Dopo Zecchi (uno e due) evidentemente circolano brutte dicerie sui professori di filosofia. Non volendo essere in nessun modo discriminatori, eccone qui uno che ancora non assurto alle glorie televisive è però ben assestato nelle pagine di un noto quotidiano di sinistra che vanta nobili natali e un nome – addirittura! – di derivazione marxista. Tutto ciò che leggerete è stato fatto in occasione dell’otto marzo, occasione nella quale io personalmente mi comporto così. Avviciniamoci con rispetto e una vaga inquietudine a quanto di sublime sta per rivelarci il nostro professore in tema di donne – nel senso di questioni di genere eh, non fate i maliziosi. Ecco qui l’originale di Paolo Ercolani, giornalista e docente di Storia della Filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino.
Restare Donne [Abbiamo dunque un cattedratico di filosofia che scrive sul giornale un invito alle donne a fare qualcosa – restare tali, dice il titolo. Inizia maluccio, ma via, diamogli una possibilità.]
Isteriche, instabili, inaffidabili, emotive, uterine, anti-sociali, ferine. Puttane! [Attenzione, l’autore vorrebbe essere ironico. Teniamone conto o ci potrebbero sfuggire alcune parti essenziali del suo raffinato pensiero, per ora espresso anche con insulti sessisti. Però è ironia – chi era quello che diceva sempre che era frainteso e che voleva solo essere ironico?]
La lista secolare del pregiudizio misogino è lunga e sembra scritta sulla parete eterna dell’umanità per rimarcare l’inferiorità dell’essere femminile [sembra, «com’è buono lei» (cit.)]. Inferiorità inemendabile e irrecuperabile, tanto da giustificare e anzi rendere opportuna e persino necessaria la sottomissione al maschio. Quest’ultimo stabile, coerente, affidabile. Razionale! [Ah, ecco svelata l’ironia. Non ridete? Problemi vostri: l’otto marzo è una festa, no?]
IL PIU’ ANTICO PREGIUDIZIO
Quello contro la donna si rivela come il più antico, radicato e diffuso pregiudizio che la storia umana è stata in grado di produrre. Tetragono agli urti del tempo e perfettamente in grado di trasformarsi per poter resistere a ogni forma di sana resipiscenza. Anche oggi che quasi nessuno ha più il coraggio (e il buon senso) di esplicitare quei pensieri sulle donne (e molto spesso sono le donne stesse) [duole constatare che gli ordinari di filosofia, come vuole un altro tetragono pregiudizio, vivono non si sa dove: di maschilisti che esprimono tranquillamente fior di pregiudizi son pieni, tanto per cominciare, i giornali, altro che quasi nessuno], bisogna sapere che il pregiudizio misogino esiste e lavora nell’oscurità dell’animo di ognuno di noi [«senti come pompa il pippero» (cit.) e beccatevi questa condanna senz’appello, lui ha letto un sacco, ne sa di cose]. Essendosi trasformato in abito mentale e quindi, come ben sapeva il filosofo americano Peirce [che faccio, cito uno noto o uno che ce lo siamo letto in tre? Sono sul Manifesto: devo essere elitario. Quindi, cito quello che ce lo siamo letto in tre], in credenza non espressa ma perfettamente in grado di esercitare il suo influsso notevole e palese sui comportamenti concreti [oh, siete svegli? Seguite bene: esiste nell’animo di ognuno, poi è abito mentale, quindi credenza non espressa che influisce sui comportamenti. Peccato, speravo ci dicesse da quale orifizio dovrebbe uscire questa roba e anche, più utilmente, da dove nasce il pregiudizio misogino: è innato, così, per default nell’animo di ognuno? Mah. Forse devo rileggere Peirce].
Il pregiudizio più antico ma anche il più diffuso. Che fossero atei o credenti, progressisti o conservatori, rivoluzionari o reazionari, scienziati o pensatori, tutti i più grandi artefici della cultura occidentale si sono ritrovati e spalleggiati nella condanna e mortificazione dell’essere femminile [e sempre, apparentemente, per qualcosa che era nel loro DNA: ricordatevi che esiste e lavora nell’oscurità dell’animo].
Inadeguata a ricoprire qualunque ruolo che non fosse quello di occuparsi della casa e allevare figli, la donna si è vista sbarrata per secoli ogni strada che potesse condurla a qualunque altra attività che non fosse quella di essere ausiliare (una costola) alla creatura principale, al «primo sesso»: il maschio.
Da studioso di filosofia ho spesso provato a immaginare la delusione profonda, il senso di scoramento, perfino l’angoscia che potrebbe (e dovrebbe) provare una giovane studentessa, appassionata di questa materia, che si avvicinasse alla lettura dei grandi classici [però, che modestia. Potrebbe anche provarla lui questa delusione profonda, e invece no. Potrebbe anche non fregargliene nulla, alla giovane studentessa, la quale potrebbe tranquillamente studiarsi anche solo filosofe donne; ma il professore di filosofia sa bene cosa lavora nell’oscurità dell’animo anche di sessi diversi dal suo].
Scoprirebbe che Pitagora, Platone, Aristotele, Sant’Agostino, San Tommaso, Marsilio da Padova, Bacone, Montaigne, Locke, Kant, Hegel, il perfido Nietzsche («Se vai da una donna non dimenticare la frusta»)…Tutti, tutti perfettamente concordi, e con argomenti sorprendentemente confluenti, nel confermare lo statuto di essere miserevole, disgraziato, inferiore che sarebbe la donna [peccato che queste informazioni se le dovrebbe ricavare da sola leggendoli o leggendo testi di filosofe, perché i manuali di filosofia ben si guardano dal raccontarlo – questo quando lo diciamo?].
Nello studio per la stesura del libro a cui sto lavorando [ah, ecco il perché di tanto zelo], dedicato proprio a questo argomento, avrei [perché il condizionale?] poi scoperto che Christine de Pizan, scrittrice e poetessa italo-francese che scriveva a cavallo tra il 1300 e il 1400, iniziava il suo libro («La città delle dame») proprio con lo sgomento e la profonda angoscia provate dalla giovanissima protagonista Cristina. Appassionata di filosofia e profondamente turbata dalla scoperta che i suoi amati classici erano tutti concordi nel rimarcare con argomenti duri e violenti l’inferiorità e la necessaria sottomissione della donna [il docente di filosofia scopre ciò che è risaputo da sei secoli e ne fa un libro, di queste sue scoperte. Poi ti domandi perché esistono certi pregiudizi sui filosofi].
L’ORIGINE DI TUTTE LE DISGRAZIE
Del resto, ad essa è stato attribuito un ruolo disgraziato e nefasto fin dalla nascita del mondo. Basta leggere Esiodo [che come sapete leggono tutti, vende più della Gazzetta dello Sport] per sapere che Zeus aveva creato la donna, personificata da Pandora, per punire gli uomini in seguito al furto di Prometeo. Pandora era fornita di un vaso contenente tutte quelle disgrazie e pene di cui l’umanità era stata dispensata fino a quel momento. Postina o ambasciatrice di morte, malattie, fatiche immani, dolori, sconfitte, Pandora finì [finì, da sola, senza l’aiuto di nessuno eh, mi raccomando] con l’essere identificata con la donna in genere. Origine e causa di ogni male!
Stessa situazione presentata dalla Bibbia. Dio non aveva previsto la morte e quella valle di lacrime che è la vita terrena per l’uomo. Questo poteva esistere beato nel giardino celeste senza la minima preoccupazione.
Sennonché ci ha pensato Eva, stupida e curiosa, a cadere nel tranello del serpente e convincere pure quel malleabile di Adamo a contravvenire agli ordini divini.
Tutti i grandi teologi [maschi, ndr, cosa che al professore sembra sfuggire] si sono trovati concordi nell’attribuire alla capostipite delle donne la colpa di quel terribile atto da cui, peraltro, sarebbe originata questa vita terrena magnifica ma segnata dal peccato, e quindi dalla sofferenza, dalla pena e infine da quell’«ultimo nemico» (San Paolo) che è la morte.
L’unico teologo che la «difese», attribuendo la colpa ad Adamo, lo fece con l’argomentazione secondo cui a ella non poteva essere riconosciuta alcuna colpa, perché troppo stupida e ingenua [e perché non fare il nome di questo teologo? Peirce, Esiodo e San Paolo sono letture frequenti e diffuse, questo teologo no?]. Adamo, da uomo, avrebbe dovuto prendere in mano la situazione e respingere il diavolo tentatore. Eva non aveva gli strumenti neppure per questo.
Proprio per sfuggire ai diavoli che si attaccano ai capelli, veniva imposto alle donne di coprirseli con un velo quando si avventuravano nello spazio pubblico. Una pratica che, udite udite, era in vigore nell’Atene democratica ma non, negli stessi tempi, in Persia o Siria, tanto per smentire uno dei molti luoghi comuni sulle origini delle libertà «occidentali» [ma com’è bravo a rendersi simpatico distillando il suo sapere al momento giusto, sembra proprio Zecchi – la foto degli anni ’60 la mettono tutti senza capirci molto, ma lui è elitario, la prende alla lontana].
Né da tutto questo, ovviamente, può essere esclusa la scienza, se per esempio pensiamo che il volgare pregiudizio diffuso contro le donne che non hanno rapporti sessuali da molto tempo («isteriche»), non nasce dal senso comune popolare ma fu argomentato attraverso complesse analisi biologiche nientemeno [dopo udite udite pensavo che rinunciasse a un po’ di retorica, invece ci tocca pure il nientemeno] che da Ippocrate, medico antico su cui ancora oggi giurano tutti coloro che intendono esercitare la professione [io pensavo che, dopo Galileo, questo fosse solo un simbolico giuramento etico. Invece no, evidentemente: devi proprio credere a tutto quello che diceva uno di medicina 24 secoli fa, dice il docente, e immaginatevi che complesse analisi dovevano essere. La storia insegna che lo sforzo “scientifico” fu di confermare i pregiudizi popolari comodi al patriarcato vigente, e non il contrario: questo fenomeno si chiama, oggi, confirmation bias].
Curare i mali del corpo, evidentemente, non comporta in maniera automatica la facoltà di riuscire a risolvere anche quelli della mente e del pregiudizio [dàje che va bene anche un po’ di empowerment, dàje! E adesso? L’articolo potrebbe anche finire qui, con l’empatia per la studente (io dico così, scusate eh) e una tirata d’acqua al mulino dei filosofi. E invece no].
RESTATE UMANE: RESTATE DONNE [Da brividi l’accostamento Jobs/Arrigoni al femminile, eh? E ancora non avete letto il suo libro, chissà che meraviglie ci aspettano.]
Mi fermo qui [magari]. Una ricostruzione del pregiudizio misogino che tenti di essere esaustiva e completa, per di più in forma critica e non compilativa, richiederebbe ben più del libro che sto ultimando [sempre modesto, lui]. Figuriamoci se può essere esaurita nello spazio di un articolo [eh, in un articolo possiamo combinare ben altro. ‘Spetta lì].
In questa sede mi premeva soltanto rimarcare il secolare potere esercitato da questo sordido pregiudizio contro la donna.
Il più antico, radicato, resistente che la storia umana ha conosciuto nella sua lunga e controversa vicenda [sì, ma l’hai già detto, sta poche righe su. Ma allora è vero che i filosofi stanno sempre lì a ripetere le stesse cose! Passo a darti del tu eh, ‘sto post dura da tanto che siamo diventati amici]. Al punto da convincere per prime molte donne stesse, spesso le più zelanti e severe nel formulare un giudizio di condanna verso le proprie simili, o anche solo semplicemente nel ritenere (e nell’affermare senza problemi), che come medico, avvocato, presidente del consiglio o anche solo autista di un autobus preferiscono un uomo e si sentono più sicure con lui [che il sessismo è trasversale ai generi lo sappiamo dagli anni Sessanta. Docente, vieni al sodo, so’ venti minuti che scrivi!].
Si tratta di un ben preciso fenomeno chiamato «autofobia» [EH? Questa parola non c’è manco nel Treccani, ma i filosofi sono tanto creativi. C’è qui, ma dice che il significato è un altro], che colpisce proprio i componenti di quei gruppi sociali più colpiti e mortificati, privati a tal punto di ogni minima speranza di emancipazione e realizzazione del sé da rinnegare la propria appartenenza, così da (illudersi di) poter provare ad essere accolti e riconosciuti nel gruppo di chi comanda ed elargisce le stigmate del bene e del male [a me pare la versione “sociale” della Sindrome di Stoccolma, ma che volete che ne sappia io? Mica sono un professore di filosofia. Io mi limito a leggere Chiara Volpato, ma che volete che ne sappia pure lei].
Rinvio al libro le considerazioni più ampie e articolate [e tre. Sì abbiamo capito, ce l’hai detto che stai scrivendo ‘sto libro. Quando uscirà davvero non avremo scampo]. Ma in tale direzione, nello spazio limitato di questo mio blog e in questo giorno di controversa celebrazione della donna [non è controversa, non lo è proprio una celebrazione della donna], mi sento di auspicare per loro (e quindi per noi tutti!) una reazione [aspetta: ma noi non eravamo quelli che il pregiudizio misogino esiste e lavora nell’oscurità dell’animo di ognuno di noi?] contro il pregiudizio e un’affermazione della propria libertà e dignità non in direzione dell’«autofobia», bensì dell’orgoglio e della valorizzazione dell’essere donna in quanto differente e irriducibile [ma allora parla per te e per gli uomini, no? Che parli a fare per le donne e alle donne se auspichi anche per noi tutti quella reazione? La tua reazione quale sarebbe, scriverci un libro pieno di questa roba?].
Negare lo statuto biologico preciso che configura un individuo come donna [notate bene: prima c’è l’individuo, poi il suo statuto biologico, infine possiamo configurare tutto ciò come donna], infatti, prefigurando perfino scenari «post-umani» in cui gli individui saranno tutti asessuati (né uomo né donna, bensì un sesso “terzo” che non è né l’una né l’altra cosa), come da proposte di un certo femminismo radicale [EH? E quale? Nomi, riferimenti? Ah, sì, mi devo comprare il libro. Per scoprire che il docente di filosofia è l’ennesimo che ha letto male da Butler in poi, come quelli che si sono inventati la teoria del gender, che farnetica appunto di scenari «post-umani» in cui gli individui saranno tutti asessuati], non soltanto si rivela un’operazione assurda e sterile (inaccettabile per la maggior parte delle donne stesse) [no, è un’operazione INESISTENTE, ma quante volte toccherà dirlo? Quella roba non l’ha detta mai nessun*!], ma finisce col rappresentare il più grande compimento dell’opera portata avanti dal pregiudizio misogino: l’eliminazione della donna in quanto tale [a parte che è roba che hai letto solo tu, ma poi scusa, perché della donna in quanto tale? Hai scritto sopra gli individui saranno tutti asessuati e né uomo né donna! Guarda che quello dei lapsus, te lo dico io, si chiama Freud].
Si tratterebbe, in fondo, della reazione autofobica per eccellenza, che paradossalmente fornisce l’impressione di accettare tutte le condanne maschiliste tanto da arrivare a proporre il suicidio della donna e l’evaporazione della specificità femminile verso tipologie umane in cui di femminile non resta più nulla [non so come commentare una frase la cui insensatezza raggiunge vertici paragonabili alle canzoni di Povia, o ai deliri di Recalcati. O a entrambe le cose, a pensarci bene].
«Donne si diventa», scriveva Simone de Beauvoir, proprio per sfuggire ai tentativi della società patriarcale di imbrigliare l’essere femminile all’interno di una rigida identità naturale, che ovviamente la confinava in un ruolo di subordinazione e complemento rispetto all’essere «assoluto», il maschio [identità naturale? A ulteriore riprova che in fase di lettura c’è qualcosa che non va, questa non mi pare proprio una breve spiegazione delle parole di de Beauvoir. Lei le usa in senso contrario, dicendo ad esempio: “Donne non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.”].
Le conquiste che sono state ottenute dalle donne confermano l’importanza di quella frase [citata a vanvera], il ruolo cruciale giocato anche dalla cultura e dall’educazione nell’impedire forme di discriminazione odiose e inaccettabili [quali conquiste? Sul piano del diritto sono tante, ma nella pratica politica e civile sono smentite dai fatti. Il ruolo cruciale è lungi dall’essere dimostrato e/o accettato, come raccontano le tante battaglie ancora in corso, per dirne qualcuna, contro il linguaggio sessista dei media o per una educazione sessuale nelle scuole. E poi, le parole di Haraway, bell hooks, Spivak, per esempio, criticano anche l’educazione – come collocarle in uno schema così semplificato?].
Ma dimenticare il dato naturale [eccoci qui: alla fine di tante parolone, torna il dato naturale, complimenti per la novità filosofica], rinunciare a costruire ed affermare una soggettività femminile con le specificità, il valore e la diversità che questa femminilità comporta [e quali sarebbero? No, perché esistono tanti femminismi per quante definizioni vogliamo dare di queste specificità – cui vanno sommati i femminismi per i quali non esiste neanche. Che si fa, li buttiamo via?], significa correre il rischio di diventare quello per cui hanno lavorato secoli di barbarie misogina. Ossia un qualcosa che ha cancellato e dimenticato l’unicità e la ricchezza insite nell’essere donna [beh tu, filosofo maschio bianco occidentale, sì che puoi dirlo, in che consiste l’unicità e la ricchezza insite nell’essere donna. Non vedo l’ora di leggere questo tuo libro].
Perché donne si nasce e lo si diventa [bravo, così facciamo content* tutt*]. Ed oggi è fondamentale non smettere di esserlo! [Così posso continuare a scrivere queste scemenze!]
Cos’abbiamo qui, dunque? Un filosofo di professione, e giornalista, che approfitta dell’otto marzo per parlare del suo prossimo libro e chiedere alle donne di non dimenticare, nel 2015, il loro dato naturale. Complimenti per la modestia e la competenza in questioni di genere.
Testi che raccolgono prove de il più antico pregiudizio ce ne sono a mucchi: ricordo, per motivi affettivi, lo splendido Sinfonia patriarcale, di Viola Angelini e Antonio Capizzi, edito da Savelli nel lontano 1976, nel quale sono catalogati dalla Bibbia a Ugo Spirito filosofi, romanzieri, scrittori vari e i loro maschilismi. In questo lavoro si ricordano altri lavori analoghi, come quello di Maria Teresa D’Antea (Antologia del delirio) e quello di Liliana Caruso e Bibi Tomasi (I padri della fallocultura), sempre degli anni ’70. Da lì in poi ce ne sono stati molti altri – il problema è sempre stato non l’esistenza di questi testi, ma l’esistenza di chi fosse abbastanza saggio da andarseli a leggere e studiare. Speriamo che, a quarant’anni di distanza da quegli esempi, Ercolani aggiunga qualcosa in più che valga la pena leggere. Da quello che se ne deduce da questo post, le mie sono proprio speranze da filosofo: utopie.