Dell’utilità di certi commenti banali

piratesII

 

Questo è un commento ricevuto per il primo articolo sul numero 5/2014 di MicroMega.

pornografia è quella forma di fiction incentrata su atti sessuali non simulati e in cui la non simulazione cioè la verità di quello che accade è continuamente mostrata e dimostrata dalle inquadrature pertanto le scene erotiche di film e telefilm “normali” e dei film d’autore dei citati Pasolini e Oshima non sono porno perchè c’è simulazione e in ogni caso non vi è la prova visiva dell’avvenuto rapporto sessuale

Ne parliamo non tanto per l’autore – noto personaggio ossessivamente presente su qualunque spazio virtuale si occupi di questioni di genere, tranne quelli che lo respingono per manifesta inutilità, come questo – quanto perché per una volta, invece di esprimersi con futili tautologie, ha espresso un medio pensiero che rappresenta il sentire comune sulla pornografia.

Cioè ha detto una solenne stupidaggine. Ben mascherata da luogo comune eh, ma ‘na stupidaggine.

Non è certo richiedibile a tutti di essere pienamente informati sul dibattito attuale riguardo la pornografia, ma è facile supporre che un blog che si presenta come «pornotransanimalfemminist*» lo sia. Se ci vieni a sentenziare armato solo della tua conoscenza da accanito spettatore di serial, degli esami al DAMS e delle definizioni da vocabolario, è facile che tu sia ignorato come poràccio insipiente – oppure che, come in questo caso, tu sia utile agli altri per chiarire qualcosa.

Ciò che le donne trovano riprovevole nella pornografia, hanno imparato ad accettarlo nei prodotti di ‘alta’ cultura e nella letteratura. Ciò che l’analisi femminista identifica come la struttura pornografica della rappresentazione – non la presenza di una qualità variabile di ‘sesso’, ma la sistematica oggettivazione della donna nell’interesse dell’esclusiva soggettivazione dell’uomo – è un luogo comune dell’arte e della letteratura come della pornografia commerciale.

Questa breve citazione – da Susanne Kappeler, The Pornography of Representation, Oxford, Polity Press 1986, p. 103, traduzione mia – di un testo di quasi trent’anni fa dovrebbe far capire che definire ancora la pornografia sostanzialmente come quei film o riviste o immagini «dove la gente scopa davvero» è un pochino infantile e riduttivo – se non è in malafede. Ho scelto il primo passo che m’è venuto in mente, ma la bibliografia disponibile è sterminata.

Il problema non è ciò che viene rappresentato e il suo opinabile valore morale. Il problema è la struttura politica, sociale ed economica che produce, veicola, diffonde e rappresenta quel tipo di rapporto di potere tra uomini e donne: i primi sempre soggetti, le seconde sempre oggetti. Ed è intendere il problema in questo modo che permette di farlo uscire dai pruriginosi e inutili confini della morale – legata a ciò che si vede, alla verità di ciò che si vede, a ciò che è accettato come osceno da un certo gruppo sociale – per studiarlo come fenomeno legato ad altri aspetti della società, come le questioni di genere, i femminismi, il patriarcato, i problemi di una industria da 13 miliardi di dollari l’anno (nel 2007) immersa nell’illegalità contrattuale e sindacale, la contaminazione di questa forma di rappresentazione verso la pubblicità, la moda, gli altri generi cinematografici e letterari, e così via.

Se c’è gente che se ne occupa in questo modo da almeno quarant’anni – libri, ricerche, convegni, discussioni in pubblico, analisi, testimonianze – forse è il caso di abbandonare simpatiche, divertenti e politicamente innocue definizioni come «atti sessuali non simulati» e impegnarsi a studiare, capire e parlare più propriamente.

O fare altro, eh, rimanendo amici come prima. Non è un obbligo documentarsi, ed è vero per MicroMega come per chiunque. Però, se ti fai dare degli euro per qualcosa che hai scritto, o se vieni a commentare pensando di poter insegnare qualcosa, allora sì: sarebbe meglio farlo.

Deconstructing MicroMega #0

rembrandt-self-1-copertina1630-890x395Questa che segue è la presentazione del numero 5 2014 di MicroMega, dedicato a Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento. E’ passato un po’ di tempo, è vero, ma dovevamo pur leggerlo: e noi non siamo grandi intellettuali o lettori raffinati come in media ha MicroMega, quindi c’abbiamo messo parecchio a leggere e a renderci conto di cosa avevamo letto. Nei prossimi giorni faremo seguire degli appunti su ciascun articolo, ma è il caso di fermarsi anche su questa presentazione, tanto per dire qualcosa su quello che c’è in questo numero. E, soprattutto, su quello che non c’è.

Da giovedì 24 luglio in edicola e su iPad il nuovo numero di MicroMega, un monografico dedicato al “corpo della donna tra libertà e sfruttamento”. Ad aprire due dialoghi: nel primo uno dei più famosi attori porno italiani, Rocco Siffredi, e la regista Roberta Torre discutono della possibilità di un porno “al femminile” [ma avvertiamo solo noi, oltre l’impreparazione culturale dei due interlocutori, un loro vago “conflitto d’interessi”?]; nel secondo, la pornostar Valentina Nappi e la giornalista Maria Latella affrontano temi come la prostituzione, la mercificazione del corpo femminile, il rapporto tra giovani e sesso [anche in questo caso ci sfugge la correlazione tra interlocutori e argomenti: non era disponibile qualcuno delle associazioni che si occupano di prostituzione, di tratta? Qualche sociologo o studioso di questioni di genere? Un formatore, un educatore esperto di questioni sessuali? No perché, con lo stesso criterio, appena MicroMega si decide per un numero sulla fisica quantistica, noi ci candidiamo].

Un’intera sezione è dedicata alla pornografia [oh quale audacia: i signori perdono il monocolo, le signore svengono. Presto, i sali!]. La rappresentazione esplicita dell’atto sessuale continua a essere un tabù. Su queste ambiguità – e su queste ipocrisie – [quali? Ne è stata nominata a stento una] ha giocato Lars von Trier con il suo Nymphomaniac, che rappresenta l’ultimo tassello di un rapporto complicato e ambivalente del cinema con la rappresentazione del sesso, come riportato da Fabrizio Tassi. Un rapporto ambivalente perché spesso fondato su una netta separazione tra il sesso in film ‘normali’, se non addirittura d’autore, che si possono permettere solo di alludere e ammiccare [se non ricordo male – due esempi vecchi eh, tanto per dire – nè Pasolini nè Oshima ammiccavano affatto: sono registi di porno commerciale? Forse il problema è un altro, non quello che si vede e quello che no], e i film porno veri e propri, un genere a sé, la cui storia – raccontata da Pietro Adamo – è andata di pari passo con i cambiamenti tecnologici, dalle riviste a internet, passando per cinema e videocassette. Un fenomeno molto controverso, su cui intellettuali, filosofi e, soprattutto, femministe [toh, finalmente, eccole], si sono sempre divisi: il porno è uno strumento di oppressione delle donne, o un elemento di contestazione della moralità conservatrice e quindi di potenziale liberazione per le donne stesse? [Solo due ipotesi possibili? Tutto qui, MicroMega? Mentre del porno “al femminile” abbiamo fatto parlare Siffredi. Complimenti] Matthieu Lahure ricostruisce i termini della controversia.

In un iceberg su “corpo e tabù” Gloria Origgi ci ricorda che la nostra intera vita si può leggere sul proprio corpo. Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato una condanna ai ruoli stereotipati di madre o prostituta [meno male che ce lo ricorda lei, oggi non se ne parla più, vero?]. Ma persino quello che sembra l’istinto più naturale per una donna – quello materno – naturale non è affatto, come sostiene nel suo contributo Élisabeth Badinter [si sono sbagliati, il pezzo di Badinter sembra l’unico appropriato di tutto il numero. Gli è sfuggito, è evidente]. Mentre Giulia Sissa traccia la parabola dei movimenti femminili, che oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico come strumento di lotta [ma quindi tutti i movimenti, o solo questi ultimi?]. Eppure i tabù sono duri a morire [aridàje: quali tabù?], come dimostrano le straordinariamente variegate politiche di gestione della prostituzione descritte da Giulia Garofalo Geymonat [che lavora in Svezia: vogliamo parlare del tabù degli studi di genere in Italia? Dite che c’entra qualcosa? Ma no] e l’ostilità verso la figura dell’assistente sessuale per i disabili, tratteggiata da Alessandro Capriccioli [un giornalista, non un operatore del settore. Ma il tabù è chiamare le persone competenti?]. A chiudere la sezione un inedito dell’illustre oncologo Umberto Veronesi dal titolo “Il corpo delle donne dalla mortificazione all’emancipazione” [tema caro a ogni illustre oncologo, come certamente sapete; però, considerando che Siffredi lo sinvita a convegni medici e dice la sua sul cancro alla prostata, tutto quadra perfettamente].

Ma è compatibile la religione con l’emancipazione delle donne? [«Estiqaatsi», direbbe un grande capo indiano, ma qui siamo su MicroMega, quindi ci occupiamo di tutto il risibile con grande qualità] Carlo Augusto Viano delinea la storia del posto che le donne hanno occupato nella religione cristiana, dalle origini fino a papa Bergoglio: una presenza costante, ma sempre un gradino sotto all’uomo e non pare proprio che su questo fronte Francesco stia portando novità rilevanti [eh, meno male che ce lo dice MicroMega]. Il sacrificio del figlio e il ripudio della donna sono, secondo il giudizio di Rachid Boutayeb, due elementi essenziali di tutte le religioni monoteistiche, e dell’islam in particolare [altra novità sconcertante. Io me n’ero accorto perché le religioni monoteistiche con a capo una divinità femminile sono pochine, ma che volete che ne sappia io, mica scrivo su MicroMega].

Infine un saggio di Siri Hustvedt analizza l’idea di femminilità che pervade le tele di Picasso, Beckmann e de Kooning [prima di invocare ancora Estiqaatsi, una domanda: artiste di cui parlare non ce n’erano, vero?].

Quello che manca è una lunga lista di argomenti dal nostro punto di vista importantissimi quando si tratta del corpo delle donne. Dagli ambiti che concernono l’autodeterminazione come il diritto di scegliere la maternità o di rifiutarla, oppure al diritto alla vita che viene messo in pericolo dalla violenza domestica maschile e da quello che è a volte (troppe) l’esito di questa violenza, il femminicidio. Oppure ancora si potrebbe parlare di quello che attualmente è il dibattito sull’importanza di un’educazione a sentire il corpo, fin da piccoli, con il tocco materno, su quanto questo condizioni il nostro essere propensi alla dominanza o alla partnership. Per non parlare delle discriminazioni che il corpo delle donne subisce in quanto appartenente alle donne, fin dalle scuole materne con giochi, libri e atteggiamenti dei “grandi” tesi a far sedimentare stereotipi di genere fin dalla tenera età. Fino al terribile tema che vede il corpo di 60 milioni di bambine nel mondo essere oggetto di pedofilia da parte di “mariti” promessi che fanno buoni affari, a scapito spesso della vita di queste piccole, anche dopo la prima notte di nozze. E sono i primi esempi che ci vengono in mente.

Si potrebbe obiettare che queste discriminazioni, queste limitazioni, queste violenze e queste uccisioni coinvolgono anche il corpo maschile. A parte che non tutte queste ingiustizie sociali sono vissute dai corpi dei maschi, infinite storie e finanche infinite (ahinoi sempre poche) statistiche ci parlano di quello che invece viene agito dai corpi maschili nella stragrande maggioranza dei casi, e che solo per una minoranza di uomini possono definirsi delle circostanze in cui quelle vengono subite.

Si potrebbe anche obiettare che questi argomenti sono assenti, seppure importanti, ma che molti altri vengono invece sviscerati dalle molte testimonianze presenti nel testo. Però a questo proposito invece c’è una povertà da registrare già in partenza e dichiarata apertamente nel sommario: «un’intera sezione è dedicata alla pornografia». Contando anche le pagine iniziali in cui si interroga Siffredi e Nappi su sesso, pornografia e quant’altro, le pagine dedicate al porno – e dedicate in quel modo, di cui parleremo – sono 84 su 200. Troviamo che questo sia di un’aridità sconcertante. Anche perchè sono seguite a ruota da [numero] pagine sul sesso e [numero] pagine sulla prostituzione. Poi segue la religione, un articolo affidato a Umberto Veronesi di argomento indefinibile, e l’arte.

Non ho citato l’articolo di Giulia Sissa: è l’unico articolo che si interroga sui movimenti (udite udite!) “femminili” sul corpo della donna, ma anche qua, come vedremo, solo riguardo alle “pruderie” delle donne e non sulle conquiste importantissime che il movimento femminista in Italia e nel mondo ha compiuto.

Insomma: MicroMega fa un numero su Il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento e le femministe, i diversi femminismi, non ci sono. Non ci sono negli argomenti, non ci sono tra i nomi degli autori. Femministe? Mai esistite. Ah, no, veramente no, saremmo ingiusti. Se ne parla sì, a proposito delle diverse prese di posizione sul porno. Complimenti a MicroMega per la considerazione e il respiro culturale dato a questo suo numero.
Stay tuned – ne parleremo ancora.

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.

Deconstructing l’istinto naturale

19bisCapita raramente che un commento a un post sia particolarmente interessante, perché in genere chi vuole argomentare bene in risposta a qualcuno sceglie di farlo o sul proprio blog o su un social network; i commenti intelligenti sono sempre più rari, ma quelli lunghi, argomentati e completamente idioti sono ancora più rari. Quindi quando ne capita uno, va immortalato.

Premessa: non importa se l’anonimo commentatore è un troll in vena di fini ragionamenti. Importa – ecco perché ce lo rileggiamo – che questi siano i ragionamenti di una maggioranza di bei maschioni. Quindi non sarà inutile dargli una spolveratina, e fregarsene se poi l’autore legge, risponde, ricommenta, e così via.
Spero che tutti voi conosciate già il blog
Ci riprovo, che vi consiglio di frequentare spesso e volentieri. Sotto questo post – che necessariamente dovete leggere prima di continuare – è apparso un commento notevole, che sarà un piacere rileggere insieme a voi.

Lola, non te la prendere per il mio modo provocatorio di affrontare la questione. [E’ sempre carino cominciare così, è la versione retorica di “io non sono razzista ma” – predispone alla gioia, proprio]. Premesso che non so nemmeno come ci sono capitato qui [figurati noi, ma grazie lo stesso]: in genere mi occupo di discussioni di tutt’altro tipo [attenzione: ha premesso lui che non se ne occupa di certe cose, eh, ricordiamocene], sono stato catturato [il linguaggio già denuncia l’atteggiamento giusto: lui se ne andava per fatti suoi nel web ed è stato catturato. Sempre per continuare a predisporre Lola alla gioia] dalla tua tesi sulla necessità di educare i maschi [lo avete letto il post, vero? Ce l’avete trovata questa tesi sulla necessità di educare i maschi? Io no, e manco Lola, ma lui, che in genere si occupa di discussioni di tutt’altro tipo, sì]. Dove per “educare” sembra che tu voglia intendere “addestrare”, o “ammaestrare” [sembra solo a chi non sa leggere o a chi ha dei pregiudizi grossi come la galassia, ma vabbè], secondo una concezione pseudofemminista di concepire i rapporti tra i sessi [ma non era uno che si occupava di discussioni di tutt’altro tipo? Se già è in grado di riconoscere ciò che sarebbe pseudofemminista, allora ne sa. Che giocherellone].

Una concezione che fondamentalmente si regge sulla negazione, o sulla diminuzione, di una verità fondamentale [attenti, arriva la verità fondamentale! Pronti?]: noi umani siamo animali [e fin qui c’ero arrivato pure io], siamo organismi soggetti all’imperativo naturale della riproduzione [e che sarebbe un imperativo naturale? Non c’è su Wikipedia, mannaggia, e adesso come facciamo? Pure quel filosofo, come se chiamava, Kant, non poteva metterci questo, tra gli altri imperativi?], come tutti i viventi. L’istinto riproduttivo è talmente primitivo e fondamentale che ci accomuna ai lombrichi e con altri viventi ancora meno evoluti di loro [condividiamo anche lo stesso pianeta e siamo entrambi soggetti alla forza di gravità – e potrei continuare all’infinito a trovare comunanze a cacchio con i lombrichi: rimane il fatto che non hai detto cosa sarebbe un imperativo naturale. Perché se fosse l’istinto riproduttivo, diciamo che tra l’avercelo – sempre tutto da dimostrare – e il come usarlo, qualche differenza tra i vari animali io la vedo. Per esempio, se fosse tanto imperativo, a che scopo i diversi, complicati e spesso fallibilissimi “rituali di corteggiamento”? (Grazie Volpe.) Oppure perché scegliere il partner invece di riprodursi con qualunque esemplare femminile fertile? Tipo, che ne so: tua madre, tua sorella… no, quelle l’imperativo naturale le dichiara off limits, almeno per te. Lo hai detto alle sorelle dei tuoi amici? Provaci, magari in presenza dei fratelli, vedi se sono d’accordo anche loro co’ st’imperativo naturale].

Guarda che carini…

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/f/f6/Mating_earthworms.jpg/1024px-Mating_earthworms.jpg [illustrazione a uso e consumo, evidentemente, di chi vi trova somiglianze nell’imperativo naturale.]

Questo per dire che il richiamo sessuale in sé non è per nulla educato, anzi: è maleducatissimo e, a volte, anche violento [attenzione, adesso parla del richiamo sessuale, non più dell’imperativo naturale. E questo che sarà? Ce lo spiegherà? Proseguiamo fiduciosi, dopo aver assistito a “come ti spiego lo stupro con cause naturali”. E’ proprio una gioia leggerlo]. Gli individui di alcune specie (qualche volta anche gli umani lo fanno) mettono a repentaglio la loro stessa vita per seguire questo istinto [ah, qualche volta, quindi non sempre e non tutti, e non di tutte le specie. Ma non era imperativo, non era violento? E come mai qualcuno se ne sottrae? E scusa, ma individui di tutti i sessi o solo di uno? Così, per sapere].

Certo, noi umani siamo evoluti [ah, ecco]: abbiamo imbozzolato questo istinto selvaggio in una serie di condizionamenti che ci consentono di vivere in società anche molto complesse [come? Quando? Il nostro etologo non ce lo dice, continua a fidarsi dell’evidenza di ciò che dice. Che non è evidente per niente: per esempio, perché ci sarebbero questi condizionamenti? Paragonandolo all’istinto di nutrirsi – oh, mi pare fondamentale e imperativo pure questo – com’è che invece non è poi tanto selvaggio e non fa incazzare la sorella del tuo amico? E poi, quale sarebbe il motivo di avere società anche molto complesse? L’imperativo naturale è scopare, mica costruire automobili]. Ma bisogna fare attenzione, perché a volte la necessità di dominare l’istinto con norme e condizionamenti di vario genere può spingersi fino alla sua negazione, e allora saltano fuori le nevrosi e talvolta le psicosi [ma perché c’è questa necessità, se c’è l’istinto? Intanto avete assistito anche a “lo psicologo dilettante”, gioco in voga da quando il pòro Freud pensò di pubblicare le sue cose e farle leggere a tutti. Da quel giorno, tutti pensano di poterle capire al volo]. E la negazione può diventare violenza brutale [di chi? Io mi nego le cose e poi divento brutale? Verso chi? Com’è che divento brutale verso l’altro sesso e non contro il mio, visto che i condizionamenti me li sono negati da solo? Oh, l’ha detto lui eh].

L’istinto lo si può e lo si deve controllare [e allora che istinto è? Perché chiamarlo così? Chiamarlo bisogno no?], ma negarlo è ipocrita e controproducente [io trovo ipocrita parlare a vanvera di cose che non si sanno e non si capiscono, e pure usare apposta un termine per avallare senza ragionamenti né prove i propri deliri. Se quello sessuale fosse stato chiamato un bisogno e non un istinto sarebbe un errore lo stesso, ma intanto tutta la costruzione pippologica sulla violenza e sull’imperativo crollerebbe].

Per dire: puoi essere certa che il tuo ragazzo, o marito, guarderà il culo o le tette di qualunque bonazza gli passi a tiro [comportamento dovuto all’istinto imperativo? E perché – tanto per fare la prima obiezione facile – se è tipico della nostra specie tante altre culture non danno alcuna importanza allo sguardo, a ciò che si vede? E ancora: perché, se c’è un istinto, in anni diversi, in luoghi diversi, tra gruppi diversi le caratteristiche tipiche della bonazza cambiano?]. Senza darlo a vedere, ovviamente: per non offenderti, perché il sesso è una cosa e l’amore è un’altra cosa [e adesso chi lo dice a Venditti?], ma lo farà [lui ne è certo, perché tutti i maschi di tutte le specie sono uguali: hanno l’imperativo naturale, no?].

E lo stesso farai anche tu, in modo diverso, meno esplicito, più complesso: perché sei femmina, e la missione biologica delle femmine è più complessa [CALMA, fermi tutti, facciamo ordine. Allora: c’è l’istinto naturale, il richiamo sessuale e adesso la missione biologica. CHE CACCHIO SONO? DOVE LE HAI PESCATE QUESTE SCEMENZE? Un link, un cognome… niente, tutta scienza infusa]. Ad iniziare [qui due parole sulla d eufonica] dalla scelta del maschio più adatto per finire al parto e alla cura della prole [traiamone le conseguenze: se una donna vuole vivere per cavoli suoi e senza avere figli, tradisce la sua missione biologica. E le suore? No, dico: E LE SUORE?].

I maschi hanno una missione biologica molto più semplice [ma guarda un po’, che culo]: possedere e inseminare quante più femmine possibile [deve averlo digitato usando il glande, a giudicare dal pacato climax retorico]. E anche nelle specie monogamiche come la nostra [ecco, qui basta Wikipedia per svelare la scemenza: la nostra non è affatto una specie monogamica, è solo un’opzione culturale di alcuni gruppi sociali] permane questo istinto primitivo alla promiscuità [ah, ecco, c’è un altro istinto: quello alla promiscuità. Ma sono due o è sempre quello di prima, meglio definito? Boh]. Anche nelle donne, eh? [oh, meno male, me stavo a preoccupa’.]

Dunque non ha senso proporre una educazione dei maschi [Lola non l’ha fatto, dovrebbe bastare saper leggere], e anche delle femmine [questo ancora meno], a partire dalla negazione di una realtà istintiva primaria [definizione del tutto personale: non c’è uno straccio di prova scientifica che lo sia, anzi che ne esista una] come l’attrazione sessuale [NO! Ma come l’attrazione? Ma hai parlato finora di riproduzione, promiscuità, sesso, violenza, e adesso te ne esci con una cosa moscia come l’attrazione?]: è ipocrita, nevrotizzante, controproducente [se gli effetti sono scrivere ‘ste cose, comincio a crederti].

Ha invece senso farlo a partire dal riconoscimento pieno della natura profonda di maschi e femmine [con buona pace degli altri generi – a proposito, ma come fanno a esistere tutti quei generi se c’è un istinto primitivo?], perché solo in questo modo uomini e donne possono rispettarsi per ciò che sono [belve inevitabilmente assetate di sesso i primi, e creature vòlte al parto e alla cura della prole le seconde. Però, complimenti per la scienza infusa].

Il pistolotto mi è uscito un po’ lungo [grazie anche per aver evitato il doppio senso]. E prima che parta la strigliata farò bene ad allontanarmi [tranquillo, Lola pensa solo al al parto e alla cura della prole, è il suo istinto, non hai nulla da temere]. Ciao. [Ciaone proprio.]

Igiene del decostruttore #2

DeconHarry2

«Mai mi sarebbe venuto in mente di scrivere una cosa del genere senza la compagnia continua di tutto il collettivo Femminismo a Sud, del quale, come capita in certe storie d’amore un po’ melense, mi sembra di far parte da sempre. Il fatto che oltre all’amore ci sia anche la politica non fa che rendere il collettivo folle abbastanza da, per esempio, mettere in giro roba come questa. Dàje così».

Così scrivevo qualche anno fa, e la sostanza non è cambiata. È cambiato il collettivo, ma non sono passati né il coinvolgimento personale né voglia di fare politica in questo paese pare che bastino per sembrare già un pericolo sociale. Bene. Dàje così.

Vi ripropongo quindi quello stesso testo, un po’ modificato grazie alle critiche di molti, e un po’ aggiornato. Ho visto che in questi anni la parola deconstructing ha fatto un po’ di strada – bene – e tanti altri si sono divertiti in questa attività – meglio ancora.

Cos’è il deconstructing?

Ho chiamato in questo modo, rifacendomi al titolo di un vecchio film di Woody Allen (Deconstructing Harry, 1997) una mia serie di post pubblicati sul blog di Femminismo a Sud e poi su Intersezioni, nei quali ho praticato un lavoro di critica, destrutturazione, ribaltamento di un testo atto a svelarne contenuti e intenzioni nascoste, provocatorie, o semplicemente politicamente sgradevoli; oltre a errori, omissioni, riferimenti sbagliati, pregiudizi. E’ anche successo che qualcuno, io no eh, ha osato accostare questa pratica – forse, con le dovute riserve – al significato del termine “decostruzione” com’è nato tra le parole di Jacques Derrida, ma tutto sommato la storia della sua origine, o dei suoi possibili accostamenti nobili, non conta poi molto. Tipicamente è stato oggetto di questi miei divertimenti analitici la presenza di pregiudizi sessisti più o meno occulti in alcuni testi, ma è anche capitato di trovare fascismi, patriarchismi, e altre meraviglie di questo genere; è uno sfizio che può funzionare bene per qualunque altro tipo d’indagine testuale.

Perché è tanto divertente?

Il divertimento consiste non tanto nel dileggiare l’autore del testo che si è scelto di decostruire – questo non è lo scopo e non è neanche un’attività politicamente rilevante – quanto il suo linguaggio. Mostrando “l’altro lato” delle parole scelte (le intenzioni di chi scrive, le costruzioni del suo linguaggio), o anche la struttura tipografica nella quale il testo si presenta, è inevitabile svelare quei meccanismi di consenso che, una volta esibiti, fanno risultare ridicolo il loro funzionamento e la loro pretesa di ragione. Spegnendo la forza – a volte la violenza – che anima quei testi, ci si accorge che molto della loro potenza suggestiva o della loro capacità di convincere risiedeva in realtà in giochi retorici privi di qualsiasi consistenza razionale, o per lo meno reale.

Dice Treccani che l’ipocrisia è“simulazione di virtù, di devozione religiosa, e in genere di buoni sentimenti, di buone qualità e disposizioni, per guadagnarsi la simpatia o i favori di una o più persone, ingannandole”. Tantissima informazione giornalistica fa un uso spregiudicato di un un linguaggio ipocrita, simulando qualunque qualità pur di avere più lettori, attirare sponsor o clic, far parlare di sé e/o della propria testata. Smascherarlo distrugge queste possibilità ingannatorie e allena a non farsi più ingannare, in futuro.

E tutto questo fa ridere, ovviamente. Almeno all’inizio.

Di quale testo parliamo?

I testi che meglio si prestano alla decostruzione – almeno per come finora l’ho attuata io – sono quelli che tipicamente occupano una pagina web: articoli di giornale online, post di blog, interviste riportate in rete, brevi saggi o recensioni. Il perché sarà chiaro più avanti, ma è importante premettere che nessun testo può essere immune dall’essere decostruito: anche immagini e video potrebbero tranquillamente essere decostruiti, l’importante è trovare una tecnica che ne smonti l’impianto retorico, che permetta cioè di interrompere – per criticarla – la logica che ne tiene insieme le parti (sui video ha realizzato un ottimo lavoro Lorella Zanardo). Quindi la prima e unica caratteristica che deve avere un testo per essere decostruito è l’essere divisibile in parti: parole o frasi per il linguaggio, zone o elementi per le immagini, scene, sequenze, gesti per i video.

L’importante è che queste parti nelle quali si divide il testo sul quale fare deconstructing abbiano un senso autonomamente dal resto. Nel caso di alcune poesie, o di un breve lancio d’agenzia, o di un paragrafo che espone i dati di una tabelle, conviene lasciare il testo unito e mostrarne i lati oscuri come un tutto, nella sua interezza. Questo perché il deconstructing non deve funzionare come una messa in questione della singola parola, una ricerca di un “lessico” migliore, bensì lo svelamento di un’intenzione di forzare il consenso del lettore.

Unità di senso, premesse e conclusioni

La divisione in parti è necessaria, credo, per individuare le intenzioni alla base del testo. Cioè per comprendere cosa “tiene insieme” tutte le parti del testo, qual è il suo scopo dichiarato – e anche quello occulto, se è possibile accorgersene leggendolo. In questo modo è facile stilare una breve lista – meglio appuntarsela da qualche parte – delle premesse e delle conclusioni inerenti al testo da decostruire. Non è detto che siano tutte immediatamente chiare entrambe: il lavoro di decostruzione serve anche a far emergere questioni non esplicite o non immediatamente avvertibili, ed è quindi da intendere non tanto come una mera analisi per avverare tesi contestatorie già pronte, ma una ricerca di quei mezzi coercitivi e/o logicamente scorretti (siano essi argomentativi o formali) che possono inquinare la comunicazione, principalmente quella politica. Quasi sempre è possibile individuare dei momenti precisi, nella costruzione argomentativa del testo: la ricerca di fonti a sostegno delle proprie idee, la messa in questione delle opinioni opposte, l’esposizione dei loro difetti o contraddizioni, la deduzione delle proprie posizioni come logica, ovvia, naturale, giusta.

Perché decostruire?

Decostruire è una pratica politica di libertà – almeno così la intendo io. E’ un gioco non solo per affinare l’intuito in lettura e comprensione, ma per condividere i propri dubbi e le proprie perplessità, per diffondere un atteggiamento critico verso ogni messaggio strutturato, per smascherare gli strumenti di oppressione mediatica in genere. Decostruire non è interpretare, nel senso di “dare una propria versione di qualcosa”: è una critica, cioè un’azione volta a demolire una catena monolitica di espressioni e significati inserendovi un’altra voce, così che il monologo possa farsi, in un certo senso, dialogo e che in questo dialogo si possa svelare quello che nel monologo rimaneva non detto, nascosto, camuffato. La decostruzione, quindi, non serve tanto a opporsi, a dire “il contrario” del testo decostruito: è utile piuttosto per quello che svela, che mostra mentre esercita una critica sulle parole, sulle frasi, sulla forma tipografica del testo originario. Così che quel testo che era stato pensato e scritto solo per essere letto, viene portato a “parlare” esso stesso di ciò che invece ha taciuto, aggiungendovi una voce critica.

Decostruire si fa con tutto il corpo

Per questi motivi ci tengo a sottolineare che la decostruzione non è tanto guidata da una lucida scansione delle ragioni, delle implicazioni logiche, delle conseguenze di certe assunzioni, quanto dalla sensibilità nei confronti del linguaggio. E’ un lavoro che nasce da un senso, non da una conoscenza, ed è guidato dal “fastidio” di aver sentito in azione nel testo da decostruire una violenza, una prepotenza che va smantellata, scardinata, mostrata nel suo ipocrita tentativo di creare una soggezione inesistente nei fatti. Finché questo fastidio è ancora avvertibile, la decostruzione non è finita. E questo fastidio si manifesta spesso con dolori, pruriti, giramenti di genitali e rodimenti di culo.

Deconstructing contro cosa

L’attività di decostruzione è una lotta contro i poteri della logica e della grammatica in azione in un testo. Il potere delle espressioni, per esempio, è spesso racchiuso in convenzioni, luoghi comuni, stereotipi che assumono come veritiero uno stato di cose frutto di pregiudizi e impressioni del tutto immotivate e non dimostrate. Il potere del lessico sta nella scelta della parola più coercitiva e meno liberatoria per guidare il lettore al concetto che interessa l’autore, le sue intenzioni spasso non dichiarate. Il potere della struttura testuale racchiude in paragrafi separati piccoli nuclei di senso che in realtà non sono affatto autonomi e ben fondati; infatti spesso quei paragrafi “chiedono” surrettiziamente al lettore di essere confermati per il loro essere semplicemente staccati dal resto. Il potere dell’abitudine passiva della lettura, al quale spesso si appella un discorso zoppicante e poco fondato, presume in chi legge fiducia totale nel testo scritto in sé.

Questi poteri vanno identificati, ne va compreso il raggio d’azione e vanno resi inoffensivi. Allora tutti i sensi possibili del testo – e le sue mancanze – potranno emergere senza difficoltà.

Deconstructing con che cosa

Non è necessaria alcuna preparazione per decostruire un testo, servono solo fantasia, determinazione, e le parole. Decostruire è fare i conti con il lessico e con la sintassi: c’è da sconfiggere l’ambiguità delle parole altrui e da lavorare sulla chiarezza delle proprie.

Le parole tendono ad amalgamarsi, a contaminarsi, e bisogna resistere all’adeguazione delle parole tra loro, nella tentazione di rendere ogni discorso liscio, pulito, senza intoppi. Se vogliamo dire così, decostruire è mettere bastoni tra le ruote, inceppare dei meccanismi, ostacolare il procedere delle frasi così com’erano progettate inizialmente. Provate a volgere le negazioni come fossero ammissioni: anche trasformare banalmente un “non credo che non” in un “io credo che” potrebbe sconvolgere l’ordine precostituito dall’autore. Oppure potreste ottenere effetti insperati dal trasformare le frasi ipotetiche/condizionali, rovesciandole: un “se A allora B” suona molto diverso da un “c’è B dove c’è A”, pure se le due formulazioni sembrano logicamente equivalenti. Ancora più interessante è giocare con i sinonimi: per esempio sostituire i verbi. Usare dei loro sinonimi, per poi rileggere le frasi, può far sorgere delle ipotesi di lettura che forse l’autore voleva occultare, quando ha scelto quella parola e non il sinonimo che avete messo alla prova.

Deconstructing da dove

Decostruire è, inevitabilmente, indagare le condizioni di possibilità di un testo, cioè ricostruire anche la sua storia, ciò che lo ha preceduto e che ha generato, nell’autore, la necessità di scriverlo. Quindi si tratta anche di domandare alle parole da dove vengono, quale necessità ha spinto qualcuno a usarle in quell’ordine, e non in un altro, per esprimere quel senso e non un altro. Le parole hanno una storia, nessuno le inventa lì per lì tanto per essere compreso o per esprimersi, perciò le scelte lessicali denunciano un passato, un’impronta originaria che l’autore sceglie perché la preferisce ad altre per i suoi scopi. E’ il caso, prendendo ad esempio i testi che ho decostruito, dell’uso del linguaggio militare da parte di commentatori politici. Se un autore scrive che tra i generi c’è “battaglia” e non “scontro” o “opposizione”, non è la stessa cosa. Per esempio, in una “battaglia” può esserci facilmente un “eroe”, il “sacrificio” e un “onore”, mentre a una “opposizione” sarebbe più difficile accostare quelle tre parole. Ecco che un testo viene caratterizzato da determinate scelte che colorano il discorso con aloni, presenze, atmosfere che non sono elementi da trascurare ma entrano a far parte della lettura, s’insinuano con i loro sensi multipli negli spazi bianchi tra le parole. Quindi vanno decostruite anch’esse, in qualche modo. Per questo usare l’ironia può essere, oltre che divertente, funzionale: l’ironia permette di evitare il condizionamento dovuto a elementi non puramente testuali, spazzando via le “arie”, gli odori e i sapori che determinate scelte lessicali introducono nel discorso.

Deconstructing chi

Decostruire è mettere se stessi in gioco, inevitabilmente, perché il lettore non è neutrale, mentre legge. Forse lo si vorrebbe così, ma ciò non è possibile, perché leggere è anche comprendere – o tentare di comprendere – e questo comporta distendere tutte le proprie convinzioni e conoscenze personali per entrare in ciò che il testo dice. Decostruire è quindi anche far emergere le sollecitazioni che il testo promuove in noi (nella memoria, nel corpo, nei sensi, nella cultura che abbiamo interiorizzato) e metterle alla prova facendole scontare con le parole scritte. Il risultato dovrebbero essere domande, interrogativi, questioni che il testo ha sollevato ma al quale non risponde o preferisce non rispondere, e c’è da chiedersi il perché.

Non è necessario però spostare il fuoco del lavoro decostruttivo dal testo al suo autore. Si dovrebbe sempre cercare di “rimanere sul pezzo”, perché si decostruiscono i testi ma non le persone. Per quanto chi le ha scritte possa avere un carattere spregevole o malevoli intenzioni, sono le parole lo strumento usato per veicolare violenza, costrizione, falsità o ipocrisie; sono loro a dover essere disinnescate. Dopo questo lavoro di decostruzione, l’autore non conterà assolutamente più niente.

Deconstructing come

Certo un PC è più comodo da usare, ma anche sulla carta si può fare un deconstructing. Il primo lavoro da fare è una accurata frammentazione dei paragrafi originali, spezzando tutte le frasi al punto (o dove la punteggiatura suggerisce di farlo) e scrivendole distanziate di una riga – su carta si possono usare evidenziatori a colori alternati, per esempio.

In questo modo le frasi posso essere lette in maniera “assoluta”, sciolte dal discorso precedente o successivo, e si possono riconoscere più facilmente le loro inconsistenze o incoerenze. Provate, oltre ai giochi lessicali già descritti, a immaginare di pronunciarle a una persona che non sta leggendo tutto il testo: hanno ancora un senso? Di cosa avrebbero bisogno per essere comprensibili? E nel resto del discorso sono presenti questi altri elementi? Tutte le espressioni sono chiare, sono definite? Questo lavoro permette di passare a una fase successiva, cioè individuare i legami nel testo tra le parti significanti. Ci sono sicuramente concetti che vengono premessi per definirne altri, oppure concessioni fatte per poter poi confutare una opinione. E’ bene segnare con evidenza questi legami, perché sono quelli che tengono insieme i vari argomenti e rendono il testo un “tutto” unito – e potrebbero essere, in realtà, del tutto arbitrari. Nel caso di una intervista, per esempio, l’ordine delle domande potrebbe essere stato scelto per meglio agevolare l’intervistato a dire ciò che gli fa piacere, e per evitare di dire cose a lui scomode; in un articolo di cronaca, alcuni fatti apparentemente slegati con la notizia principale potrebbero essere inseriti, all’inizio o alla fine, per mostrare come la notizia faccia parte di un insieme di circostanze che invece sono solamente create da chi ha scritto.

Una piccola accortezza ulteriore, che probabilmente porta a scoprire insospettati intrecci di senso, è il conteggio delle parole, ossia contare quante volte una parola viene ripetuta, anche nei suoi sinonimi. Può essere utile a rintracciare l’intenzione dell’autore di usarla come “veicolo” di un concetto non chiaro, oppure per rafforzare nel lettore l’idea che quella parola o espressione siano chiare e definite – ma nel testo la definizione non c’è.

Non è mai inutile raccomandare di distinguere, in ogni tipo di testo, “i fatti dalle opinioni”. Spesso opinioni personali dell’autore sono spacciate per evidenze, ovvietà, caratteristiche di ciò che viene descritto – ma non è così. E’ sempre necessario avere la mente pronta a cogliere atteggiamenti giudicanti, moralistici o comunque privi del giusto distacco necessario a una esposizione obiettiva, appunto, sia dei fatti che delle opinioni.

Sarà facile che emergano, nel lavoro di decostruzione, altri sensi possibili per il testo e anche altri attori coinvolti. Se ci sono, ad esempio, formule linguistiche che richiamano alla mente le espressioni tipiche di una persona che non è l’autore, si deve chiedere conto di questa “presenza”; oppure potrebbero esserci altri significati possibili, altri sensi per una frase o un’espressione, la cui ambiguitàè fonte di fraintendimento oppure di ricercata vaghezza.

La domanda che dovrebbe sempre alimentare il lavoro di decostruzione è: che cosa manca? Che cosa non mi fa sentire a mio agio quando leggo questo testo? E perché non c’è?

Link 

Qui di seguito la lista dei link ai “deconstructing” pubblicati finora da me, dal meno recente al più attuale – sono link anche quelli non colorati, cliccate con fiducia e buone risate, spero 🙂

Deconstructing SNOQ (SNOQ a pezzi) – 21/11/2011

Deconstructing “Liste. E femministe” – 22/12/2011

Deconstructing “Casapound spiazza tutti” – 13/2/2012

Storie di un padre NON separato #6 (parte prima: Deconstructing Giacomo) – 19/3/2012

Deconstructing “Che cos’è il patto di genere” – 19/2/2012

Deconstructing Clio Napolitano – “Morti rosa” – 2/5/2012

Deconstructing “Il recensore misogino” – Come non si fa una recensione – 25/6/2012

Cosa vogliono le donne? (deconstructing Gramellini) – 30/6/2012

Deconstructing “Pussy Riot, le giovani punk a processo” – 1/8/2012

Deconstructing Elasti – 14/9/2012

Deconstructing allievo e maestro – 21/9/2012

Il genocidio dei padri, ma siamo sicuri che esista? (Deconstructing Mazzola) – 25/10/2012

Io sono Tempesta (Deconstructing Mazzola bis) – 4/11/2012

La politica di Fonzie (Deconstructing la beta-solidarietà) – 7/11/2012

Decontructing SNOQ #2 – lo spot – 24/12/2012

Deconstructing ANSA – 8/1/2013

Deconstructing “i casalinghi” – 7/2/2013

Deconstructing l’ottomarzomaschio – 14/3/2013

Deconstructing le vergini violate – 10/04/2013

Deconstructing la vanvera – 10/04/2013

Deconstructing le poesie? – 19/04/2013

Deconstructing la censura –  19/04/2013
Deconstructing Don Riccardo – 02/05/2013

Deconstructing il moralismo – 13/05/2013

Deconstructing lo scienziato – 05/06/2013

Deconstructing il progetto di Dio – 05/06/2013

Deconstructing il direttore – 10/06/2013

Deconstructing le avances – 24/06/2013

Deconstructing l’amor cortese, i cavalieri, i parolieri, i giocolieri, gli uomini di ieri  – 08/07/2013

Deconstructing l’ignoranza (o Dell’anti-omofobia) – 30/07/2013

Deconstructing la cronaca stretta – 16/09/2013

Deconstructing “la tua opinione” – 02/10/2013

Deconstructing l’impressione – 16/10/2013

Deconstructing lo yin e lo yang – 21/10/2013

Deconstructing il sogno e l’incubo – 24/10/2013

Deconstructing l’ideologia totalitaria – 05/11/2013

Deconstructing la redazione – 25/11/2013

Deconstructing il Queer Bilderberg – 02/12/2013

Deconstructing “il sesso con sentimento” – 16/12/2013

Deconstructing la costanza (di Miriano) – 13/01/2014

Deconstructing il collaborazionismo sessista – 28/01/2014

Basta il pensiero (deconstructing il Metodo Scanzi) – 10/02/2014

Deconstructing quello (il giornalista) che ci prova – 18/02/2014

Deconstructing la zappa sui piedi – 25/02/2014

Deconstructing il genio della lobby rosa – 31/03/2014

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra – 08/04/2014

Deconstructing una certa idea di maschio etero – 28/04/2014

Deconstructing la frittata – 11/06/2014

Letture per l’estate (Deconstructing il ridicolo sessismo linguistico) – 30/07/2014

 

Deconstructing la frittata

320px-Frittata2La colpa è, probabilmente, dei numerosi programmi televisivi dedicati alla cucina, agli chef, all’assaggio e ai fornelli, ma è evidente che sempre più parti politiche hanno assimilato come tecnica di comunicazione politica il gesto che migliaia di cuoch@ e casalingh@ fanno in cucina: rivoltare la frittata.

Che lo facciano con l’aiuto di un piatto o del coperchio della padella, che lo facciano con un colpo di polso degno di Henri Leconte, rigirare la frittata è uno dei più straordinari casi in cui una innocente e necessaria pratica culinaria si è trasformata nella moda politico-retorica del momento. Il rivoltamento è usato ormai sia da poteri ben consolidati che da poveracci che non se li fila nessuno; o perché inefficaci i tradizionali metodi di oppressione, o per avere un po’ di visibilità tramite discorsi fantasiosi, entrambi tentano di colpire l’avversario politico facendolo passare per oppressore, maligno, insidioso, brutto&cattivo – mentre loro sono tranquilli paciosi a vogliono solo parlare.

Proveremo a fare un deconstructing un po’ diverso dal solito, tanto per capire di che stiamo parlando; anche senza occuparci nel dettaglio di tutti, è importante riportare qualche esempio, raggruppato per comodità in grandi categorie. Il resto starebbe a voi – “e mica posso fa’ tutto io!” (cit.)

1) Ai cattolici viene limitata la libertà d’espressione.

Questa splendida frittatona gira alla grande da quando Ivan Scalfarotto ha fatto la sua proposta di legge, per ora approvata dalla Camera, che introduce un’estensione alla cosiddetta “Legge Mancino“, estensione che a leggerla per intero è una pippa notevole ma che nella sostanza consta di queste due frasette due:

a. istigare a commettere o commettere atti di discriminazione per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro
b. istigare a commettere atti di violenza per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni

Ci vedete qualche accenno alla libertà d’espressione, alla libertà d’opinione, e altre cose del genere? No, dovrebbe bastare saper leggere. Ma i nostri ipocricattolici son partiti armati di fede speranza e carità per l’ennesima crociata a difesa del loro(?) pensiero, minacciato dalle forze del male: gli omosessuali. Ed ecco che da quel giorno battono il tamburo della libertà minacciata, una colossale panzana che solo in un paese dove una suora vince un reality show musicale poteva attecchire così bene. Leggete qua (un esempio qualunque, preso a caso tra gli ultimi usciti) di che stronzate colossali sono capaci:

«È utile ricordare – affermano le Sentinelle in Piedi in una nota – che se tale proposta dovesse diventare legge chiunque affermi che un bambino per crescere ha bisogno di una mamma e un papà potrebbe essere accusato di omofobia e rischiare di essere condannato ad un anno e sei mesi di carcere. Lo scorso 15 marzo a Piacenza eravamo 350 Sentinelle in Piedi, un successo straordinario, ma è tempo di far sentire di nuovo il nostro silenzio, perché impedire a qualcuno di esprimere la propria opinione è il primo passo verso la dittatura. Diverse volte negli ultimi mesi, le veglie delle Sentinelle in Piedi sono state fortemente contestate e accusate di omofobia. Non è che la conferma di quanto sia urgente la nostra mobilitazione, infatti, se oggi solo stando in silenzio nelle piazze si viene additati come omofobi, cosa accadrà domani, se e quando la legge sarà approvata?»

Carissime sentinelle, ma che andate dicendo? E’ una vera e propria falsità, una balla, una sciocchezza, una stuipidaggine. Ma chissenefrega – e chi se n’è mai fregato – delle cose che pensate e andate dicendo: so’ problemi vostri. Quella legge, c’è scritto sopra, non serve per i pensieri né per le espressioni, serve proprio per tutt’altro, c’è scritto: atti di discriminazione o atti di violenza, e le vostre idee circa l’omosessualità, finché rimangono idee, non danno alcun problema – al massimo schifo o pena, tutto lì. Però fare le vittime fa comodo, e adesso vorreste passare per paladini della libertà invece che per ipocriti; i quali vorrebbero addirittura sentirsi chiedere scusa per aver anche solo paventato la possibilità di avere una legge che punisce gli atti omofobi. E attenzione, amici cattomofobi: se ne sono accorti anche personaggi molto preparati di questi trucchetti retorici sulle questioni di genere. Sarà sempre più difficile farci cadere la vostra amatissima “opinione pubblica”, in piedi o seduta che sia. Complimenti per la frittata, davvero.

2) Le vere vittime sono gli uomini, altro che “violenza sulle donne”.

Beh, questa invece è una specialità della casa (patriarcale) che va avanti da un pezzo, sempre in nuove versioni e fantasie elaborate dagli chef professionisti come dagli smaneggiatori di fornelli occasionali. Ce n’è per tutti: potete trovare il dotto maschione che legge tanti libroni e li studia e fonda gruppi chiamandosi con lettere greche (quello che ama presentarsi come corretto, forbito e gentile), del quale recentemente ho letto questa meraviglia, in un aggregatore:

Tutto ciò che gli uomini avrebbero fatto nel corso della storia, quindi anche le grandi rivoluzioni, le grandi lotte per l’emancipazione umana, i diritti, la libertà, la democrazia, l’eguaglianza, il socialismo che li hanno visti protagonisti, e poi il lavoro disumano, lo sfruttamento e le immense sofferenze a cui sono stati sottoposti, così come le scoperte scientifiche, la produzione filosofica e letteraria, l’arte (per non parlare delle religioni), sarebbe stato fatto con il proposito di opprimere le donne.
Questa è l’operazione filosofica/ideologica che sta alle fondamenta del femminismo in tutte le sue correnti e sottocorrenti, nessuna esclusa. La criminalizzazione del maschile è ciò che accomuna tutte le diverse determinazioni del femminismo, oggi declinato nella sua versione ancora più aggressiva, che è quella detta appunto del genderismo.

Fantastico, sublime, mirabile produttore di stronzate galatticohegelianmarxiste, il quale crea mostri a suo uso e consumo per parlare dei poveri ometti che non ce la fanno più a sopravvivere, sempre più angustiati dalle brutte donnacce (e da altri uomini che beneficiano della loro preziosissima arma, l’alphavulva). Questi girafrittate esistono anche nella versione statistico-sociale: certamente ricorderete il mitico avvocato “Tempesta” Mazzola (qui uno e due esempi dei suoi fallodeliri) il quale meno di due anni fa ci propinava paternalismi di questa levatura:

Ho perplessità sui numeri sparati a vanvera. Nessuno ad oggi mi ha difatti indicato una fonte ufficiale da cui trarli e la causa precisa delle morti e per mano di chi. Il “cianciare” era riferito al giornalismo pressapochista. Ho contrapposto numeri ufficiali che smentiscono l’allarme, anche se è giusto che vadano letti più nel profondo, dal generale al particolare. Un lettore ha ben citato la fonte del ministero dell’Interno che nega qualsivoglia allarme al riguardo. Dunque si stanno enfatizzando alcune morti per destare allarme e, come scritto prima, per imporre un femminismo d’assalto. Egemonizzante. Aggressivo come il tono usato nei commenti, vera cartina di tornasole del femminismo d’avanguardia (presunta).

Capito? Il problema è che non ci sono i numeri perché nessuno si occupa del fenomeno, ma il nostro fa finta di capire il problema e bea sé e il suo maschio cervellone dei “dati ufficiali”. Geniale, a modo suo. E tu, che ti sbatti per registrarli e diffonderli correttamente, quei numeri, tu sei il cattivo perché enfatizzi, strumentalizzi, aggredisci, imponi; sei brutt@ e cattiv@ femminist@, pussa via! Non c’è nessun allarme: com’è giusto per il loro virilissimo destino, muoiono sono i maschi per mano delle donne, eh.
Dite che è roba vecchia? Ma la frittata è sempre quella: quella dei poveri masculazzi ai quali sentirsi dire “puzzi forte, lavati almeno” significa che il femminismo gl’impedisce di scopare; quelli che le donne si approfittano della loro alphavulva per fare carriera e ottenere vantaggi, come se i vantaggi e le carriere venissero dati in cambio di sesso da un distributore automatico, non da un uomo come loro; quelli che le donne c’hanno tutti i vantaggi sociali ed economici, di che si lamentano? Però mai che facessero a cambio di vita, anche solo per un giorno (qui è riportato qualche discorso come esempio di tutto ciò, non vi aspettate link a quello schifo, basta usare Google); e poi i mitici articoli, che spopolano nei ghetti rosa, nei quali le conseguenze del sessismo – i pregiudizi sul “sesso forte” – vengono usate come prove che la società è più cattiva con i (tantissimi!) maschi che subiscono violenza.

Capito come funziona la frittata? A parte le letture ignoranti e mistificanti, il trucco è: quello che succede ai maschi lo descrivo come simmetrico di quello che succede alle donne, et voilà! la frittata è girata. L’avete sentita, questa frittata, anche nella versione più generalista “il femminismo è il contrario del maschilismo”: la considerazione del fatto che forse non si tratti di un rapporto simmetrico – perché quello tra oppressori e oppressi non è mai un rapporto simmetrico – non li sfiora proprio a ‘sti bei soggetti e soggette – guarda caso. E che quindi leggere i fenomeni di violenza di genere come fossero lo stesso fenomeno – solo con soggetti diversi – è manifestazione d’ignoranza quando non di malafede. Calda la padella, eh?

3) I genitori non possono decidere cosa studiano i figli.

Notoriamente della scuola pubblica non frega niente a nessuno (parlo della maggior parte dei politici di professione, stante ciò che ne hanno fatto dal dopoguerra a oggi) e la maggior parte dei genitori continua a pensare che la scuola debba fare qualunque cosa soprattutto perché maestri e professori sono una casta che si gode tre mesi di vacanze all’anno (stronzo luogo comune dal dopoguerra a oggi). Il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi: i genitori devo comprare pure la carta igienica e va bene così, ma se qualche docente illuminato – o qualche studente autorganizzato – porta dentro la scuola argomenti di genere, allora protestiamo! A scuola si porta di tutto da casa, compresi i pregiudizi.

Il caso degli studenti di Modena lo ricorderete, è un esempio perfetto. Ecco come si esprime l’associazione di genitori che lo ha contestato:

L’intervento di Luxuria al ‘Muratori’ non rispetta questa esigenza di pluralismo e rappresenta invece una vittoria del pensiero unico nella forma della cosiddetta ideologia del gender e una negazione della liberta’ di espressione e del contraddittorio.

Capito? Applicando il principio – stupido e distorto – divulgato da quella ridicola e ipocrita norma italiana della par condicio, “i genitori” (ma quali? Di chi? Indovina!) assumono che la sola presenza di una transgender a parlare sia la violazione di un supposto contraddittorio. E sì, perché lei è lì per fare propaganda politica, no? Lei è lì per trasformare tutti i virgulti italici in transgaypornozozzoni come lei, no? E così, salto mortale carpiato per la frittata: non c’è il contraddittorio – senza spiegare perché ci dovrebbe essere – e quindi quella è un’imposizione della potentissima lobby gaytransfrociazozza, che come sapete governa il mondo tramite il commercio dei boa di struzzo. Il contraddittorio, secondo questa gente ubriaca dei propri pregiudizi, dovrebbe esserci tra chi tenta di parlare di cose da sempre nascoste e marginalizzate con violenza, e tra chi tradizionalmente segue la mentalità oppressiva e distorcente che vige. Proprio un confronto alla pari, sì.

E giustamente l’attuale ministra dell’istruzione si accoda a questa propaganda meschina, e invece di ascoltare chi fa il lavoro di educatore da anni rispondendo a richieste di educazione sessuale che vengono dalle scuole stesse, pensa bene di aspettare ancora un po’ promettendo linee guida di concerto con le associazioni dei genitori, le quali infatti esultano. Esultano perché si tratta solo di alcuni e particolari genitori – voglio proprio vedere se e come Giannini sentirà in proposito il parere di Agedo, per esempio. Per ora, la frittata è girata: i genitori cattolici passano per quelli zittiti e messi in minoranza, ignorati e anzi ingannati da chi vuole sapere le cose senza contraddittorio. Complimenti.

La realtà, come sanno bene al di fuori da questo cattostivale, è che prima si comincia meglio è, perché i risultati, come spiegava ad esempio Lanfranco, sono a lungo termine:

Non si aspettano miracoli dal progetto educativo francese, perché ci vuole tempo, e molto lavoro, sulle persone adulte in primo luogo e poi sulle giovani generazioni affinché la mentalità, il linguaggio e la pratica quotidiana nelle relazioni tra i generi evolva in una direzione non sessista, paritaria e nonviolenta. Ma iniziare a farne anche una questione di come ci si esprime, come si gioca, come si vestono bambine e bambini è un buon inizio.

Qui, nel frattempo, gente sedicente di sinistra s’è vantata di essersi opposta al rapporto Estrela. Così, per dire, eh.

Oh, allora? Zucchine, porri, patate, spinaci… che ci mettiamo? L’importante è rivoltarla, ricordatevelo.

 

Tsipras e la politica dei selfie

WHAT_IS_THIS_BULLSHIT_by_okchickadeeNoia, noia totale. (cit. Frantic)

In una realtà nella quale si fatica ad esprimere un pensiero compiuto in più di 150 caratteri  – e in cui ogni occasione è buona per finirla in una caciara inutile, dove cane mangia cane – la diarrea verbale e gli schieramenti monolitici delle ultime ore causati dal selfie di tal Paola Bacchiddu meritano qualche riga di commento.

Dico ‘tal’ perchè, prima di questo ‘cataclisma’, della protagonista della vicenda io non conoscevo nemmeno il nome: sarà che non seguo da tempo la politica istituzionale, che al sentire la parola ‘lista’ subito mi sale una irrefrenabile nausea, che la democrazia rappresentativa è per me un fossile del passato che dovrebbe trovare degna sepoltura nel dimenticatoio degli esperimenti falliti,  e che in definitiva privilegio altre modalità di far politica, che non passino dal delegare a sconosciuti una rappresentanza farlocca… fatto sta che nel mio mondo rotondo Bacchiddu contava meno di un paramecio.

Nelle ultime ore ho dovuto fare ammenda di questa mia terribile mancanza, approfondendo la conoscenza di lei medesima: prima del suo lato b, poi del suo ruolo ‘istituzionale’, infine delle intenzioni recondite celate nel suo criptico gesto – di sovversione comunicativa o di conformismo comunicativo, a seconda delle campane. Sopitosi l’interesse mediatico mainstream,  della durata di un battito di ciglia, è a livello della politica di base femminista che la bomba sganciata non ha ancora perso in virulenza, anzi.

Ma che noia però! Davvero ci stiamo lambiccando sulla foto di un culo? A me non importa un fico secco di arrivare ad una verità condivisa che determini inequivocabilmente se il culo mostrato sia eteronormato/normativo o se strizzi le chiappe al sessismo patriarcale. Certo, se mi si domandasse in merito alla foto posso dire che non è esattamente un’immagine sovversiva, o che il messaggio in 150 parole allegato poteva perlomeno sforzarsi di piegarla ad altri significati – magari non dichiaratamente sovversivi, ci si sarebbe accontentat@ di un pò di ironia/problematizzazione – ma così non è stato; questa è però soltanto una mia opinione personale su di un argomento che ritengo poco interessante, considerato per di più che tanta parte della comunicazione online si basa sulle ambiguità, sui non detti, e via discorrendo… chi ha pubblicato la foto, quei meccanismi che tirano un colpo al cerchio e uno alla botte li conosce bene. E’ chiaro che, volendo,  questo culo autoreferenziale si presta a scrivere interi trattati: de culibus non disputandum est, dei delitti e dei culi, psicopatologia dei culi quotidiani, ecc… ma è ciò che vogliamo?

La politica dei selfie (ah, en passant, questa mania di ritrarsi in ogni posa, se umanamente è vagamente egotistico,  politicamente è davvero penoso!) dimostra invece, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’unico gesto sensato ancora non portato a compimento sarebbe l’astensione in massa dalle urne. Vorrei, con queste poche righe, invitare le femministe, tutte, a ritrovare la lucidità: non sarà questo culo a fare la rivoluzione, a prescindere dai suoi buoni – o meno – propositi, perché come sosteneva Audre Lorde, “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Ma intendiamoci, attrezzo del padrone è la politica istituzionale, non il culo in questione: quello lascia il tempo che trova, e a breve non ne resterà traccia. 

 

 

Deconstructing se si preferisce un cane a un bambino

baby-loves-dogLeggo questo articolo, uno dei tanti – di cosiddetti ‘esperti’ – che affollano le pagine di giornali on line, noti e meno noti. Di solito ignoro tali ‘perle’, ma in questo particolare pezzo ho visto tanti e tali di quei concetti e preconcetti contro i quali combatto, che ho sentito necessario scriverne un deconstructing ‘à la Gasparrini’! Buona lettura!

I bambini rappresentano un argomento sempre più importante a livello politico e sociale [affermazione tanto ovvia quanto scontata, per dare subito un taglio il più possibile banale al ‘ragionamento’]. Una politica che guarda al futuro dovrebbe investire sempre più risorse su di loro; ma nei decenni scorsi la politica italiana ha considerato poco questo aspetto e ha legiferato trascurando le «future generazioni» [a dir la verità, la politica italiana trabocca di ideologia familista da sempre, salvo poi fregarsene beatamente quando la realtà, fatta di una popolazione sempre più povera e più precaria, si manifesta in forma di individui che non stanno zitt@ a subire in silenzio ma avanzano le proprie legittime richieste. A quel punto diventano tutt@ fannullon@ che non hanno voglia di fare niente].

A loro ha lasciato un debito pubblico pesantissimo, che è una delle principali cause del dissesto italiano. I bambini di ieri sono oggi lavoratori, magari disoccupati a causa del vergognoso disinteresse dell’Italia di allora per il suo futuro. Negli anni ’80-’90, per questo e per vari altri motivi, gli italiani hanno deciso di mettere al mondo sempre meno figli. [sicuramente la situazione economica generale da molti anni non aiuta nessun@ -nemmeno chi vorrebbe avere prole – ma rispetto alla natalità in calo in Italia non si deve trascurare nemmeno la rivoluzione culturale che, a partire dai movimenti femministi degli anni 70 e dall’autocoscienza, hanno riconsegnato  – almeno in parte, nonostante la continua ingerenza della chiesa e del patriarcato – le scelte riguardanti la sessualità e la riproduzione alle donne… e direi posizione abbastanza condivisa anche da molti uomini, i quali non desiderano  – né necessitano più di – 12 figli a testa  – per mandare avanti il lavoro nei campi o perché dei 12, 8 ne morivano per malattie e/o denutrizione].

Eravamo nel mondo il fanalino di coda, con appena 1,2 figli per donna. Poi siamo aumentati a 1,4, per il contributo delle mamme straniere (il 20% in Italia, il 24% in Trentino); ma negli ultimi anni stiamo ridiscendendo a 1,3. In Italia nel 2013 abbiamo registrato un netto calo di nascite (510.000: 5% in meno rispetto al 2012). In Trentino i nati del 2013 sono calati del 10% rispetto al 2008…. [ma cos’è, una gara a chi ne fa di più? In un mondo dalle risorse finite non conta nulla il fatto che siamo già a livelli disastrosi di sovrappopolazione, che non ci sono più risorse, più spazio, più possibilità per chi già è qui e sta crepando, nel momento stesso in cui parliamo? Senza contare la mostruosa distruzione di habitat e biodiversità, la perdita di specie animali che non hanno più alcun luogo in cui rifugiarsi, ecc.ecc. ] Non è una bella notizia: con poche nascite e molti vecchi l’economia italiana sarà ancor più povera nei prossimi decenni. [se l’economia italiana è sempre più povera è, in massima parte, a causa della corruzione e delle scelte scellerate compiute in materia di spesa pubblica – prassi condivisa da qualsiasi governo, di destra, centro e sinistra – non certo perché nascono pochi bambini. Anche perché i bambini di ieri, che oggi sono giovani adult@, sono tutt@ precari@! Sui vecchi cosa si suggerisce, le camere a gas? ]

Vedo però che, in parallelo, stanno aumentando sempre di più le persone con cani da compagnia. [io vedo ancora più persone con gli smartphone in mano anche al ristorante, posso pertanto trovare un nesso causa-effetto anche in questo caso?] È facile fare una passeggiata e incontrarne decine, più delle carrozzelle secondo me. [e allora? Perché si vuole fare dei cani un capro espiatorio per scelte che evidentemente l’articolista non condivide – ca..voli suoi, potremmo aggiungere tra l’altro, o siamo ancora al ‘fare i figli per la patria?’] Come i bambini i cani sono affettuosi, ricambiano le premure, hanno emozioni e fanno sentire all’uomo il «piacere» di avere un amico fedele. Ma perché scegliamo di allevare un cane anziché un figlio? Perché e dove facciamo queste scelte? [bene, adesso dì la tua, che poi ti dirò la mia, e non so perché, ma credo che le motivazioni non coincideranno].

Nel cervello di uomini e cani, al primo piano, c’è un «cervello da rettile» (vecchio di almeno 300 milioni di anni), con centri che regolano la sopravvivenza dell’individuo e della specie nella lotta per la vita (istinti, automatismi…). I piaceri, le emozioni, la memoria, i desideri si localizzano al secondo piano, in parti centrali del nostro cervello (mesencefalo). Ormoni e sostanze chimiche ben note (dopamina, serotonina, ossitocina, endorfine…) sono responsabili della sensazione di «piacere» e di benessere che ci danno la cioccolata, la musica, un profumo, un massaggio, ogni atto di amore fisico o psichico, una vittoria, un atto di generosità…. Al terzo piano del nostro «cervello trino», in zone specifiche della corteccia, l’uomo, solo l’uomo, è dotato di linguaggio, di coscienza, di ragione, di intelletto, di pensiero rivolto anche al passato e al futuro. Qui – nella corteccia prefrontale in particolare – la mente valuta le informazioni che riceve dall’esterno e «dal basso» (emozioni, desideri, memoria), formula giudizi e sceglie come dobbiamo comportarci, come «essere Uomini». Usando la mia intelligenza, io posso scegliere di valorizzare il mio cervello da rettile, per cui ho «piacere» nel dominare sui più deboli,anche nel far loro violenza, con sadismo: Hitler aveva piacere nel programmare e attuare un genocidio! Posso scegliere le emozioni del secondo piano e mirare solo ai massimi «piaceri» per me, sempre in modo intelligente: godermi la vita, valorizzare gola, sesso, lusso, usare droghe per avere subito piaceri artificiali. Al giorno d’oggi il consumismo e un diffuso individualismo ci spingono a comportarci così: carpe diem… [allora, ho lasciato volutamente integro questo passaggio perché è davvero impagabile l’assurdità e la fallacia del ragionamento su esposto. Lasciando da parte il ‘cervello uno e trino’ (!)… Prima di tutto, gli esseri umani SONO animali! Forse gioverebbe all’autore, che toglie DIO dal trono per rimpiazzarlo con la sua laica versione IO, discostarsi da quella concezione cartesiana secondo cui uomo e animale fanno parte di quelle contrapposizioni di merito in cui uno dei termini del discorso – tutto quello che sta dalla parte umano, razionale, maschio, ecc.ecc. – è sempre SUPERIORE  a quello che sta dall’altra parte. Le cose sono un po’ più complicate di così: 1 – gli umani sono animali, 2- gli umani sono PECULIARI tanto quanto gli altri animali – ogni specie è ‘speciale’ perché tutte sono diverse – 3- vari studiosi del comportamento animale hanno decostruito negli anni tutte quelle caratteristiche che – sempre seguendo quel ragionamento vecchio di 300 anni per cui l’uomo è DIVERSO, MIGLIORE, ecc.ecc. – lo renderebbero UNICO. Spiacenti informarla che non è così, e molte caratteristiche definite in termini esclusivamente umani – ad esempio nell’articolo, linguaggio, coscienza, ragione,  intelletto, pensiero rivolto anche al passato e al futuro – sono possedute da molte specie animali, e non solo da quelli più simili a noi, come i primati. Senza contare poi che anche gli altri animali hanno caratteristiche UNICHE – tipo respirare sott’acqua,  volare senza l’ausilio di strumenti – e non si capisce perché alcune caratteristiche – guardacaso, le nostre –  dovrebbero essere migliori di altre. Tantopiù che la massima espressione dell’umana mente è perlopiù utilizzata, da secoli, per dominare altri esseri umani e altre specie, alla faccia dell’uomo simile agli angeli e blablabla!]

Oppure uso la mia intelligenza guardando al futuro in modo responsabile: e allora scelgo di avere come punto di riferimento non un Dio che giustifica ogni autorità («non c’è autorità se non da Dio: chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio», scrisse san Paolo), non il mio Io, il mio egoismo (me ne frego del futuro del mondo), ma il più piccolo Bambino di oggi che tra vent’anni giudicherà le nostre scelte politiche o familiari. [il più piccolo bambino di oggi non deve per forza uscire dal mio utero, se non lo desidero…può essere il bambino del mio vicino, quello del migrante che mi affanno ad incolpare di tutti i miei problemi, quello che nemmeno vedo e vive a migliaia di kilometri da me o che crepa su un barcone al quale il nostro glorioso stato impedisce di sbarcare]. Discorso troppo serio? Cosa c’entra con i cani? [qui per un attimo l’autore ha un barlume di consapevolezza, peccato si spenga immediatamente] Il cane è un animale superiore che, come il cavallo o il gatto, ha un cervello quasi come il mio (il 90% del suo Dna è uguale al mio!), cerca anche lui emozioni e relazioni, ha piacere a essere coccolato e allevato dall’uomo; soddisfa i miei bisogni di affetto e aumenta i livelli di ossitocina e dopamina al secondo piano del suo e del mio cervello. Se mi dà fastidio, un cane posso cambiarlo, mentre con un figlio ho un impegno ben diverso, un impegno di responsabilità verso il futuro dell’umanità…. [cioè l’autore prima ci dice che condivide col cane il 90% del Dna, che è un essere affettuoso, intelligente, con emozioni e relazioni, e poi afferma “se mi dà fastidio un cane posso cambiarlo”! Ah, davvero? E’ questo il comportamento responsabile che si vuole stimolare nel lettore? A parte che chiunque ami i cani – o che possieda un briciolo di compassione e onestà intellettuale –  risponderebbe che è un ragionamento totalmente scellerato,  dovremmo perdipiù dedurne che chi non è nemmeno in grado di prendersi la responsabilità di non abbandonare un cane, una volta che si è scelto come compagno di vita – nessuno ci impone di adottarne, no? – potrebbe/dovrebbe quindi essere in grado di badare ad un bambino? Non fa una grinza!]

I bambini sono il simbolo concreto del nostro futuro. [Esatto, e in quanto simbolo non abbiamo bisogno che siano ‘nostri’… o il discorso vale per tutti i bambini, o per nessuno. Se sono solo i ‘nostri’ che contano allora il discorso è puramente egoistico, oltreché razzista.] E perché l’umanità migliori dobbiamo educarli a diventare cittadini responsabili. Con loro dobbiamo fare scelte razionali, con i più alti livelli di intelligenza, con vero amore. Lavorare per un mondo a misura di Bambino ci può dare «piaceri» non effimeri, profonda gioia, vera felicità, ma solo se considero ogni Bambino come «soggetto di diritto». Se lo considero «oggetto di proprietà», posso usare il mio cervello da rettile e maltrattarlo. Se lo considero solo un «oggetto di piacere», da coccolare e da viziare purché non mi dia fastidio, allora posso anche surrogarlo con un cane da compagnia…. [non è proprio così. I cani, o gli altri animali ‘da compagnia’, proprio per la loro capacità di intessere relazioni e provare emozioni, stringono legami con noi. Legami a volte più autentici di quelli tra esseri umani, specie per le persone più sole, più povere, più abbandonate. Ma non sono surrogati di nulla. Chi ama un animale non umano lo ama per quel legame di affetto e amore che si può creare tra esseri di specie diverse. Le eventuali ‘mancanze’ degli altri esseri umani (familiari, amici) non si colmano in questa maniera, e l’amore per gli altri animali non entra in conflitto con l’amore per gli altri esseri umani.]

Concludendo: tante sono le cose che si possono dire di ‘ragionamenti’ come quelli esposti in un articolo del genere. Un articolo nazionalista e razzista – perché in un mondo sovrappopolato dove la maggioranza delle persone, anche  bambin@, muore di stenti, dire che devono nascere più figli@ italian@ è vergognoso; magari si potrebbe suggerire più felicemente di rinunciare ai propri privilegi, in modo che i bambini che oggi già vivono una vita di privazioni possano avere un futuro. Un articolo sessista e in generale paternalista – le donne oggi scelgono di fare meno o nessun figlio? E’ una scelta legittima che va sempre rispettata – spiace turbare l’autore rendendogli noto che ci sono donne, come la sottoscritta, che hanno sempre provato amore per gli altri animali, fin da piccolissime, e nessuna attrazione per i bambin@ –  e in ogni caso: se anche chi li desidera  – uomini e donne  – vi rinuncia non è per mancanza di responsabilità, anzi: è proprio per il senso di responsabilità che deriva dal fare i conti ogni giorno con una povertà sempre più difficile da affrontare, che si sceglie, anche in maniera assai sofferta,  di non far nascere nuovi individui, che risulterebbero privati dalla nascita di reali prospettive e destinati a soffrire per questa situazione. Dulcis in fundo, un articolo specista e bugiardo – perché dire che non nascono i figli perché è più facile avere dei cani sminuisce i legami affettivi interspecifici, fomenta l’odio per gli altri animali, ed è una menzogna.

Che si continui pure a delirare sulla natalità zero in un mondo sovrappopolato e al collasso…chiedo solo un favore: con tutti i possibili colpevoli da additare (corruzione, clientelismo, spese militari, grandi opere inutili, disoccupazione, finanche l’autodeterminazione femminile che per alcuni individui evidentemente non dovrebbe esistere!)…non date la colpa di tutto ai cani!

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra

tomas-milian2Ci sono tanti modi per far passare come rispettabile un’opinione politica che ha il valore di una banale stronzata. Uno di questi è fraintendere fin da subito i termini in gioco, usandoli come se il significato di essi fosse comunemente accettato nel modo di chi scrive. Nella realtà dei fatti, però, non è così – ma se non ve ne accorgete subito, argomentazioni anche coerenti ma del tutto fuori luogo possono essere usate per dimostrare qualunque cosa. Questo articolo è un ottimo esempio di come una ben congegnata stupidaggine può risultare credibile e addirittura ragionevole, soprattutto se si parte dall’assunto che il movente di un assassinio non conta, non conta perché qualcuno viene ucciso, conta solo che un essere umano è morto. Cosa che si può facilmente constatare, mentre invece io vorrei sapere perché, in modo da evitare che succeda ancora. E sempre più spesso questo motivo è semplicemente che la vittima era una donna che ha detto un no a un uomo.

Invece dice che non importa che muoia un uomo o una donna, come se in questione ci fosse quello. Così si dice, negando che esistano i femminicidi e i motivi i quei corpi morti. Invece i mortacci vostra esistono sicuramente, e allora li usiamo per far sembrare il femminicidio un alibi politico.

10/03/2014 06:06

IL LAMENTO DELLA SINISTRA

L’alibi (culturale) del femminicidio

Le donne subiscono più violenze di quante ne commettono [e fino a qui, sembra quasi normale…]
Ma la discriminazione di genere nell’omicidio è ancora più pericolosa […ma ecco la formula che non vuol dire niente pronta a scattare: se distingui il sesso dei morti, sei tu che discrimini. Non conta che tu vuoi sapere i motivi per cui quell@ è stat@ uccis@, se distingui allora discrimini. Complimenti]

La «parità di genere» e il «femminicidio» sono due termini ai quali ci stiamo abituando rapidamente [eh, che vuoi farci, “sarà ‘sto buco daa azzòto” (cit.)]. Sono termini “di sinistra” [eh?], nel senso che descrivono fatti e fenomeni che esistono da sempre [però, hai capito] ma che, come avviene periodicamente in molti settori, la sinistra fa finta di scoprire per prima [ma per prima rispetto a chi? C’è chi lo dice dagli anni ’70. Vabbè], gli dà un bel nome, ci costruisce intorno campagne mediatiche [mah, campagne mediatiche mi pare un po’ esagerato], e alla fine le cose rimangono come erano prima [insomma, su, qualche cosa s’è fatta, dài] o, non sarebbe la prima volta, peggio di prima [eh ma come sei acida però]. L’assunto di base è semplice: le donne subirebbero molte più ingiustizie e/o violenze di quante ne subirebbero gli uomini [no, calma. Perché il condizionale? E poi, assunto di base di cosa? Non è questo l’assunto di base di la «parità di genere» e il «femminicidio». Infatti ci sarebbe da dire, per esempio, del tipo di ingiustizie e/o violenze; mica stiamo parlando di reati fiscali o scippi di borsette]. Questo dato non è vero in assoluto [e te credo], perché gli uomini, intesi come maschi, da sempre prediligono uccidere altri uomini, non importa se in guerra o in contese di altro tipo [EH? I maschi prediligono cosa? Beh, per certi versi è ovvio, dato che solo a loro viene insegnato che è “da maschi” risolvere le cose con la violenza. Ma non è che c’hanno il cromosoma del killer, eh]. È vero invece un altro dato: le donne subiscono più violenze di quante non ne commettano [ma no. Ma dài. Guarda, mi pare incredibile. E comunque: ma di che violenze parliamo? E per quali motivazioni?]. Ma questo dato è molto controverso [eh, mi pareva troppo bello – e comunque lo è per forza controverso, dato che non hai spiegato di che violenza parli, e del suo movente]. È controverso perché subiscono violenze quelle donne che in qualche misura si sottraggono alla «protezione maschile» [SCUSA? E dimmi, c’è disponibile il dato su cosa sarebbe la qualche misura? Oppure quello su cosa caspita intendere come «protezione maschile»?]. Laddove ancora oggi la donna accetta un ruolo subalterno rispetto a quello maschile [Laddove? E perché non dire dove? Accetta? Cioè il ruolo subalterno le viene gentilmente proposto? Ha delle alternative?], nelle culture tribali, nell’Islam, nell’Induismo, nelle varie forme di fondamentalismo religioso (anche ebraico e cristiano), la donna vive sottomessa ma sicura [SICURA? Cioè in quelle società – ammesso che si capisca quali sono, data la descrizione sommaria – non esiste la violenza di genere? Ma stiamo scherzando? E la sottomissione che sarebbe?]. Là dove la donna lascia i suoi ruoli tradizionali e chiede la sacrosanta parità di diritti, lì nasce lo spaesamento, la confusione, e subito dopo la violenza [quest’ultima frase è da manuale. Notate come, scritta così, faccia sembrare che la violenza subita dalla donna nasca dalla sua volontà di pretendere la sacrosanta parità. Non si nomina chi agisce quella violenza. Fantastico]. Ma le femministe occidentali, quelle vere, quelle che hanno studiato e militato, non quelle improvvisate dei salotti televisivi, alla parità di genere non ci credono e non la vogliono [nomi delle femministe occidentali, quelle vere? Nessuno. Link, riferimenti? Niente. Parole al vento, così, tanto per]. E non vogliono, quindi, nemmeno sentir parlare di “femminicidio” [ma quindi che cosa, che non hai messo uno straccio di riferimento? Che fai, deduci dalle tue stesse invenzioni? Ma come si fa a pensare di essere creduti argomentando in maniera così sfacciatamente ipocrita?]. Perché maschi e femmine sono diversi, diversissimi, e quello che si deve fare è rispettare questa diversità, non negarla, e men che mai omologare tutti [notate: è una frase talmente vaga che è ottima anche per pubblicizzare una fashion week]. Ma se per le femministe intelligenti [dopo quelle occidentali e quelle vere ci sono anche loro, quelle intelligenti – anche loro anonime, si vede che sono pure timide] il femminicidio è un falso problema [tornate qualche riga indietro e notate: non ha detto il perché sarebbe un falso problema, manco ha provato a inventarselo], per alcuni osservatori è addirittura un modo pericoloso di affrontare il problema più generale della violenza, chiunque possa essere la vittima [ci sono le femministe occidentali, vere e intelligenti e ci sono gli osservatori – alcuni, non tutti. Tutti e tutte anonim@, dev’essere una specie di gruppo di auto-aiuto, chissà]. Chiedere pene più alte per chi uccida una donna può sembrare che si possa invece fare uno sconto a chi uccide un uomo [nessuno ha proposto una cosa simile, che può sembrare verosimile solo a un@ deficiente, imho], creare procure o corpi di polizia specializzati [e chi l’avrebbe proposto?] può dare l’idea che altre forma di violenza siano meno gravi [di nuovo: nessuno l’ha detto], dedicare migliaia di progetti e di onlus nella speranza che mariti squilibrati smettano di picchiare o di uccidere le mogli può far sembrare che l’ignoranza o la pazzia si curino con le chiacchiere [cioè i progetti e le onlus sarebbero pensate per chiacchierare con vittime e violenti? Va bene dire stupidaggini, ma adesso cominciamo a offendere la professionalità di parecchi, eh], invece che con servizi sociali e sanitari efficienti e soprattutto non ideologizzati [quindi i problemi di genere sono patologie? Interessante. E per “curarli” servirebbero servizi sociali e sanitari efficienti, notoriamente il fiore all’occhiello della politica italiana; e poi, quale sarebbe l’ideologia di cui si parla? Altre parole al vento, altre ipotesi senza fondamento e prese di posizione campate in aria. Ma l’importante è dire che il problema è un altro]. Aprire tutti i telegiornali, come l’altro giorno, con l’omicidio di una donna, e confinare alle scritte che scorrono sotto il video la notizia di 3 morti a Napoli e in Calabria dà l’idea che ci dobbiamo rassegnare a un certo razzismo “di sinistra” [COSA? Le scelte editoriali di una testata giornalistica televisiva sarebbero razzistiche perché mettono una donna morta “davanti” a tre uomini morti? Ma cosa c’entra?], per cui i meridionali (che non a caso votano Berlusconi) sono animali e non ci si può fare niente [ma che paragone è? Che senso ha, a parte indignare il lettore già prevenuto e pieno di pregiudizi? E poi, questo sarebbe pensato sempre da tutti i telegiornali? Anche quelli di Berlusconi?]. Soprattutto, diciamocelo, parlare troppo di femminicidio è pericoloso là dove dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari [EEEEEEH? Fossi una donna: io sento tutti i giorni che una donna come me viene ammazzata perché moglie, madre, donna che ha detto un “no”, e dovrei sentirmi sicura di poter godere di protezioni particolari? Da parte di chi, della Feniof?]. No, qualcuno dovrà avere il coraggio di ricominciare a raccontare alle nostre figlie che, poiché non si può mettere un poliziotto in tutte le discoteche e in tutte le auto dei loro fidanzati [che a questo punto non si capisce perché non si può: tanto siamo in là con la fantasia, perché non militarizzare il territorio e gli spazi privati? Ma sì, dài, che ce frega], sarà il caso che alcune precauzioni le prendono da sole [certo, invece adesso le donne escono tutte sicure e tranquille, no? Meno male che glielo dici tu, ché a sentire ‘ste cose di femminicidio dormono tutte sonni beati]. Perché l’imprevisto è sempre in agguato [tranquillizzare è sbagliato, il femminicidio è un’invenzione della sinistra, teniamoci il sano terrore sparso della destra]. Perché la natura non è buona [è il 2014, qualche sospetto l’abbiamo già avuto, sa?]. Perché il male esiste [questa l’ha presa da una locandina cinematografica, l’ho riconosciuta]. Perché la stupidità esiste [su questo siamo d’accordissimo]. Checché ne dica la facile propaganda di troppi sciagurati in cerca di consenso un tanto al chilo [i quali quindi direbbero che va tutto bene perché esiste il femminicidio? Ma che canali guarda, scusi? Ah, sì, quelli dove parlare troppo di femminicidio è pericoloso perché dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari. Boh, forse stanno sul satellite, mi farò regolare l’antenna parabolica].

Francesca Mariani [casomai voleste essere sicure uscendo di casa, contattatela; c’ha sicuramente dei buoni consigli da darvi, amiche mie]

Così, per ribadire: distinguere non è discriminare. Voler sapere un movente non significa considerarlo “migliore” di un altro. Voler agire culturalmente per impedire a quel movente di esistere nella società non significa progettare momenti di chiacchiera. Mortacci vostra.

Deconstructing Domani è un altro porno

 

Annie_Sprinkle_Neo_Sacred_ProstituteNon voglio deludere le/gli aficionad*s dei deconstructing di Lorenzo Gasparrini, di cui non mi illudo di raggiungere il livello… ma nei giorni scorsi ho letto un post sul blog di Femminile Plurale (nomen omen?) al quale non potevo rispondere che così. Buona lettura!

Domani è un altro porno

Ovvero: la dolce illusione borghese di porsi fuori della norma [Borghese? Da dove nasce questa presupposizione di appartenenza, e ancor di più, il senso dispregiativo con cui è utilizzata?] 

Questo post nasce come risposta ad una mail in cui ci veniva presentato il libro Pornoterrorismo di Diana Pornoterrorista.

Ogni iniziativa che si propone di rendere “la sessualità e il corpo come territori da decolonizzare dalla repressione patriarcale, ecclesiastica e capitalistica” suscita in noi interesse [Ottimi propositi, ma riusciranno ad essere messi in pratica? Stiamo a vedere].

Tuttavia le nostre perplessità sorgono nel momento in cui dalla problematizzazione iniziale, dalla posizione di alcune questioni che anche noi riteniamo urgenti, si passa poi al piano delle possibili soluzioni. [Soluzioni? Non mi pare Diana parli di soluzioni, al massimo  fa delle proposte. Liber* di condividerle o meno… le “soluzioni” appartengono ad un altro filone di pensiero, quello che definirei vagamente autoritario]. Lo scritto di Diana Pornoterrorista si inscrive all’interno di quel filone che si autodefinisce come femminismo pro-sex [Esatto, si autodefinisce, a pieno titolo perché non esiste, allo stato dell’arte, un patentino femminista… o sì?]. Di esso noi mettiamo in discussione non solo il presupposto fondante ma anche le conseguenze [Liberissime di non riconoscervi in questa proposta, ma forse un po’ meno di bocciarla come se si trattasse del Male incarnato. Pare che esistano molteplici femminismi…pare, perché esistono soggett* che invece non sono così possibilist* in merito a ciò che può definirsi femminismo e cosa no…ma andiamo avanti].

Il femminismo pro-sex si fonda sulla nozione superficiale [Per chi? E’ la commissione della genuinità del femminismo che ne ha decretato la fallacia?] e postmoderna secondo cui l’ uso consapevole del proprio corpo come merce/prodotto/oggetto di scambio sia espressione di libertà [Grazie per il tentativo di sintesi, fallito. Il femminismo pro-sex ha una visione un po’ più complessa di così – forse la complessità sfugge a chi guarda le cose solo dall’esterno senza mai cercare un incontro con chi è protagonista del movimento o semplicemente la pensa diversamente da sé.  Dunque, tra le altre cose, il femminismo pro-sex problematizza il tabù riservato all’uso consapevole della propria sessualità, anche – e non SOLO – come oggetto di scambio economico; e questo considerato il fatto evidente a chiunque, che tutte le altre nostre parti corporee, e anzi potremmo spingerci a dire tutte le nostre esistenze, divengono, nel sistema capitalistico, possibili merci di scambio; e che, date le condizioni attuali d’esistenza, per alcune persone l’utilizzo della propria sessualità come mezzo di sussistenza fa parte di una scelta autodeterminata e consapevole – il fatto che non sia sempre così non cancella la realtà di quest’affermazione]. In questo prospettiva per una donna è possibile accettare consapevolmente e volontariamente la prostituzione [Accettare? Scegliere!]. In egual modo il porno, come vendita di immagini a sfondo sessuale, appare come strumento che minerebbe le logiche del mercato e del capitale [Il postporno mette al centro lo sguardo e i desideri delle donne e delle soggettività non conformi:  questo è sicuramente rivoluzionario, e per il momento non entra in logiche di mercato mainstream – avete sentito vero del crowdfunding messo in piedi per il tour…non esattamente un prodotto appetibile dal vorace mercato capitalista, a quanto pare! Non si capisce inoltre perché l’unico campo di lotta anticapitalista da cui bisogna continuamente partire debba essere quello del lavoro sessuale – di fatto impedendo ad alcun* soggett*, a partire da un sentire personale nei confronti di certi aspetti della propria corporeità che non è universalmente percepito in maniera problematica, di autodeterminare la propria scelta in merito a quale parte del proprio corpo mettere a servizio di un sistema, al quale siamo asservit* tutt*, per sopravvivere. Il sistema va certamente messo in crisi, ma l’abolizionismo vede il mostro capitalista solo quando vuole impedire il lavoro sessuale, non certo nella comune, e per ora necessaria pratica, di vendere le proprie prestazioni ad altr*. Quando, anche grazie al vostro impegno profuso a piene mani, le persone avranno un reddito di esistenza che le svincoli dalla necessità di lavorare per vivere, allora sì che tutto il sistema di sfruttamento sarà rimesso in discussione; fino ad allora ad ognun* deve essere possibile fare scelte consapevoli per sé stess*, senza scelte calate dall’alto]. L’autosfruttamento sembrerebbe essere sintomo di autonomia, segno inequivocabile di libertà [L’autosfruttamento è tale per tutt* coloro che devono lavorare per vivere, e non solo per chi lavora in campo sessuale. E le badanti? E le cameriere? E i netturbini? E i contadini? E i minatori? E chi lavora in catena di montaggio? Ah, ma il loro sfruttamento si può sopportare! E in ogni caso, anche l’impiegato ‘sceglie’ obbligatoriamente di farsi sfruttare per sopravvivere, oppure muore di fame!]. All’essere sfruttati dagli altri si oppone lo sfruttarsi da sé, ponendo questa come azione anti-capitalista [Essere consapevoli di essere, volenti o nolenti, inserit* in un sistema di sfruttamento, e poter solo scegliere come e non sé essere sfruttat* a me pare di una lucidità disarmante, altro che autosfruttamento!]. Tale posizione è, al contrario, profondamente capitalista, diremmo il suo compimento finale [“Direste così” perché avete dei tabù nei confronti della sessualità; se non li aveste, o li metteste in discussione, vedreste il lavoro sessuale per quello che è: un lavoro come tanti, e tutti i lavori odierni sono inseriti in un sistema capitalista. Non si vede il motivo per il quale il lavoro sessuale sarebbe un ‘compimento finale’ rispetto a quelli citati precedentemente, che logorano e uccidono migliaia di persone ogni anno]. Essa è alla base della società consumistica in cui viviamo e del sistema economico in cui ci troviamo dove, grazie alla possibilità di disporre del proprio corpo come meglio si desidera, alcuni esseri umani in posizione di evidente svantaggio economico, di genere, sociale, etnico e geografico divengono merci ad uso e consumo di altri [Non è alla base, ma si inserisce in un sistema: o lo si mette tutto in discussione, o si evita di fare moralismi inutili]. Eterosfruttamento ed autosfruttamento appartengono allo stesso paradigma capitalistico. Per superarlo bisogna perciò guardare altrove [Sicuramente, ma in ogni direzione, non con l’ossessione monotematica di alcun* abolizionist*].

Abbiamo letto e discusso con attenzione tra di noi l’intervista a Diana Pornoterrorista e rileviamo uno slittamento tra lo scopo assolutamente legittimo di liberare i corpi dall’oppressione patriarcale, ecclesiastica e capitalista e le pratiche messe in atto per raggiungerlo. Rileviamo cioè un’evidente contraddizione tra ciò che si vuole ottenere e il metodo per ottenerlo, il quale, ci pare evidente,  genera risultati contrari a quelli desiderati [Leggere un’intervista ‘tra di voi’ non significa confrontarsi con chi si va a criticare, conoscerne in toto il pensiero, il modus operandi, la politica. Per fare questo bisogna affrontare ciò che non si conosce o non si comprende, più e più volte, scontrarsi casomai, ma in un’ottica dialogica, non monologante, altrimenti non esiste contraddittorio e perciò nemmeno crescita].

Come ogni paradigma anche quello eteronormativo si costruisce su alcune polarità che ne fissano i concetti e il senso. Muoversi all’interno di esse, non vuol dire non superarle ma, al contrario, affermarle [Dire che Diana si muove in un paradigma eteronormativo vuol dire avere una grande confusione in testa di lei, della sua politica e del suo lavoro… ovvero parlare senza conoscere, cosa che andrebbe evitata].

Tra queste polarità una centralità essenziale è quella tra il corpo e la mente/anima. Affermare la priorità dell’anima/mente è stare dentro al paradigma. Così come affermare, come fanno le pornoterroriste, l’assoluta centralità del corpo [Diana sicuramente non ha paura di usare il corpo  – anche a fini politici – ma nel contempo declama poesie e legge testi! Direi che c’è ampio spazio sia per la mente che per il corpo!]. E’ starci dentro, semplicemente rovesciandolo [Non è semplice per niente, e decostruire/riappropriarsi non è rovesciare]. Non si esce così dal paradigma, non lo si supera [Invece con la dicotomia donne perbene/donne permale lo si supera?]. Allo stesso modo, affermare la necessità della «riappropriazione del fallo», non mette in discussione l’assoluta centralità che esso riveste come simbolo fondante della cultura patriarcale [Quando si parla di fissazione fallica… a parte che un fallo finto, separato dal corpo, un fallo che diventa strumento, un fallo che esiste senza un uomo, un fallo che può essere… un vegetale, ne depotenzia l’immagine dominante, la ridicolizza, la neutralizza. In ogni caso è solo una parte di un discorso, non la sua totalità]. Non è cioè rifiutare la cultura patriarcale ma riaffermarla, perché il significato del simbolo è talmente forte e consolidato culturalmente che quello che passa in questa operazione non è il nuovo significato sovversivo, ma il simbolo in quanto tale (Questo discorso vale anche per altre parole — “puttana”, “cagna” — il cui significato e in cui la dimensione del simbolo sono così forti che una riappropriazione, lungi dall’ottenere l’effetto sovversivo sperato, rinforza il significato negativo e patriarcale di partenza. L’operazione di riappropriazione e rovesciamento non è evidente e non è efficace). [Questo continuerà a succedere fino a quando ci saranno tante donne aggrappate al loro status di donna perbene. L’uso che fanno della parola ‘puttana’ le sex worker lasciamolo decidere a loro che non sono minus habens – anche se alcun* soggett* parlano costantemente ‘su’ di loro, senza mai parlare ‘con’ loro].

Se da un lato ci troviamo in sintonia con la volontà di combattere la violenza contro quello che è fuori dalla norma, dall’altro lato ci rendiamo conto che Diana pone, a sua volta, una norma ben precisa, che emerge nel mondo in cui vengono stigmatizzate le donne che non si adeguano ad essa. Se non si scopa con il culo o non si apprezza il sado allora si è delle represse o addirittura delle bacchettone moraliste [Ma dove? Quando? Non mi pare che le performance di Diana siano obbligatorie o che si sia costrett* a portarsi il tubetto di vaselina appresso! O ad abbracciare le sue idee. Quello che vedo io qui, e che accade spesso, è che chi ha un approccio sanzionatorio – leggasi, le abolizioniste – immaginano le altrui proposte con lo stesso piglio legiferante che è l’unico che sanno immaginare loro. Direi che essere pro-postpornografia apre delle possibilità a chi le desidera, essere anti significa invece toglierle anche a chi vorrebbe averle – da parte di chi reputa di sapere dove stia il giusto e lo sbagliato per sé e per le/gli altr*. Se non è cattonazismo questo! E vale pure per chi si professa laic*! Ah, peraltro: poco prima si critica l’uso non convenzionale del simbolo fallico colpevole di non decostruire l’immaginario del potere, se usi il culo sei discriminatori* verso chi non lo fa… l’asessualità potrebbe rivelarsi a vostro giudizio  un’opzione abbastanza neutra?!]. Anche questa è esclusione. Anche questo è imporre una norma. Non solo, si impone così la stessa norma che si vorrebbe combattere. Cosa c’è di sovversivo in questo? Qui ritroviamo un’altra polarità tipica del paradigma eteronormativo, quella che ruota attorno ai due poli ‘santa’ e ‘puttana’. Focalizzarsi sull’uno opponendosi all’altro è stare dentro alla logica eteronormativa e non superarla. [Il bue diede del cornuto all’asino, ovvero essere abolizioniste è ok e non fa parte della logica eteronormativa, anche se dice ad alcune persone come devono vivere la propria esistenza; il postporno invece,  per come è descritto in queste ultime righe, appare come una milizia che obbliga a fisting anali…forse avete preso troppo alla lettera la parola terrorismo! Rassicuratevi, il tour di Diana non è lo sbarco dei mille dildo!]

Il porno appartiene in pieno all’etica eteronormativa, ne è una diretta discendenza, qualunque significato vogliamo dargli, di qualunque immagine vogliamo riempirlo. Il porno è in se’ mercato, ovvero capitalismo che si incarna nella sessualità e la sfrutta. Quello che esprimiamo non è un giudizio morale su di esso, ma una valutazione politica sulla sua funzione ‘economica’. [E’ invece un giudizio tutto morale, dal momento che non combattete con uguale fervore tutte le altre logiche di sfruttamento che sottendono al lavoro salariato, precario, ecc.ecc. E credo non abbiate mai visto postporno per dire che appartiene all’etica eteronormativa!]

E ancora: cosa c’è di sovversivo e terrorista nel proporre come modalità di “liberazione” il dolore al posto del piacere (sic) quando esso è esattamente ciò che viene già assegnato alle donne nella pornografia mainstream? [Il dolore che piacere – non al posto di – e perciò scelto consapevolmente non  è, e non può essere paragonato, al dolore inflitto contro la volontà di chi lo subisce]. Cosa c’è di liberatorio nel proclamare ancora una volta la necessità di relazioni basate sul dominio quando è esattamente questo che il patriarcato vuole per noi? [Il fatto che non si capisca o condivida come e perché le pratiche BDSM – che sono comunque performative più di quanto siano relazioni basate su una realtà di dominio, e c’è una bella differenza! –  possano essere fonte di piacere per alcun* non può diventare motivo valido per negare la realtà: per alcune persone è così, e pare siano tante, a giudicare dai siti/forum/luoghi dedicati a tali pratiche; ancora, nessuno vi costringe a pratiche non consensuali: di quello che di sé stess* scelgono di fare le/gli altr*, che ve ne importa?]. In molte parti del mondo le donne subiscono mutilazioni, violenze, matrimoni forzati, stupri. È preoccupante proporre il dolore come via di liberazione quando per la maggior parte delle donne nel mondo il dolore è la regola e non conduce di certo alla liberazione [Cosa c’entrano le pratiche citate? Suggerire di scoprire nuove possibili vie di piacere – scelte, consapevoli – non implica incitare allo stupro, trovo persino offensivo questa equazione!]

Quella che noi vorremmo è una sessualità libera e non l’imposizione di modelli di comportamento, qualunque siano questi modelli [E negando a Diana  – e a chi ne condivide il pensiero – la possibilità di vivere come desidera la propria sessualità, che chiaramente non corrisponde ai vostri modelli, fate esattamente l’opposto]. Vorremmo un paradigma dove ciascuno sia libero di esplorare la propria sessualità e scoprirne i lati nascosti, senza che ci sia nessuno che giudica quali siano quelli normali e quali anormali, quali morali e quali immorali [Ma se avete appena detto che il dolore non può essere piacevole! Migliaia o forse persino milioni di persone direbbero il contrario, ma chiaramente voi ne negate le capacità di giudizio e di scelta, o l* definite superficiali… se questa non è sovradeterminazione!]. Ma se la sessualità diventa sfruttamento economico dei corpi, allora non possiamo che dirci contrarie [Insomma, puoi sfruttare tutto di te, testa, mani, corpo, puoi farti venire il cancro, l’asbestosi, il tunnel carpale, ma la vagina – o la fica, secondo i gusti – non si tocca!]. E ciò non ha a che fare con la morale ma ha a che fare con il modello economico che ciò porta con sé. Esso è, per noi, l’esatto contrario della libertà [Ecco, quando farete un discorso realmente anticapitalista, ne riparliamo. Fino ad allora, prendersela con le sex worker, le/i performer postporno etc. è proprio quello che sembra: moralismo. Fatevene una ragione].