio), mi avevano risposto di richiamare oggi. La dottoressa sembra super gentile, mi dice di correre lì, non c’è alcun problema. Vabbè, tutte così hanno detto, poi qualcosa succede sempre. Prenoto un aereo, tanto sono così stanca e poco fiduciosa che male che va, e male andrà, torno a Cosenza, a casa mia a far finta per qualche giorno che sia stato solo un incubo. Arrivo a Lamezia a mezzanotte, vado in albergo, la mattina dopo sono in ospedale.
Finisco subito nel sistema della RU846 senza accorgermene (Fantastica dottora Ermio!)… analisi, nuova ecografia, ordinato ricovero e mi ritrovo con la pillola in mano.

Conclusioni:

1. Il primo che mi dice che gli ospedali funzionano meglio al nord che al sud, lo meno!
2. Dicono che i vari impedimenti siano finalizzati a far riflettere la donna su quello che sta per fare… ma a me è capitato tutto il contrario. Non ho avuto un attimo di pausa e sono arrivata a prendere ‘ste pillole, come l’acqua di un fiume arriva alla foce del mare… senza alcuna consapevolezza. Ma la consapevolezza è tempo e del tempo, noi donne siamo state private!

Qui, in ospedale a Lamezia, ci sono statue di Madonne dappertutto, c’è la cappella… penso non sia proprio legale tutto ciò. Sono circondata da donne incinta ma l’unico mio pensiero è che sono stanca… davvero stanca!
Alcuni consigli per finire : non delegate! Per quanto le vostre amiche e i vostri amici vi vogliano bene, non avranno mai la cura che avrete voi nel raccogliere le info. Ed in più, la colpa non sarà loro, ma di questo mare di informazioni contrastanti sull’argomento (non hanno le idee chiare quelle che lavorano nel campo, figuriamoci le vostre amiche). In mille vi diranno frasi inutili del tipo : “Ma perché non sei andata a Firenze, ma perché non sei andata al Sant’Orsola?” Non date retta… ogni scelta che prendete è un rischio che può costarvi caro, per cui le possibilità sembrano infinite (ed in realtà sono veramente limitate). Fidatevi delle info che voi stesse avete recepito e ovviamente del vostro istinto! Non date retta soprattutto a chi vi dice le solite frasi del cavolo “Dovevi fare attenzione” oppure “Ma scusa, non hai usato precauzioni?” sono persone che forse si accorgeranno di quanto fuori luogo fossero in quel momento, ma voi non avete tempo da perdere, avete cose più importanti a cui pensare!

Non vi arrendete al primo o alla prima che vi dice che non siete in tempo. La legge è 49 giorni (nel senso che entro il 49esimo bisogna prendere la prima pillola), tentate tentate tentate!

Per chi vi ostacolerà non v’è differenza tra il chirurgico e il farmacologico… tanto il corpo è vostro, che gli frega a loro! Invece il vostro corpo è importante e va trattato con riguardo! Penso a chi ha un lavoro o a chi non ha i soldi per affrontare gli spostamenti che ho dovuto affrontare io! Penso a chi non ha la forza d’animo per combattere sola contro questo sistema… o a chi semplicemente avrebbe bisogno di tempo e pace per prendere questa decisione.

Penso a tutte voi e la mia rabbia diviene infinita!

Consigli musicali militanti tematici: BDSM!

Depeche Mode – Master and Servant

Domination’s the name of the game / In bed or in life / They’re both just the same / Except in one you’re fulfilled / At the end of the day. Eh già: perché almeno nel BDSM c’è piacere, e  soprattutto, consenso. Sfido chiunque a trovare un capo che chieda il permesso di comandare a bacchetta (comunque i Depeche Mode da giovani erano proprio bòni).

Ratje – Buttplug in the window

How much is that buttplug in the window? / The one with the waggely tail / How much is that buttplug in the window? / I do hope that plug is for sale / I’m going to my boyfriend’s birthday party / so I need a present today / Can’t wait to see him get his birthday spanking / and watch that tail wiggle and sway…

Rihanna – S&M

Love is great, love is fine / Out the box, outta line / The affliction of the feeling leaves me wanting more / ‘Cause I may be bad, but I’m perfectly good at it / Sex in the air, I don’t care, I love the smell of it / Sticks and stones may break my bones / But chains and whips excite me!

X-ray Spex – Oh Bondage, Up Yours!

Some people think little girls should be seen and not heard / but I think, oh bondage up yours! / Bind me tie me / Chain me to the wall / I wanna be a slave / To you all. Poly Styrene, donna di colore in una scena musicale  egemonizzata da maschi bianchi, è la mia eroa a prescindere, ma sentirla cantare di sadomasochismo mi manda in paradiso.

Vice Squad – Latex Love

Latex, latex, latex love / It’s the only way for me / Give me all your rubber love / I’ll never let you free / Give me my skin substitute / And the gas mask too / I need the euphoria / And I want it with you!

La casa è un diritto, resistere è un dovere…

La solidarietà fa paura allo Stato.

Perché la solidarietà si sviluppa nel momento in cui le reali necessità dell’individuo vengono messe a nudo, quando non si può più accettare di venire calpestati. Sfonda il muro dell’apatia sociale, del coma indotto che la nostra società sta vivendo.

Lo Stato reagisce aumentando la dose di morfina finchè riesce e, dopo che le sue piccole illusioni sono smascherate, fa emergere la sua natura più intima, il suo lato repressivo.

Questo sta succedendo a Torino, diventata ormai capitale degli sfratti, dove le famiglie hanno deciso di far valere il proprio diritto alla casa, unite nel rivendicare una dignità negata.

Il diritto alla dignità è irriducibile e imprescindibile, il diritto alla proprietà no.