L’istinto materno non esiste

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«C’è ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres.

Essere donna non implica essere madre, ciononostante le donne subiscono ancora una forte pressione sociale rispetto alla maternità, un’idea che si perpetua attraverso il celebre “istinto materno”. Tuttavia, il desiderio di essere madre (o no) non ha alcuna causa fisiologica provata.

«No, non avrò figli», risponde Alicia Menéndez alle impertinenti domande delle vicine, delle zie, e anche delle amiche. Queste, sorprese, contrattaccano con un  «Ma è perché non ti piacciono i bambini?» o «fra qualche anno cambierai opinione e sentirai la chiamata». Alicia, che ha appena compiuto trent’anni e lavora come assistente amministrativa, assicura che “non voglio avere figli” è il nuovo “non voglio sposarmi”, anche se sostiene che la seconda affermazione non produce lo stesso ‘disordine pubblico’ della prima.

«Ho avuto un compagno per quattro anni ma da poco più di un anno abbiamo deciso di rompere. Lui sapeva di volere dei figli, io sapevo di non volerne. Rispetto, ma a volte mi sorprende – e mi spaventa – la capacità di alcune persone di provare più amore per qualcosa che in ogni caso è un progetto a lungo termine nella propria vita, che per qualcosa che già hanno, qualcosa di reale». Alicia ricorda che giunse un momento in cui l’arrivo di un bambino avrebbe rappresentato una catarsi, il sollievo dopo mesi di discussione. «Capirei se non potessi avere figli, se fossi sterile, ma non accetto che tu non voglia averne potendoli avere», le ripeteva lui.

‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’], di Jenn Díaz

«Esiste ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres. C’è un’idea tacita che giace nelle profondità della nostra mente. Secondo Torres, «si associano la bontà e la generosità a quelle donne che vogliono essere madri, e l’egoismo a quelle che rifiutano la maternità in modo netto, come se queste ultime fossero individualiste che si preoccupano solamente di loro stesse. Nonostante ciò, non restiamo a bocca aperta quando un uomo dice che non vuole essere padre».

Ma cosa accadrebbe se la pressione sociale di cui parla lo psicologo diventasse in una imposizione? Cosa accadrebbe se per legge le donne fossero obbligate a procreare? Questo è ciò che propone Jenn Díaz nel suo ultimo libro, ‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’] (Jot Down Book). La scrittrice prospetta la seguente distopia: un paese nel quale il governo crea un Piano di Ripopolazione Nazionale dopo una grande guerra, secondo il quale le donne devono avere figli. Uno scenario nel quale c’è chi si rifiuta di vedere il proprio utero usato come ‘terreno di coltura’. «La maternità è un tema che mi interessa, per non dire che mi ossessiona. Avevo molta voglia di tornare a creare un mondo immaginario, come feci nel mio primo romanzo (‘Belfondo’). Non so né quando né come iniziò, ma da subito mi sono vista scrivere su una donna che non voleva avere figli, e l’ho voluta mettere in difficoltà», dice l’autrice.

E questo personaggio che Díaz spreme e racchiude tra le sue pagine per metterla di fronte a sé stessa è Rita Albero, sposata con Samuel, un uomo che brama una discendenza. “Se non potessi avere figli, probabilmente mio marito mi abbandonerebbe”, ripete a sé stessa all’inizio del libro. L’identità di donna si può sostituire con quella di madre? «Molte volte si antepone il fatto di essere madre a quello di essere donne. Ma questo avviene in funzione di come la madre vuole affrontare la cosa: lottare per cambiare o assumere il ruolo. Il figlio ti cancella nella misura in cui tu lasci che ti cancelli: la maternità in sé stessa non è cattiva, lo è come la concepiamo da secoli», puntualizza la scrittrice.

Ideologia della madre perfetta

L’argomento che espone Jenn Díaz è simile a la tesi che sostiene Elisabeth Badinter nel suo saggio ‘Le conflit. La femme et la mère’ [‘Mamme cattivissime? La madre perfetta non esiste’, Corbaccio]. La filosofa francese critica la sacralizzazione della maternità, la figura della madre perfetta. “Così com’è concepita la maternità attualmente nella nostra società, presuppone una nuova schiavitù per le donne, perché antepone il bambino a tutto”, scrive Badinter. La figura della madre perfetta (abnegata, che allatta al seno, che ha partorito con dolore ma senza lamentarsi) secondo la saggista, provoca solamente frustrazioni ad entrambe le parti: per il non essere una buona madre e per il non essere una donna realizzata. “L’ideologia della buona madre confina la donna in casa, converte la maternità in una professione a tempo pieno”, critica.

È il cosiddetto ‘istinto materno’ o ‘ruolo biologico della maternità’ ciò che conferisce un ‘carattere scientifico’ al fatto che molte donne desiderano essere madri. «La donna nasce con un numero approssimativo di ovuli, circa 400.000 (nell’età fetale ne ha un milione, ma durante lo sviluppo ne perde più della metà). Poi, dopo la nascita, la donna ne  perde poco a poco, e c’è un’età, attorno ai 40 più o meno, in cui avviene una perdita importante. Quando si raggiunge la menopausa significa che si resta senza ovuli, per cui non si può più essere madre. Questo è l’orologio biologico, che non ha alcuna relazione con il fatto che una donna desideri o no essere madre» spiega il dottor doctor Manuel Fernández, direttore dell’ IVI di Siviglia.

«Prima sì, si metteva in relazione il periodo di ovulazione con il fatto che la donna fosse più ricettiva per la riproduzione, ma lo sviluppo culturale ha modificato tutto questo completamente, da cui ne deriva che il desiderio di essere madre (o no) non ha una causa fisiologica conosciuta», aggiunge il dottor Fernández. Affermando che vanno a consulto coppie in cui  «se la donna non può avere figli, questa si sente molto in colpa, e lo ritiene un problema per il marito». «In culture come quelle gitane o arabe, per ciò che ho potuto vedere, vi sono ancora molti uomini che associano la donna ad una funzione eminentemente riproduttiva» sottolinea.

Il dottor José María Lailla, presidente della Società Spagnola di Ginecologia e Ostetricia (SEGO), spiega che gli ormoni considerati femminili (estrogeni e ossitocina) potrebbero avere una relazione con questo preconcetto. «Se ci basiamo sugli animali, tutte le femmine desiderano essere madri. Tuttavia, quando le si castra, questo desiderio di solito scompare. Nella donna questo non avviene, giacché molte continuano a desiderare di avere dei figli anche quando sono state sterilizzate per motivi medici». Per questo, il dottor Lailla stabilisce che «non ci siano cause fisiologiche dimostrabili», anche se nota che «il desiderio di avere dei figli nelle donne continua a essere maggioritario».

Essere donne non significa essere madri

La sociologa britannica Catherine Hakim, autrice dello studio ‘Childless in Europa’ [Senza figli in Europa], sostiene che «l’istinto materno non esiste, è un mito utile a perpetuare l’obbligo morale di avere figli nelle donne», aggiunge. Perché come sarebbe un mondo in cui le donne rifiutano di avere una discendenza? «Non vogliamo arrivare a quel punto, così diciamo che si tratta di ‘istinto materno’ affinché sembri un desiderio intrinseco al fatto di essere donne. Dunque, le donne che non vogliono avere figli sono anormali?», si domanda la sociologa.

Ángeles Caballero, di trentasette anni, è giornalista e ha una figlia di sei anni e un figlio di tre. Afferma che «la società a volte è crudele con le donne»: «Se non abbiamo figli siamo incomplete, se non ci sposiamo anche. Se decidiamo di non essere madri e persino se siamo biologicamente impossibilitate ad averne ci trasformiamo in bestie rare. Questo agli uomini non succede, o non così tanto», racconta. «Mia sorella non ha figli e mai mi è sembrato un atto di egoismo. Può essere che un giorno si penta, ma conosco donne e uomini che si pentono di essere diventati madri e padri senza valutarne le conseguenze. E questo è irreversibile. Mi riferisco a quella maternità che riflettono molti mezzi di comunicazione, la maledetta ‘superdonna’ che tanto danno continua a farci».

Nel suo romanzo ‘Mujer sin hijo’, la scrittrice parla attraverso la protagonista: «Rita chiarisce che ciò che rifiuta è la maternità imposta e non la maternità in sé stessa. Quando una donna che vuole avere un figlio fa un figlio, ha vinto. Quando una donna che non vuole avere un figlio non lo fa, ha vinto».

Testo originale di Noemí López Trujillo, MUJERES SIN HIJOS. «El instinto maternal no existe», pubblicato su gonzoo.com. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

L’archivio della Primavera Queer 2014

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Ci raccontavamo in quei giorni a Chieti, con Laura Corradi, che in Italia una cosa come la Primavera Queer non s’è mai vista.

Un gruppo autonomo di studenti e studentesse (alcun* dei quali già attivisti nei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion) ha promosso a Chieti la Primavera Queer come momento di autoformazione, incontro e discussione intorno alla teoria queer. Il progetto è stato presentato al bando 2013 per le attività socio-culturali degli studenti dell’Università d’Annunzio, selezionato e finanziato. Docenti, autori e autrici, noti anche a livello internazionale, si alterneranno in sei giorni di seminari e laboratori.

Non nel senso che in Italia non s’è mai fatto nulla di queer, ci mancherebbe: ma non ci ricordavamo di nulla che durasse una settimana, che sia stato voluto e costruito dagli studenti e finanziato da un ateneo italiano. Speriamo di essere smentiti, ovviamente.

Adesso in questa pagina stanno raccogliendo tutti i materiali completi di quei giorni, per costruire un archivio più che utile in un paese che ha difficoltà anche solo a sapere che esiste la parola “queer”. E’ importante diffondere il più possibile le parole di tutti quelli che sono intervenuti, in presenza o connessi dalle loro sedi, e conservarli, perché in giro su questi argomenti c’è ancora molto poco; e perché realtà molto efficaci sul territorio ancora conoscono poco di quello che si fa di buono anche a pochi chilometri di distanza.

Il video del mio intervento, Il linguaggio sessista: riconoscerlo, neutralizzarlo, decostruirlo dura quasi un’ora e venti quindi vi consiglio di non sorbirvelo tutto insieme perché potrebbe farvi male 🙂 aggiungo però il file ODP con le slide che ho usato; questo invece è l’abstract del mio discorso. Qualsiasi domanda o commento vogliate fare mi sarà molto utile e ve ne ringrazio fin da adesso.

Spero che ci siano presto altre Primavere Queer in tante altre città.

Perchè non esiste il “razzismo al contrario”

racismTim Wise ha da poco scritto un bellissimo post sul razzismo di destra. Come sempre succede, però, alcun@ hanno affermato nei commenti che anche le/i bianch@ possono essere vittime di “razzismo”. Anche se ritenevo fosse chiaro, dall’articolo di Tim, che ciò non è possibile, è un argomento che è molto difficile far comprendere.

Per puro caso, una mia ex-studente mi ha scritto qualche sera fa e mi ha chiesto di ricordarle la mia spiegazione dell’impossibilità del “razzismo al contrario” –  è iscritta ad un corso di specializzazione post-laurea e si è trovata n mezzo ad un’accesa discussione con alcun@ compagn@. Così ho buttato giù qualcosa e gliel’ho mandato. Ho pensato tuttavia che fosse un testo utile da pubblicare su DailyKos, pertanto eccolo qui…

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In qualsiasi discussione sul razzismo e il suo supposto “contrario”, è fondamentale prendere le mosse dalle definizioni di pregiudizio e discriminazione, in modo da porre le basi per una comprensione contestualizzata del razzismo. C’è una buona ragione dietro all’esistenza di questi termini, e un’ottima ragione per non mescolarli, come dimostrerò più avanti.

Il Pregiudizio è un sentimento irrazionale di avversione per una persona o gruppo di persone, di solito basato su stereotipi. Praticamente chiunque sperimenta una qualche forma di pregiudizio, rivolto ad un gruppo etnico o religioso o una tipologia di persone, come quelle bionde, o grasse o alte. Ciò che conta è che semplicemente quelle persone non le/gli piacciono – per farla breve, il pregiudizio è un sentimento, una convinzione. Puoi avere dei pregiudizi, ma comportarti comunque in modo etico se fai attenzione a non comportarti seguendo le tue idiosincrasie irrazionali.

La Discriminazione ha luogo nel momento in cui una persona mette in atto il proprio pregiudizio. Questa parola descrive quei momenti nei quali una persona decide, per esempio, di non dare il lavoro ad un’altra persona per via della razza o dell’orientamento religioso di quest’ultima. O per il suo aspetto (esiste una forte discriminazione ad esempio, quando si tratta di assumere donne non attraenti fisicamente).  Puoi discriminare, a livello individuale, una persona o un gruppo, se ti trovi in una posizione di potere rispetto alla persona oggetto della discriminazione. Le persone bianche possono discriminare le persone nere, e le persone nere possono discriminare quelle bianche quando, ad esempio, una delle due persone è l’intervistator@  e l’altr@ è l’intervistat@ in un colloquio di lavoro.

La parola Razzismo, tuttavia, descrive modalità di discriminazione istituzionalizzate e rese “normali” all’interno di una intera cultura. E’ basato sulla convinzione ideologica che una “razza” sia in qualche modo migliore di un’altra “razza”. Non è più una singola persona che discrimina a questo punto, ma un’intera popolazione che opera in una struttura sociale che rende davvero molto difficile ad una persona non discriminare.

Un esempio lampante è quello delle culture schiavistiche, nelle quali le persone nascono in società in cui una tipologia di individuo è “naturalmente” padrona, e un’altra tipologia è “naturalmente” schiava (e a volte nemmeno considerata una persona, ma una bestia da soma). In una cultura simile, la discriminazione informa il tessuto sociale, economico e politico, e le/gli individu@ – anche quell@ “liber@” – non hanno realmente scelta rispetto alla possibilità o meno di discriminare, poiché anche se non credono nella schiavitù, interagiscono ogni giorno con le/gli schiav@, e le leggi e consuetudini esistenti che tengono le/gli schiavi in soggezione.

In una società razzista, è necessaria una grande dose di coraggio e volontà di sottoporsi a scandali o persino pericoli per uscire dal Sistema e diventare abolizionist@. Non è “colpa” di ciascun singolo membro della classe dominante se esiste la schiavitù, e alcun@potrebbero persino desiderare che essa scompaia. Ma la realtà è che ogni singolo membro della classe dominante ottiene benefici dal lavoro gratuito degli schiavi a tutti i livelli della società, per il semplice fatto di non poter evitare di consumare prodotti derivanti dalla schiavitù, o di beneficiare dello sfruttamento del lavoro schiavistico. Così, a meno che i membri della classe dominante non reagiscano opponendosi al sistema cercando di rovesciarlo (ad esempio, le/gli abolizionist@ della schiavitù), saranno complici nel Sistema schiavistico: anche le/gli abolizionisti avranno dei vantaggi – contro la propria volontà – dal sistema schiavistico, indossando abiti o utilizzando oggetti prodotti da tale sistema.

Quello summenzionato è un esempio estremo, ma chiaro, che utilizzo per rendere più semplice la comprensione delle situazioni molto più ingarbugliate e complesse nelle quali ci muoviamo oggi. Nonostante il fatto che le/gli schiav@ furono liberat@ dal Proclama di Emancipazione, e che il quattordicesimo emendamento ha dato alle/gli Afroamerican@ il diritto di voto, le strutture istituzionali del razzismo non sono state rovesciate. Anche dopo l’approvazione del quattordicesimo emendamento, le persone bianche avevano ancora il potere di togliere a quelle nere il diritto al voto attraverso l’istituzione della tassa di voto (poll tax), la Clausola del Nonno (Grandfather clause) e la clausola di “comprensione” che richiedeva che le/i ner@ dovessero recitare qualsiasi passo della Costituzione che venisse loro richiesto. Negli anni ’60, vennero votati gli atti di tutela dei diritti civili di voto, che abbatterono questi ostacoli al voto. Ma le/i ner@ americani non hanno ancora potere politico in proporzione alla propria presenza numerica all’interno della popolazione (nonostante vi sia un Presidente nero).

Se si prendono in considerazione istituzioni importanti quali Senato e Congresso Federali e Statali, o le corti supreme Federali e Statali, o la lista dei CEO delle società più importanti, o qualsiasi altro ente che detenga un potere reale negli Stati Uniti, pochissimi sono le/i ner@ che ne fanno parte (e in alcuni casi, proprio nessun@).  E delle/dei pochi ner@ che ne fanno parte, la maggior parte non rappresenta il punto di vista della maggioranza delle persone nere del paese, ma quelle della maggioranza bianca. D’altro canto, se si prendono in considerazione le persone nere povere, o in prigione, o disoccupate, o prive del diritto all’assistenza sanitaria, il loro numero in queste categorie è di gran lunga maggiore in proporzione a quello nella società nel suo complesso.

A meno che non si voglia sostenere che le persone nere siano “naturalmente” inferiori alle bianche (il che rappresenta una posizione apertamente razzista), bisogna ammettere che esiste un qualche meccanismo che limita le opportunità a queste persone. Questo meccanismo è ciò che chiamiamo “razzismo” – i sistemi di leggi e regolamenti economici, sociali e politici che nel loro complesso discriminano, apertamente (attraverso per esempio la profilazione razziale) o in maniera subdola (ad esempio quando maggioranze di governo bianche definiscono i distretti di voto, in modo che la maggioranza nera sia divisa e non possa avere il potere elettorale di votare candidat@ ner@; o banche gestite da bianchi che utilizzano i codici di avviamento postali come criterio per escludere richiedenti di mutui o prestiti, e “casualmente” si trovano ad escludere tutta la maggioranza nera di un quartiere cittadino, pratica conosciuta come red-lining). Sarebbe possibile andare avanti per ore enumerando tutti questi svariati meccanismi, e sicuramente potete immaginarne anche voi nella vostra esperienza, funzionali a discriminare ner@, ispanic@, arab@, nativ@ american@, ecc.ecc.

In merito al “razzismo al contrario”.

E’ cruciale conservare la distinzione tra i tre termini enunciati più sopra, perché altrimenti le persone bianche tendono a ridefinire la “discriminazione” come “razzismo”. Il loro argomento principale è che poiché sia le persone bianche che quelle nere possono discriminarsi a vicenda, il “razzismo al contrario” è possibile. Ma la verità sta nel fatto che le persone nere: 1) hanno molte meno occasioni di discriminare le persone bianche rispetto al caso contrario 2) le persone nere non hanno un sistema di supporto istituzionalizzato che le protegga nel caso decidano di discriminare le persone bianche.

C’è voluto lo sforzo congiunto di persone nere e bianche – durato un centinaio d’anni – per realizzare programmi come Affirmative Action negli Stati Uniti, ma è bastato un solo uomo bianco (Alan Bakke) e un solo caso giunto alla suprema corte per smantellare quei programmi sulla base dell’idea di costui di non essere stato ammesso alla scuola di medicina per via del suo essere bianco.

Il “Razzismo al contrario” dovrebbe pertanto descrivere una società in cui le leggi e i ruoli fossero rovesciati. Questo non è mai successo negli Stati Uniti, nonostante molt@ ideolog@ di destra lamentino di essere vittime dei pochi punti di uguaglianza che le minoranze e le donne sono riuscite ad ottenere. Le persone bianche che si lamentano del “razzismo al contrario” si lamentano in realtà del vedersi negati i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti. Si sentono in diritto di essere assunte, ad esempio, e non vedersi discriminate, anche se la norma è che siano le/ bianch@ a discriminare le persone nere. Se, in un caso isolato, un datore di lavoro nero discriminasse un/@ bianc@, non si tratterebbe del “contrario” di qualsiasi cosa, ma di discriminazione. Significherebbe essere condannat@ a prescindere, ma non rappresenterebbe la prova di qualche piano sistematico volto alla spoliazione dei diritti dei bianchi.

La destra ha reso popolare il termine “razzismo al contrario” perchè è furiosa di vedere messo in discussione il proprio privilegio bianco. Chiunque utilizzi quel termine, sia di destra o meno, sostiene la causa della destra. Questo è quanto affermo di fronte a quei Democratici e Progressisti che utilizzano tale termine – non solo stanno usando un termine sbagliato, ma stanno aiutando i propri avversari politici.

Queste argomentazioni si possono estendere a qualsiasi struttura di oppressione istituzionalizzata che riguardi la razza, l’etnia o il gruppo religioso di appartenenza, e può essere utilizzata anche nei confronti del cosiddetto “sessismo al contrario”.

Spero che questo post vi abbia chiarito un po’ le idee.

Traduzione di questo post a cura di feminoska.

Deconstructing la frittata

320px-Frittata2La colpa è, probabilmente, dei numerosi programmi televisivi dedicati alla cucina, agli chef, all’assaggio e ai fornelli, ma è evidente che sempre più parti politiche hanno assimilato come tecnica di comunicazione politica il gesto che migliaia di cuoch@ e casalingh@ fanno in cucina: rivoltare la frittata.

Che lo facciano con l’aiuto di un piatto o del coperchio della padella, che lo facciano con un colpo di polso degno di Henri Leconte, rigirare la frittata è uno dei più straordinari casi in cui una innocente e necessaria pratica culinaria si è trasformata nella moda politico-retorica del momento. Il rivoltamento è usato ormai sia da poteri ben consolidati che da poveracci che non se li fila nessuno; o perché inefficaci i tradizionali metodi di oppressione, o per avere un po’ di visibilità tramite discorsi fantasiosi, entrambi tentano di colpire l’avversario politico facendolo passare per oppressore, maligno, insidioso, brutto&cattivo – mentre loro sono tranquilli paciosi a vogliono solo parlare.

Proveremo a fare un deconstructing un po’ diverso dal solito, tanto per capire di che stiamo parlando; anche senza occuparci nel dettaglio di tutti, è importante riportare qualche esempio, raggruppato per comodità in grandi categorie. Il resto starebbe a voi – “e mica posso fa’ tutto io!” (cit.)

1) Ai cattolici viene limitata la libertà d’espressione.

Questa splendida frittatona gira alla grande da quando Ivan Scalfarotto ha fatto la sua proposta di legge, per ora approvata dalla Camera, che introduce un’estensione alla cosiddetta “Legge Mancino“, estensione che a leggerla per intero è una pippa notevole ma che nella sostanza consta di queste due frasette due:

a. istigare a commettere o commettere atti di discriminazione per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro
b. istigare a commettere atti di violenza per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni

Ci vedete qualche accenno alla libertà d’espressione, alla libertà d’opinione, e altre cose del genere? No, dovrebbe bastare saper leggere. Ma i nostri ipocricattolici son partiti armati di fede speranza e carità per l’ennesima crociata a difesa del loro(?) pensiero, minacciato dalle forze del male: gli omosessuali. Ed ecco che da quel giorno battono il tamburo della libertà minacciata, una colossale panzana che solo in un paese dove una suora vince un reality show musicale poteva attecchire così bene. Leggete qua (un esempio qualunque, preso a caso tra gli ultimi usciti) di che stronzate colossali sono capaci:

«È utile ricordare – affermano le Sentinelle in Piedi in una nota – che se tale proposta dovesse diventare legge chiunque affermi che un bambino per crescere ha bisogno di una mamma e un papà potrebbe essere accusato di omofobia e rischiare di essere condannato ad un anno e sei mesi di carcere. Lo scorso 15 marzo a Piacenza eravamo 350 Sentinelle in Piedi, un successo straordinario, ma è tempo di far sentire di nuovo il nostro silenzio, perché impedire a qualcuno di esprimere la propria opinione è il primo passo verso la dittatura. Diverse volte negli ultimi mesi, le veglie delle Sentinelle in Piedi sono state fortemente contestate e accusate di omofobia. Non è che la conferma di quanto sia urgente la nostra mobilitazione, infatti, se oggi solo stando in silenzio nelle piazze si viene additati come omofobi, cosa accadrà domani, se e quando la legge sarà approvata?»

Carissime sentinelle, ma che andate dicendo? E’ una vera e propria falsità, una balla, una sciocchezza, una stuipidaggine. Ma chissenefrega – e chi se n’è mai fregato – delle cose che pensate e andate dicendo: so’ problemi vostri. Quella legge, c’è scritto sopra, non serve per i pensieri né per le espressioni, serve proprio per tutt’altro, c’è scritto: atti di discriminazione o atti di violenza, e le vostre idee circa l’omosessualità, finché rimangono idee, non danno alcun problema – al massimo schifo o pena, tutto lì. Però fare le vittime fa comodo, e adesso vorreste passare per paladini della libertà invece che per ipocriti; i quali vorrebbero addirittura sentirsi chiedere scusa per aver anche solo paventato la possibilità di avere una legge che punisce gli atti omofobi. E attenzione, amici cattomofobi: se ne sono accorti anche personaggi molto preparati di questi trucchetti retorici sulle questioni di genere. Sarà sempre più difficile farci cadere la vostra amatissima “opinione pubblica”, in piedi o seduta che sia. Complimenti per la frittata, davvero.

2) Le vere vittime sono gli uomini, altro che “violenza sulle donne”.

Beh, questa invece è una specialità della casa (patriarcale) che va avanti da un pezzo, sempre in nuove versioni e fantasie elaborate dagli chef professionisti come dagli smaneggiatori di fornelli occasionali. Ce n’è per tutti: potete trovare il dotto maschione che legge tanti libroni e li studia e fonda gruppi chiamandosi con lettere greche (quello che ama presentarsi come corretto, forbito e gentile), del quale recentemente ho letto questa meraviglia, in un aggregatore:

Tutto ciò che gli uomini avrebbero fatto nel corso della storia, quindi anche le grandi rivoluzioni, le grandi lotte per l’emancipazione umana, i diritti, la libertà, la democrazia, l’eguaglianza, il socialismo che li hanno visti protagonisti, e poi il lavoro disumano, lo sfruttamento e le immense sofferenze a cui sono stati sottoposti, così come le scoperte scientifiche, la produzione filosofica e letteraria, l’arte (per non parlare delle religioni), sarebbe stato fatto con il proposito di opprimere le donne.
Questa è l’operazione filosofica/ideologica che sta alle fondamenta del femminismo in tutte le sue correnti e sottocorrenti, nessuna esclusa. La criminalizzazione del maschile è ciò che accomuna tutte le diverse determinazioni del femminismo, oggi declinato nella sua versione ancora più aggressiva, che è quella detta appunto del genderismo.

Fantastico, sublime, mirabile produttore di stronzate galatticohegelianmarxiste, il quale crea mostri a suo uso e consumo per parlare dei poveri ometti che non ce la fanno più a sopravvivere, sempre più angustiati dalle brutte donnacce (e da altri uomini che beneficiano della loro preziosissima arma, l’alphavulva). Questi girafrittate esistono anche nella versione statistico-sociale: certamente ricorderete il mitico avvocato “Tempesta” Mazzola (qui uno e due esempi dei suoi fallodeliri) il quale meno di due anni fa ci propinava paternalismi di questa levatura:

Ho perplessità sui numeri sparati a vanvera. Nessuno ad oggi mi ha difatti indicato una fonte ufficiale da cui trarli e la causa precisa delle morti e per mano di chi. Il “cianciare” era riferito al giornalismo pressapochista. Ho contrapposto numeri ufficiali che smentiscono l’allarme, anche se è giusto che vadano letti più nel profondo, dal generale al particolare. Un lettore ha ben citato la fonte del ministero dell’Interno che nega qualsivoglia allarme al riguardo. Dunque si stanno enfatizzando alcune morti per destare allarme e, come scritto prima, per imporre un femminismo d’assalto. Egemonizzante. Aggressivo come il tono usato nei commenti, vera cartina di tornasole del femminismo d’avanguardia (presunta).

Capito? Il problema è che non ci sono i numeri perché nessuno si occupa del fenomeno, ma il nostro fa finta di capire il problema e bea sé e il suo maschio cervellone dei “dati ufficiali”. Geniale, a modo suo. E tu, che ti sbatti per registrarli e diffonderli correttamente, quei numeri, tu sei il cattivo perché enfatizzi, strumentalizzi, aggredisci, imponi; sei brutt@ e cattiv@ femminist@, pussa via! Non c’è nessun allarme: com’è giusto per il loro virilissimo destino, muoiono sono i maschi per mano delle donne, eh.
Dite che è roba vecchia? Ma la frittata è sempre quella: quella dei poveri masculazzi ai quali sentirsi dire “puzzi forte, lavati almeno” significa che il femminismo gl’impedisce di scopare; quelli che le donne si approfittano della loro alphavulva per fare carriera e ottenere vantaggi, come se i vantaggi e le carriere venissero dati in cambio di sesso da un distributore automatico, non da un uomo come loro; quelli che le donne c’hanno tutti i vantaggi sociali ed economici, di che si lamentano? Però mai che facessero a cambio di vita, anche solo per un giorno (qui è riportato qualche discorso come esempio di tutto ciò, non vi aspettate link a quello schifo, basta usare Google); e poi i mitici articoli, che spopolano nei ghetti rosa, nei quali le conseguenze del sessismo – i pregiudizi sul “sesso forte” – vengono usate come prove che la società è più cattiva con i (tantissimi!) maschi che subiscono violenza.

Capito come funziona la frittata? A parte le letture ignoranti e mistificanti, il trucco è: quello che succede ai maschi lo descrivo come simmetrico di quello che succede alle donne, et voilà! la frittata è girata. L’avete sentita, questa frittata, anche nella versione più generalista “il femminismo è il contrario del maschilismo”: la considerazione del fatto che forse non si tratti di un rapporto simmetrico – perché quello tra oppressori e oppressi non è mai un rapporto simmetrico – non li sfiora proprio a ‘sti bei soggetti e soggette – guarda caso. E che quindi leggere i fenomeni di violenza di genere come fossero lo stesso fenomeno – solo con soggetti diversi – è manifestazione d’ignoranza quando non di malafede. Calda la padella, eh?

3) I genitori non possono decidere cosa studiano i figli.

Notoriamente della scuola pubblica non frega niente a nessuno (parlo della maggior parte dei politici di professione, stante ciò che ne hanno fatto dal dopoguerra a oggi) e la maggior parte dei genitori continua a pensare che la scuola debba fare qualunque cosa soprattutto perché maestri e professori sono una casta che si gode tre mesi di vacanze all’anno (stronzo luogo comune dal dopoguerra a oggi). Il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi: i genitori devo comprare pure la carta igienica e va bene così, ma se qualche docente illuminato – o qualche studente autorganizzato – porta dentro la scuola argomenti di genere, allora protestiamo! A scuola si porta di tutto da casa, compresi i pregiudizi.

Il caso degli studenti di Modena lo ricorderete, è un esempio perfetto. Ecco come si esprime l’associazione di genitori che lo ha contestato:

L’intervento di Luxuria al ‘Muratori’ non rispetta questa esigenza di pluralismo e rappresenta invece una vittoria del pensiero unico nella forma della cosiddetta ideologia del gender e una negazione della liberta’ di espressione e del contraddittorio.

Capito? Applicando il principio – stupido e distorto – divulgato da quella ridicola e ipocrita norma italiana della par condicio, “i genitori” (ma quali? Di chi? Indovina!) assumono che la sola presenza di una transgender a parlare sia la violazione di un supposto contraddittorio. E sì, perché lei è lì per fare propaganda politica, no? Lei è lì per trasformare tutti i virgulti italici in transgaypornozozzoni come lei, no? E così, salto mortale carpiato per la frittata: non c’è il contraddittorio – senza spiegare perché ci dovrebbe essere – e quindi quella è un’imposizione della potentissima lobby gaytransfrociazozza, che come sapete governa il mondo tramite il commercio dei boa di struzzo. Il contraddittorio, secondo questa gente ubriaca dei propri pregiudizi, dovrebbe esserci tra chi tenta di parlare di cose da sempre nascoste e marginalizzate con violenza, e tra chi tradizionalmente segue la mentalità oppressiva e distorcente che vige. Proprio un confronto alla pari, sì.

E giustamente l’attuale ministra dell’istruzione si accoda a questa propaganda meschina, e invece di ascoltare chi fa il lavoro di educatore da anni rispondendo a richieste di educazione sessuale che vengono dalle scuole stesse, pensa bene di aspettare ancora un po’ promettendo linee guida di concerto con le associazioni dei genitori, le quali infatti esultano. Esultano perché si tratta solo di alcuni e particolari genitori – voglio proprio vedere se e come Giannini sentirà in proposito il parere di Agedo, per esempio. Per ora, la frittata è girata: i genitori cattolici passano per quelli zittiti e messi in minoranza, ignorati e anzi ingannati da chi vuole sapere le cose senza contraddittorio. Complimenti.

La realtà, come sanno bene al di fuori da questo cattostivale, è che prima si comincia meglio è, perché i risultati, come spiegava ad esempio Lanfranco, sono a lungo termine:

Non si aspettano miracoli dal progetto educativo francese, perché ci vuole tempo, e molto lavoro, sulle persone adulte in primo luogo e poi sulle giovani generazioni affinché la mentalità, il linguaggio e la pratica quotidiana nelle relazioni tra i generi evolva in una direzione non sessista, paritaria e nonviolenta. Ma iniziare a farne anche una questione di come ci si esprime, come si gioca, come si vestono bambine e bambini è un buon inizio.

Qui, nel frattempo, gente sedicente di sinistra s’è vantata di essersi opposta al rapporto Estrela. Così, per dire, eh.

Oh, allora? Zucchine, porri, patate, spinaci… che ci mettiamo? L’importante è rivoltarla, ricordatevelo.

 

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

santabarbara

Traduzione dell’articolo An open letter to privileged people who play devil’s advocate di Juliana Britto dal sito feministing.com. La traduzione è della mia amica Floriana, che ringrazio. Come dico sempre, se qualcuno lo dice meglio di me, è il caso di citarlo.

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

Lo sai chi sei. Sei il tizio bianco nel corso di Studi Etnici che sta esplorando il concetto che i poveri possano fare bambini per continuare ad avere i sussidi. O, sei quello che argomenta sorseggiando un drink che forse un sacco di donne in effetti simulano uno stupro per ricevere attenzione. O, più di recente, sei quello che insiste che io debba considerare la possibilità che Elliot Rodger [perpetratore della strage di Isla Vista, ndt] possa essere stato un pazzo, e un’anomalia, e non il prodotto della supremazia bianca e della società misogina.
Molto spesso è chiaro che tu in effetti credi a quello che sostieni pensare giusto per. Tuttavia, lo sai che queste cose che pensi non sono popolari, se non altro perché ti fanno sembrare egoista e privilegiato, e quindi ecco che dai la colpa al “diavolo”. Ti svelo un segreto: il diavolo non ha bisogno di altri avvocati. Ha già un sacco di potere senza che lo aiuti tu.
Queste discussioni possono sembrare un gioco per te, ma per molte persone intorno a te, sono le loro vite quello con cui stai giocando. Il motivo per cui sembra un gioco per te è perché queste questioni molto probabilmente non ti toccano. Se sei un uomo, non importa che la maggior parte delle sparatorie di massa siano dirette a donne che hanno rifiutato il killer – anche se dovrebbe importarti, visto che misoginia uccide anche gli uomini. Se sei bianco, non importa che le persone di colore siano stereotipate o meno. Puoi attaccare fili da burattino ai tuoi dialoghi sulle questioni reali, perché alla fine della fiera, tu puoi semplicemente alzarti e andartene da questo caos intricato che hai esacerbato.
Ad onor del vero, ci sono molti avvocati del diavolo privilegiati che davvero tentano di capire le cose. Conosco persone che pensano meglio se ad alta voce, che mi gettano addosso le loro idee per capire quelle che più si addicono alla “amica femminista”. Il tuo tipo ama aggirare un concetto da ogni angolo prima di decidere cosa pensa. Tu chiedi a quelli informati di noi di spiegarti la cosa più e più volte, perché in questo mondo è più difficile per te credere che forse la mano di carte ti è favorevole, piuttosto che pensare che noi siamo pigre, lagnose, o bugiarde.
E’ estenuante, fisicamente ed emozionalmente, essere costantemente chiamata a dimostrare che questi sistemi di potere esistono. Per molte di noi, semplicemente lottare contro di essi è abbastanza – e tu vuoi anche che te li spieghiamo? Immagina di avere dei pesi legati ai piedi e un bavaglio alla bocca, e di dover spiegare perché pensi che questa cosa ti sia svantaggiosa. Immagina di guardare un video in cui un ragazzo promette di uccidere tutte le donne che non vanno a letto con lui e poi essere costretto a elaborare sul fatto che forse tu non sei una femminista isterica che vede misoginia dappertutto. E’ incredibilmente doloroso rendersi conto che, per far si che tu abbia a cuore la mia sicurezza, io debba continuare a vincere questa competizione oratoria che tu hai messo su “per gioco”.
A quegli avvocati del diavolo che stanno cercando di imparare, io suggerisco di provare nuove strade. Considerate che non state pagando i vostri amici per spiegarvi certi concetti che sono per loro spesso dolorosamente vissuti, e siate consapevoli del loro tempo e delle loro energie. Siate grati (e dimostratelo) e ascoltate attentamente e con considerazione quando sono così generosi da parlare delle loro esperienze con voi.
Alcuni possono sostenere che io mi stia zittendo da sola, e censurando importanti momenti di scambio e crescita. Ma queste idee che mi state forzando a “considerare” non sono affatto nuove. Provengono da secoli di diseguaglianza, e il vostro disperato tentativo di mantenerle rilevanti si basa sul fatto che in effetti a voi fa comodo che esistano. Lasciate perdere. Queste teorie razziste e misogine NON le avete inventate voi, noi le abbiamo sentite già, e siamo stanche, cazzo, che ci chiediate di provare a considerarle. Ancora. Una. Volta.
Quindi, cari avvocati del diavolo, parlate per voi, non per il “diavolo”. Educatevi. Imparate. Considerate che la vostra parte in causa è stata già ascoltata per secoli, quindi sedetevi. Ora tocca a noi parlare.

E cosa ne sarà di Charley…

sicur

E cosa ne sarà di Charley
che cadde mentre lavorava
dal ponte volò e volò sulla strada.

Ho avuto la malsana idea di iscrivermi ad un corso da coordinatore per la sicurezza in cantiere. Malsana perché è un ruolo in cui ci si trova tra l’incudine del committente dei lavori, ed il martello dei controlli degli Enti preposti. Se da una parte il corso mi ha convinto che non c’è niente di meglio che fare il coordinatore per prendersi una denuncia per concorso in lesioni colpose o omicidio colposo, dall’altra mi ha aperto gli occhi, e dato un minimo di strumenti, per comprendere cosa significa la sicurezza nei cantieri e nei posti di lavoro.

Ma partiamo da un dato di fatto, uno dei tanti: 1180 morti sul lavoro nel 2012 in Italia, più di tre al giorno (per non parlare delle invalidità permanenti e delle malattie professionali).

Leggi tutto “E cosa ne sarà di Charley…”

Maternità e identità Trans

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di Frieda Frida Freddy, transfemminista (e lesboterrorista) in cammino. Traduzione e revisione di Serbilla, Elena Zucchini e feminoska.

Il giorno in cui mi dichiarai Trans fu il giorno nel quale vidi e compresi chiaramente che non mi era necessario, né vitale, essere donna o uomo per esistere. Ancora di più, capii perfettamente che non desideravo in alcun modo esserlo per ancorarmi in una delle due categorie sociali, poiché mai mi ero sentit@ felice o a posto in nessuna delle due. Mi rinominai Frieda perché sono più femminile che mascolina, e perché comprendo che mascolinità e femminilità sono solo due poli di indottrinamento che non determinano nulla, e tanto meno definiscono questo “essere uomo” o “donna” che si conoscono nel nostro mondo sociale. Inventai pertanto questo nome, per il potente dittongo che per me rappresenta il ponte sulla dicotomia dei generi, il mio transitare tra Frida e/o Freddy che sono il passato al quale sono stat@condannat@: ragazzo o ragazza. E dal quale sono fuggit@…

E dunque ora sono liber@, sono Trans. Non transgenere né transessuale. Vedete: c’è una percezione diffusa secondo la quale essere trans significhi, diciamo, nascere A e trasformarsi in B, o nascere B e desiderare di essere A. Come dire, nascere biologicamente “uomo” (per via del pene, che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come una donna. O viceversa. Nascere biologicamente “donna” (per via della vulva che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come un uomo. Senza dubbio questo avviene spesso, ma non rappresenta tutte le esperienze.

Quanto detto significa trasgredire, oltrepassare una categoria di genere perché non c’è mai stata appartenenza né identità con i ruoli che sono stati assegnati; significa respingere una costruzione sociale che è stata imposta da una divisione caratterizzata da un tratto genitale, e sicuramente questo è trasgressivo, ma questa pratica continua ad inserirsi in un codice binario. E con questa affermazione non intendo screditare né attaccare chiunque abbia fatto tutto il possibile per modificare completamente il proprio corpo o le proprie apparenze tramite gli ormoni o la chirurgia e che ora si sente a proprio agio con ciò che è o sembra, poiché il solo fatto di sfidare il genere e transitare completamente da A a B, o viceversa, mi pare degno di tutto il rispetto e l’ammirazione di chi si ribella.

Ma io non desidero questo per me. Io più che trasgredire o oltrepassare (e non restare quello che ero), desidero far esplodere i generi. La mia lotta quotidiana è contro la dicotomia di genere, contro la sudditanza. Per questo mi dedico al transfemminismo. Non voglio imprigionarmi nel genere, o nei ruoli, né rafforzarne gli stereotipi. Voglio andare avanti e indietro, fluire, fluid@ come la mia stessa sessualità (nel senso più ampio, non riducendola a mero atto sessuale); la mia sessualità che è viva, e vive con me. Perché voglio imbrigliarla? Perché ho ​​intenzione di soggiogarmi? Non devo farlo. Non sono tenut@ a farlo.

Non mi imprigionerò nella dicotomia di genere, o in qualsivoglia orientamento sessuale. Io vado e vengo. Per questo mi dichiaro Trans come trasformazione dell’idea egemonica, Trans come attraversare l’eteronormatività, Trans come trasgressione al genere e tutto ciò che comporta. Trans che trasgredisce l’obbligo, che annulla l’ordine. Nat@ A e non sarò mai B, ma che la A si fotta. Possiamo essere X o Z, H o T, o un po’ di tutto questo, o qualsiasi cosa ci passi per la testa. A volte essere anche un pò’ B, e poi basta, per esempio. O essere mostr@. O essere non essendo.

E per coloro che a questo punto del testo, stanno già pensando che sono confus@ e in realtà sono queer, ripeto, io sono Trans e per la decostruzione – distruzione della dicotomia di genere metto oltre al mio discorso, il mio corpo. Ho deciso di impiantarmi delle protesi al seno, sto risparmiando per questo. Seni per una decisione politica, come atto performativo. Non quei grandi seni rotondi, “con i quali non ho avuto la fortuna di essere nato”, per diventare femminile al cento per cento, e quindi “la donna” (come logicamente si pensa), ma piuttosto desidero quei seni per confondere, per abitare lo spazio pubblico così profondamente normato e trasgredirlo, terrorizzare. Non sono neanche interessat@ a dimagrire o comprare abiti alla moda, o camicie scollate; il mio atto sarà anche di post-travestitismo.

Con l’operazione ai seni il mio corpo diventerà un luogo espropriato al sistema (che per primo me lo ha rubato con i suoi obblighi), un’arma di distruzione simbolica. Quindi quello che voglio raggiungere attraverso la chirurgia non è un modello di bellezza patriarcale, ma una performance vivente che si muove nel mondo e porta il terrore Trans in tutti gli spazi, le strade, le città. Questo rappresenta la mia autodeterminazione e la mia scelta, come nel caso della donna dal sesso e genere coincidenti ed eteronormati quando decide di essere “madre”. Ma cosa succede dunque a queste decisioni riguardanti il proprio corpo e prese liberamente, nella stessa società, nel medesimo mondo sociale?

Succede che quando io affermo di essere Trans e racconto della mia decisione di modificare il mio corpo, il mondo mi vede come un appestat@, come un@ folle, mentre la donna incinta è vista come trionfatrice, come se si trattasse del più grande successo nella vita. A lei si assegna un riconoscimento sociale e a me il pubblico ludibrio. Alle donne incinte costruiscono un piedestallo sociale e cominciano a vederle così fragili come se si dovessero rompere, mentre la maggior parte dei transessual@, trans e transgender vede crollare la stima e i legami sociali, buttati fuori dalle proprie case in una società che chiude loro le porte in faccia in quasi tutti gli spazi pubblici. Quando una donna decide liberamente di restare incinta, partorire e crescere dei bambin@, il mondo diventa un luogo pieno di elogi, auguri, benedizioni, dolcezza, complimenti, tutt@ non si stancano mai di lodarla, mentre per le persone trans che hanno deciso e scelto liberamente di fare qualcosa con il proprio corpo e con un progetto di vita, le prese in giro non cessano mai, né gli insulti, l’invisibilizzazione, le battute, gli sguardi di disapprovazione, gli abusi verbali e anche fisici.

Nel caso della donna incinta, la famiglia e gli amici – e la società in generale – si prendono il compito di supportarla e prendersene cura, la mandano dal medico e lo Stato la riceve gratuitamente attraverso i controlli prenatali e gli attivisti la sostengono di fronte alla violenza ostetrica (ma dei tassi di natalità elevati e violenti nessuno dice niente).

Allo stesso modo, quando la persona trans comincia ad assumere ormoni o sta per sottoporsi ad un intervento chirurgico, le famiglie, gli amici e la società in generale si fanno meno presenti, la accusano, e lo Stato la riceve con lo psichiatra, che dovrà riuscire a convincere della propria decisione di transitare. Il settore sanitario la accoglie, anche se il più delle volte con disprezzo e abusi, trattandol@ come deficiente e senza dare ascolto ai suoi sentimenti, solamente somministrando iniezioni di ormoni o farmaci (quando ce ne sono), della serie: se non desideri essere un uomo, tieni, diventa donna! O viceversa. Tutto in fretta e furia, senza chiarire quali siano gli effetti collaterali dell’abbassare o alzare i livelli di testosterone o estrogeni in maniera repentina. E questo nelle poche città dove esistono leggi che lo consentono. Se non ce ne sono, le/i trans dovranno pagare tutto di tasca propria, come possono. Dovranno permettersi trattamenti e interventi chirurgici completi, e se non hanno i soldi, l’olio da cucina o l’antigelo per auto aiuterà a far crescere un po’ le natiche o i seni. Qui tutti se la cavano da sol@ e cercano di sopravvivere, nonostante le relazioni annuali, in cui gli attivisti esprimono la loro preoccupazione per i diritti sessuali di ogni singola persona nel mondo e predicano “progresso”.

Quando decido e scelgo di essere Trans, tutt@ mi diagnosticano, senza essere medic@: soffro di “disforia di genere”, sono malat@ di mente e pazz@. Lo dice la scienza e l’OMS l’ha pubblicato nella sua lista delle malattie mentali. Nessun@ parla di violenza culturale, né di cultura della violenza contro di me e la mia libera scelta, perché quello che faccio è “anormale “, naturalmente, mentre quello che fa la donna incinta non è solo “normale” ma anche “la cosa più naturale del mondo”. Questo il quadro a grandi linee. E io non mi sto vittimizzando nel fare queste analogie. Più avanti chiarirò questo punto.

Ciò che la donna incinta sta davvero facendo (per libera e consapevole che sia la sua decisione), è rafforzare ulteriormente la riproduzione di un sistema eteronormativo, un regime eterosessuale che non è orientamento come ci viene detto, ma un sistema di irregimentazione del mondo sociale, controllore dei corpi e delle vite; quello che sta facendo è seguire rigide regole apprese che stigmatizzano e spesso condannano altre biodonne come lei come “mezze donne, donne incomplete o sbagliate”, perché “non si realizzano attraverso la maternità.”

La scelta libera della donna incinta trascende il personale e si ripercuote negativamente anche a livello politico. Rafforza un mondo sociale che sta massacrando me come molte altre persone dissidenti sessuali, compresa lei stessa, ci sta uccidendo letteralmente (femminicidio, transfemminicidio). Allo stesso modo, quello che faccio con la mia decisione libera è fottermene dell’eterosessualità e delle altre finzioni politiche, delle imposizioni sociali, del regime eterosessuale, distruggerlo, decostruirlo, perché questo sistema semplicemente non è ‘normale’ o ‘naturale’.

Perché in tutto il mondo lo Stato sostiene economicamente la gravidanza, anche nel caso di donne non lavoratrici? Perché gli conviene. Si tratta di un investimento a breve termine in questo modello globale di produzione e consumo. Gli conviene continuare a riprodurre il modello di famiglia e, quindi, ottenerne manodopera a buon mercato e produzione di massa; serve anche a mantenere le persone educate, normate, tranquille, passive e apatiche, immerse nella telenovela dell’amore romantico e del “e vissero felici e contenti”. Dopodiché famiglia e Stato, insieme, manterranno più facilmente controllat@/oppress@ le/i dissidenti sessuali, pianificando di catturarli per normarli, smontarli o sterminarli.

Nel modello di produzione-consumo si costruisce anche la Famiglia, che non è l’unico agente di socializzazione, ma il più significativo. Questo modello sostiene la moralità, la buona coscienza, la coercizione, il dominio, la repressione, la violazione dei diritti umani fondamentali e delle garanzie individuali, è un modello di ricatto emotivo-sentimentale ed economico. La famiglia, oggigiorno riprodotta ugualmente dagli omosessuali misogini e maschilisti e dalle lesbiche patriarcali, è un modello oppressivo che funziona in modo molto visibile attraverso botte, insulti e abusi, o forme delicate e sottili come: “figli@ mio, devi raccontarmi tutto e dirmi ogni passo che fai perché siamo la tua famiglia e tra noi c’è fiducia, vero?”. Oppure: “io ti controllo e ti dico come fare le cose solamente perché ti amo e mi preoccupo per te, faccio tutto per il tuo bene, ti rispetto.”

La chiamano ” educazione”. E con essa violano pesantemente la privacy di ogni membro della famiglia: un legame di sangue non rende un oggetto di proprietà. Ma sì, queste forme saranno sempre camuffate da tanto amore, devozione, buone intenzioni e preoccupazione, perché è per questo che esiste “l’amore familiare”.

Esiste una negazione consapevole del fatto che la famiglia (e lo Stato) diano ordini e puniscano chi non li rispetta; il loro irrazionale potere autoconcepito gli fa credere di avere l’autorità che serve per poterlo fare. Le famiglie controllano, soffocano, a volte lentamente, a volte in poche, rapide mosse. È chiaro che lo Stato non smetterà di produrre famiglie, ma le persone possono smettere di farne parte, scegliendo di non esserlo, non semplicemente cambiando loro nome: famiglie diverse, nuove famiglie, altre famiglie, due mamme, due papà, una madre single. Non vedo nessuna lesbica mettere vestitini ai propri figli. Vedo invece molte donne incinte chiamare principessa il feto “donna”, o “mio re”, guardando l’ecografia, per esempio.

Questa stessa negazione consapevole fa sì che si arrivi a dire che lo Stato “ha firmato e riconosciuto” i diritti sessuali e riproduttivi per dare, a tutta questa diversità sessuale eterosessuata (ma non dissente), ciò che stava chiedendo e quindi tenerla buona, di modo che la smettesse di dare fastidio. Bisogna essere consapevoli di quanto possa essere manipolatore un apparato di governo, come lo Stato, che ha dato prove più che sufficienti di quanto meschino, invadente, corrotto, ricattatore, dispotico e infido sia.

Smettere di creare famiglie, però, è qualcosa di semplicemente impensabile per la maggior parte delle persone. Cos’altro potrebbero fare, se non quello che hanno interiorizzato alla perfezione sin da quando sono nat@? Ma allora che ne è di tutte quelle persone che si dicono femministe, e parlano in continuazione delle proprie preoccupazioni sulla violenza di genere e sulla violenza contro le donne? Coloro che citano tanto Foucault e la storia della sessualità volume uno, due, tre, e non si levano dalla bocca il biopotere e la biopolitica, arrivando a dormire con la foto di Simone de Beauvoir sopra la testata del loro letto a due piazze? Il loro eterocentrismo si vede fin dalla luna. I loro discorsi contraddittori dimostrano la loro incapacità di smettere di fare ciò che alla fine dei conti aggredisce e stigmatizza le stesse persone che dicono di sostenere. Staremo mica battendo l’eteropatriarcato capitalista?

Fare del femminismo istituzionale, metter su famiglia e fare richieste a uno Stato che incarna la figura paterna (maschio protettore, padre benefattore) è semplicemente la prima di questa grandi contraddizioni. Eppure si piccano di essere totalmente consapevoli e deseteropatriarcatizzate, parlano di parità di genere, fossilizzandosi, tanto per cambiare, in una dicotomia carceraria.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.

Per cui, come avrete inteso, quello che sto scrivendo non è un tentativo di vittimizzarmi per chiedere allo Stato di smetterla di trattarmi come una cittadina di serie B: io non voglio niente da lui a livello personale, né sto chiedendo alle femministe attiviste istituzionali di prendersi “maternamente” cura di me durante la mia rinascita Trans. Il mio transfemminismo è anarchico, radicale e autogestito. In ogni caso il fatto che stia suggerendo che lo Stato non dovrebbe sostenere economicamente le gravidanze e ciò che implicano è solo un piccolo contributo che voglio dare, una sorta di omaggio. Chi vuole un figlio che se lo paghi e se lo mantenga a partire da una pianificazione della propria libera scelta. Che sia un suo lusso. Che la si smetta di usare le tasse di tant@ trans per cose di questo tipo, sarebbe anche l’ora di finirla di farci pagare persino la transfobia che subiamo sulla nostra pelle. O per lo meno che, chi vuole diventare “madre”, passi attraverso i colloqui psichiatrici per spiegare il perché di questa sua decisione, in modo da convincere la scienza e l’OMS del perché è sicura di poter partorire, allevare ed educare una nuova persona. L’unico argomento della totale dedizione, della protezione e della premura, radicato in un ruolo di genere inventato, non dovrebbe essere sufficiente. Si tratta meramente di un mito romantico, basato sul regime eterosessuale: pensare che molto amore e molte cure renderanno tutto possibile è solo quello che le è stato fatto credere.

In conclusione, per chiudere qui la mia dissertazione, voglio chiarire alcune cose, visto che una delle lacune del sistema educativo scolastico riguarda proprio la comprensione scritta, e io sono molto stanca del fatto che si dica che io ho detto questo o quello. Per cui questo testo, come avete letto, è totalmente antimaternità, certo, ma non ho scritto da nessuna parte che dovreste smettere di restare incinte e partorire. Quella che sto facendo, qui, è una feroce critica per segnalare qualcosa che pare nessuno voglia dire per paura di suonare politicamente scorrett@, compromettere il proprio curriculum o essere tacciat@ di violenza, di non essere solidale o di aver smesso di esserlo e perdere di conseguenza il sostegno, l’alleanza, essere espuls@ dal collettivo, dalla ONG, fare brutta impressione, o non ricevere più il saluto “fraterno e sorridente” di altr@ compagn@.

Ciò che voglio dire con questo scritto, parlando di quelle che decidono, scelgono e desiderano la maternità e di formare una famiglia, è che si smetta di diffondere nel mondo la chiacchiera per cui una gravidanza, la maternità e il formare una famiglia rappresentano il top, il massimo del massimo, perché anche con i discorsi, il linguaggio e le proprie sciape sensazioni si continua ad alimentare e ricostruire all’ infinito i ruoli di genere nella società.

Ciò che affermo è che bisogna smetterla di raccontarsi fiabe rose e sdolcinate e di comprare happy meal Mcdonalds, e ci si assuma con onestà le atroci responsabilità sociali che implicano la gravidanza, il parto e l’allevamento dei figli@, in un contesto così fortemente capitalista ed eteropatriarcale come quello descritto, e che ci si renda conto, una volta per tutte, che la “libera scelta” di alcun@ non ha luogo nella coppia, né tra le quattro pareti del proprio nido d’amore, né è appannaggio della donna sola, o accompagnata, che decide di farlo: una gravidanza oltrepassa tutto questo e collabora direttamente con il sistema che ci fotte tutt@.

desde el mismo nacimiento la intersexualidad, y después en la socialización del género a la transexualidad, bajo el yugo heterosexual, ¡ahí te encargo!

Io Frieda affermo che la dovete piantare di rispettarmi seguendo la logica del “io non ho alcun problema con le persone trans”, dalla vostra schiacciante posizione di normalità. E di quell@ che, sotto il giogo eterosessuale, tirano su solamente uomini e donne, omettendo dalla stessa nascita l’intersessualità, e successivamente dalla socializzazione di genere il transessualismo: io vi sfido!

Perché siamo le/i trans che la dicotomia di genere non ha potuto normare. E siamo qui, e non staremo zitt@, né ci nasconderemo in un qualche luogo oscuro di modo che le/i vostr@ piccolin@ non si spaventino o “contagino” in qualche modo.

Gomorra: la visibilità transessuale dove non te l’aspetti

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[ATTENZIONE! ATTENZIONE! ATTENZIONE! SPOILER! SPOILER OVUNQUE! ATTENZIONE, SPOILER!]

Prima ancora di iniziare, metto in chiaro che non prenderò sul serio nessuna considerazione di carattere meramente legalitarista che non tenga conto del fatto che stiamo parlando di una serie TV. Non sto sponsorizzando con questo apprezzamento le mafie, almeno non più di quanto non lo faccia il PD promuovendo le grandi opere: fatevene una ragione. Detto questo, è qualche tempo che seguo Gomorra – e devo dire che se il libro non mi è parsa cosa eccezionale, la fiction incontra decisamente il mio gusto. Oggi una novità: nella settima puntata di questa prima serie, c’è un ragazzo FTM.

Il padre di questo ragazzo ha un negozio di vestiti da sposa ed è nei pasticci perché deve dei soldi a uno strozzino. Va da questo  strozzino e gli chiede una proroga di un mese, ma si sente dare picche e di conseguenza, pressato dalla richiesta molto prossima di una ingente cifra, il padre si suicida. Questo ragazzo va a chiedere aiuto a Donna Imma – la capa mafiosa, per intenderci – e le chiede aiuto. Lei va dallo strozzino per fargli capire che deve smetterla, e gli chiede del padre del ragazzo: lo strozzino gli risponde che il ragazzo è una lesbica di merda e che suo padre è un poveraccio; il giorno dopo, per tutta risposta, fa pestare il ragazzo dai suoi scagnozzi. Donna Imma lo incontra e vedendolo con la faccia piena di sangue pesto decide di far ammazzare lo strozzino, che verrà liquidato con un paio di proiettili proprio di fronte a lui (non nascondo di aver provato estrema goduria nel vederlo crepare, alla luce della sua precedente affermazione omofoba, lesbofoba e transfobica). Con Donna Imma si recano poi a visitare il negozio del padre. Lei sottintende che lui potrebbe ereditare l’attività; lui risponde qualcosa di non troppo comprensibile ma che mirava a sottintendere che no, non è cosa per lui. Questo ragazzo insieme ad altri spaccia nel quartiere: in una sequenza successiva, lui porta il borsone di soldi da spartire con tutti coloro coinvolti nello spaccio. Qui succede una cosa interessante: gli altri gli chiedono se è maschio o femmina, come si chiama, e via dicendo. Lui risponde: Luca. Gli altri ridacchiano: tu Luca? ma non farmi ridere, ce l’hai il pesce? e Luca gli risponde: è sicuramente più piccolo il tuo, e subito dopo: …e comunque essere uomini è una cosa che hai nella testa, non è una questione di pesce. Più tardi ancora segue un’altra scena in cui vediamo Luca denudarsi (mostrando le fasce con cui si comprime il seno) e provarsi uno dei vestiti da sposa. Luca muore poco dopo, inseguito e poi ammazzato da alcuni malavitosi che non appartengono al giro di Donna Imma. Peccato.

Imma, peraltro, è un personaggio che mi ha colpito molto: suo figlio Gennaro, secondo le regole dell’ambito camorristico, dovrebbe tenere in salute, proseguendola, l’attività del padre che è costretto in carcere dal 41bis: ma almeno per quanto riguarda gli inizi della serie (più tardi non saprei) sembra evidente che Gennaro sia troppo immaturo per poter gestire in maniera ottimale gli affari dell’impero economico di famiglia. Così Imma prende de facto le redini, contro la volontà del marito, e di certo il suo eccezionale carisma e il suo polso la rendono adattissima al lavoro in questione. Gli occhiali viola che mi fanno vedere la realtà attraverso un’ottica irrimediabilmente femminista si sono ricoperti di brillantini per la gioia, devo dire.

Sono così stupito – è letteralmente la prima volta che vedo una rappresentazione in fiction di un ragazzo transessuale, almeno nel contesto specificatamente italiano. Spero soltanto che la serie continui su questi toni, continuando a mostrarci pezzi di realtà spesso ignorati (quella trans, non certo quella degli spacciatori trans!), continuando a dare un ruolo di spicco a Imma, e magari introducendo anche altre donne che abbiano un certo peso nello svolgersi della narrazione. La mia attesa sarà costellata di pop corn.

Perchè un discorso antimaterno è necessario

childfree_catsUno degli articoli pubblicati su Intersezioni che ha scatenato, dal suo primo apparire, commenti accesi e forti opposizioni è sicuramente la traduzione de Costruendo un discorso antimaterno di Beatriz Gimeno.

Appare dunque necessaria qualche ulteriore riflessione in merito, in particolare riguardo a quello che pare essere il motivo del contendere, ovvero la scelta di Gimeno di definire questo nuovo discorso come “antimaterno”. Il suffisso anti-, “che si oppone a”, è stato equivocato da più parti. Ci si potrebbe domandare, in effetti, se l’autora non avrebbe potuto descrivere la propria proposta come “non-materna” più che “antimaterna”… sicuramente, da un punto di vista lessicale, questo sarebbe stato forse utile ad evitare molti fraintendimenti, quali quelli in cui sono cadute tante donne (anche femministe) che hanno scelto consapevolmente la maternità, e in quell'”anti-” ci hanno visto di tutto: da un giudizio sulle proprie scelte personali, ad una discriminazione al contrario, ad una valutazione tout court negativa in merito all’esperienza della maternità, ecc.

Nulla di più lontano dalla realtà, in effetti. E non solo perché Beatriz Gimeno, è madre – triste doverlo sottolineare, ma purtroppo alcune hanno pensato di basare in massima parte la propria critica all’articolo sul presupposto (errato) che chi l’aveva scritto non doveva aver provato sul proprio corpo il ‘miracolo della maternità’, e perciò prendeva posizione in merito ad un’esperienza che non conosceva in prima persona; ma anche perché ciò che, almeno a nostro avviso, traspare in maniera cristallina da questo articolo è esclusivamente la necessità di costruire uno spazio di agibilità per un discorso non materno, e questo non solo in seno alla società, ma anche, evidentemente, e forse ancor di più nel discorso femminista.

Alcune hanno definito superflua questa richiesta, portando ad esempio la propria esperienza opposta di donne che si sono viste osteggiate in una legittima scelta di maternità – rendendo pertanto questa opzione molto più sovversiva rispetto alla scelta di non avere figli@. Non volendo mettere in dubbio la veridicità di tali vissuti personali, pare però difficile definire come norma quella che a tutti gli effetti risulta un’eccezione rispetto ad un sistema che si basa, sia a livello sociale che economico, sui ruoli di cura non retribuiti delle donne in qualità di madri, mogli, parenti  (o anche retribuiti scarsamente, tra mille disagi e soprusi, come avviene per badanti e colf): sempre pronte, attente e sacrificabili sull’altare dei bisogni altrui.

Inoltre si commette spesso l’errore grave di pensare che una realtà come quella occidentale,  nella quale comunque – per quanto poco e male, e tra mille continui tentativi di boicottaggio – un certo grado di agency è appannaggio delle donne, rappresenti la ‘condizione della donna’ attuale a livello globale… E in ogni caso anche la nostra autodeterminazione, tra obiezione di coscienza, assunzione della responsabilità riproduttiva a quasi esclusivo appannaggio femminile, assenza totale di educazione sessuale e all’uso degli anticoncezionali a disposizione – il tutto condito dal precariato galoppante – non se la passa esattamente bene.

Il discorso sulla non maternità è un discorso di libertà quando il discorso dominante punta in tutt’altra direzione. E nella nostra società ancora profondamente patriarcale, impregnata di sessismo, privilegio e discriminazione, è così. Questo perché, a prescindere dall'”hardware” proprio di ogni persona, il software dominante non lascia davvero scampo alle donne – è ovvio, si parla in linea generale, ma la linea generale è, di solito, quella prevalente – addestrate fin da piccole alla predilezione per certi ruoli, incapaci di sottrarsi a certe richieste (la cura, appannaggio esclusivo delle ‘femmine’ – della casa, dei bambini, degli anziani, degli uomini – che si esplicita in senso di dovere o compulsione), richieste sconosciute alla maggior parte degli uomini, e per i quali comunque si configurano, eventualmente, come scelta consapevole e non coazione a ripetere schemi introiettati fin da piccole… schemi a volte odiati, come quando capita di rivedere con rabbia e sgomento, in noi stesse, donne a noi vicine – mamme, zie, nonne, sorelle – che hanno vissuto una vita di infelicità e subordinazione, delle quali dicevamo che “noi non saremmo finite così”.

Il discorso sulla non maternità è ancora necessario quando tante, troppe donne, si sentono oppresse dalle aspettative uterine illegittime di genitori, parenti, compagni, amici, persino datori di lavoro o semplici conoscenti, aspettative che esistono e sono opprimenti.

Aspettative che definiscono coloro le quali non vi si conformano come donne cattive, arriviste, immature o zitelle, lesbiche o acide, donne mancate, sbagliate, incomplete. Soprattutto donne ingrate, egoiste e dissolute alla ricerca dei soli piaceri solipsistici della vita, o al contrario donne danneggiate che riversano su cure alternative (la zoofilia, ad esempio) una mancanza non confessata (che non è mai solo d’amore, si badi bene, ma di quel figlio che non ne ha occupato l’utero per 9 mesi).

Questi discorsi non sono anacronistici, sono la realtà vissuta da tante donne – e comunque donne privilegiate, donne che possono permettersi di non avere figli@, cosa assolutamente non scontata al di fuori dei nostri limitati orizzonti.

Ecco spiegato il motivo della necessità di quell’articolo, e di tanti altri a seguire. Perché l’articolo di Gimeno parla di tutte quelle donne che vivono disagi e discriminazioni perché scelgono di non avere figli@, donne che chiedono semplicemente uno spazio di esistenza legittima.

Il discorso antimaterno non è un attacco alle donne, né alle madri. Non è una guerra tra oppress@, non è una rivendicazione di valore: il discorso antimaterno è  una questione di libertà, e se alcune donne dicono di non sentirsi libere di non fare figli@, e di voler lottare per questo, le altre, quelle che le/i figli@ li hanno fatt@  e magari felicemente, dovrebbero sostenere questa istanza. Quello che il femminismo dovrebbe insegnarci è il valore del reciproco ascolto, e non il posizionarsi su opposte e inconciliabili fazioni.

Dunque perché il termine anti- pare comunque adatto a questo argomento, quanto – se non più – del termine non-? Perché il discorso antimaterno va a decostruire non la maternità in quanto esperienza umana legittima, ma quel ‘discorso materno’ – che, attenzione, non è il discorso DELLE madri ma SULLE madri – che è appannaggio del sistema patriarcale, il cui scopo è spingere le donne, per i più svariati fini, a scegliere acriticamente questa opzione come unica valida e degna di rispetto. Sulla base di questo discorso, che è ancora quello  dominante, si costruiscono false categorie di valore che relegano molte donne, non così consapevoli, a ruoli di cura solo in apparenza scelti liberamente – ma in realtà mai veramente messi, quantomeno intimamente, in discussione – e altre ad un ruolo di paria per il semplice fatto di non conformarvisi.

Appare dunque evidente che il problema non sta nella scelta o meno di essere madri – perlomeno quando questa scelta è fatta con consapevolezza – ma nella arbitraria assegnazione di minor valore e nel giudizio svalutante che una delle due scelte, di solito quella di non avere figli@, riveste di fronte all’altra.

Per approfondimenti leggi anche: Riprodursi? Anche no!

 

Intervista sull’asessualità

Pubblichiamo con molto piacere l’intervista a Lea, che ringraziamo per la disponibilità, su un argomento di cui, effettivamente, si parla poco, l’asessualità. Speriamo che questa intervista sia solo l’inizio di un discorso, sempre più ricco e approfondito, sul tema. Intanto vi auguriamo buona lettura invitandovi a dirci la vostra.

Cosa significa “Asessuale”?

Una persona asessuale è una persona che non prova attrazione sessuale per nessun*.

Essere asessuale implica un disinteresse totale nei confronti del sesso (anche masturbatorio, ad esempio) o il disinteresse nei confronti di una relazione sessuale con altre persone?

Essere asessuale significa che si prova per tutt* ciò che un uomo etero o una donna lesbica provano verso gli uomini a livello sessuale, o una donna etero o un uomo gay verso le donne. Semplicemente non c’è un trasporto a livello sessuale. Ma non significa necessariamente non avere una libido, anche se alcune persone asessuali non hanno neanche quella e quindi non hanno nessun bisogno fisico.

Il sesso, per alcune persone, è l’elemento che gli/le permette di distingue le relazioni. Ma non è sempre così per tutt@. Tu come differenzi le relazioni nella tua vita?

In realtà molte persone credono che il sesso sia ciò che permette loro di distinguere una relazione romantica da altri tipi di relazioni, ma poi quando si fa loro notare che ci sono spesso rapporti di amicizia che includono il sesso, si rendono conto che non è esattamente l’atto fisico che caratterizza una relazione “speciale”, ma il sentimento che con esso si vuole esprimere. Se si è innamorat* di una persona, l’intimità (sessuale o meno) è percepita in modo diverso. La situazione non cambia per le persone asessuali: se si è innamorat* di qualcun*, lo si capisce dalle proprie emozioni.

Come esprimi la tua affettività?

Sono una persona molto affettuosa se ho confidenza con qualcun*, e mi piacciono molto le coccole. Semplicemente non vedo le coccole come un “aperitivo” per un “pasto più importante”.

Come vivi la tua libido?

Sono una di quelle persone che non ha una libido, quindi non posso rispondere personalmente a questa domanda. In generale, molte persone asessuali hanno una libido, proprio come le persone non-asessuali. Anche tra le persone etero, omo o bisessuali ci sono quelle che hanno una libido più alta, una libido “nella media” o una più bassa, ed è lo stesso per chi è asex. Solo che la libido nel loro caso non è indirizzata verso nessun*, e si preferisce generalmente prendersene cura da sé con la masturbazione, così come farebbero, per esempio, la maggior parte degli uomini etero se fossero eccitati ma in un luogo con solo altri uomini, piuttosto che avere rapporti sessuali con qualcuno da cui non sono attratti.

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