E’ da molto tempo che girano pseudo difensori del machismo – pseudo perché certo il machismo non ha bisogno di difensori, dato che purtroppo se la passa benissimo – i quali usano argomenti abbastanza comici; se non fosse che molti li prendono sul serio, o per specularci e ottenere visibilità, o per trovare confermate le proprie ipocrite certezze di maschione. Questo pezzo è un po’ vecchiotto ma ha il pregio di riassumere quasi tutte le posizioni “difensive” di questo particolare tipo di sessista, che non si può tanto tacciare di ignoranza perché ha evidentemente studiato, né di ipocrisia perché in fondo è molto coerente. E’ che proprio non ci arriva, perché tutto fa tranne che mettere in dubbio il piedistallo sul quale l’ha messo il patriarcato. E da lì si mette pure a fare il difensore della “questione maschile” – per come la intende lui: cioè gli uomini soffrono tanto perché tutto trama contro di loro, poverini. Statene a sentire la genialità.
Parità per gli uomini. Dentro il tabù della questione maschile [quando si dice che il titolo è tutto un programma…]
Ideologia femminista e paternalismo maschile, gli alleati che non ti aspetti [effettivamente ci vuole una certa dose di coraggio. Me costui ce l’ha, state a vedere]. Così la “questione maschile” resta un territorio inesplorato dall’analisi politica; di più, la sensazione è che si tratti di un argomento intoccabile per chiunque intenda fare politica “sul serio” [una bella dichiarazione di modestia, che traduce in termini più aulici il classico del Marchese del Grillo: “io so’ io e voi nun sète un c…”. E vedrete che tanta presunzione non è spesa invano].
Nei fatti, dietro all’apparente neutralità del termine “pari opportunità”, si nasconde una visione unilaterale ed escludente dei temi di genere che troppe volte si riconduce a un mero sindacalismo femminile [Nei fatti: vedremo quanti ce ne saranno, di qui in poi. Ah, è chiaro che già questa frase contiene parecchie cosucce sbagliate a bella posta: pari opportunità non si capisce come potrebbe essere un termine neutrale, in una società smaccatamente patriarcale come questa; né si capisce come potrebbero essere escludenti, se sono pari, le opportunità. Poi, che caspita è il sindacalismo femminile? Ah, sì, quella visione maschilista per cui le donne sono tutte unite contro l’uomo, per cui non ci sono differenze nel pensiero femminista, nelle organizzazioni femministe, nelle azioni politiche delle donne. Cose che, ammettiamolo, solo un uomo può arrivare a concepire.]. Non è solo sudditanza al politically correct [ah, beh, in Italia, noto avamposto della correctness politica, c’è proprio questa sudditanza, come no]; c’è anche quello naturalmente, ma da solo non basterebbe a giustificare l’unanimismo e il trasversalismo [ma sì, perché usare due banali aggettivi quando posso sostantivarli e trasformarli in un mostro? Non una cosa unanime, ma l’unanimismo; non una cosa trasversale, ma il trasversalismo. Manco Rambaldi li faceva, effetti così speciali] che si riscontrano sulla maggior parte delle “soluzioni” invocate dalla “lobby rosa” [la famosa, unica, potentissima, riconosciuta e universalmente nota lobby rosa. Chissà, forse pensa a Peppa Pig]. Probabilmente questa assenza di contraddittorio [AHAHAHAHAHAH, certo, la nota assenza di contraddittorio alla lobby rosa, che infatti in Italia spadroneggia e decide tutto lei, no? AHAHAHAH] si spiega con il fatto che, nello specifico della questione di genere, entrano in gioco fattori inibitori profondi, in qualche modo legati all’atavico dovere maschile di proteggere le donne [sì, avete letto bene: secondo questo genio della sociologia, la fantomatica lobby rosa comanda incontrastata perché gli uomini sono inibiti dalla loro devozione al ruolo di difensori delle donne. Quanta fantasia sprecata]. Si crea così, all’atto pratico [all’atto pratico, infatti finora il nostro ha snocciolato esempi, numeri, dati, ricerche, no?], una sostanziale convergenza tra ideologia femminista e paternalismo maschile [mi permetto: costui – tra le altre cose – non ha idea di cosa significhi paternalismo] verso esiti politici che istituiscono nella legge o nella prassi speciali tutele a favore del sesso femminile [eh beh, sì, ammettiamolo, di queste speciali tutele a favore del sesso femminile non se ne può più. Le donne sono le più occupate, hanno i lavori migliori, hanno pensioni superiori, hanno ospedali più efficienti, strade più pulite, quartieri più sicuri, automobili più veloci e tutti gli orgasmi che vogliono – nella legge o nella prassi, sia chiaro].
Rispetto ad altri ambiti dove se ne percepisce l’obsolescenza [quali? Non ci viene detto, ovviamente], sui “temi di genere” resiste una lettura paramarxista dei rapporti sociali in termini di contrapposizione di classe [fosse pure vero, ma da parte di chi? Di tutti/e? Tutti/e paramarxisti/e? Sicuro sicuro sicuro?]. Gli uomini sono visti come la classe dominante e le donne come la classe subalterna [davvero? Spiegalo a questi altri geni qui, dài, voglio proprio vedere come fai] e si ritiene, pertanto, che una condizione di “giustizia” possa essere conseguita solo attraverso l’intervento dello Stato per forzare un riequilibrio di potere politico, economico e sociale [non so di cosa sia definizione quest’ultima frase, ma certo non delle famigerate “quote rosa”]. In realtà questa lettura dei rapporti tra i generi come oppressione di un sesso sull’altro appare molto artificiosa [certo, come no – sulla base di cosa appare molto artificiosa? Non viene detto, non sapremo neanche questo, però diciamolo lo stesso, macheccefréga]; obiettivamente è più ragionevole pensare che uomini e donne abbiano contribuito a sviluppare e a consolidare i ruoli sessuali tradizionali – entrambi al di là di tutto con vantaggi e svantaggi [certo, alle donne piacciono tanto i vantaggi decisi dall’uomo per loro. Capita che se si ribellano a questo schema rischiano di venire ammazzate; e vabbè, al di là di tutto la vita è un rischio, si sa] – semplicemente perché probabilmente per lungo tempo essi erano gli unici compatibili con la sopravvivenza della specie [ah, “quello che non è la natura!” (cit.). E’ così che il maschio medio si spiega lo status quo: è stata la natura, l’evoluzione della specie a decidere che il mio sesso conta di più, mentre l’altro sesso ha barattato il suo ruolo politico, economico e sociale per stare al sicuro a casa a lavare i piatti. Beh, sì, solo un bel maschione può arrivare a pensare che tutto ciò sia naturalmente conveniente per tutti e due i sessi].
La verità è che il game changer [lo ammetto, ho dovuto usare Google per sapere che vuol dire, però ci sono arrivato da solo a capire che ‘sto parolone sta lì solo per bellezza] nel rapporto tra uomini e donne – quello che poi ha dato il la a tutte le speculazioni teoriche successive – è stato il progresso tecnologico che nell’ultimo secolo e mezzo ha reso la produttività umana sempre meno dipendente dalla forza fisica e di conseguenza ha aperto la strada a una modifica sostanziale di equilibri che erano rimasti stabili nei secoli [capito che scherzo abbiamo combinato alla natura? Lei aveva fatto il maschio forte e la femmina debole, e andava benissimo così a tutti; noi con la tecnologia ci siamo permessi di scombinare questo equilibrio così perfetto. Perfetto per quello forte, ovviamente, ma questo il nostro genio ben si guarda dal dirlo]. È in questo contesto che si inseriscono la straordinaria evoluzione della condizione femminile, ma necessariamente anche molte importanti trasformazioni che riguardano gli uomini e il concetto di maschilità. Limitare l’analisi sociologica e politica alla questione dell’avanzamento delle donne è un approccio parziale che non fornisce una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso [lo sta dicendo uno che finora non ha avallato le sue panzane con un dato che sia uno, una ricerca che sia una, un minimo di base teorica o scientifica. Per ora ha solo detto che l’òmo c’ha più muscoli della donna e la tecnologia ha fatto un casino, cosa questa che quindi non sarebbe parziale ma una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso. L’importante è crederci].
Certo, non si può negare che le donne, nella società di oggi, sperimentino particolari difficoltà o che si riscontri una presenza relativamente inferiore di donne – rispetto agli uomini – in posizioni normalmente associate ai concetti di prestigio e di potere sociale [non si può negare, eh, quindi bisogna spiegarlo – oppure sostenere che non vuol dire niente. Secondo voi che farà il nostro genio?]. Tuttavia, ritenere che questi fattori rappresentino la misura di una condizione di complessiva minorità femminile, da contrastare attraverso l’azione politica, potrebbe essere un errore di valutazione [bravi, c’avete preso, “la seconda che hai detto” (cit.)]. In effetti per inquadrare correttamente le statistiche di genere su cui riposa la strategia offensiva del femminismo [il femminismo è notoriamente offensivo, si sa, nasce proprio come tattica politica offensiva, basta chiedere in giro che tutti lo sanno] è necessario fare due tipi di considerazioni [pensavate che si fermasse lì, eh? Ve l’ho detto che è un genio. Sentite qua].
In primo luogo, in molti casi la minore presenza femminile in determinate aree ha più a che fare con l’espressione delle preferenze personali delle stesse donne che con quello che a molti piace chiamare “discriminazione”. Basta osservare la demografia di genere delle varie facoltà universitarie (Ingegneria contro Psicologia, Lettere o Scienze della Formazione), i sondaggi sui lavori ideali sognati dalle neolaureate o le preferenze delle donne in termini di conciliazione famiglia-lavoro, per spiegare perché abbiamo più dirigenti di azienda uomini che donne. Naturalmente determinati comportamenti femminili sono correlati a determinati sottostanti culturali e sociali, ma non si può pensare di correggere a tavolino l’esito di una miriade di scelte individuali imponendo un’uguaglianza statistica dei punti di arrivo [Non ho voluto interrompere cotanta esibizione di sfrontata ipocrisia – o di evidente limitatezza di comprendonio, non so decidermi. Rimane il fatto che questo paragrafo è il classico esempio di come si scambia la causa per l’effetto. Lo fa apposta? Non se ne rende conto? Non lo so, né me ne po’ frega’ di meno. Comunque sì, avete letto bene: le donne non comandano perché non gli va di farlo, altrimenti avrebbero da tempo preferito altri studi, altri lavori. E’ fantastico, davvero].
La seconda considerazione riguarda il fatto che le statistiche di genere utilizzate dalla lobby rosa [la quale quindi, oltre a esistere, fornisce statistiche univoche, capito?] sono fortemente selettive e si concentrano solamente su quegli ambiti dove i numeri confermano la premessa ideologica. In realtà se, anziché guardare alla presenza nei consigli di amministrazione, esaminassimo una serie diversa di fattori potremmo addivenire a conclusioni molto diverse [“Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il serait encore en vie“; ma aspettate, adesso viene il meglio, perché adesso finalmente fa un esempio]. Ad esempio se prendessimo in considerazione indicatori come il numero di carcerati, di morti sul lavoro, di suicidi, di vittime di incidenti o di persone senza dimora fissa, vedremmo come semmai risultino proprio i maschi – e non le donne – a conformarsi al tipico canone di classe subordinata [certo, perché carcerati, morti sul lavoro, suicidi, vittime di incidenti o persone senza dimora fissa sono in quella situazione per motivi di genere, no? Ma veramente ancora gira qualcuno che fa finta di non sapere che il femminicidio serve a identificare un preciso movente, e non il sesso della vittima?]. Gli uomini, a quanto pare, prevalgono numericamente sia nella parte più alta della società, che nella parte più bassa. Sono al tempo stesso i primi, ma anche gli ultimi [A parte che questo non dimostra niente sul femminicidio, come già detto, rimane il fatto che, appunto, le donne nelle statistiche non ci sono. Che sarebbe una delle cose che dovresti evitare di dire, se vuoi difendere il punto di vista maschilista. “Ci sei? Ce la fai? Sei connesso?” (cit.)]. In altre parole, la condizione maschile più che essere banalmente una posizione di maggior privilegio, è una posizione di maggiore esposizione sociale. [Eh, appunto: hai appena detto che, nei fatti, ci sono solo loro, ci sono solo gli uomini. E questo alle donne dovrebbe stare bene?] Sugli uomini grava una forte pressione sociale, legata al modello di ruolo tradizionale di breadwinner. Questo li induce alla competizione e al rischio e li conduce – secondo i casi della vita – al successo oppure al fallimento [sì, appunto, infatti è proprio il modello del breadwinner che non funziona, e molti femminismi lo dicono da un pezzo. Se continui a credere all’esistenza della lobby rosa, lo dimostri da solo che dici sciocchezze, amico mio, e manco te ne accorgi].
Ritenere un problema politico l’affermazione professionale di alcuni (troppi?) uomini e non le difficoltà e le tragedie di altri è evidentemente ingiusto [peccato che finora lo stia dicendo solo tu e la tua fantomatica lobby rosa. Guarda che la maggior parte dei femminismi ha ottime spiegazioni sociali per le difficoltà e le tragedie di altri, e indovina un po’ da chi mai potrebbero dipendere?]. È ormai tempo di rapportarci alla questione di genere in un’ottica finalmente inclusiva, riconoscendo la complessità e la vulnerabilità della condizione maschile e quanto essa sia profondamente influenzata dalle aspettative sociali e culturali [amore mio, molti femminismi lo fanno da parecchi decenni, ma tu che ne sai? Tu credi alla lobby rosa…]. Porre l’attenzione sulla questione maschile non deve essere visto come una “reazione”; non si tratta di contestare il processo di emancipazione femminile, né di riportare indietro l’orologio della storia a un qualche passato perduto. Si tratta piuttosto di considerare che solo un percorso inclusivo può condurre al superamento del sessismo e che tale percorso richiede anche il riconoscimento e il superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni contro gli uomini [sì, tutto molto bello, ma per esempio: smettere di credere alla lobby rosa? Che dici, cominciamo con questo, di pregiudizio?]. I fronti su cui sarebbe necessario muoversi sono molti; qui se ne citeranno solamente alcuni che presentano, in questo momento, una particolare valenza politica, culturale ed istituzionale [ancora esempi? Aiuto…].
Di particolare centralità appare la lotta alle quote e alle azioni positive, che sono uno dei pilastri del femminismo ideologico [ma quale cacchio sarebbe mai il femminismo ideologico? Basta, siamo nel 2014, lo vogliamo capire che “il” femminismo non esiste e non è mai esistito? Lo vogliamo capire che è un’etichetta per definire tantissime storie e pensieri diversi, spesso opposti, sulle questioni di genere?] ma allo stesso tempo rappresentano un vulnus alla concezione liberale del diritto. Non è accettabile che la politica possa permettersi di usare qualsiasi mezzo per perseguire un fine definito a priori. Ci sono dei valori e dei princìpi che dovrebbero essere ritenuti “pre-politici” e non negoziabili [certo, come la natura che ha fatto l’òmo forte e la donna debole, no?] – tra questi il principio della neutralità della legge rispetto a caratteristiche quali la razza o il sesso. Il fatto che il potere imponga che una persona ne scavalchi un’altra solo perché questo serve a soddisfare delle statistiche generali è un’offesa alla dignità dell’individuo [a me pare un’offesa all’intelligenza dell’individuo interpretare in questo modo le leggi che prevedono quote di genere, che invece dicono tutt’altro. Dovrebbe bastare saper leggere, ma non so se tra i “liberali” questa pratica è diffusa: basta usare Google tre secondi per arrivare a un buon materiale didattico universitario che spiega la faccenda. Ne cito un brano: “Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato. In questa prospettiva, le quote non sarebbero una discriminazione nei confronti degli uomini, ma piuttosto una compensazione per le barriere strutturali che le donne incontrano nel processo elettivo. Questo sistema pone l’onere del reclutamento non sulla singola donna, ma su coloro che controllano il processo di reclutamento politico”. Ovviamente si tratta di un file PPT prodotto dalla lobby rosa].
Ma anche leggi scritte in maniera neutra possono essere viziate in fase applicativa da un sessismo anti-maschile [Fase applicativa che sarebbe anche questa in mano alla lobby rosa, immagino]. Uno dei casi più rilevanti è quello delle norme sull’affidamento dei figli, in particolare in virtù del sostanziale tradimento, a livello di prassi applicativa, dello spirito della legge del 2006 sull’affido condiviso. Nelle condizioni attuali una separazione può comportare conseguenze distruttive per un padre, sia dal punto di vista del rapporto con i figli che dal punto di vista economico. Lo strabismo dei nostri tribunali è tale che è solo grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che esiti di totale abuso nei confronti degli uomini non diventano la norma [non mi ci spreco neanche a parlare delle norme sull’affidamento dei figli perché c’è chi lo fa onestamente e senza ipocrisia da prima e meglio di me. Ma notate che è grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che… Allora? ‘Sta lobby rosa funziona o no? Ma per favore].
Infine, particolare importanza ha la necessità di contrastare, con forza, politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile [io ho sentito sempre e solo i maschilisti ripetere questa solfa che qualcuno accusa tutto il genere maschile. Anche qui dovrebbe bastare saper leggere per notare che non esiste alcuna corrente femminista – tra quelle seriamente proposte, ovviamente – che s’è mai sognata di accusare indistintamente tutto il genere maschile. Figuriamoci se esistono addirittura politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile. Da parte di quale partito, di quale organizzazione? Un esempio, un link? Niente]. Se si ripete spesso, specie a sinistra, che “la violenza non ha razza”, allora non è in alcun modo accettabile che si attribuisca alla violenza un sesso e che le campagne di sensibilizzazione sul tema siano espresse in termini sessuati e generalizzanti [e capirai, a sinistra s’è arrivati a dire che i morti fascisti sono uguali ai morti partigiani, figuriamoci. Notate che questa seconda frase passa dalle “cose” alla “comunicazione delle cose”, come se fossero termini equivalenti. E’ che gli serve per sparare la prossima]. In questo senso la campagna mediatica di questi mesi sul “femminicidio” è una campagna profondamente sessista [certo, come una campagna contro le frodi fiscali è discriminante nei confronti dei commercianti, no?], che rinfocola gli stereotipi di genere – anziché combatterli – quelli dell’uomo violento e prevaricatore e della donna innocente e naturaliter buona [di nuovo, questo è un noto stereotipo usato dai maschilisti: nessun femminismo s’è mai sognato manco di dire che la donna è innocente e naturaliter buona. Ma perché informarsi? Io sono maschio, quindi lo so, si sarà detto il genio]. È dunque una campagna moralmente sbagliata e culturalmente pericolosa [e certo, quella è culturalmente pericolosa; quella contro la fantomatica lobby rosa invece va bene], che deve essere confutata se ci stanno a cuore basilari princìpi di rispetto del diritto e delle persone.
In definitiva la sfida di portare il tema della “parità per gli uomini” nel dibattito è ambiziosa [no, è ipocrita, ma se tu c’hai quest’ambizione, fai pure], ma politicamente necessaria – la questione maschile è, prima di tutto, una questione di equità sociale e di diritti civili [che agli uomini sono da sempre negati, come voi tutti sapete bene]. Se non saremo in grado di coglierla pagheremo un prezzo molto alto nei prossimi anni in termini di disagio sociale degli uomini [porèlli, che brutta fine dopo secoli di sofferenze] e più in generale di avvelenamento dei rapporti tra i sessi [che invece da secoli vanno benissimo, no? Ma guarda tu ‘sta brutta lobby rosa che va a rovinare una tradizione tanto naturale e rispettosa: l’òmo comanda e protegge la donna, la quale obbedisce e si prende tutte le comodità di questa situazione].
Ve l’avevo detto, che è un genio.