Chi legge questo blog probabilmente già è al corrente del fatto che per promuovere il proprio libro Mario Adinolfi ha fondato, nel nome della mamma, dei circoli. Uno scritto e dei circoli contrari ai diritti umani, nello specifico contrari al diritto a un aborto in sicurezza, contrari al diritto a non subire discriminazioni in base al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, e contrari al diritto di poter morire senza subire accanimento terapeutico.
Le stesse idee misogine, omofobe e autoritarie espresse negli anni passati da Giuliano Ferrara, dalle destre (e pseudosinistre) più o meno organizzate in partiti, movimenti e associazioni, assieme a fanatici religiosi di ogni credo e credenza. In difesa di una presunta “famiglia naturale”. “Famiglia” significa “comunità umana” e, in quanto tale, non può essere “naturale”, con lo stesso significato che diamo all’aggettivo “naturale” quando lo usiamo per descrivere le piante; ormai non esiste neanche più il “paesaggio naturale”, dato che anche ciò che appare come frutto della natura è, in qualche modo, stato oggetto di modificazione da parte dell’essere umano; anche un prato è un paesaggio antropizzato. Il concetto stesso di paesaggio o di pianta è antropico, culturale. La famiglia è, unicamente, culturale. Essa assume forme diverse a seconda del momento storico, in base al quale può fondarsi su valori del tutto estranei alla contemporaneità di chi scrive. Siamo ai fondamentali del ragionamento attorno all’essere umano.
Purtroppo queste persone hanno già segnato punti a loro favore nel momento in cui ci occupiamo delle loro uscite populiste, della loro bassezza umana e pochezza culturale. In più, spararla grossa per creare scompiglio, è una tecnica di imbarbarimento del dibattito, in questi casi il dibattito non esiste nemmeno, siamo ben oltre.
Siamo oltre se una ragazza di diciannove anni se ne sta seduta nella sala di attesa del padiglione di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale San Martino di Genova, le è stato dato il farmaco per indurre l’aborto. Lei non lo sa ma il medico è obiettore, le infermiere non si interessano al suo caso e per le prossime ore sarà invisibile. A fine giornata dovrà chiamare la polizia per ottenere l’assistenza medica che le spetta di diritto dal Servizio Sanitario Nazionale.
Siamo oltre se una ragazza di venti anni, incinta di circa sette mesi, va ad abortire in una struttura non accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale. Lei forse non lo sa ma per la legge è infanticidio (o lo sapeva ma ha voluto rischiare lo stesso, perché se vuoi abortire lo fai e basta, a rischio della vita e della pena prevista dalla legge). Durante i prossimi mesi la sua vita sarà sotto il microscopio, verrà condanna a una pena detentiva, assieme ai complici, il medico e l’infermiere che le hanno interrotto la gravidanza, a chi ha occultato il fatto.
Due storie tra le tante. Mettiamo in discussione il Servizio Sanitario Nazionale, a cosa serve se non fornisce alcun servizio? Se quello che fornisce non è omogeneo sul territorio? Se è afflitto dalla piaga dei nullafacenti – come chiamare altrimenti una persona che percepisce uno stipendio ma non svolge le mansioni per cui è stata assunta? Qual è l’etica del Servizio Sanitario Nazionale? La strada intrapresa è quella di una sanità privata? Allora perché un ginecologo e un infermiere che “privatamente” hanno “aiutato” una donna in difficoltà devono subire una pena? Quale coscienza hanno tutte le persone che lavorano nella sanità? Qual è il compito di un medico? E di un@ infermier@? Che ce ne dobbiamo fare della Legge 194? Siete convinti che la vita si difenda obiettando? Siete convinti che gli aborti si riducano lasciando le donne in una corsia d’ospedale ad aspettare per ore un controllo? Di che cosa parlano queste persone? Dove vivono?
Il medico che si è rifiutato di seguire la ragazza a Genova è stato denunciato, ma la catena di responsabilità non sembra essere chiara.
La scelta di interrompere una gravidanza è oggetto di messa in discussione costante, un fatto scottante, più importante della mancanza di lavoro, della difficoltà ad avere relazioni di valore, della malattia, più importante della morte stessa di quella parte di umanità che chiamiamo donne.
Abortire è un peccato che non si può perdonare, ci fanno intendere. L’aborto “è sempre un dolore”, l’aborto “è una scelta difficile”, per altri l’aborto “è una scelta facile”, l’aborto “non può essere banalizzato”, l’aborto “deve essere regolamentato”, per fare un aborto “bisogna essere coscienti di ciò che si sta facendo”, per fare un aborto bisogna avere “una motivazione valida”, l’aborto è “la negazione della vita”. Ma un aborto è solo un aborto, cosa vi spinge a pensare che sia qualcosa di così importante e speciale, per voi che non lo state facendo? Credete che l’umanità finirà perché alcune donne abortiscono? Credete che i feti abortiti rimpiangano di non essere nati? Credete che le donne che abortiscono non siano vita?
Un aborto ha sempre un significato, per chi lo fa, ma non è detto che sia quello che vi immaginate. E, quale che sia quel significato, l’unica cosa importante è che si tratta di una pratica medica, che deve svolgersi in sicurezza perché, se per voi la vita è davvero importante, allora l’obbiettivo è ridurre il rischio che una donna entri in ospedale con i propri piedi e ne esca in una bara.
Parlare di aborto dovrebbe essere come parlare di colecisti. Come tutti gli interventi, dall’asportazione delle tonsille alla colecisti, prevede un rischio e quindi andrebbe evitato, ma se una persona si trova in ospedale è perché evidentemente è giunta al punto di dover effettuare l’intervento, da lì merita un’assistenza continua, rispetto e comprensione, esattamente come tutt@ gli/le altr@ degenti.
Non ci sono “mamme” come categoria a parte alle quali appellarsi. Le donne sono singole persone, alcune sono anche madri, alcune sono anche lesbiche, alcune sono anche trans.
Aborto. Una storia di scarsa importanza
La metropolitana era affollata come al solito. Alessandra raggiunse uno spazio rimasto miracolosamente vuoto tra una porta e un tubolare, vi si sistemò stringendo a sé la borsa con la biancheria e la copia della cartella clinica. Il day hospital era andato bene, non avvertiva nessun dolore particolare, era solo un po’ stanca. Si chiuse nei propri pensieri, girava attorno all’idea del prossimo viaggio all’estero, doveva scaricare la cartina della metro da quel sito così utile. Si sentì toccare un braccio.
Un ragazzino sui tredici anni, riccioluto e già afflitto dall’acne, le stava cedendo il posto, chiamandola “signora”, probabilmente costretto da sua madre, la donna che gli sedeva accanto e le faceva cenno di sì con il capo.
Ogni volta che qualcuno la chiamava signora si sentiva in imbarazzo. Quanti anni di differenza potremmo avere io e te ciccio? Sgusciò tra i passeggeri e si sedette ringraziando sia madre che figlio annoiato. E’ troppo grande d’età per sedersi sulle cosce di mamma e troppo giovane per darsi un contegno, pensò.
“Viene dall’ospedale?” le chiese la donna. “Ho abortito” disse Alessandra mentre si sedeva. La donna annuì sorridendo. “Anche io l’ho fatto un paio di volte, una prima di lui e una dopo. Abbiamo voluto solo questo” disse indicando il figlio.
“Avevo preso la pillola ma è andato storto qualcosa.”
“Purtroppo a volte succede, l’importante è che ora stia bene. ”
“Sì si, sono solo stanca, ma è andato tutto bene.”
“Mio marito ha fatto una vasectomia, non voleva che dovessi subire altri interventi, la chiusura delle tube è più complessa come procedura.”
“Me l’hanno detto.”
Due fermate più tardi la donna e il ragazzino scesero salutandola, la metro si stava svuotando rapidamente. Alessandra abitava quasi al capolinea.