Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti,
e si direbbe proprio compiaciuti!
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano!
Giorgio Gaber, Io se fossi Dio
Mi è difficile scrivere qualcosa dopo aver visto quei corpi galleggiare. Ancora più difficile dopo aver assistito allo scaricabarile dei politicanti sugli scafisti, comodi capri espiatori di responsabilità politiche da togliere per sempre il sonno, nonché alle aberranti dichiarazioni di quella fetta di popolino incline all’adozione di slogan d’odio, che non vede per nulla in conflitto con la contemporanea dichiarazione di fede, religiosa o laica poco importa, intrisa d’amore per l’Uomo, quello con la U maiuscola.
E’ proprio questo mondo umano, troppo umano, che pone le condizioni per le infinite tragedie di cui siamo, nostro malgrado, complici e testimoni. L’antropocentrismo è ciò che ci condanna inesorabilmente, umani e non, a questa eterna lotta per la dignità di esistere. Se l’Uomo è misura di tutte le cose, qual è questo “Uomo” che ha diritto di esistenza, di desiderio, di consolazione, di lutto?
Se possiamo uccidere il Capro, se esiste qualcuno che si può privare di ogni cosa, degli affetti, della libertà, della stessa vita, chi ci può ragionevolmente assicurare che non si tratti di chiunque, umano o non umano, uomo o donna, bianco o non bianco… La logica dell’eccezionalità umana spiana la strada alla banalità del male.
E’ un aspetto che appare evidente ogni qual volta accade una tragedia di queste proporzioni, e sul quale è fondamentale aprire una riflessione che sia seria, e onesta: davvero ha senso appellarsi all’umanità di chi non c’è più, per avere la speranza di salvare chi sicuramente verrà dopo, sugli stessi barconi, a reclamare il proprio diritto alla vita?
“L’indifferenza riduce l’Altro a un’astrazione… in un certo senso, essere indifferente alla sofferenza rende l’essere umano inumano” sosteneva Elie Wiesel. Un’affermazione rivelatrice, suo malgrado, poiché la grande verità che porta in sé è celata in un fraintendimento di fondo del suo senso profondo. Che non è, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale, la necessità della presa di coscienza del valore intrinseco dell’ “umanità” ma il suo esatto opposto, ovvero: fino a quando sarà consentito uccidere un capro e si potranno “stipare bestie nella stiva”, fintantoché esisterà un Uomo misura di tutte le cose e si potrà essere indifferenti alla sofferenza tout court – ogni qual volta si eviti, consapevolmente o meno, di identificarsi con chi quella sofferenza la vive (ovvero quando non è quella provata dall’Essere Umano certificato con la U maiuscola…) – fino a quel dannato giorno, nessun essere senziente, che sia uomo o donna o cagna o vacca o altra favolosità, potrà essere al sicuro dal rischio di diventare numero spendibile, sacrificabile sull’altare delle “necessità Umane”, o peggio delle sue casualità.
Quei corpi dunque, quei corpi che galleggiano sul mare, sono lì dove sono anche grazie a noi. A noi, ogni volta che invochiamo l’umanità come ‘conditio sine qua non’ della dignità di esistere. A noi, e alla nostra perenne infatuazione per l’uomo vitruviano. A noi, che abbiamo paura di chiunque superi i confini di genere, classe, specie, e non solo quelli nazionali.
Svestire i panni di quell’Uomo “simile a un dio” indifferente e irraggiungibile, riscoprirsi capaci di com-patire la sofferenza altrui, piangere la morte di una lucertola sul ciglio di una strada e non trovare le parole per l’ennesimo naufragio del sogno di un mondo diverso in cui vivere. Decostruire la favola orrenda che ci hanno cucito addosso, e ricostruirci esseri chimerici e contaminabili.
Soprattutto, lasciar vivere: abbandonare l’indifferenza che uccide e smetterla di ragionare sulle dimensioni dell’arca, sempre troppo piccola di fronte ad un eterno diluvio universale.
Paradossalmente (ma non troppo), qui è proprio la compassione a fare da leva per decidere della vita degli altri. Proteggere è comandare, secondo una tradizione politica che va almeno da Hobbes a Schmitt e che le nostre “democrazie” hanno ben incorporato dietro allo sbandieramento dei “diritti umani”. Che, certo, sono i diritti degli umani maschi, bianchi e occidentali. E il cui scopo è proteggere questo Uomo Proprio prodotto per mutilazioni progressive della totalità degli esistenti (dove la “e-” dell’esistenza designa l’esposizione reciproca di tutti a tutti). Uomo che si protegge comandando gli Altri (maiuscoli, quindi già spostati in uno spazio di estraneità categoriale). Ma che, appunto, comanda proteggendo. Così mentre il biocapitalismo devasta le vite “altre”, rapina risorse e la possibilità di esistere diversamente (c’è solo il modello occidentale), l’occidente stesso si precipita (da decenni) in “aiuti al terzo mondo”, in “guerre umanitarie”; e le ong occidentali “invadono” la devastazione stessa, incollando pezze s’una falla immensa, che servono per lo più (al di là delle buone intenzioni dei singoli che al lavoro delle ong partecipano) a riconfermare il modello occidentale e la dipendenza strutturale del resto del mondo dalla sua presunta superiorità. Senza dimenticare l’effetto di sollievo che produce sulle nostre coscienze morali (impedendo, circolarmente, che le questioni possano essere poste politicamente). E’ la riformulazione, non certo l’alternativa, del nostro sguardo coloniale sul mondo intero.
Baudrillard a questo proposito parlava di “colonialismo sentimentale”, intendendo il “bisogno” degli occidentale di “compatire” i disastrati del resto del mondo, di fare beneficenza davanti a sciagure ambientali e catastrofi umanitarie – che non sono, in realtà, che conseguenze dell’aggressione capitalista – rovesciando così da capo a piedi la percezione delle dinamiche del dominio.
Non è qui solo un’affare d’ipocrisia. Si tratta della risposta dei singoli all’ordine simbolico in cui sono invischiati, ordine simbolico a cui si risponde prima dei rispondere all’altro (minuscolo) in carne ed ossa, e che rispecchiando le strutture oppositivo-gerarchizzanti del dominio, riduce l’altro all'”Altro” categoriale (l’animale, la donna, lo straniero, ecc…). E’ a partire da qui che le emozioni vengono incanalate ed orientate a favore delle strutture stesse del dominio, ripetendone la cogenza. A cominciare appunto dalla compassione, che finisce per coincidere con l’indifferenza stessa verso gli altri concreti, se non con il disprezzo e l’odio (l'”aiutiamoli a casa loro” fascista e criprofascista).
Davanti a questo partita (a somma zero: cioè una guerra) alle tre carte, una piccola alternativa ce la insegna il vituperato Heidegger: lasciare andare. Non nel senso, appunto, dell’indifferenza, ma del lasciar essere ciò che più ci sta a cuore. Liberare gli altri dalla soggettività sovrana e divorante dell’occidente. Fare spazio. In questo caso, aiutare senza proteggere. Ci mancherebbe che non si debba ora, a esito compiuto, andare a prendere i migranti con le nostre navi sulle spiagge libiche, e senza discriminare fra profughi e migranti (migranti che migrano per tante ragioni, fosse anche solo quella di un progetto di vita). Ma che poi vadano dove vogliono, senza gabbie di lottizzazione dell’accoglienza. Perché questo pianeta non è di nessuno: e non si tratta di uno slogan, ma del rifiuto della logica appropriativa e capitalizzante che contraddistingue da sempre l’occidente – per cui se questa terra, questa cosa, non è di nessuno, posso prenderla e farla mia: attraverso la sua messa a lavoro e a valore, ovviamente.
Ma soprattutto smettere di “intervenire” nel mondo che fabbrichiamo e ci rappresentiamo come “Altro”. Smettere di intervenire per comandare con le armi, con la colonizzazione capitalista così come con “gli aiuti” che proteggendo, di nuovo, comandano. Il che però implica la dismissione della nostra stessa soggettività, la rinuncia a identificarci come “occidente”. E riconoscere questo mondo come con-mondo, come il mondo di altri in relazione ad altri, senza centro e senza “Altri”, che con la maiuscola altri non sono, ma identici inchiodati alla loro categorizzazione.