Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*
Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.
La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante analfabetismo crescente.
Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.
Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?
Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.
Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco, da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.
Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).
Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.
Non tutto il male viene per nuocere
Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.
Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.
Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.
Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.
E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?
(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)