25 Novembre – Una violenza enorme che ne oscura tante (più o meno) piccine

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25 Novembre, e non so cosa dire.

Ogni volta che leggo gli articoli, le riflessioni, i post scritti in  occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne, mi sembra di guardare la Terra da  Plutone. Di più, mi sento ammutolire: perché sento parlare di  femminicidio, di botte e stupri, e io, seppur femminista, di queste  cose non so parlare. Non ne so parlare perché non le conosco, o  meglio non le conosco direttamente, sulla mia pelle o sulla pelle di  chi mi è più vicin@ – e non ho mai assistito (fortunatamente) ad  episodi di violenza estrema e brutale.

Eppure, mentre mi apprestavo a seguire il filo dei pensieri e degli  eventi legati a questa importante giornata da spettatrice, mi sono  resa conto che la violenza sulle donne la vedo agita ogni giorno, da  sempre. Non è una violenza eclatante, da prima pagina dei  giornali, non si chiama femminicidio, né botte, né stupro. Eppure  esiste, è pervasiva, è quotidiana, è come la goccia che scava, scava  e attraversa l’anima, annichilisce persone con costanza e pazienza nell’arco di una vita, in molti casi trasformando chi la subisce in maniera radicale.

Quella agita su tante donne che ho conosciuto e conosco, intrappolate per una vita in rapporti coniugali impari, alla mercé di mariti i quali, seppure non platealmente ‘violenti’, sono quasi sempre freddi, distratti, economicamente e psicologicamente abusanti e inclini ad approfittare di qualsivoglia privilegio patriarcale sia a portata di mano per trattarle come colf, badanti, mammine di ricambio e sex workers, al bisogno e, ovviamente, gratis.
Quella su colleghe di lavoro precarie come me, mandate via alla prima gravidanza in quanto non più pienamente produttive e in alcun modo tutelate – le stesse che, alla notizia della gravidanza, ricevevano il plauso patriarcale della dirigenza maschile per aver ottemperato ai propri impliciti ‘doveri biologici’ di femmine – rispedite prontamente al mittente del lavoro di cura e della dipendenza economica, senza vergogna né rimorso.
E poi c’è quella ubiquitaria che ho sentito sulla mia pelle, su quella di amiche o semplici conoscenti continuamente sottoposte a controllo, giudicate e condannate dall’inquisizione patriarcale che agisce in ognun@ di noi, uomini e donne – sempre troppo puttane, troppo suore, troppo maschiacci, troppo loquaci, troppo sciacquette, troppo serie, arriviste, pazze, stupide, instabili, fragili, grasse, magre, aggressive, audaci, passive, indolenti, indipendenti o dipendenti… sempre troppo o troppo poco di qualsiasi cosa, perennemente fuori posto o talmente al loro posto da meritare in ogni caso solo disprezzo.

Ecco, questa è la violenza che io conosco. E mi spaventa pensarla così ‘normale’, così quotidiana, così pervasiva da diventare invisibile, persino a volte ai nostri stessi occhi. Perché di fronte al femminicidio, di fronte alle botte, di fronte allo stupro, io ammutolisco. Qualcun@ mi direbbe persino che io, ‘al confronto’, sono una donna fortunata. Eppure anche io conosco la violenza, una violenza che accompagna i miei giorni, da sempre: e non mi sento fortunata, proprio no, quando penso a quante volte ho dovuto incassare i colpi di un sistema che mi discrimina in quanto donna.

E allora quello su cui rifletto oggi, in una giornata così importante e simbolica, è che la violenza contro le donne non si riduce al suo estremo, e la violenza brutale non cancella tutte le altre, ma va inserita – concettualmente e politicamente – in un contesto più ampio, quello che richiede un’azione culturale e sociale che nessun provvedimento emergenziale e securitario potrà in alcun modo sostituire.

Auguro a tutte le donne di trovare la forza – in sé stesse e in amic@,compagn@, sorell@ – di riconoscere e opporsi a qualsiasi forma di violenza, anche le più piccole, anche quelle considerate insignificanti, che le riguardi in quanto donne. Perché dalla nostra personale dose di violenza quotidiana, nasca la forza di una resistenza che è anche e soprattutto politica.

Compagno? Anche no.

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Amo la parola compagno. Mi suona dolce e bellissima: in una parola, meravigliosa. Proprio per questo motivo, vorrei che fosse utilizzata con un po’ più di parsimonia: ne detesto l’utilizzo casuale. Non c’è alcuna ragione per cui uno che si dichiara anarchico dovrebbe essere automaticamente un compagno, per me.

Magari è uno che si dice antiqualcosa. Salvo poi fare la faccia annoiata quando parli di quel qualcosa, non leggere i materiali che gli mandi, e tanti altri bei comportamenti. La politica è qualcosa che si “fa”, non è che si “è”, quindi se “sei” antiqualcosa ma ti comporti da proqualcosa, sei proqualcosa. E se fai l’indifferente, sei proqualcosa lo stesso: l’indifferenza non va mai a beneficio di chi è svantaggiato.

Magari è uno che se gli parli di privilegio diventa paonazzo e ti accusa di dargli dell’oppressore. Senza accorgersi che lo è di fatto, che i suoi presunti sentimenti feriti non hanno la priorità sull’esperienza di chi è oppresso, e che negare la sua posizione lo rende ancora più oppressivo. Insomma, uno che i suoi privilegi col cazzo che li ammette e men che meno tenta di combatterli, che tutta la merda sistemica che gli esce dalla bocca proprio non la vede.

Magari è uno che fa battute offensive in continuazione. Poco humour? sarà. Ma l’umorismo non è qualcosa che accade in un vacuum al di là di questa dimensione, dove tutti i rapporti di potere di questa società non esistono. Io battute e frecciatine su: maschi, bianchi, eterosessuali, cisgender, borghesi non ne sento praticamente mai. Puro caso? anche no, visto che quelle poche volte che succede si sbraita di “sessismo” e “razzismo” al contrario, di eterofobia e cisfobia, eccetera. Forse questo senso dell’umorismo non è né sviluppato né egualitario, checché se ne dica.

Magari è uno che legge queste parole, e si affretta a dire che queste persone non sono davvero compagni, ignaro dell’esistenza della fallacia logica del nessun vero scozzese.

Magari è uno per cui esiste soltanto la lotta di classe e quella contro lo stato, e il resto si fotta. Al massimo verrà dopo la rivoluzione, dice. Ma finché i panni sporchi non si laveranno in piazza e il personale non sarà davvero politico, non si riuscirà nemmeno a fare militanza assieme senza dover tirarci le sedie, figurarsi il rovesciamento dell’attuale ordine sociale. Senza abbattimento del patriarcato in tutte le sue declinazioni, dello specismo, dell’eterocisnormatività e di tante altre cose, non ci sarà alcuna rivoluzione possibile.

Ah, e i miei compagni, le mie compagne, me li scelgo e me le scelgo io. Così, tanto per essere lapalissiano.

Proposte per una rivolta trans

Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.

Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.

Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.

Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.

È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.

Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è  buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.

Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans  non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione. 

Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e  un punto di vista  politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto  quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.

Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i  cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e  una tolleranza  non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.

Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.

RU486, storie di ordinaria follia!

Volentieri condividiamo il resoconto fatto da Guerriera (grazie!) sulla sua esperienza in merito all’accesso alla RU846, sperando che la tenacia con la quale è riuscita a tenere testa ad una situazione allucinante possa infondere coraggio e determinazione a tutte quelle donne che dovessero trovarsi nella stessa situazione… ecco perché è più che mai necessario continuare a lottare! Buona lettura!

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RU846, storie (sur)reali!

Sono nel mondo arabo, ho appena scoperto di essere incinta. Cazzo, potevo fare più attenzione… nel senso, avevo un dubbio prima di partire ma mi sono detta: “Ok, sarà lo stress pre-partenza.. eppoi, ti pare che capita proprio a me e proprio in questo momento?”
Sono dall’altra parte del mondo, ma non facciamoci prendere dal panico. Faccio le analisi, confermato il risultato positivo del test. Mentre cerco di prenotare un volo il più presto possibile, inizio a spulciare i siti sull’argomento e ad avvisare le mie amiche a Roma e Bologna… perché l’obiettivo è uno: RU846!
Panico! Sui siti le informazioni sono tantissime e diversissime. Ognun* pare la pensi a proprio modo. Le informazioni raccolte dalle amiche confermano il delirio di info che non coincidono e si contraddicono.
Contatto Vita di donna, associazione di supporto alle donne, di Roma, sono super disponibili: le ricontatto appena atterrata.

08/10
Devo recarmi al San Camillo alle 6,30 del mattino, all’ambulatorio apposito per la questione, in un sottoscala del reparto di ginecologia. Prendo il treno da Termini per stazione Trastevere, ma sono stanca e super confusa. Sbaglio treno e mi ritrovo a Zagarolo, merda! Arrivo al San Camillo alle 10. Parlo con una infermiera ed una ginecologa, niente da fare, devo tornare il giorno successivo alle 6,30, così da fare l’ecografia e vedere se sono ancora in tempo. Ma non mi fido molto! Il San Camillo è uno dei pochi ospedali a dare la pillola (dubbio rimane su Ostia, dove al telefono sono stati veramente poco disponibili… quando si sono degnati di rispondere, ossia dopo 3 giorni di tentativi). La ginecologa mi dice che comunque prima del 16 non può inserirmi… stiamo parlando della RU846 per la quale il massimo previsto dalla legge è 49 giorni dopo il primo giorno dell’ultimo ciclo, o di un parrucchiere super alla moda? P.s. (non fidatevi di questo conteggio.. 49 giorni dal primo giorno di ultimo ciclo nel caso di ciclo super regolare… la gestazione può infatti cominciare dopo… per cui fate un’ecografia, potete scoprire di essere ancora in tempo nonostante i vostri calcoli sfavorevoli). Chiamo l’ospedale Maggiore di Bologna… al massimo, se dall’ecografia risulterò essere ancora in tempo, prendo il primo treno e me ne vado al Nord. Da Bologna mi avvertono che è necessario il Certificato legale per l’interruzione volontaria (che invece non è necessario a Roma) rilasciato o dal medico di famiglia (il mio è obiettore… ovviamente… strascichi d’infanzia!) o dai consultori familiari. Chiamo il consultorio di Garbatella, domani mattina, dopo l’ecografia al San Camillo, volo da loro per il certificato.

09/10
Arrivo al San Camillo alle 6h30. Scopro che l’ambulatorio apre alle 8. Fanno andare prima le ragazze perché così appena aprono consegnano le carte per chi è lì per la prima volta; se sei assente in questa distribuzione che avviene dalle 8 alle 8h15… sei fuori! Ok, metodo di merda, ma è comunque un metodo. Ma l’ambulatorio è chiuso per davvero… nel senso che siamo 7 ragazze, fuori, sotto la pioggia ad aspettare l’apertura delle porte di vetro oltre le quali si vede già tutta la gente all’interno. E mi sembriamo ree, lì in attesa di estirpare una colpa. Aprono le porte e mi infilo in questa catena di montaggio… stanza 1 consegna primo foglio, stanza 2 consegna altri documenti, stanza per ecografia e la tipa che grida: “Sei fuori!”
Ok, adesso sono in una partita di baseball.
“Scusi, cazzo vuol dire che sono fuori?”
“Che non ce la fai a prendere la pillola”
“Ok, lei però si limiti a dirmi se potenzialmente sarei in tempo”
“Ma le ho detto che non ce la fa, qui abbiamo le liste d’attesa, la infilo nella prassi del chirurgico”
“Senta, mi dia la diagnosi delle settimane di gestazione, che provo altrove”
“Lei è a 6 settimane + 1 giorno, avrebbe 6 giorni ancora, ma qui non è possibile e non pensi di poter trovare una struttura che le riservi un trattamento migliore”
“Mi dia l’ecografia e stia zitta”
“Non si può, è un documento privato”
“La MIA ecografia è un SUO documento privato?”
Finisco nella prassi di “quella che se ne vuole andare” come gridava quella deficiente di infermiera per il corridoio alle sue colleghe. Non tutte sono così idiote, ad alcune spiego le mie intenzioni, capiscono, mi appoggiano e mi fotocopiano in segreto l’ecografia con le settimane di gestazione.
Secondo step: consultorio della Garbatella per il certificato legale e poi Bologna.
“Mi spiace, non c’è la ginecologa oggi”
“Ma come, avevo chiamato ieri, avevo detto per cosa dovevo passare…” Vabbè, si fanno perdonare in fretta… sono due angeli e mi aiutano tantissimo. Le loro informazioni sono completamente scorrette; il San Camillo stesso ha fatto circolare un documento in cui il limite previsto per la RU846 è di 5 settimane + 5 giorni; sto 10 minuti a spiegare alle infermiere che non è così. Chiamano il San Camillo per conferma. Ovviamente, ho ragione io! Chiamano ogni consultorio di Roma per sapere se c’è un ginecologo o una ginecologa disponibili… Nessuno… in tutta Roma, pare che i ginecolog* siano tutt* in aggiornamento/conferenza/vacanza/cazzo ne so! E non solo non ci sono ginecolog* disponibili, ma ovviamente ogni infermiera ha diverse indicazioni sulle procedure per cui ogni volta è un combattere per far valere la nostra versione e non la loro! Trovata una… che a quanto dicono le infermiere è anche la coordinatrice di tutto il settore ginecologico di Roma: ‘sta beneamata sostiene che il certificato fatto a Roma non abbia valore in Emilia Romagna… e meno male che sei la responsabile di ‘sta cippa, ignorante!
[comunque, prima di arrivare al consultorio della Garbatella, da casa, ho chiamato io stessa vari altri consultori; a Roma funziona che in base a dove abiti ti devi rivolgere al consultorio della tua circoscrizione, per cui avevo una serie di indirizzi falsi, (domicilio) da dare in base al consultorio che chiamavo… cacchio me ne frega!… annotazione: uno dei peggiori che ho trovato è il consultorio spenser, della circoscrizione della Prenestina: loro risposta “Possiamo farti venire non prima del 17 per farti parlare con l’assistenza sociale e il 18 con la ginecologa”… e il 19 con quello stronzo di tuo fratello!!! ]
Quando non ci credevo più neanche io, troviamo la dott. Maiocchetti. Fantastica… dice di correre da lei. Si tratta del consultorio di Via Silone 100, 3 ponte (metro Laurentina, bus 776); ho un’ora e mezza di tempo prima che chiuda. CORRO! Arrivo, compilo le carte, mi firma il certificato segnando la postilla urgenza… e non “La invitiamo a pensarci 7 giorni” ; scambiamo due chiacchiere… ci lamentiamo entrambe di questo trattamento riservato alle donne, è uno schifo… nella Asl non sono autorizzate a dare la RU846 ma possono fare l’ IGV chirurgico… incredibile! Dobbiamo lottare, dice lei, sì cara dottora, dobbiamo lottare!
[altro post: all’ospedale di Sant’Andrea, sono stata 15 minuti a spiegare la differenza alla tipa con cui ho parlato tra una ‘pillola del giorno dopo’ che si dà al Pronto soccorso in codice bianco e la RU846!!!]
L’infermiere della Garbatella aveva anche richiamato l’ospedale di Bologna, per avere conferma del fatto che se fossi stata presente il giorno dopo, mi avrebbe subito inserito nella pratica dell’IVG farmacologica. Dicono di sì, ma che devo assolutamente essere alle 8 del mattino al centro d’analisi in Via Marconi 35 e poi da lì sarei stata trasferita al Maggiore.
Prendo il primo treno… merda quanto costa! Arrivo a Bologna la sera… sono stanchissima!

10/10
Ospedale Maggiore, dai sono al Nord, saranno stereotipi, ma mi sento già più al sicuro. Arrivo a via Marconi… il numero 35 non esiste! Chiamo l’ospedale.
“Senta, io non ho segnato il suo nome, ma lei ieri con chi ha parlato? Perché è al Marconi, che c’entra?”
“Ma come con chi ho parlato? Voi avete il telefono in mezzo alla strada e chiunque passa può rispondere scusi?”
“Io qui sono la responsabile e le dico che non deve far nulla di quello che ‘non so chi’ le ha detto di fare. Ora la segno, venga qui all’ospedale alle 10h30”
Ok, sono in ospedale… aspetto… aspetto… la ginecologa non c’è… le infermiere non la trovano. Ne cercano un’altra… una certa Adelaide. Dopo 4 ore d’attesa, mi fa entrare mi fa un’altra ecografia. 6+4. Ma come 6+4… ieri era 6+1!
“Lo so, ma ogni macchinario ha la sua sensibilità e dato che devo essere io a firmare l’autorizzazione io faccio riferimento ai miei macchinari”
“La sensibilità dei macchinari?? La mia vita è nella mani della sensibilità di un macchinario? Senta, io sono venuta apposta da Roma perché mi era stato garantito che ce l’avrei fatta qui”
“Se fosse stata a 6+1 ce l’avrebbe fatta ma oggi non si può fare, giovedì non le facciamo (????) e poi c’è il week-end (??????) e quindi salta a lunedì e lei non è più in tempo. Vada a prendere l’appuntamento per il chirurgico”
Inizio a sospettare che prendano soldi per ogni chirurgico che fanno! Nel frattempo sento ridere le infermiere di me e del mio esser venuta da Roma. Che faccio, entro e spacco tutto? No, non ti preoccupare, ci penserà il karma, tu continua per la tua strada! Mi prenoto l’appuntamento per il chirurgico, non si sa mai. Nel frattempo però, qualche giorno prima, avevo chiamato Lamezia (unico ospedale della Calabria a fornire il servizio), mi avevano risposto di richiamare oggi. La dottoressa sembra super gentile, mi dice di correre lì, non c’è alcun problema. Vabbè, tutte così hanno detto, poi qualcosa succede sempre. Prenoto un aereo, tanto sono così stanca e poco fiduciosa che male che va, e male andrà, torno a Cosenza, a casa mia a far finta per qualche giorno che sia stato solo un incubo. Arrivo a Lamezia a mezzanotte, vado in albergo, la mattina dopo sono in ospedale.
Finisco subito nel sistema della RU846 senza accorgermene (Fantastica dottora Ermio!)… analisi, nuova ecografia, ordinato ricovero e mi ritrovo con la pillola in mano.

Conclusioni:

1. Il primo che mi dice che gli ospedali funzionano meglio al nord che al sud, lo meno!
2. Dicono che i vari impedimenti siano finalizzati a far riflettere la donna su quello che sta per fare… ma a me è capitato tutto il contrario. Non ho avuto un attimo di pausa e sono arrivata a prendere ‘ste pillole, come l’acqua di un fiume arriva alla foce del mare… senza alcuna consapevolezza. Ma la consapevolezza è tempo e del tempo, noi donne siamo state private!

Qui, in ospedale a Lamezia, ci sono statue di Madonne dappertutto, c’è la cappella… penso non sia proprio legale tutto ciò. Sono circondata da donne incinta ma l’unico mio pensiero è che sono stanca… davvero stanca!
Alcuni consigli per finire : non delegate! Per quanto le vostre amiche e i vostri amici vi vogliano bene, non avranno mai la cura che avrete voi nel raccogliere le info. Ed in più, la colpa non sarà loro, ma di questo mare di informazioni contrastanti sull’argomento (non hanno le idee chiare quelle che lavorano nel campo, figuriamoci le vostre amiche). In mille vi diranno frasi inutili del tipo : “Ma perché non sei andata a Firenze, ma perché non sei andata al Sant’Orsola?” Non date retta… ogni scelta che prendete è un rischio che può costarvi caro, per cui le possibilità sembrano infinite (ed in realtà sono veramente limitate). Fidatevi delle info che voi stesse avete recepito e ovviamente del vostro istinto! Non date retta soprattutto a chi vi dice le solite frasi del cavolo “Dovevi fare attenzione” oppure “Ma scusa, non hai usato precauzioni?” sono persone che forse si accorgeranno di quanto fuori luogo fossero in quel momento, ma voi non avete tempo da perdere, avete cose più importanti a cui pensare!

Non vi arrendete al primo o alla prima che vi dice che non siete in tempo. La legge è 49 giorni (nel senso che entro il 49esimo bisogna prendere la prima pillola), tentate tentate tentate!

Per chi vi ostacolerà non v’è differenza tra il chirurgico e il farmacologico… tanto il corpo è vostro, che gli frega a loro! Invece il vostro corpo è importante e va trattato con riguardo! Penso a chi ha un lavoro o a chi non ha i soldi per affrontare gli spostamenti che ho dovuto affrontare io! Penso a chi non ha la forza d’animo per combattere sola contro questo sistema… o a chi semplicemente avrebbe bisogno di tempo e pace per prendere questa decisione.

Penso a tutte voi e la mia rabbia diviene infinita!

Se la mia fica fosse un’arma

heim2Pubblichiamo la traduzione della poesia di Katie Heim “If My Vagina was A Gun“, composta ai tempi delle proteste del Giugno scorso verso il Senato del Texas – ricordate Wendy Davis?

Tradurre una poesia è un compito arduo… ma nell’attesa di una versione più puntuale, oggi lo facciamo noi: Feminoska, Pantafika e Lorenzo Gasparrini.

Perchè a volte una poesia fa riflettere meglio di tanti discorsi.

Leggi tutto “Se la mia fica fosse un’arma”

Sono bisessuale, e orgoglioso di esserlo!

 

Sono bisessuale. Non mi piacciono uomini e donne, mi piacciono più generi.

Sono bisessuale. Gli eterosessuali pensano di potermi normalizzare, gli omosessuali credono che io sia un gay velato che non vuole fare coming out. In ogni caso, pare che chiunque ne sappia sempre più di me sul mio orientamento.

Sono bisessuale. È considerato accettabile dire che sono confuso, indeciso e che la mia è solo una fase; affermazione che, se rivolta ad una persona esclusivamente omosessuale, è accolta – giustamente – con orrore.

Sono bisessuale. Il mondo è abituato a vedere monosessualità ovunque, e la percezione del mio orientamento avviene sulla base di chi frequento, e quindi sono invisibilizzato. E se prendo per mano un ragazzo, allora sono ‘finalmente gay dichiarato’,  e se sto con lei, per magia divento un omosessuale che finge di essere etero.

Sono bisessuale. Con scherno, si dice che una persona bisessuale è contenta a prescindere da quello che trova negli altrui pantaloni. Avrete mica paura della liberazione dei generi e dell’accettazione di più di due set predefiniti di corpi sessuati?

Sono bisessuale. Se guardo un film qualunque e c’è un personaggio bisessuale, posso essere sicuro che nella quasi totalità dei casi sarà un personaggio palesemente instabile e con problemi di salute mentale. Se non sarà così, allora sarà descritto/a come gay o lesbica.

Sono bisessuale. Quando lo affermo, automaticamente si dà per scontato che mi piaccia chiunque e che questo sia in qualche maniera un segnale di consenso da parte mia nei confronti di avances di vario tipo.

Sono bisessuale. Se fossi monogamo, mi direbbero che non sono un vero bisessuale e il/la mi@ partner non si fiderebbe di me perché potrei lasciarl@ per una persona del mio o di altri generi. Ma siccome sono poliamoroso, mi dicono che rinforzo stereotipi.  In ogni caso non va bene: rovino l’immagine del gay zitto e buono che si sposa, si ingozza di torta nuziale, è felice così e chissene importa se intanto il tasso dei suicidi lgbtqia+ sale in maniera preoccupante.

Sono bisessuale. Ed ogni personaggio storico con una relazione con una persona del suo stesso sesso è considerato automaticamente omosessuale, a prescindere da quello che effettivamente provava nei confronti degli altri generi.

Sono bisessuale. Conosco molte associazioni omosessuali e poche associazioni transessuali. E di associazioni bisessuali? Soltanto due.

Sono bisessuale. Non dò per scontato che il mondo sia binario, eppure mi sento dire da mille persone che non-si-etichettano o che utilizzano qualche etichetta-ultra-super-inclusiva frasi come no, preferisco dirmi pansessuale e quando chiedo loro perché, mi rispondono che identificarsi come bisessuale implicherebbe affermare l’esistenza di due soli generi e sarebbe transfobico nei confronti delle persone con un’identità di genere nonbinaria. Subito dopo, affermano che a loro piacciono uomini, donne e trans. Come se considerare quel ‘trans’ un mondo a sè stante non fosse transfobico, e soprattutto ignorando che io stesso sono un uomo trans, e sono bisessuale. Tuttavia, se mi identificassi come pansessuale, non esisterei lo stesso perché sarebbe considerata una nuova e inutile etichetta da hipster.

Sono bisessuale. Non ho scelto di esserlo, ma dal momento che lo sono scelgo di vivere la mia vita in maniera favolosa, splendente, liberatoria e rivoluzionaria e piena di rabbia, gioia, solidarietà, orgoglio.  E lotto per la mia liberazione e quella di tutte le persone bisessuali!

 

La femminista specista, ovvero facciamola finita con l’idea di ‘natura’ solo se non è in gioco la mia bistecca!

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Io amo le femministe, davvero.
Mi dichiaro femminista e antisessista da molto tempo, e lo faccio con orgoglio:  il femminismo ha avuto, ha (e auspico avrà!)  un ruolo essenziale nel mio percorso di donna e di persona che lotta per la propria – e l’altrui – libertà di autodeterminarsi all’interno di questo sistema.
Un sistema che, tra i tanti paradigmi dell’oppressione che agisce sui diversi soggetti che si ritrovano – loro malgrado – catturati al suo interno, vede nel sessismo una delle proprie punte di diamante.
E’ stato il femminismo (più ancora dell’antispecismo, al quale in realtà cronologicamente ero arrivata prima) che non solo mi ha liberato, ma mi ha aperto gli occhi anche su tutti i legami esistenti tra le diverse forme di discriminazione e di oppressione che prima sentivo più distanti dal mio cuore e dal mio attivismo.
Perché, ne sono convinta, se abbracci il femminismo veramente, tutto intero, nella sua dirompente capacità di rottura, se ti ci lasci attraversare, lacerare, se lasci che faccia luce anche sulle tue zone d’ombra, se permetti che rivoluzioni DAVVERO il tuo modo di pensare, allora ti cambia tutto… cuore, mente e pratiche politiche, tanto che la tua vita e la tua politica diventano un tutt’uno inscindibile.
Ed è per questo che ogni persona che si avvicina al femminismo (già, ogni persona, non ogni donna, che il femminismo rivoluziona anche gli uomini quando lo abbracciano, alla faccia di quegli altri così piccini e aggrappati al loro ruolo di genere che li definiranno con ridicoli neologismi come ‘maschiopentiti’, o quelle donne che definiranno il femminismo ‘cosa nostra’ in quanto Femmine con la F maiuscola, come se la rivoluzione la si potesse fare solo sui cromosomi XX senza per forza coinvolgere anche tutte le altre possibili combinazioni) è per me una gioia, una conquista, una speranza di quel mondo che oggi non esiste ma per il quale lotto… e del quale ho comunque la fortuna di vedere delle splendide avanguardie, già qui, già ora, in quelle  ‘Zone Temporaneamente Autonome’ (Taz) di libertà, che fortunatamente a tratti emergono nello stagnante oceano di inciviltà nel quale cerchiamo di galleggiare. Ma ahimé, spesso anche in ambito femminista mi scontro con realtà che mi deprimono, mi scoraggiano e avviliscono.

Bazzicavo sulla pagina Facebook di Femminismo a Sud, uno degli spazi che ho contribuito ad animare e al quale mi sento ancora molto legata, e mi trovo davanti agli occhi un post con una frase attribuita a Gary Francione, noto e controverso attivista animalista (sui suoi meriti e demeriti non mi soffermo in quanto la frase poteva essere attribuita, per quanto qui mi interessa, anche ai soliti Jim Morrison, Martin Luther King o Madre Teresa di Calcutta).

La frase, tradotta in maniera un pò zoppicante (cercherò di renderla un pò più scorrevole), è la seguente:

“Se dichiari di essere femminista… ma non sei vegana, hai le idee confuse, perché qualsiasi teoria femminista coerente richiede il veganismo. Una vera femminista si oppone alle gerarchie basate sul potere. Prima di tutto, il nostro consumo di prodotti animali non è null’altro che un’espressione di potere. Consumare prodotti animali ha lo stesso valore dello stupro in quanto rappresentano l’imposizione di sofferenza (ad altri) basata su questioni di potere. Secondariamente i prodotti animali, in particolare quelli dell’industria lattiero-casearia, derivano dallo sfruttamento della maternità.”

Nei commenti, molte sono state le femministe che hanno reagito negativamente a questa frase, spesso in maniera quantomeno verbalmente violenta e riportando brevi luoghi comuni al posto di ragionamenti articolati – it’s facebook baby! – ed a loro dedico le righe che seguiranno.

A prescindere perciò da chi sia Gary Francione, e dal tono catechizzante della frase che sicuramente ha avuto un effetto boomerang (visto che fa mettere le persone sulla difensiva anziché metterle nella disposizione d’animo di ascoltare e mettersi in discussione) poiché parlare di ver* femminista o antispecista o antirazzista non ha alcun senso ed è una delle peggiori piaghe dell’attivismo che definirò purista, o ‘a punti militanti’ – quello che per scardinare delle gerarchie ne crea altre di supposto merito basate su differenti parametri, ma seguendo le stesse logiche contro cui si scaglia –  quello che noto è che forse, a volte, sopravvaluto il potere del femminismo di rivoluzionare la vita delle persone. Non perché non sia una pratica dirompente, anzi: ma perché, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

E a malincuore devo dire che molte femministe, donne che lottano anche strenuamente per liberarsi e liberare altre donne dal giogo patriarcale, hanno, nei confronti dell’antispecismo lo stesso atteggiamento di dileggio, sfottò, quando non aperta rabbia e fastidio, del più becero dei maschilisti di fronte all’antisessismo.

Se c’è una cosa che ho imparato del mondo dell’attivismo in generale, è che essere attivist* non coincide automaticamente con l’essere non solo eroi/eroine, ma nemmeno persone particolarmente coerenti/empatiche/aperte… o persino socievoli!

Perciò sono consapevole che anche in questo, come in ogni ambito, troverò persone di ogni tipo – con le proprie incoerenze, idiosincrasie, disinteressi e limiti.
E va bene così, fintantoché quello che traspare non è aperto disprezzo, cosa che non sono in grado di tollerare.
Per quanto mi riguarda, il discrimine tra un comportamento accettabile e uno inaccettabile – in generale, ma soprattutto e ancor di più in ambito militante – sta nella capacità di ascolto e di confronto nella differenza. Facile restare nel proprio mondo rotondo di certezze acquisite, è quello che ci insegnano a fare nel sistema nel quale siamo scagliat* alla nascita, a fare quello son buon* tutt*.

Difficile ascoltare e accogliere, soprattutto quando ci mette in discussione in prima persona, dimostrandoci senza tanti giri di parole che il sistema di dominio è un sistema non verticale, piramidale, ma complesso e multiforme, nel quale nessuno è vittima tout court, ma tutt* anche carnefici di altre vite ed altre esistenze, che non possono restare inascoltate e respinte quando le loro grida, la loro sofferenza, il loro anelito di vita viene spento nella violenza (ancorché tenuta ben lontana dal ‘paradiso artificiale’ – si fa per dire – nel quale ci vogliono immers*).

Dei legami tra femminismo e antispecismo (senza escludere antifascismo e antirazzismo) si parla tanto e già da tanto, come sanno ormai tante persone.
Abbiamo dato vita al progetto intersezioni proprio perché sentiamo che quei luoghi dove si parla SOLO di femminismo, o di antispecismo, o di antirazzismo, o di antifascismo non ci corrispondono, o meglio, noi vogliamo di più … vogliamo tutto!

‘Nessun* sarà liber* finch* qualcun* sarà oppress*’.
La libertà non può e non deve essere prerogativa di poch*, o tant*, deve essere prerogativa irrinunciabile di tutt*, altrimenti non è libertà ma privilegio.

E l’ultimo baluardo di privilegio, quello più irrinunciabile per molt*, uomini e donne, è quello che ci dona acriticamente, in quanto ‘esseri umani’ (categoria del pensiero e non di natura inventata allo scopo di sfruttare altri esseri viventi e anche altri umani, modulando sulla presenza o meno delle ‘migliori’ prerogative umane – essere umani, bianchi, maschi, abbienti e di classe elevata – la gerarchia dello sfruttamento di tutt* coloro che non possiedono l’optimum dei requisiti) – il dono di FOTTERCENE APRIORISTICAMENTE della dose di violenza che imponiamo ad altri animali, umani e non, spesso comodamente per interposta persona, ma non per questo meno orrendi.

Fatevene una ragione: siamo animali, che vi piaccia o meno.
Abbiamo, come animali, caratteristiche peculiari? Sicuramente, come tutte le altre specie, vedi quelle che volano senza ausili meccanici, o nuotano e non affogano.
Sono queste nostre caratteristiche peculiari motivo sufficiente per sfruttare ed uccidere gli altri animali?
Non proprio, considerato che ci siamo creat* una scala di valori a nostro personale uso e consumo (la ‘razionalità’ un valore? Eh sì, tanto quanto la dotazione di un pene!) e abbiamo potuto farlo semplicemente costruendo il nostro privilegio con l’imposizione della forza e di immane violenza su altre e altri.

A quelle femministe che derubricano ad inessenziale, dileggiano o apertamente osteggiano l’antispecismo voglio far notare che nel non prendere in considerazione il proprio ruolo di oppressione sugli altri animali, nel non lasciare aperta la porta alla novità e al cambiamento, nel non mettere in dubbio il proprio ‘privilegio’ umano, voltano le spalle ad una enorme potenzialità, e non solo rivoluzionaria per loro stesse ma anche per la ‘causa’ per cui dicono di lottare, ossia quella delle donne, le cui istanze sono inscindibili dalla messa in discussione di un sistema basato sull’oppressione di determinati gruppi su altri, in tutte le possibili e immaginabili combinazioni.

Non è ancora giunta l’ora di mettere in discussione anche i propri privilegi oltre a quelli patriarcali?
Meditate femministe, meditate.

Ps: Affermare lapidariamente che antispecismo e femminismo non c’entrano nulla, sminuendo così il lavoro di tante studiose femministe che hanno contribuito con i loro preziosi scritti a porre nella giusta luce la questione animale e quella femminista in un’ottica intersezionale è, come dire… un pò superficiale, e dimostra di non avere le idee molto chiare a riguardo. Perciò, dopo aver affermato con soddisfazione che la terra è piatta, sarebbe possibile guardare senza pregiudizi a quelle teorie che la postulano rotonda?

Approfondimenti:
Guarda il video ‘intersections’ di Breeze Harper sottotitolato in italiano:

Esauriente bibliografia ecovegfemminista.
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mentalità della carne
antifascismo e antispecismo
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Nessuno sa di noi – Simona Sparaco

2Nessuno sa di noi, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.

I personaggi principali del romanzo sono Luce, una giornalista free lance che sembra non aver mai preso realmente in mano la propria vita, Pietro, suo compagno benestante e paziente, al quale lei si affida completamente, e  Lorenzo, figlio desiderato, immaginato, sentito, che la coppia è costretta a seppellire prematuramente. Personaggi che agiscono in funzione del vero protagonista: l’aborto tardivo e il suo significato per chi lo vive dall’interno. Sullo sfondo un mondo opaco, sordo ai bisogni delle persone, feroce.

Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.

Nessuno sa di noi

pag. 7

Displasia scheletrica. Due parole che insieme suonano così infauste. Le digito in un motore di ricerca e non per scrivere un articolo sulla malasanità, ma per la vita di mio figlio.

Nessuno sa di noi
pag. 35

«Non posso suggerirvi un’interruzione di gravidanza» prosegue il dottor Piazza, incrociando le braccia, in un gesto di chiusura definitiva. «Anche se le condizioni del feto potrebbero rivelarsi incompatibili con la vita. In Italia è consentita solo fino alla ventitreesima settimana, non oltre.»
«Che significa?» domanda ancora Pietro, e mi stringe forte la mano.
«Se rientrassimo nei limiti di legge, potrei proporvi di anticipare il parto. Alla ventitreesima settimana e in queste condizioni, il feto non ce la farebbe. Stiamo parlando di un aborto conosciuto come terapeutico o eugenetico. Ma nel vostro caso siamo ben oltre i termini consentiti.»
Parla ancora al plurale. Questa volta di sopravvivenza, di leggi e limiti. Il pronome è sbagliato, però, non c’è un noi in questa stanza. O forse sì; noi siamo io e Lorenzo.
«Mi faccia capire» lo esorta Pietro. E’ pallido, deglutisce a fatica, si muove nervoso sulla sedia, non come la madre, che mantiene la testa alta e la schiena dritta. «Queste malattie così gravi e incompatibili con la vita si possono scoprire solo quando si è arrivati così avanti con la gravidanza che non si può più interrompere?»
«Per interruzione, in questo paese, si intende la possibilità di anticipare il parto. Il limite è stabilito in base all’autonomia del feto rispetto al ventre materno. Un feto di ventitré, anche di ventiquattro settimane, non sopravvive al di fuori dell’utero e può essere quindi abortito.»
Il dottore ci guarda, forse in attesa di una reazione. Ma siamo tutti e tre ammutoliti. «A dire la verità» riprende, come se si sentisse in dovere di precisare «ci sono stati casi in cui feti abortiti sono spravvissuti ugualmente, perché le tecniche di assistenza neonatale progrediscono di anno in anno, e per legge un medico ha il dovere di metterle in pratica qualora ce ne fosse bisogno. Un feto abortito che sopravvive è però un feto con una grave patologia a cui si aggiunge una serie di problematiche legate al fatto che è nato pretermine, per dirvela in parole chiare. Ed è per questo che a livello parlamentare si sta pensando di abbassare ulteriormente il limite consentito a ventidue settimane.»
Sono travolta da flash di bambini microscopici e malati costretti al sacrificio crudele di venire al mondo, solo per esalare il loro primo e ultimo respiro. O che riescono a sopravvivere al parto, e crescono, isolati, malnutriti, dentro un’incubatrice, nient’altro che un ventre di plastica, asettico e rigido, che li accoglie invece di ripudiarli.
«Noi siamo alla ventinovesima settimana» riassume Pietro, stringendo la mia mano ancora più forte. «Abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti. Ma lei mi sta dicendo che mio figlio potrebbe non farcela, oppure, da quello che so, andare incontro a una vita breve, dolorosa, con dei ritardi cerebrali, o peggio, un quoziente intellettivo al di sopra della norma?»
«Lo so.»
«E allora?» lo incalza Pietro. Ha gli occhi fissi sul dottore. Il panico si sta trasformando in rabbia e in sfida. Mi lascia andare la mano. Sento la sua presa salda venire meno un dito alla volta. Il bottone del pulsante che s’allenta, l’emicrania che mi spacca in due la scatola cranica. Impazzisco. Mi spengo.
«E allora» ripete il dottor Piazza inarcando le sopracciglia «sarà fatta la volontà di Dio.»

Nessuno sa di noi
pag. 54-55

Numerose sono le critiche piovute su questo libro a causa dello stile non particolarmente brillante, con personaggi abbozzati o troppo stereotipati che agiscono meccanicamente. E pure, spostandoci dal piano della pura critica letteraria a quello del solo contenuto, Nessuno sa di noi, colpisce perché si fa carico di una tematica tabu, l’aborto in fase avanzata, senza sconti emotivi, mettendoci di fronte ai dubbi e al dolore di una donna, e di una coppia, in fin dei conti fortunata rispetto alla media, perché potrà permettersi un viaggio in Inghilterra, dove sarà possibile interrompere la gravidanza oltre il termine stabilito dalla legge italiana, e avrà la possibilità di giungere, in fine, a un nuovo equilibrio di coppia e personale. In questo senso Nessuno sa di noi offre un servizio che si rende ormai urgente, inderogabile, alla nostra società, che stigmatizza e oscura il ricorso all’aborto: parlare di interruzione di gravidanza senza pregiudizi, mettendo in un angolo tutti i “se” e i “ma” con i quali si riempiono la bocca i moralisti con la vita degli altri, i ‘coscienziosi’ detrattori del diritto alla scelta. Non dà risposte, mette in campo la libertà di scelta, in un contesto, quello italiano, in cui da anni il dibattito sull’aborto è inquinato a causa di interessi politici, inciviltà e derive inquisitorie. Ma amore, coscienza e rispetto, possono esprimersi attraverso modalità inaspettate, al di sopra delle tifoserie del ‘pro’ e del ‘contro’.
E’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.

Nessuno sa di noi
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00

Un lunedì qualunque

Giannini_Fronte_Uomo_Qualunque

Ci sono alcuni lunedì più pesanti di altri. Questo lo è, per via di quello che è successo nel fine settimana. Che si è sommato a tante altre cose già successe. Continuo a vedere nella cultura di questo paese il suo “grosso problema”: non perché viene prima di tutti gli altri, ma perché è il terreno sul quale crescono tutti gli altri. Finché questo terreno non lo risaneremo – e ci vorranno anni, generazioni – gli altri problemi non finiranno. E prima o poi, da qualche parte, bisognerà cominciare. Verrà, prima o poi, un lunedì migliore.

Ciao, sono un giovane scrittore che ha stampato il suo primo romanzo con un grandissimo editore di un grandissimo gruppo editoriale, ma non mi si è filato nessuno. Allora scrivo un articolo pieno di scemenze e banalità mescolando temi che fanno sempre tanto parlare – ragazzine, sesso, femminismo, moralismo – e adesso tutti sanno il mio nome. Con l’occasione lo scrivo pure su un giornale da rilanciare un po’, e siamo tutti contenti.

Ciao, sono un demente complottista che preferisce infilare i fatti negativi uno dietro l’altro tratteggiando oscuri e fantomatici disegni di gigantesche potenze mondiali piuttosto che prendermela di petto con lo stronzo del momento. Mi masturbo pensando alla mia intelligenza superiore che vede e sa cose che gli altri ignorano, così posso godere dell’altrui frustrazione chiuso nel mio piccolo mondo fatto di niente, felice di aver capito tutto e di scegliere i rapporti umani in base al tasso di complottità dei soggetti.

Ciao, sono un vecchio politico ipocrita, volgare e bollito di un partito che pochi mesi fa era al governo e adesso ha racimolato a stento il necessario per stare in Parlamento, a parte nella regione nella quale (e per la quale) è nato. Siccome serve dare un segno di vita, mi metto a dire che un nostro ministro di colore mi ricorda un orango*, così tutti tornano a parlare di me e i giornalisti prezzolati possono dire che il mio è un modo di dare voce a un sentimento diffuso.

Ciao, sono un dirigente d’azienda del ’34 che ha svolto soprattutto incarichi di risanamento per grandi gruppi in fase di crack o simili. Ho anche ricevuto incarichi direttamente dal Presidente del Consiglio. Negli ultimi tre mesi sono stato scelto dai proprietari dell’ILVA come amministratore delegato, poi mi sono dimesso perché l’azienda è stata sequestrata dai magistrati, e allora il Presidente del Consiglio (un altro, non quello di prima) mi ha fatto commissario della stessa azienda. Ho fatto subito presente che a Taranto si muore soprattutto a causa di fumo e alcool.

Ciao, siamo un gruppo di persone che ha imparato molto bene certe strategie di comunicazione politica e di politica spicciola da un politico italiano di grande successo, e ora ci campiamo alla grande spacciandoci per essere gli unici liberi di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità – quella di chiunque, ovviamente, perché per noi il pluralismo e la democrazia significano dare credito a qualunque stronzata. Purché pubblicata sul nostro giornale, nei nostri libri, sui nostri siti, democraticamente diretti.

Ciao, io sono uno stronzo che: ci sono altri problemi più importanti; le cose sono sempre andate così; il femminismo è un fondamentalismo, come tutti gli “-ismi”; le mie sono critiche costruttive; non sono fascista, sono loro i violenti, andrebbero ammazzati tutti; una volta era meglio; non ho nulla contro i gay ma l’esibizionismo è una violenza pure quella; così facciamo piangere Gesù; fuori va bene, ma dentro casa mia certe cose non le tollero.
E permetto a tutti quegli altri, sopra, di diffondere la loro cultura.

Potete continuare con esempi qualunque, se vi va, qui sotto nei commenti.

* ricordo a chi non sa cosa sia lo specismo che dare dell’orango a qualcuno non è un insulto, anche perché in Parlamento ci starebbe senz’altro meglio che una merda (cit. Feminoska, che ringrazio). Il problema è che questo serve a fare rumore mediatico. Che rumore fa una merda? Appunto.

Transgenitorialità: intervista ad Egon

 Siamo felici di potervi proporre un’interessante intervista fatta ad Egon, genitore transessuale, che ha, gentilmente, accettato di rispondere a delle domande sulla transgenitorialità, argomento di cui si parla, si legge e quindi si conosce ben poco. Buona lettura!

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1) Quando è iniziata la tua transizione?

Ufficialmente la mia transizione è iniziata nel 2011, con la presa in carico del mio caso da parte dell’ospedale Careggi di Firenze, dove, presso il reparto di endocrinologia, c’è un centro specializzato nei “disturbi di genere”.  In realtà quello è stato solo il momento in cui ho scelto di affrontare questo mio sentire, che in realtà mi ha accompagnato, in vari modi e in varie fasi, per tutta la vita. Il mio rapporto con quello che credevo fosse la mia parte oscura, ha un’immagine ben precisa: era come se dentro di me ci fosse una porta, con scritto sopra a caratteri cubitali, “non aprire”, ed io mi ero attenuto a questo divieto, girandoci solo intorno, spiando dalla serratura, finchè un giorno la porta si è spalancata, e quello che è uscito fuori non è più voluto rientrare. Il divieto che mi impediva di oltrepassare quella soglia e conoscerne il contenuto era fatto di paura, paura di essere troppo diverso, di perdere tutti gli affetti per colpa di questa diversità inconcepibile, di perdere i miei genitori, di perdere la possibilità di vivere nel mondo, nella società e di morire quindi solo e abbandonato, nella indigenza più assoluta.  Quindi evitavo di domandarmi perchè, fin da piccolissimo, avrei voluto essere un maschio, perchè nei miei giochi di fantasia io fossi esclusivamente un personaggio maschile, perchè, quando scendeva la sera, io non vedevo l’ora di andare a letto e giocare, così disteso, ad essere un ragazzo, ed inventare da fermo strane avventure. Poi venne anche la scrittura, ed anche nelle mie storie io ero sempre un eroe maschile. Alla fine cominciai a vedere, nella mia immagine riflessa allo specchio, quella di un mio doppio maschile, che mi guardava beffardo ed inarrivabile, una specie di fratello cattivo che mi tormentava con la sua bellezza…stavo lunghi momenti ad ammirarmi schiacciandomi il seno, estasiato dal mio busto piatto…  Come donna mi sentivo completamente inadeguata, disarmata, non capivo le regole e le necessità della socializzazione al femminile, e detestavo ed invidiavo al contempo le rappresentanti del mio sesso biologico che sembravano invece padroneggiarla con disinvoltura…qualche volta fingevo di essere come loro…  Mi piacevano i giochi maschili, fisici, o i giocattoli come le macchinine, mentre detestavo le bambole…quando ad 11 anni ho voluto le prime barbie, facevo finta che fossero ragazzi e creavo storie complicatissime che li vedeva protagonisti.  Ho creduto spesso di essere pazzo, schizofrenico e piangevo molto: mi chiudevo nella mia camera e piangevo per ore, inconsolabile, sentendomi assai solo. Odiavo di me anche questa necessità irrefrenabile di piangere, salvo scoprire molto più tardi che questa capacità mi ha salvato, facendo sfogare fuori tutto questo mio mondo interiore che non capivo e di cui ero profondamente spaventato ed imbarazzato.  Ho vissuto alcuni anni da lesbica bucht, sentendomi bene perché le “mie” donne mi trattavano da uomo, ma anche in questa esperienza c’era qualcosa che mi metteva a disagio, c’era qualcosa di falso, di incompleto. Oltretutto a quei tempi il mondo lesbico era assai separatista, ed io che mi dichiaravo bisessuale ( l’unica cosa di cui sono stato sempre sicuro) venivo visto come un traditore, un insicuro. I bisessuali non erano concepiti allora nel mondo omosessuale, c’era il detto “bisex now, gay later”. Poi è cominciato il tentativo di adeguarmi, di cercare di vivere secondo quello che il mondo si aspettava da me. Ho conosciuto, sul lavoro, un ragazzo più giovane di me, un ragazzo di cui avevo molta stima, bravo nella sua attività, onesto, intelligente e di un moralità assai rigida. Nonostante la nostra diversità, un giorno lui mi disse che si era innamorato di me. Mi cascò il mondo addosso: avevo raggiunto un equilibrio, in quel momento ero single ed avevo una vita sessuale abbastanza libera, il lavoro andava bene, il divertimento anche…ma a quel ragazzo così onesto, così per bene, ricco, come potevo dire di no, sottrarmi a questa fortuna? Era come un treno che passava ed io dovevo montarci per forza. Lui si stabilì nella casa che io avevo in affitto ed abbiamo avuto una storia di 9 anni: ci siamo sposati, abbiamo fatto due bambini che io desideravo, abbiamo creato un’attività insieme, ma quella persona, che per me rappresentava la stabilità che io non avevo, il punto fermo di affetto incrollabile che io cercavo non avendolo trovato nei miei genitori, era sopratutto una gabbia.  Lui ha creato intorno a me una prigione, talmente soffocante da essere, credo, il detonatore che ha aperto per sempre quella porta che fino ad allora non mi ero deciso ad affrontare. Quando ho ricominciato, a 39 anni , a vivere solo nel mio mondo di fantasia, a fare finta di essere un uomo, ho finalmente accettato di indagare quello che  stavo facendo, a volergli dare un significato.  Tra l’altro, per resistere alla quotidianità, avevo cominciato a bere. Mi rivolsi dapprima ad una terapeuta con cui ebbi il coraggio di parlare del maschio che viveva dentro di me e da lì presi la decisione di rivolgermi ad un centro specializzato.  Ero spaventatissimo, ma ero anche stanco di scappare. Così, al Careggi, ho affrontato 9 mesi di incontri con gli psichiatri; mi sono stati somministrati test lunghissimi per valutare la “disforia di genere” (questo è il termine per il transessualismo), per fare diagnosi differenziate, mi hanno dato psicofarmaci per combattere l’ansia e la depressione che avevo (che ho accettato di prendere solo per amore dei miei figli, perchè non volevo che mi vedessero più piangere disperato per ore), ed alla fine dei 9 mesi è stata “emessa” la diagnosi di transessualismo.  Così mi sono potuto rivolgere all’endocrinologo (che fa sempre parte dello staff del centro specializzato) per avere la cura mascolinizzante, a base di testosterone, che pian piano ha modificato il mio corpo: sono cresciuti i peli, i muscoli, il viso si è scavato, il grasso spostato, il clitoride è aumentato di volume, così come la libido. Dopo un anno e mezzo di ormoni (che comunque dovrò prendere per tutta la vita) e dopo un iter lunghissimo al tribunale, mi sono operato di mastectomia (rimozione del seno) all’ospedale Cattinara di Trieste.

Per “finire” il percorso, e cambiare i documenti, dovrò anche fare l’isterectomia. Contestualmente a tutto ciò è stato per me fondamentale il lavoro psicologico fatto con la psicologa del consultorio Trans Genere di Torre del Lago, che mi sostiene dall’inizio del percorso e che è una delle mie principali risorse per affrontare tutte le difficoltà di questo lungo cammino.

2) Quando hai iniziato il tuo percorso FTM eri già genitore di due figli: avevi paura della loro reazione rispetto al tuo cambiamento? E se sì come sei riuscito a superarla?

Quando ho iniziato la transizione mia figlia aveva 3 anni e mio figlio 5. Loro stati la roccia dura su cui io ho potuto appoggiare i piedi…tutto intorno a me franava e l’unica cosa certa era la loro presenza, il fatto che, così piccoli, loro avevano bisogno di me, della loro mamma, e che questa mamma funzionasse.  Non riuscivo a vedere niente del mio futuro, l’unica immagine che mi teneva a galla era quelle di me, transizionato, che crescevo i miei figli, in un posto mio, con la fatica del mio lavoro, qualsiasi fosse.  Per loro, come ho detto, ho accettato di prendere, per un periodo, antidepressivi ed ansiolitici, perchè non potevo continuare a farmi vedere da loro disperato come lo ero in quel  momento, senza la capacità di riprendermi.  Il fatto di avere avuto l’esperienza di una mamma depressa, mi è stato da memento: quando la madre soffre i bambini non possono stare bene. Inutile rimandare o non fare delle scelte per proteggere i bambini, quando poi queste cose ti schiacciano e ti impediscono di vivere serenamente il ruolo di genitore. Avevo però enormemente paura per loro, credevo che avrei potuto creargli dei danni permanenti vedendo la loro madre trasformarsi sotto i loro occhi, e le persone intorno (nonni, zie) rinforzavano questa mia paura ed alimentavano in tutti i modi i miei sensi di colpa, facendomi sentire un genitore indegno e cattivo. E’ stato solo per l’intervento della psicologa del consultorio se sono andato avanti. Lei mi ha fatto lavorare lungamente su me stesso e mi ha fatto capire che i miei figli non correvano alcun pericolo, gli unici problemi sarebbero venuti caso mai dall’esterno, dall’impatto con la società non matura per accettare certi fenomeni esistenziali. All’inizio non le credevo, ero terrorizzato per loro, fui sul punto di tornare indietro, ma il rapporto terapeutico era solidissimo e io mi sono affidato a lei ed il tempo le ha dato ragione.

3) Aldilà delle tue paure, come in effetti i tuoi figli hanno poi vissuto la tua scelta? Come hanno vissuto il tuo cambio di nome e di aspetto? Hanno avuto problemi a scuola, tra gli amici/che?

La psicologa che mi segue mi aveva dotato di semplice regole per affrontare la transizione con i miei figli: essere sinceri, non confonderli e continuare a svolgere il mio ruolo di madre, fargli sentire che la loro madre era sempre lì, che non se ne sarebbe andata via anche se cambiava aspetto.

In effetti è proprio questo di cui hanno paura i bambini piccoli: se un genitore cambia, il genitore va via.

Così vanno sempre rassicurati su questo punto, fargli sentire tutto il nostro amore per loro, fargli sentire che questo dato non  cambia, anche se la mamma non ha più le trecce ma i capelli rasati.

Un altro consiglio era quello di aspettare sempre le loro domande e poi spiegargli come stavano le cose.

Quindi i miei bambini hanno cominciato a chiedermi perchè le persone mi chiamassero con il tal nome e non più con il nome che loro avevano conosciuto sino ad allora e perchè mi dessero del maschile. Io ho spiegato tutto con tranquillità e sincerità, mettendogli a parte dei miei sentimenti. Loro adesso sanno e comprendono chiaramente che la loro madre si “sente” uomo pur essendo nata in un corpo femminile, che gli ha permesso di essere la loro madre, e che per questo suo sentire ha cambiato delle cose fisiche, come avere più muscoli e più peli ed aver tolto il seno. Benchè vedano questo chiaramente, nella percezione che hanno di me nulla è mutato, perchè per loro io sono sempre la stessa mamma, che si cura di loro, li ama e li protegge e a cui loro sono attaccatissimi.

Per adesso non hanno avuto nessun tipo di problema, né a scuola né con il resto della famiglia, ma non dubito che questo momento arriverà, cosa di cui ho una grande paura e di cui mi sento responsabile, ma ho anche imparato a non preoccuparmi delle cose prima che accadano perché spesso sono assai diverse da come ci si immagina.

4) Puoi raccontare qualcosa riguardo i cambiamenti – se ci sono stati – nel tuo linguaggio e in quello che sentivi attribuito a te dagli altri? In questo senso cos’è accaduto con le istituzioni e nelle occasioni pubbliche (riunioni tra genitori a scuola, sul luogo di lavoro, palestra/supermercato/bar…)?

Mi stupisco sempre del fatto di come mi sia venuto naturale, da subito, parlare di me al maschile dopo quasi 4 decenni di socializzazione al femminile; saranno state le ore e ore di gioco protratto fino, ed anche oltre l’adolescenza, in cui mi “immedesimavo” nella parte del maschio, cercando di modularne anche la voce ( e che gioia il fatto che adesso la mia voce sia effettivamente maschile, senza sforzo né finzione). Per le persone intorno, invece, è determinante l’aspetto fisico e l’abitudine. Quando ti cresce la barba e non hai più il seno, diventa difficile che qualcuno ti dia del femminile. Per me il passaggio definitivo, il momento in cui al di fuori il tuo aspetto non dà adito a dubbi, è coinciso con la mastectomia, la rimozione del seno. Da quel giorno, per il mondo, sono un uomo.

In famiglia invece è diverso. I miei figli continuano a chiamarmi mamma e a darmi del femminile, cosa che ritengo nel loro pieno diritto e che non mi disturba, ed anche i miei genitori hanno enormi difficoltà ad abbandonare il concetto di me come donna, come loro figlia. La mastectomia ha comunque segnato però un passaggio anche in  questo caso, con mia madre che comincia almeno ad affrontare il “problema” del mio nuovo nome e genere, mentre prima dichiarava che non avrebbe mai smesso di chiamarmi con il mio nome di battesimo e mai mi avrebbe considerato un uomo.

Nel luoghi “istituzionali”, quelli cioè in cui hai bisogno di esibire il tuo nome anagrafico, quindi tutto ciò che a che fare con la burocrazia, che sia un ufficio postale, una banca, una richiesta medica, si creano situazioni che possono avere del comico o essere tragiche per chi le subisce.

Comunque il passare da essere considerato donna a essere percepito come uomo, porta con sé dei cambiamenti che sono molto interessanti per far emergere come ancora la nostra società non sia egualitaria tra i sessi. Agli uomini ci si rivolge più volentieri, più direttamente, si scelgono come interlocutori privilegiati, e non devono subire lo sguardo indagatore degli astanti, che ti fanno sentire perennemente preda e sotto esame.

5) Credi che l’età dei figli possa giocare un ruolo importante nel modo in cui si apprende la scelta di transizione di un proprio genitore? Oppure è solo una questione di educazione/cultura, ovvero che, se questa società non fosse così transfobica (oltre a tante altre cose), la questione del possibile “trauma” non sussisterebbe?

Secondo me è impossibile ragionare di società altre rispetto a quella in cui viviamo e di cui dobbiamo subire/agire le dinamiche. Molto probabilmente se la nostra società non fosse transfobica, non ci sarebbero differenze di reazione di fronte ad un genitore transessuale dipendenti dall’età della prole.

Dal momento invece che nel “nostro” occidente, la transessualità è spesso considerata un evento imprevisto e dissacrante, non sano, non umano, non “naturale”, al di fuori di ogni convenienza e convinzione, l’età del figlio è determinante per accogliere la notizia che sua madre o sua padre sono transessuali.

Un bambino piccolo è ancora fluido, le rigide categorie della nostra normatività non sono ancora monoliti cristallizzati. Se il vissuto dell’esperienza del genitore transessuale viene raccontato ed esperito con serenità, diventa un dato del reale assolutamente tranquilizzante, come ogni altra caratteristica del genitore. Se la mamma ed il papà sono buoni genitori, se mantengono il loro ruolo di figure accudenti e di riferimento, al bambino/a non importa che forma abbiano.

Quello che al bambino interessa è che i genitori siano fonte di amore, cura e sicurezza.

Fondamentale è quindi restare vicino ai bambini nel proprio ruolo e esprimersi con i bambini con sincerità e chiarezza su quanto sta succedendo. Non bisogna imbrogliare i bambini, bisogna metterli a parte di quello che mamma o papà stanno facendo, aspettando però che siano loro a chiedere spiegazioni.

Sicuramente i problemi verranno poi da fuori, quando i bambini/e potranno essere derisi per il genitore “diverso”. Compito della famiglia credo sia allora quello di rendere i/le piccol* forti e preparat* a questa evenienza, e forse questa precoce esperienza della diversità in seno alla famiglia, anzi proprio in una figura amata, possa dare una marcia in più ai nostri figli/e.

Arriva un momento che i bambin* possono essere derisi per tutto, perchè grassi, o con il naso lungo, o troppo bassi o troppo alti, perché portano gli occhiali o l’apparecchio…avere visto come ci si confronta in modo positivo con la diversità in un mondo non troppo accogliente può rendere questi bambini/e più saggi e forti.

6) Oltre all’aiuto di esperti, cosa credi si possa fare per aiutare chi ha già dei figli e vuole transitare o chi ha già intrapreso questo percorso e desidera avere dei figli? Esiste una rete per la trasgenitorialità dove trovare info e supporto necessari?

Credo che, come in ogni altro momento della transizione, il confronto tra pari sia fondamentale. Spesso i cosiddetti “esperti” non sono affatto preparati su certi argomenti, tanto che a molti genitori transessuali dicono essere casi rari e difficili, salvo poi scoprire un grande numero di genitori transessuali  (certo una minoranza rispetto ad una norma e rispetto anche alle persone transessuali in genere). Per questo considero l’esperienza di mettersi in rete tra genitori transessuali molto interessante ed è quello che ho cercato di fare io sin da subito. Ho così conosciuto tante madri e tanti padri trans, tante esperienze da scambiarci che ci hanno aiutato a superare i momenti difficili. Infatti il mutuo aiuto può essere uno strumento validissimo, chi ha già affrontato e risolto certe situazioni con i figli/e, può mettere la sua esperienza a servizio degli altri. Non si tratta di sostituirsi a certe figure e fare terapie, ma “solo” di raccontarsi con apertura, umiltà e responsabilità e mostrare come “ce l’abbiamo fatta”. Un momento assai importante per me di questa rete è stato quanto sono stato invitato a unirmi alla “rete genitori raimbow”, associazione di volontariato presente in varie regioni d’Italia, che ha lo scopo di supportare i genitori che hanno avuto figli/e da precedenti relazioni etero.

7) In Francia una legge permetterà alle coppie gay e lesbo di sposarsi e adottare dei figli. In Italia questo non è ancora possibile ma quando se ne parla si declina il tutto rispetto all’omosessualità e il lebismo. Perché pensi che le persone trans siano escluse e come ti poni rispetto alla possibilità di allargare tali diritti anche per i/le trans?

L’immagine comune della persone trans, oltre al fatto che sia una prostituta, è quella di una persona omosessuale e che ripudia le sue caratteristiche genitali, per cui un candidato impossibile alla genitorialità. Quale donna che si sente uomo potrebbe accettare una gravidanza e quale uomo che odia il suo pene potrebbe diventare padre?

Quindi il problema della genitorialità transessuale non viene neanche minimamente in mente nelle persone “comuni”. Benchè la realtà sia ben differente, è certamente vero che per le persone transessuali la genitorialità è di fatto proibita una volta iniziato il percorso di transizione. La terapia ormonale femminilizzante, nel casi delle mtf, distrugge in pochi mesi la capacità riproduttiva e non si dà nessuna informazione alla persona che inizia, sulla possibilità di congelare i suoi gameti prima che la produzione di spermatozoi venga distrutta per sempre, cosa che avviene invece in altri paesi. Comunque, se ci fosse rimasto un dubbio, per cambiare i documenti in Italia è richiesta la sterilizzazione chirurgica. Così, anche nel caso degli ftm, le cui gonadi potrebbero “ripartire” se la terapia mascolinizzante non viene portata avanti a lungo, si richiede l’isterectomia per essere sicuri che non ci siano uomini che facciano bambini, come invece succede negli “scandalosi” Stati Uniti.

Così, il transessuale, anche se giovane, deve rinunciare all’idea di diventare genitore.

In effetti l’esperienza dei genitori transessuali, qui in Italia, è proprio quella raccolta da associazioni tipo “rete genitori raimbow”, cioè persone che sono diventate genitori prima di intraprendere il loro percorso e spesso in seno a situazioni “tradizionali” come matrimoni o comunque relazioni monogame etero.

Nel caso dell’adozione, quando una persona trans ha rettificato il sesso e i documenti, ha gli stessi diritti di una persona biologica, quindi se in coppia con una persona di sesso opposto, ha sulla carta più diritti che un single o una coppia omosessuale, ma nella realtà, il tribunale dei minori, ben si guarda da dichiarare idonea all’adozione una persona con tale trascorso.

Dal momento che è ormai palese come il ruolo genitoriale non dipenda dal sesso della persona, né dalla forma della coppia, bensì dalla capacità di assolvere la figura di accoglimento-contenimento del bambino/a, bisognerebbe sganciare la figura del genitore e del benessere del bambino/a dalla forma della famiglia triade (mamma, papà, figlio/a) che non è affatto una forma data e costituita per “essenza” della famiglia umana, ma solo una declinazione di famiglia frutto di una certa congiuntura economica e sociale. Nella storia e nei luoghi sono esistite tante altre forme di famiglie assai diverse dalla nostra mononucleare ed eterosessuale che si è imposta negli ultimi cento anni, che hanno adempiuto il loro ruolo di crescere la prole come ed in alcuni casi meglio delle nostre “sacre famiglie” tanto decantate.

Quindi mi sentirei di dire che le persone sono importanti, non la norma, e che i bambini crescono bene tra persone libere, soddisfatte ed equilibrate.

Ringraziamo Egon per la disponibilità e speriamo che la sua testimonianza sia di aiuto per tante persone!

Intanto, se ne volete sapere di più, vi riportiamo dei link/video segnalatici da Egon.