La malafede della zoofobia – IV (e ultima) parte

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§ Ritmo, Grazia e Afflizione
Esistono validi motivi per supporre che la crisi globale della nostra creazione non richieda un inasprirsi della dominazione tecnoscientifica e zoofobica, ma un ritorno ai nostri sensi, ovvero, ad una vita animale più libera. Infatti, in Dialettica Negativa Adorno scrive che “l’individuo rimane con niente più che… provare a vivere in maniera tale da poter pensare di essere stato un buon animale.” (51) Essere un buon animale (umano), commenta Christoph Menke, significa agire mossi da un sentimento di solidarietà. Il soggetto animale è tale che “non separa sé stesso dalle proprie “spinte” o “impulsi” per seguire la legge e per liberarsene, ma la cui libertà, anzi, la cui propria forza, consiste nel permettere alle sue pulsioni e impulsi di esprimersi. Solo così, in “armonia”, persino in “riconciliazione” con sé stesso, l’uomo può essere buono verso gli altri.”(52)
Gli homo sapiens possono essere se stessi, e specificatamente esseri umani, solo se sono buoni animali, e quindi solo quando “non agiscono, e tantomeno si presentano, come persone,” (53) vale a dire, come ego che sopprimono i propri impulsi interiori. In Body Transformations, Alphonso Lingis attinge a Nietzsche dicendo che “le forze lussuriose di un individuo possono allontanarsi dall’immagine ideale di sé proiettata dagli adulti della propria famiglia, classe, etnia, nazione e razza per puntare su quegli istinti antichi che risorgono in lui, affermandoli e conferendo loro potere. “(54) Ma i tratti che costituiscono un buon animale non possono essere fabbricati; “la nobiltà non si rivela dalla gestione del carattere;”(55) l’unica vera virtù è spontanea, senza pretese, ed emerge con l’emancipazione dell’impulso, libera di assumere spontaneamente una molteplicità di significati.(56) Ma far sì che gli impulsi libidinosi trovino piena espressione oggi, pone l’individuo a rischio; la civilizzazione stessa è stata progettata precisamente per addomesticarli e sottometterli ad un’autorità “superiore”. Qualsiasi essi siano, gli istinti “renderanno quell’individuo disadattato nel proprio tempo e possono renderlo eccentrico o folle.”(57) Finché la civilizzazione non sarà rimodellata per fargli spazio, rimarrà “un selvaggio nato troppo tardi.”(58) “L’uomo ‘civilizzato’ – nota Fromm – ha sempre vissuto nello ‘Zoo’ – cioè in diversi gradi di cattività e non-libertà – e questo è tuttora vero”(59) Per la verità, forse ancor di più nelle società tecnologicamente più avanzate, che da qualsiasi altra parte.
Nella maggior parte dei casi, la nostra tendenza all’essere guidati da processi pre-riflessivi e a noi connaturati, oscilla tra riluttanza ed odio.(60) Per questo motivo introduciamo nelle nostre vite lo sforzo di un eccessivo autocontrollo. Watts ha associato questo processo all’afferrare una mano con l’altra, per timore che sbagli in qualsiasi cosa stia facendo. La conclusione è che, in quest’ottica, non ci si può fidare di nessuna delle due mani. “Chi sorveglierà le guardie stesse?”(61) è una domanda che dovrebbe essere posta ma generalmente non lo è. Nel frattempo, si è persa una delle due mani, e cioè metà della propria abilità, in una ricerca sostanzialmente impossibile di controllo di se stessi e degli altri. A causa di questa lotta e di questo soffocamento auto-inflitto, il mondo diventa una gabbia. Sicuramente, dice Watts, “ci saranno errori, ma se non ti fidi affatto finirai per strangolarti. Finirai per circondarti di regole e leggi e prescrizioni e polizia e guardie – e guardie per fare la guardia alle guardie. Quindi, per vivere dobbiamo avere fiducia. Dobbiamo confidare in ciò che è completamente ignoto e in una natura che non ha padroni.” (62) Riformulando il punto di vista di Alfred North Whitehead sulla questione, Hamrick e Van der Veken scrivono di un evidente cambio di atteggiamento nella filosofia moderna nei confronti della percezione sensoriale, prodotto da una variazione dell’antica domanda, ovvero da “Cosa sentiamo?” a “Cosa possiamo sentire.” Un mutamento così compiuto ha dato i natali ad un “atteggiamento di ‘attenzione forzata’ per percepire dati che oscura la base dell’esperienza da cui i dati stessi originano,” con la percezione sensoriale che diventa il prodotto di una “attenzione cosciente che esclude più di quanto includa…. Per Whithead – dicono – la filosofia deve criticare queste astrazioni e, superando la ‘fallacia di una concretezza malriposta,’ ristabilire la nostra connessione con la natura e con la nostra esperienza morale, emotiva, e sostanziale. “(63)
Alcune parti di Il pensiero selvaggio di Levi-Strauss potrebbero essere utili per indirizzarci verso tale modello alternativo di vita. Il pensiero selvaggio è “pensiero nel proprio stato non addomesticato, così distinto dal  pensiero educato o addomesticato allo scopo di ottenere qualcosa. La caratteristica peculiare del pensiero selvaggio è la sua eternità…Una moltitudine di immagini prende forma simultaneamente, nessuna esattamente uguale all’altra, cosicché nessuna fornisce più di una conoscenza parziale.” (64) Per ridefinire lo strutturalismo dell’autore in una narrativa di vita sensuale, il “pensiero selvaggio” è, in senso stretto, non tanto mente o pensiero, (65) ma una certa presenza viscerale dell’organismo nel proprio mondo. E’ un corpo che si orienta nelle immediate vicinanze, cercando soluzioni ai problemi in ciò che è a portata di mano, approfittando dell’immediata possibilità, esistendo – presente nella situazione e trascendendola attraverso questa stessa presenza. C’è la gioia del coinvolgimento in tale “incarnazione [che] riguarda il corpo che tracima il proprio senso di costrizione, nel permettere la creazione di ritmi condivisi.” (66) Da questo punto di vista, la vita sulla terra ha un aspetto ritmico che è organico e, in un senso davvero primitivo, musicale. I corpi umani sono fondamentalmente legati ai ritmi della terra, posto che non inibiscano il proprio schiudersi entro sé stessi. Saul Williams sostiene che “siamo l’equivalente manifesto di tre secchi d’acqua e una manciata di minerali, realizzando così che quegli stessi secchi girati sottosopra forniscono l’elemento percussivo dell’eternità. Se devi contare per tenere il ritmo – aggiunge in alcune interpretazioni dal vivo – allora conta.” (67) Ma sostenere questo testimonia già una realtà di separazione; più civilizzati, e cioè orientati alla cultura, diventiamo, più diventiamo incapaci di comprendere questo concetto, anche mentre continuiamo ad esserne soggetti. Le nostre vite allora perdono sincronia con il battito diversificato delle ecologie circostanti e dei loro abitanti senzienti. Siamo così privati di ciò che potrebbe chiamarsi grazia animale – non solo quella che caratterizza la facilità con cui un gatto salta giù da un albero, ma anche quella che – sottolineata dalla sofferenza – opera in mezzo al dolore, alla perdita e all’infelicità. Secondo Mazis, “le radici della parola afflitto indicano ‘essere oppresso.’ Il mondo, se preso sul serio, davvero ci opprime. Essere afflitti significa sentire il peso dell’esistenza, un peso che ci riporta ad un livello condiviso con tutte le altre creature viventi. E’ una via verso casa.”(68) Una casa non perfetta, almeno non secondo le nozioni riduzioniste di perfezione lineare; troppo imprecisa, vaga e “inafferrabile” per ospitare esemplari perfetti. Non si sposa con la geometria Euclidea; una montagna non è più rozza, ma molto più complessa di un triangolo. Inoltre, per il disappunto sia di quelli che vorrebbero costruire un concetto di umanità come negazione dell’animalità, sia di quelli determinati a sviscerare l’inconfutabile nocciolo dell’animalità, nella ricchezza della molteplicità animata non risulta esserci una riconoscibile singola qualità che renda un animale tale. E quindi, semmai, l’animalità è non-essenzialista ed estremamente eterogenea. (69) Ralph R. Acampora sostiene giustamente che “non ci sono animali generici che vagano per la terra, e la pura/perfetta ‘animalità’ in quanto tale può essere evocata nel paradiso di Platone solo in via ipotetica.” (70) Questa, tuttavia, non è l’antica Grecia (71) e non serve a nulla aggrapparsi a standard di perfezione demoralizzanti e incorporei capaci di inibire l’apprezzamento della carne fallibile del mondo. “Di tutte le emozioni – dice Mazis – il dolore ha il grande potere di rallentarci, se lo lasciamo fare. Come la sensazione al centro dei nostri corpi di essere influenzati da tutti questi altri esseri, il dolore ci chiama ad essere partecipi di una rete intrecciata e complessa fatta dei fili sottili dell’interconnessione.” (72) Anche se non è una lezione piacevole, ci permette di realizzare che essere completamente permeabili al mondo – con il sangue, il sudore, e le lacrime che ne derivano – ha la sua propria perfezione. Perciò, sicuramente, invece di premere qualche interruttore immaginario sulla modalità “apprezzamento dell’animalità”, tornare a casa significa prima di tutto sentire il peso del mondo, provare dolore per i miliardi di nostri simili che muoiono, vedere quanta sofferenza deriva dalle nostre azioni. E si tratta di agire in base al dolore. La domanda è: saremo in grado di farne qualcosa, considerate le barriere alla compassione innalzate tutto intorno a noi, che ci separano dal mondo e si sostituiscono ad esso? Nessun sentimento si sviluppa nel vuoto, nella res cogitans di un pensatore Cartesiano opposta alla res extensa del mondo. Siccome, piuttosto, una persona percepisce dentro e attraverso la densità delle cose, sostengo che il vero essere-con (Mitstein) rimuoverà questi ostacoli materiali e percettivi, dovrà coraggiosamente rimpiazzare le immagini con la realtà, il ferro e il vetro con la terra e gli alberi, l’aria condizionata con il vento, la benzina con l’acqua, l’astratto con il concreto, un movimento necessario a restituire incanto al disincantato. Non è una vaga idea buttata a caso. Sia i prerequisiti sia le implicazioni di un recupero di una piena e diretta presenza nel mondo e l’uno  verso l’altro sono sbalorditivi, e fondamentalmente richiedono niente meno che un capovolgimento della reificazione, irreggimentazione e mercificazione della vita senziente. Un tale capovolgimento è, sempre più evidentemente,  tanto necessario quanto inevitabile.
NOTE

51 Adorno, Dialettica Negativa, 299.
52 Ch. Menke, Genealogy and Critique [in:] “Cambridge Companion to Adorno,” ed. Tom Huhn. Cambridge and New York: Cambridge UP 2004, 320.
53 Adorno, Dialettica negativa, 277.
54 A. Lingis, Body Transformations: Evolutions and Atavisms in Culture. New York: Routledge 2005, 16.
55 ibid.
56 Nel seguire le tracce di John Dewey, Shannon Sullivan insiste nell’usare “impulsi” invece di “istinti” per indicare che la “corporeità di un organismo generalmente segue un disegno, piuttosto che a caso.” Mentre “‘istinti’ implica che le energie di un organismo si presentino già confezionate in organizzazioni necessarie e definite di dati significati… gli impulsi… ottengono il proprio scopo solo da consuetudini che li organizzano… la corporeità è organizzata da consuetudini, che sono gli stili di attività acquisiti da un organismo che gestiscono l’energia dei suoi impulsi.” L’abitudine, a sua volta, è molto più che la ripetizione della routine. E’ “non tanto la ricorrenza di azioni particolari, quanto uno stile o una maniera di comportarsi che si riflette attraverso l’essere di ognuno.” Gli automatismi comportamentali sono riflesso non della realtà, ma di faziosità positivista. Vedi S. Sullivan, Living Across and Through Skins. Transactional Bodies, Pragmatism, and Feminism. Bloomington, Indianapolis: Indiana UP 2001, 30-1.
57 Lingis, Body Transformations … , 16
58 ibid.
59 Fromm, Anatomy … , 103.
60 In questo rimaniamo ignari del fatto che questo stesso atteggiamento è un’espressione della vita corporea, insieme al pensiero cosciente come tale, esso stesso non così indispensabile come a tutti piacerebbe forse pensare. Michael Steinberg sostiene che “il pensiero cosciente è completamente intrecciato con il sub-personale … bisognerebbe ricordare costantemente che i pensieri di cui siamo coscienti sono solamente aspetti parziali e a volte anche casuali di un più grande complesso di processi … Il nostro pensiero è solo un aspetto della vita del corpo, esso stesso aperto a tutte le cose.” Vedi M. Steinberg, The Fiction of a Thinkable World. Body, Meaning, and the Culture of Capitalism. New York: Monthly Review Press 2005, 24-5.
61 “Quis custodiet ipsos custodes?” è un proverbio latino attribuito al poeta romano Giovenale, spesso richiamato da Watts nelle sue letture e nei suoi libri relativamente alla futilità ultima dell’auto-controllo e alla necessità di fidarsi della propria natura. Vedi per esempio il suo The Tao of Philosophy (Boston: Tuttle Publishing 2002, 33-4).
62 ibid.
63 W. Hamrick, J. van der Veken, Nature and Logos. A Whiteheadian Key to Merleau-Ponty’s Fundamental Thought. Albany, NY: State University of New York Press 2011, 53.
64 C. Levi-Strauss, The savage mind (il Pensiero Selvaggio), trad. George Weidenfeld and Nicholson Ltd. London: Weidenfeld and Nicholson 1966, 219, 263.
65 Il titolo francese originale de The Savage Mind è “La Pensée Sauvage” dove la pensée è più naturalmente tradotto come “pensiero” piuttosto che “mente”. Mente in francese solitamente si traduce con l’esprit.
66 G. A. Mazis, The Trickster, Magician and Grieving Man: Reconnecting Men with Earth. Santa Fe, New Mexico: Bear & Company Publishing 1993, 207.
67 S. Williams, Coded Language [su:] Amethyst Rock Star, American Recordings 2001.
68 Mazis, The Trickster…, 269, enfasi nell’originale.
69 La nozione essenzialista dell’animalità “tende a uniformare la varietà esistenziale degli esseri animali (in divenire) in un’astrazione concettuale – assegnandoli e relegandoli, così, ad una generica categoria di ‘animalità.’” Vedi Acampora, Corporal Compassion … , 9.
70 ibid.
71 Secondo Steinberg, nelle antiche arti e miti Greci, “gli dei e gli uomini erano legati in una sorta di gioco a somma zero. Gli dei sonotutto ciò che noi non siamo e noi siamo d’altra parte ciò che loro non sono: possiamo cambiare, invecchiare, ammalarci e morire, ma gli dei sono senza età e non cambiano mai.” Uno degli intenti ed effetti dell’arte greca che non è apprezzata dai critici contemporanei era una condanna ad una imperfezione terrena, corporea. “Il credente greco, malato o affamato o semplicemente fuori forma come la maggior parte delle persone, non si faceva ingannare, come noi, dalla forma umana di Zeus o Apollo. ” Vedeva, nell’abisso che separava la propria carne dalla loro, “con crudele precisione le inadeguatezze e le miserie della vita umana.” La nozione greca della perfezione somatica degli dei quindi “mostra la nostra carne fiacca, deforme, cadente come una parodia grottesca della nostra forma ideale.” Così, mentre il corpo umano arriva ad odiare se stesso, il dio inventato – un substrato della nostra paura zoofobica – pesa tremendamente sull’animale che siamo. Vedi Steinberg, The Fiction…, 78-9.
72 Mazis, The Trickster…, 18.

Tutte le fonti online erano accessibili al 6 Dic. 2012.

Dedicata al 25 aprile…Liberazione, ma per chi?

PigSanctuary

Car* compagn*,
anche quest’anno non potremo festeggiare assieme la festa del 25 aprile.
Come sempre, nei giorni precedenti una ricorrenza così importante e sentita, cerco informazioni su tutte le iniziative organizzate per commemorare la giornata simbolo della lotta al fascismo, e come tutti gli anni mi ritrovo – tristemente – nell’impossibilità a prendervi parte. Se non avete ancora capito il perché, è presto detto: faccio parte di quelle (non poche) persone incapaci di festeggiare la lotta per la libertà dal dominio e dalla sopraffazione con in bocca i corpi martoriati di altri individui.
Ebbene, sì, anche quest’anno il rituale della grigliata costringerà molt* di noi a tenersi lontani da dove sicuramente saremmo felicissimi di stare. Tutto ciò è molto triste, e mi dà da pensare… perché la questione non è risolvibile con quell’approccio molto politically correct (e scegliendo questo termine ho detto tutto), che apparentemente risolve il problema proponendo alternative definite “onnivore, vegetariane e vegane”. Io, ad esempio, ad una grigliata del genere non verrò comunque, perché onnivoro per me è sinonimo di assassino, e dal momento che la mia scelta di non nutrirmi del dolore e della morte di altri individui non è una scelta ‘personale’, come ad alcun* piace pensare, ma politica, che dunque mi richiede responsabilità e coerenza, essere lì presente a vedervi nutrire del corpo di individui schiavi, privati del proprio diritto a vivere la propria vita per colpa di un’ideologia dominante della quale vi dimostrate spesso inconsapevoli sostenitori, ecco, non potrei comunque sopportarlo.

Non dando alla scelta portata avanti da molt* di noi alcuna dignità politica, so già come, in un modo o nell’altro, la derubricherete … i/le solit* estremist*, come possono pensare di imporre le proprie scelte alle altre persone? E perciò, per l’ennesima volta, il fatto di non essere lì con voi sembrerà dipendere da noi, quando in realtà non è così.

Io chiedo solo di guardare alla situazione dal nostro punto di vista, e da quello degli animali di cui vi ciberete. Perché se quella che abbiamo compiuto è una scelta politica, e se davvero tenete in considerazione le scelte politiche altrui anche quando sono più distanti dal vostro sentire, come potete pensare che si possa gioire insieme a voi quando, nelle vostre mani e tra i vostri denti, vediamo la carne, le ossa, i cadaveri di esseri viventi sfruttati ed uccisi?

Dite che sto esagerando? Capovolgendo il vostro ragionamento, io mi sento davvero di esprimere un legittimo dubbio… Eravamo al vostro fianco per le strade in tante occasioni: abbiamo manifestato insieme contro alla precarietà, per il diritto ad un aborto sicuro e garantito, per la lotta per il diritto alla casa. Abbiamo respirato insieme lacrimogeni in val susa, sostenuto i diritti dei migranti e gridato sotto alle grigie mura dei cie. Vi consideriamo compagn*, persone in lotta contro le ingiustizie, persone speciali.
Speciali sì, ma non così tanto da immaginare, anche solo per un momento, di rinunciare alla grigliata per festeggiare tutt* insieme. Quella della liberazione dovrebbe essere la NOSTRA festa, la cosa più importante e bella dovrebbe perciò essere quella di vivere una giornata così importante insieme… invece pare che sopra tutto, sia necessario riaffermare la supremazia dei mangiatori di carne.
Avete mangiato vegano in mille occasioni, e vi è piaciuto molto. Sarebbe così bello immaginarci tutt* lì, alla festa della liberazione, dopo il corteo e le commemorazioni, a fare festa insieme. Una festa di liberazione per tutt*, animali umani e non. Festeggiare una liberazione senza puzza di carne che brucia, senza grasso che cola, senza ossa e senza morte. Ma nemmeno quest’anno sarà possibile, per via di un’ideologia così radicata in voi, da esserne del tutto inconsapevoli.

Tra lo stare insieme senza crudeltà e il perpetrare il rituale di mangiare cadaveri (rituale che comunque ripetete centinaia di volte ogni anno, perciò nemmeno così eccezionale, almeno per voi), avete scelto il secondo. Per non rinunciare a quei corpi martoriati, avete preferito rinunciare alla presenza di chi è in fondo a voi davvero vicin*, e così spesso al fianco in molte occasioni di lotta.

Da parte mia vi auguro la migliore delle feste della liberazione, però non riesco a non domandarvi: chi è davvero l’estremista tra di noi?
Buon 25 aprile.

La debolezza dell’antispecismo debole


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Leggevo questo post ed avrei un bel po’ di obiezioni. Secondo Caffo, sarebbe possibile slegare l’antispecismo da tante altre tematiche. Io, invece, credo proprio non sia possibile.

Non è vero che i maiali non fanno la rivoluzione. Gli animali fanno politica eccome. Innanzitutto perché anche gli umani sono animali, e l’antispecismo, mi risulta, è teso all’abbattimento del dominio e della discriminazione basati sulla specie e la categoria sociale di specie; un primo piccolo passo in questa direzione sarebbe riconoscere la nostra stessa animalità, seppur soffocata, taciuta e/o addomesticata, nonché appiattita in un concetto di umano che pretende di omogeneizzare individualità tra loro differenti come il giorno e la notte e spesso materialmente confliggenti.

Anche gli animali ‘non umani’, poi, sono ben lungi dall’essere apolitici. Le reazioni di lotta o fuga messe in atto dagli animali oppressi, appaiono ben consapevoli e volontarie: essi subiscono gli effetti di condizioni materiali ben precise e chiunque riconosca loro la capacità di soffrire, dovrebbe riconoscer loro anche la capacità di voler smettere di soffrire, e dunque sottrarsi in primis alle relazioni sociali di dominio.   Il finto eroismo pietista di coloro che, accecati dalla retorica del salvataggio, non si rendono conto di attribuire ai non umani teorie e pratiche proprie (come invece imputano alle antispeciste ed agli antispecisti non deboli) di fatto nega agli animali oppressi qualsiasi possibilità di autodeterminazione, col risultato che, se anche magicamente parlassimo tutti la stessa lingua, questi verrebbero comunque sovradeterminati.

Trattasi dunque non di una nuova teoria, per un nuovo mondo bensì della stessa vecchia teoria, per lo stesso, identico, orrendo mondo di sempre. E’ vero, il soggetto politico principale dell’antispecismo finora è stato chi, apparentemente, è l’unica vittima dello specismo: i non umani. Termine che, fra le altre cose, schiaccia una quantità infinita di esseri viventi in un appiattimento semantico che andrebbe  quantomeno discusso e problematizzato, e che omogeneizza anche  l’altro termine, umani, che tutto è fuorché omogeneo. E francamente, no: non tutti gli umani hanno le stesse responsabilità nel perpetuarsi dell’ideologia e dello sterminio specista. Tuttavia, alla luce del fatto che razzismi, sessismi, fascismi e molteplici -ismi per autogiustificarsi fanno abbondante uso di deumanizzazione e generalizzazione nei confronti dei soggetti che opprimono, creando tipologie standard di individui da marginalizzare ed opprimere, chiunque si definisca antispecista, e per la precisione antispecista politico – poiché ogni rivendicazione è una rivendicazione politica – dovrebbe prendere in considerazione all’interno della propria analisi anche questioni che esulano dall’idolatria di agnellini, tenuti in braccio da qualche randomico forzutissimo attivista in passamontagna; senza liquidare chi si oppone al dominio del sistema come una persona che ripropone quelle che verrebbero da taluni considerate come squallide categorie antropocentriche, oramai superate. Nelle occasioni pubbliche di cortei, dibattiti e quant’altro, coloro che lottano per la liberazione della propria e altrui animalità non possono tollerare la presenza di alcuni personaggi che includono la liberazione animale nel proprio oppressivo percorso militante, assumendo il ruolo paternalistico del salvatore che toglie la parola (o il verso) e l’espressione autonoma autodeterminata alle categorie di soggetti che esulano da un tipo – umano – ben  riconoscibile.

L’antispecismo debole presenta perciò il reale rischio di diventare la versione animalista del più famoso e tremendamente qualunquista non esistono più destra e sinistra, appiattendo la questione antispecista sull’asse morale; il nemico diventa un generico male da combattere – e coloro che non hanno voglia di appiccicare i propri vaneggiamenti iperpragmatici ai più deboli in assoluto sono additat* come qualcun* che litiga per cazzate. Per certe logiche, dovrei quasi scusarmi se oso dubitare dell’aspetto qualitativo della “liberazione” di chi ha dominato, domina e continua a dominare altri, e perché? Perché qualcuno ha stabilito aprioristicamente  che la sacralizzazione dei non umani travestita da liberazione animale è un bene che va adeguatamente difeso dagli inenarrabili danni di presunte “beghe umane”.

Mi rifiuto di considerare valido un assunto di questo tipo. Sono femminista – e non solo;  nella mia esperienza,  dal basso delle mille oppressioni che subisco quotidianamente, assai spesso chi si fa vanto di agire per la protezione di chicchessia è proprio il primo ostacolo nella strada verso la libertà. Basti pensare alle leggi securitarie che vengono proposte e/o realizzate per salvare le donne, alla voce in capitolo mai data alle/ai sex workers in merito alla loro stessa occupazione, al neocolonialismo espresso ultimamente dalle Femen e, non ultima, l’evidente maniera in cui la santificazione della donna,  ben lungi dall’essere antisessismo, in realtà alimenta la sempiterna dicotomia santa/puttana, caposaldo dell’ideologia patriarcale;  probabilmente potrei citare migliaia di altri esempi. Inoltre, gli stessi non umani non fanno esperienza unicamente dello specismo. L’assoggettamento delle femmine non umane dovrebbe essere ampiamente incluso nella critica femminista a questa società come anche  il trattamento riservato alle animalità froce, eliminate ed invisibilizzate perché del tutto non funzionali alla necessità di profitto, dunque di forze di ri/produzione,  dell’eterocisnormatività capitalista. Per dire.

Continueremo noi ad essere coloro che vengono accusat* di spaccare il movimento, nonostante la quantità disarmante di merda sessista, razzista, omotransfobica precluda a tant* l’entrata nella comunità antispecista e lo spacchi di fatto ogni giorno? Salvare gli animali non umani sarà l’obiettivo unico di animali umani privilegiati e ciechi di fronte alle oppressioni che gravano su molti loro simili, e schiacceranno allo stesso modo le istanze di tutti gli altri animali, considerate inesistenti o definite a priori senza entrare nel merito di un reale sforzo di comprensione di un mondo animale vasto e al momento, largamente incompreso? Alla luce di quanto ipotizzato, quello che più temo è che questi siano concetti del tutto incomprensibili a chi pare godere del privilegio maggiore: il lusso della monotematicità, quello di potersi occupare di una lotta soltanto.

 

La mentalità della carne

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LA MENTALITA’ DELLA CARNE

(Traduzione dell’articolo MENTALITY OF MEAT di Melanie Joy a cura di feminoska – revisione di Panta Fika e H20, grazie!!!) 

“Non ci penso [agli animali allevati per la propria carne come individui]. Non riuscirei a fare il mio lavoro, se instaurassi un rapporto così personale con loro. Quando dici “individui”, vuoi dire come una persona unica, come qualcosa con il suo nome e le proprie caratteristiche, le proprie caratteristiche uniche? Sì? Sì, preferirei non saperlo. Sono sicuro che li hanno, ma preferisco non saperlo.”
– 31 anni, macellaio e mangiatore di carne

“Io non mangio agnello perchè … Ti fa sentire in colpa. Sembrano, come dire… sono così dolci. E’ proprio un peccato che vengano uccisi e che noi ce li mangiamo. Si beh, anche le mucche sono dolci, ma loro le mangiamo. Non so come dire …. la carne di mucca la mangiano tutti. Costa poco, le mucche sono tante, ma gli agnelli… sono semplicemente un’altra cosa. Non ti metti a coccolare una mucca. Sembra quasi che mangiare una mucca vada bene, ma un agnello no … che strana differenza, no?”
– 43 anni, mangiatore di carne

Dichiarazioni come quelle di cui sopra incarnano i tipi di commenti fatti dai mangiatori di carne in grado di disorientare i vegetariani. Ed è veramente sconcertante: un macellaio non sarebbe in grado di portare avanti il proprio lavoro se davvero pensasse a quello che sta facendo, e un maschio adulto razionale è affettuoso verso una specie, ma ne mangia un’altra e non ha alcuna idea del perché. Prima di essere invitati a riflettere sui propri comportamenti, nessuno dei due pensava ci fosse nulla di strano nel modo in cui si relazionano agli animali che diventano il loro cibo, e dopo tale riflessione quella consapevolezza si è dissolta in poche ore. Così il macellaio continua a tenere a bada la spiacevole realtà del proprio lavoro e a ‘lavorare’ gli animali, mentre il mangiatore di carne ignora il proprio paradosso mentale e continua a mangiarne. Non c’è da meravigliarsi che i vegetariani trovino la mentalità della carne incoerente.

Eppure, per molti vegetariani, ciò che è più sconcertante non è la tendenza dei mangiatori di carne ad evitare di riflettere sulle proprie scelte alimentari, ma le variegate motivazioni che danno per spiegare perché sia “impossibile” smettere di mangiare carne: dopo aver appreso i numerosi benefici nutrizionali di una dieta a base vegetale, il mangiatore di carne salutista afferma di non voler rischiare una carenza di proteine. Dopo aver letto le statistiche del danno ambientale operato dall’allevamento intensivo, il mangiatore di carne alla guida di un’auto ibrida afferma di essere oberato da altre questioni sociali, e di non mangiare molta carne “rossa” in ogni caso. Dopo aver appreso che innumerevoli negozi di alimentari e ristoranti offrono abbondanti opzioni vegetariane, e che esiste una immensa varietà di libri di cucina e starter kit vegetariani, che offrono le linee guida per la transizione a una dieta vegetale, il mangiatore di carne intellettuale dice che smettere di mangiare carne sarebbe troppo complicato. Dopo aver sentito parlare della sofferenza degli animali da allevamento, il mangiatore di carne sensibile esprime la propria sentita comprensione, per finire poi al Burger King drive più tardi lo stesso giorno, perché non riesce a rompere con l’abitudine di mangiare animali. E dopo aver mangiato un altro delizioso pasto a base di seitan che, sostiene, “è tanto simile alla carne da non coglierne la differenza”, il mangiatore di carne afferma che “non potrà mai” diventare vegetariano, perché la carne gli piace troppo. Le stesse persone che trovano impossibile smettere di mangiare carne hanno magari cresciuto una famiglia senza alcun aiuto, sono sopravvissute a una malattia mortale, hanno studiato tutta la vita, si sono misurate con un trauma importante, hanno vinto un premio Nobel o raggiunto un notevole numero di successi, che sicuramente richiedono più sforzo e sacrificio rispetto al diventare vegetariani.

Comprensibilmente, i messaggi contraddittori inviati dai mangiatori di carne causano ai vegetariani esasperazione e frustrazione. Ma piuttosto che mettere in discussione la mentalità di un mangiatore di carne, cosa che porterebbe ad una maggiore comprensione, i vegetariani spesso mettono in discussione il carattere stesso del mangiatore di carne, che porta ad ulteriore tensione e confusione – nel migliore dei casi il mangiatore di carne è visto come una persona egoista e pigra, che mette la propria comodità e convenienza al di sopra delle vite degli altri animali e alla salvaguardia del pianeta. Ma anche se è comprensibile che i vegetariani arrivino a trarre tali conclusioni, queste presupposizioni sono senza dubbio illogiche come quelle poste dai mangiatori di carne. Molti mangiatori di carne sono anche padri, madri e amici affettuosi. Sono persone impavide che si dedicano a missioni di salvataggio, insegnanti devoti al proprio lavoro, attivisti appassionati, instancabili leader di comunità, filantropi di buon cuore, compassionevoli volontari animali, partner leali e grandi umanitari.

La mentalità della carne è tale da permettere a persone razionali e compassionevoli di indulgere in comportamenti irrazionali e crudeli, senza nemmeno rendersi conto di quello che stanno facendo. Quindi, i vegetariani farebbero bene a concentrarsi sulla mentalità dei mangiatori di carne, piuttosto che sulla loro morale, e cominciare perciò le conversazioni con curiosità piuttosto che risentimento. Approcciarsi al mangiare carne con curiosità può portare i vegetariani a porre domande che li aiuteranno più efficacemente a entrare in relazione con i mangiatori di carne: come possono individui compassionevoli portare alla bocca le parti del corpo di esseri morti e trovare l’esperienza piacevole, piuttosto che ripugnante? Come può una nazione di consumatori critici, capaci di rimuginare sulla marca dei jeans da acquistare, vivere le proprie scelte alimentari in modo così acritico – scelte che guidano un settore che uccide 10 miliardi di animali l’anno? Come fanno le persone a non vedere le contraddizioni che stanno proprio di fronte a loro? I vegetariani – e anche molti mangiatori di carne – capiscono perché le persone non dovrebbero mangiare carne, ma poche persone comprendono perché lo fanno, ed è quest’ultimo punto che deve essere affrontato in modo da intrattenere conversazioni più produttive circa il consumo di carne.

IDEOLOGIA

Le risposte alle domande di cui sopra hanno senso solo attraverso le lenti dell’ideologia. L’ideologia è un sistema di credenze sociali che plasma ciò in cui le persone credono, sentimenti e comportamenti. Una ideologia dominante è il sistema di credenze di un gruppo sociale dominante – per esempio quello dei maschi, bianchi e/o economicamente avvantaggiati – ed è così socialmente radicata che la sua influenza è in gran parte invisibile. Le ideologie dominanti plasmano la nostra realtà, modellano la lente attraverso cui vediamo il mondo, promuovendo credenze, atteggiamenti, pratiche, leggi, valori e norme sociali come verità universali piuttosto che come un insieme di opinioni che riflettono e rafforzano gli interessi del gruppo al potere .
Le ideologie dominanti i cui dogmi (credenze e pratiche) sono in contrasto con i valori più profondi della maggior parte delle persone, devono impegnarsi attivamente per garantire la partecipazione della popolazione. Senza il sostegno popolare il sistema crollerebbe. Queste ideologie si basano su strategie specifiche, o difese, atte a nascondere le contraddizioni tra valori e comportamenti delle persone, consentendo pertanto alle persone di fare eccezioni a quello che sarebbe normalmente considerato etico. Queste ideologie esistono sia a livello sociale che individuale; le loro difese funzionano sia esteriormente (definendo istituzioni sociali e norme) che interiormente (plasmando la nostra mentalità). Le difese esteriori mantengono una struttura sociale che costringe le persone a conformarsi alla norma, premiando coloro che lo fanno (per esempio, facendoci sentire socialmente accettati) e punendo coloro che deviano (ad esempio, facendoci sentire inadeguati e ostracizzati). Le difese interiori perpetuano la mentalità che sostiene le norme sociali, e queste difese si attivano in qualsiasi momento vengano presentate informazioni che minacciano l’ideologia. Le difese interiori non sono risposte logiche: sono reazioni automatiche che bloccano o distorcono le informazioni in grado di smascherare l’ideologia.

La difesa primaria di una ideologia dominante “non etica” è l’invisibilità, e il modo principale per tale ideologia di rimanere invisibile è restare senza nome. Se non la nominiamo, non la vedremo, e se non la vediamo, non possiamo parlarne. L’invisibilità protegge l’ideologia dalla verifica e, quindi, dall’essere messa in discussione. Questa è la ragione per la quale, almeno inizialmente, solo le ideologie non dominanti sono nominate; per esempio, mentre da lungo tempo esiste un nome per l’ideologia di coloro che non mangiano carne, il vegetarianismo, l’ideologia dominante del mangiare carne non è stata nominata fino a tempi recenti.

CARNISMO

Carnismo è il nome che ho dato all’ideologia secondo la quale è considerato etico e opportuno mangiare certi animali. Dal momento che mangiare carne non è necessario per la sopravvivenza, è una scelta, e le scelte derivano sempre dalle convinzioni. I mangiatori di carne non sono carnivori, che sono animali che hanno bisogno di carne per sopravvivere. Né sono semplicemente degli onnivori che, come i vegetariani, sono animali che sono in grado di sopravvivere consumando sia la materia vegetale e animale. “Carnivoro” e “onnivoro” riflettono nulla più che una predisposizione biologica. Per gli esseri umani, mangiare carne non è una necessità biologica, ma una scelta filosofica basata su una serie di idee sugli animali, il mondo e se stessi. [1]
Non assegnando un nome al sistema che è il carnismo, il mangiare carne è visto più come un dato di fatto che come una scelta, e i presupposti che guidano il consumo di carne rimangono inesaminati. Questa mancanza di consapevolezza è alla base del motivo per cui la gente mangia i maiali ma non i cani senza avere la minima idea del perché.

Il carnismo è un sistema che si organizza intorno ad una massiccia ed inutile sofferenza animale. Poiché la maggior parte delle persone non vuole provocare sofferenza agli (altri, mia aggiunta, n.d.t.) animali, e tanto meno vuole essere consapevole di aver partecipato a tali sofferenze, il sistema deve impedire loro di fare le giuste connessioni, psicologicamente ed emotivamente. Il sistema carnistico è improntato allo scopo di ostacolare la consapevolezza, per bloccare l’empatia e la sua emozione gemella, il disgusto. Quando una persona si siede per mangiare un hamburger, per esempio, non è consapevole, o non pensa, all’animale vivente che sta mangiando. Essa, pertanto, non prova empatia per la sofferenza dell’essere che è diventato il suo cibo, e trova la carne appetitosa piuttosto che rivoltante. Ma questo stesso commensale (americano, o occidentale n.d.t.) non ha subito anni di condizionamento carnistico quando si tratta di mangiare cani. Se si trovasse a mangiare un hamburger identico, ma fatto di carne di cane piuttosto che manzo, sarebbe consapevole dell’animale da cui la carne è stata procurata e probabilmente sarebbe troppo disgustato per mangiarlo.
Il carnismo permette alle persone di mangiare la carne di un gruppo selezionato di animali, attraverso l’impiego di una serie di difese specifiche che operano a livello sia collettivo sia individuale. Queste difese includono, ma non si limitano a, negazione (“Gli animali allevati per la carne in realtà non soffrono così tanto”), evitamento (“Non me lo dire, mi rovini il pasto”), dicotomizzazione (“I cani sono amabili, i maiali appetitosi”), dissociazione (“Se pensassi all’animale che è diventato la mia carne, sarei troppo disgustato per mangiarla “) e giustificazione (“Mangiare certi animali va bene, perché sono allevati a tale scopo”). Le difese carnistiche sono intensive, estensive e si intrecciano nel tessuto stesso della nostra società e delle nostre menti.

RELAZIONARSI AI CARNISTI

Gran parte della confusione e tensione tra i vegetariani e mangiatori di carne, o carnisti, esiste perché nessuno dei due gruppi riconosce la mentalità carnistica o la tremenda pressione per mantenere lo status quo carnistico. I vegetariani devono comprendere che i carnisti sono intrappolati in un sistema invisibile, impegnato attivamente per costringerli ad agire contro i propri interessi (coerenza psicologica e autenticità emotiva) e gli interessi di altri. I vegetariani devono anche rendersi conto che chiedere a un carnista di smettere di mangiare carne significa chiedere molto di più di un cambiamento nel comportamento. Si sta chiedendo un cambiamento fondamentale nell’identità, un cambiamento di paradigma profondo e gli/le si sta chiedendo di resistere a difese psicologiche profondamente radicate. Non importa quanto facile possa essere stato per qualcuno smettere di mangiare carne; per la maggior parte delle persone, questo tipo di cambiamento avviene solo nel corso del tempo, quando si sentono psicologicamente ed emotivamente abbastanza sicure da iniziare a mettere in discussione alcuni dei propri presupposti esistenziali. In Strategic Actions for Animals, descrivo modalità specifice per comunicare e sostenere i propri principi di fronte ai carnisti, in modo tale da aumentare la probabilità che l’interazione si dimostri reciprocamente positiva e che il messaggio venga ricevuto. Seguono alcuni punti utili:

• SII L’ESEMPIO DELLE QUALITÀ CHE STAI CHIEDENDO: mostra curiosità, compassione, empatia, rispetto e la volontà di ascoltare veramente e di riflettere. Più sei sulla difensiva, più farai scattare le difese nel tuo interlocutore.
• RELAZIONATI AI CARNISTI COME PERSONE, PIUTTOSTO CHE MANGIATORI DI CARNE: anche se non rispetti affatto la loro scelta di mangiare animali, è essenziale rispettare i carnisti in quanto animali umani (differentemente dall’autrice preferirei usare il termine esseri viventi, ma ho mantenuto umani aggiungendovi però ‘animali’ n.d.t.).
• ANALOGAMENTE, RICORDA CHE I CARNISTI SONO INDIVIDUI, molti dei quali hanno più cose in comune con te di quanto non ne abbiano tra loro. Non renderli un gruppo uniforme e non proiettare stereotipi su di loro.
• CONCENTRATI DI PIÙ SUL PROCESSO (la dinamica, o il “come”) che sul contenuto (il soggetto, o il “cosa”) di una conversazione. Invece di avere come obiettivo quello di influenzare il punto di vista di un’altra persona, sforzati di avere un dialogo reciprocamente rispettoso e illuminante. Non importa quanto fortemente desideri promuovere il vegetarianismo, più ti sforzi di “convertire” l’interlocutore, meno probabile è che tu riesca a raggiungere quello scopo.
• RICONOSCI CHE I FATTI NON VENDONO L’IDEOLOGIA. L’unico motivo per cui una persona sceglie di mangiare un hamburger piuttosto che un hamburger vegetariano identico, è a causa di ciò che la carne rappresenta, piuttosto che di quello che effettivamente è. Sapere questo ti aiuterà a sentirti meno frustrato con i carnisti resistenti.
• NON LASCIARE CHE I CARNISTI SULLA DIFENSIVA TI MANCHINO DI RISPETTO. Alcuni carnisti attaccano i vegetariani per difendere il proprio mangiar carne. Non si dovrebbe mai lasciare che altre persone ti giudichino estremista, ipocrita, schizzinoso, ipersensibile, ecc.
• CREA UN AMBIENTE ‘EMPOWERING’’. L’empowerment è la sensazione di essere connessi al proprio potere personale, e le persone che sentono tale connessione sono molto più portate a realizzare cambiamenti positivi. L’opposto dell’empowerment è la vergogna, e la vergogna nasce dal sentirsi giudicati. Per favorire quel senso di padronanza delle proprie potenzialità negli altri, trattali come se fossero fondamentalmente degni – parla col cuore, con l’obiettivo di condividere quella che senti come la tua verità e distaccarti dall’esito del dialogo.

Comprendere la mentalità carnistica può essere enormemente liberatorio per entrambi, carnisti e vegetariani. Rendendo visibile l’invisibile, facciamo un passo fuori dal sistema carnistico e possiamo scegliere in che ruolo parteciparvi. I carnisti possono scegliere di esaminare più a fondo il loro mangiare carne, i vegetariani possono scegliere di esaminare più a fondo il proprio rapporto con carnisti. Ed entrambi i gruppi possono meglio coltivare le qualità che, in ultima analisi, trasformano il sistema: consapevolezza, empatia e compassione.
[1] Questa affermazione non si riferisce a coloro che sono geograficamente o economicamente impossibilitati a scegliere se mangiare o meno la carne.

MELANIE JOY, Ph.D., Ed.M. è professore di psicologia e sociologia presso la UMass-Boston. È l’autrice di “Strategic actions for animals” e del libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche: Introduzione al Carnismo.”

Per approfondimenti, leggi l’intervista a Melanie Joy, pubblicata su Asinus Novus.

 

 

Cambiano i governi, cambia solo la facciata! [presidio contro gli sgomberi delle occupazioni in atto a Napoli]

Della campagna “Magnammece o Pesone” avevamo già parlato qui. Nell’ultimo periodo però, tutte le occupazioni – soprattutto a scopo abitativo, ma non solo – sono state oggetto di sgomberi o tentativi di sgombero. L’ultimo caso è quello del centro sociale “Banca Rotta”, che da anni denuncia il degrado dell’area di Bagnoli e che, nell’azione di maxi sequestro da parte della magistratura dell’area Italsider, è stato esso stesso messo sotto sequestro. Per questi motivi mercoledì 24 aprile, alle ore 17.30, davanti a Palazzo San Giacomo, Napoli, ci sarà un presidio contro le operazioni di sgombero. Ai/alle compagn@ napoletan@ va la nostra solidarietà e intanto ne condividiamo il comunicato:

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Cambiano i governi, cambia solo la facciata! [presidio contro gli sgomberi delle occupazioni in atto a Napoli]

“La burocrazia e’ l’arte di rendere impossibile il possibile”.
(Javier Pascual)

Appello a tutta la popolazione napoletana ad intervenire al Presidio sotto Palazzo San Giacomo contro la decisione della prefettura e del comune di sgomberare le occupazioni in atto a Napoli, ed in particolar modo quelle a scopo abitativo. In questo momento di profonda crisi politica e di miseria economica, anche a Napoli è partita una campagna di occupazioni delle abitazioni lasciate abbandonate a marcire oppure in svendita dal Comune a privati, per batter cassa dopo anni di sprechi. Queste occupazioni mirano esplicitamente alla riconquista di quegli spazi e quella parte di reddito sottratti ormai alle popolazioni dopo vent’anni di immobilismo politico e di inciuci di palazzo.

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Agli/lle organizzatori/trici del concerto del 1° maggio

 Su Fabri Fibra si è già detto abbastanza e di cavolate ne sono state sparate tante, si è urlato alla censura quando non ve ne era, e si è additato un femminismo italiano che non esiste dato che in Italia ci sono tanti femminismi. E’ da queste “piccole cose” che si nota l’inconsistenza di alcune notizie. Ma andiamo oltre. In questi giorni, tra i vari botta e risposta, ho notato che si è perso di vista un punto fondamentale della questione, ovvero la scelta degli/lle organizzatori/trici del concerto del primo maggio.

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Alla maniera sarda

moju manuli
Opera della street artist sarda Moju Manuli

All’interno del nuovo numero di A. Rivista anarchica compare una interessante intervista realizzata da Laura Gargiulo a Su Colletivu S’Ata Areste (“La gatta selvatica”), collettivo femminista e lesbico posizionato nel centro della Sardegna: A Sa SardA: “Alla maniera sarda”. Vita in comune, ecosostenibilità e legame con il territorio: la storia di un piccolo collettivo dell’entroterra sardo.

Qui potete leggere un estratto. Vi consiglio di sfogliare la rivista che trovate online per leggere l’intervista completa: Laura, attraverso le sue domande, ricostruisce  il percorso di questo collettivo che, a partire dall’esperienza migrante, ha sviluppato un progetto di lotta politica femminista con una ottica che unisce antisessismo e anticolonialismo.

Segnaliamo inoltre la nascita del progetto Arkivi@:

Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi, saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti, adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo, anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello internazionale…
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci qua: mojumanuli@autoproduzioni.net

Buona lettura!

Avete scritto un documento dal titolo “Dalla Sardegna un’alternativa lesbica e femminista” in cui parlate del vostro progetto: potete spiegarci come nasce e con quali obiettivi?
«Il progetto è partito dall’esigenza, come emigrate, di rientrare in Sardegna, si è legato a tanti discorsi a noi cari e mano a mano ha preso forma, evolvendosi. Abbiamo messo insieme l’idea di vivere in una piccola comunità tra lesbiche e persone che avessero voglia di lavorare a un sistema sostenibile, di solidarietà, scambio e rispetto. Siamo partite da presupposti anticolonialisti, antisessisti, antifascisti, antirazzisti, da un’idea di socialità differente, da un’idea di società diversa da quella eterosessista e patriarcale in cui viviamo, abbiamo pensato a forme di gestione orizzontale.
Inizialmente eravamo un gruppetto più numeroso, poi per una serie di cause siamo partite in tre, circa due anni fa. Abbiamo scritto la lettera/documento perché ci siamo rese conto che parlarne non bastava o non soddisfava né noi né le persone con cui avevamo un confronto.
Come abbiamo scritto, il progetto è rivolto a lesbiche, compagne/i, altre persone sarde emigrate, artiste/i, ecosardi… Abbiamo sempre cercato di parlare della cosa persona per persona, scambiando a piccoli passi».
Nel documento parlate di una prospettiva anticolonialista: ci potete spiegare cosa intendete e perché è per voi punto di partenza?
«Quando parliamo di prospettiva anticolonialista ricollochiamo il discorso sardo in un contesto più ampio, internazionale, ma ne analizziamo e riconosciamo la specificità.
Contestualizzando quindi il nostro progetto nella realtà isolana non possiamo prescindere da quelli che sono i problemi della Sardegna, non avrebbe senso teorizzare in maniera astratta senza riconoscere le caratteristiche, anche negative, della realtà in cui viviamo. Parliamo di colonizzazione (l’ultima da parte dello stato italiano) e di resistenza, della deculturazione forzata che abbiamo subito, della conseguente folklorizzazione della cultura, della perdita dell’autostima come popolo e come individue/i, del tentativo di estirpazione e cancellazione della nostra lingua, delle nostre identità, della mancanza di riconoscimento di percorsi politici anche da parte di compagne/i “continentali” e di altri parti del mondo, dell’alcolismo, dei suicidi, della costruzione di fabbriche come cattedrali nel deserto e dell’avvelenamento della terra, della militarizzazione a tappeto del territorio (sulla nostra isola è presente più del 60 per cento del territorio militarizzato appartenente allo stato italiano, siamo soffocati da caserme, carceri, radar, è un avamposto nel Mediterraneo, un territorio in prestito per il collaudo e la sperimentazione di nuove armi e proiettili a livello internazionale e per le esercitazioni di guerra)…e potremmo continuare…
Nel momento in cui cerchiamo di costruire qualcosa di concreto, di positivo, di “altro” non possiamo non tenere in conto tutto questo, dobbiamo riconoscere il problema se vogliamo cercare di risolverlo, ed è importante trovarsi con chi si muove in questo senso sul territorio per modificare lo stato di cose esistente».
Continua qui

Deconstructing la censura

voltaire La polemica su Fabri Fibra escluso dal concerto del I° Maggio la conoscete già senz’altro. Prima di commentare questo articolo che riassume un punto di vista molto condiviso, sarà necessaria qualche premessa.

Uno. La censura, dice il vocabolario (significato 2) e qualche libro di storia, è esercitata dall’autorità pubblica, ed è atta a impedire o la diffusione di un particolare prodotto dell’espressione (un libro, un film, etc.) o tutto ciò che è riferibile a una persona, oggetto di censura. Basta questo a far capire che Fabri Fibra non è stato oggetto di censura, e che quella degli organizzatori del concertone non è una forma di censura: la festa è la loro e decidono chi invitare, punto. Non è che se non t’invito al mio compleanno ti sto censurando – mi stai antipatico per quello che fai e/o per quello che dici, è la mia opinione, è la mia festa, tu non ci vieni. Ciao. Fabri Fibra – forse i difensori del libero pensiero a tutti i costi non se ne sono accorti – non ha annullato nessuna sua data, né sono stati ritirati i suoi dischi dal commercio. E’ libero di esprimersi come e più di prima, beandosi anche di tanta pubblicità gratuita. Non è stato affatto censurato.

Due. Per l’ennesima volta: Voltaire non ha mai detto «disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo», né «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Sono due bufale – nonché due scemenze. Infatti fascisti e razzisti in genere non vanno difesi, perché difendere la libertà delle loro opinioni significa – la storia lo insegna – sancire la fine delle proprie, dato che, come s’è visto innumerevoli volte, l’opinione dei fascisti e dei razzisti in genere è: “vale solo la mia opinione”. Non a caso Voltaire, che di opinioni, pensieri e storia ne sapeva, due stronzate del genere s’è ben guardato dal dirle.

Tre. Il SEO (Search Engine Optimization) è un’attività richiesta a tutti I blogger del mondo da parte dei loro editori, e consiste nel rendere i propri testi accattivanti per i vari automatismi che rendono la pagina web molto cliccata e molto citata in più link possibile, nel web. Uno dei metodi più noti e facili di SEO è fare titoli e testi pieni di parole “calde”: che ne so, per esempio, Fabri Fibra, donne, pericolo.

Quattro. Il linguaggio sessista non è un’opinione: esiste, c’è una definizione, è un problema noto da decenni. Se uno lo adopera è perché lo vuole adoperare, oppure perché non gli interessa non adoperarlo. Quindi non è che “qualcuno pensa” che il linguaggio di Fabri Fibra sia sessista – lo è, non c’è dubbio su questo. Quindi che a qualcuno non piaccia è molto meno soprendente del fatto che a qualcuno non piaccia che quel linguaggio non piaccia. Se è un artista, come dicono in tanti, allora potrebbe usare tanti altri linguaggi espressivi; invece usa quello. E’ certamente libero di usarlo nei suoi dischi e nei suoi concerti, nessuno lo ha censurato – come io sono libero di rifiutarlo non ascoltandolo più di una volta, e come chi organizza un concerto è libero di non volerlo invitare.

Cominciamo.

Fabri Fibra è censurato. Ma sono “queste” donne il vero pericolo [ecco, appunto. Un bel titolo acchiappa click e di grande profondità – vabbè, lo ammetto, sono prevenuto. Magari è stato il titolista a esagerare.]

Se il femminismo italiano avesse ancora qualcosa di libertario [Però! Cominciamo bene: il femminismo italiano, a detta dell’autrice, non ha nulla di libertario. Libertario, dice sempre il sig.Treccani è sinonimo di anarchico; e certamente non tutto il femminismo italiano lo è stato, né lo è ancora. E’, come tutti i femminismi in tutti i paesi, pieno di sfaccettature, differenze, varianti, e non tutte queste diverse espressioni del femminismo prevedono libertà totale sempre e ovunque (posto che politicamente tutta ‘sta libertà abbia un senso)]; se vivesse nelle strade, dove le donne si scontrano con i problemi reali [quindi, dice sempre l’autrice, il femminismo italiano non vive nelle strade, con buona pace di tutta la miriade di realtà femministe che, per esempio, conosco io – ma io non faccio testo, si sa, io c’ho un problema], e non nei salotti avvezzi alle elucubrazioni ideologiche di una falange armata di corporativismo [salotti che esistono senz’altro, ma che certo non sono il femminismo italiano, che come tale non esiste, essendo composto, come detto da parecchie correnti anche di vedute inconciliabili tra loro]; se ancora ci fosse l’anelito della lotta [no no, che anelito: le femministe che conosco io per strada ci vanno e la lotta la fanno sul serio, giuro, ci sono pure io qualche volta, pensa un po’] e non la ricerca della rendita [no guarda, se del femminismo si campasse avremmo svoltato. T’assicuro che i salotti che dici tu i soldi li prendono altrove, non dal femminismo], allora sì che si leverebbero le proteste vere [guarda che ci sono le proteste vere , informati], in istrada e sui giornali, con un unico obiettivo: difendere il sacrosanto diritto di espressione di un cantautore [come detto sopra, quel diritto non l’ha toccato nessuno, tantomeno le femministe. Le femministe hanno, come tutti, il diritto di sollecitare chi organizza manifestazioni a non invitare chi non gli sta bene, il quale può continuare a esprimersi come gli pare – e infatti lo fa. Qui non è stato calpestato alcun diritto d’espressione, basterebbe informarsi per capirlo. Ma informarsi, mi sa, non fa SEO].

Fabri Fibra è oggetto di una clamorosa censura [NO, NON E’ VERO, e sopra ho scritto il perché] ad opera di quanti, dagli organizzatori in giù, si sono lasciati condizionare [non si sono lasciati condizionare, non sono deficienti – hanno tenuto conto delle proprie priorità, che a casa loro decidono loro, pure se non ti stanno bene] dalle proteste di una associazione intitolata “Donne in rete contro la violenza”. I testi del rapper marchigiano sarebbero troppo violenti, di questi tempi si potrebbe dire “un incitamento all’odio femminicida”. Del resto i reati di opinione, forieri di censura, [nessuno ha contestato un reato a Fabri Fibra, altrimenti altro che primo maggio. E, ripeto, non c’è stata alcuna censura. Ma sì, alziamo la voce, dàje!] si fregiano degli orpelli più tecnicamente efferati. Ormai, se uccidi una donna, il reato è “femminicidio” [non è ormai, è un bel po’ eh], come fosse qualcosa di distinto [lo è; la legge ne prevede un sacco di assassinii distinti da espressioni diverse, servono a comminare una giusta pena e a inquadrare meglio le eventuali aggravanti o attenuanti], e forse di più grave, rispetto all’”omicidio” di un uomo [questa è l’opinione tua e di un sacco di maschilisti negazionisti che, nell’ipocrisia di un linguaggio paritario mal compreso e mal usato, prendono le distinzioni necessarie come ghettizzazioni. Immagino che tu preferisca leggere di centinaia di raptus all’anno; complimenti]. Nella distinzione lessicale si ravvisa una china culturale ormai allarmante [su questo sono d’accordissimo, per questo mi batto per usare le parole utili e per usarle quando serve: per esempio, con questa faccenda la parola “censura” non c’entra un bel niente].

Così, se D.i.re inscena la protesta (le avete viste, vero, a centinaia in istrada…) [ah ah ah, che spiritosona – qui c’è un’utile lettura sull’umorismo di D.i.re], la Cgil si inchina alla volontà femminea [ma quando mai? E ancora complimenti per il linguaggio, eh] e vieta ad un cantante già invitato di esibirsi in un concerto pubblico [il concerto non è pubblico, non lo organizza lo Stato, non confondiamo pubblico con gratuito, a proposito di linguaggio].

Non si sa se sia più offensivo ritenere che qualche verso acceso di una canzone possa plagiare gli uomini e indurli meccanicamente a bastonare le rispettive compagne [sarà pure offensivo, ma si chiama cultura anche quella veicolata da Fabri Fibra,e sì, ti devo dare questa notizia, è la cultura a rendere una persona consapevole, per esempio, che bastonare le rispettive compagne si può fare], o se piuttosto ad essere vilipesa non sia, ancora una volta, la dignità di quante non si sognerebbero mai di interdire al proprio figlio o al proprio fratello l’ascolto di una canzone del temerario Fabri Fibra [dignità che nessuno ha toccato, dato che Fabri Fibra continuerà a fare i suoi concerti tranquillo, a vendere i suoi dischi tranquillo, e verrà tranquillamente trasmesso da tutte le radio – quindi non c’è nessuna interdizione]. Che paura. Sì, queste donne fanno paura [verissimo – ma mi sa che non c’intendiamo sul chi sono “queste”].

Per la cronaca, ecco cosa dice il diretto interessato su facebook, con i miei commenti:

Concertone del Primo Maggio in Piazza San Giovanni: nemmeno quest’anno sarò su quel palco. Mi sembrava strano. In effetti, l’invito entusiasta da parte di Marco Godano mi aveva sorpreso, era una bella novità. Invece poi non sono gli organizzatori che decidono chi suona in piazza [ah no? E chi? Non lo dice, anche Fabri Fibra ha paura della volontà femminea?]. Nei miei testi forse non tutti ci leggono l’impegno politico o sociale necessario per eventi del genere [aspetta, fammi ricordare qualche verso: “ho 28 anni ragazze contattatemi scopatemi / e se resta un pò di tempo presentatevi / non conservatevi datela a tutti anche ai cani / se non me la dai io te la strappo come Pacciani”. Eh no, non ce lo vedo tutto st’impegno politico e sociale – sono proprio un bacchettone femminista maschiopentito zerbino.]. Nel 2013, per alcuni, il rap e i suoi meccanismi artistici sono ancora da interpretare e da capire fino in fondo [grazie per la considerazione – e non hai idea del sessismo, quant* siamo in pochi a capirlo!]. Qualcuno voleva che io suonassi e qualcuno no. Nonostante il tentativo, non si fa nulla. Il Primo Maggio è ancora soggetto a certi schemi che in altri circuiti live non ci sono o comunque non ci sono più [così ci piaci, vago e oscuro – a quando una bella predizione sull’Apocalisse?]. Penso in ogni caso che i concerti siano una bella occasione per i ragazzi di vivere esperienze musicali reali [è la definizione di concerto – vuoi vedere che invece Fabri Fibra il vocabolario lo legge?]. Ci vediamo comunque in tour quest’estate e quest’autunno [proprio le parole di uno censurato. Ah, grazie per averci ricordato il tuo costante impegno contro la violenza di genere].

Deconstructing le poesie?

Nuyorican

Capita anche di dover decostruire un commento a un altro testo – come la vogliamo chiamare? Decostruzione di secondo grado? Boh, fate voi – ma è bene sfruttare l’occasione per chiarire alcune questioni di fondo che non è giusto lasciare al pensiero privato. E’ bene che emergano.

Una premessa è necessaria. Se un artista fa un’opera per uno scopo preciso, storicamente determinato e identificabile, non sta facendo nulla di artistico. Fa solo comunicazione. “Guernica” – tanto per fare esempi noti – non rientra in questo caso: mi dice qualcosa prima di tutto sugli esseri umani, non sulla guerra, infatti quello che disse Picasso al tedesco fu: “questo l’avete fatto voi” – più o meno, vuole la leggenda. L’arte, da sempre, è così: se parla “di qualcosa”, si condanna a dire solo quello. L’importante è ciò che mostra, non ciò che dice.

Questa poesia ha un valore – ancora, a vent’anni di distanza – perché il “mettersi nei panni altrui” continua ad essere una cosa che i maschi eterosessuali in genere non fanno, perché politicamente non gli fa comodo; né tentano la loro immaginazione con questa fantastica possibilità. Tutto qui. Non si tratta di empatia: l’empatia, come dice il vocabolario e qualche secolo di storia dell’estetica, è la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui; il “mettersi nei panni degli altri” non significa comprendere lo stato d’animo, ma immaginare di avere il corpo dell’altro. E’ una cosa ben diversa – quella poesia prova a far capire questo.

In questo post di un altro blog si commenta in maniera – secondo me, eh – assurda la poesia di Carol Diehl. Per forza di cose dovrò intercalare i miei commenti a delle questioni di metodo – necessarie per comprendere meglio anche l’attività del deconstructing. Cominciamo.

Sue santità le vittimiste del terzo millennio [già nel titolo un simpaticissimo accostamento tra le vittimiste e “i fascisti del terzo millennio”, unite in una crasi che è tutto un programma critico]

Jinny mi scrive: “Oggi la pagina fb Gender Anarchy ha postato una poesia di Carol Diehl, pittrice e poeta americana. Si intitola: “For the Men Who Still Don’t Get It”, “Per gli uomini che ancora non ci arrivano”. Il testo è stato scritto vent’anni fa, quando non era diffusa internet – ma ultimamente sta circolando in rete in maniera “virale”, postato da giovani ragazze americane e del mondo anglofono. Vedrai che è incentrato sul rovesciamento di ruoli (con soluzioni a volte divertenti secondo me), ma ovviamente non come se questo fosse auspicabile, solo per rendere l’idea – credo – e far sì che gli uomini si immedesimino nei ruoli imposti alle donne dalla società. Però l’operazione è problematica secondo me, e sarebbe interessante da discutere. Infatti ha sollevato molte polemiche. Alcun* dicono che questo testo sia datato e superato. Ma perché sta avendo tanto successo tra le giovani? Da tenere presente, anche, che fa riferimento alla cultura americana. L’ho tradotto in italiano. Have a good day. Jinny”

[La lettera è molto interessante: il tono è quello di una richiesta critica, per niente polemica. Tiene anche conto, giustamente, che si lavora su una traduzione, che il testo ha molti anni, che si riferisce a un ambito culturale specifico. Ci sarebbe da fare un ottimo lavoro critico. Ma perché farlo, quando invece si può sparare a zero?]

Leggo la poesia e in effetti ci trovo molti anacronismi anch’io. [Bene; adesso andrebbe spiegato perché un anacronismo è una colpa. Non sempre è così. Ma non succederà, questa spiegazione non ci sarà] Se è vero che sovvertire le immagini può rendere evidenti stereotipi e sessismi: in questo caso, secondo me, la questione però proprio non funziona.

Commento la poesia, che trovate intera in basso, colpo su colpo [colpo su colpo? E da quando le poesie sparano? Manco Terragni oserebbe tanto] per capire assieme a voi cos’è che mi stona.

“E se / tutte le donne fossero più grandi e grosse di voi / e pensassero di essere più intelligenti”

Sul grandi e grosse, non so. Magari in termini fisici la fragilità di certe donne è ancora un fatto accertato, ma sul fatto che pensino di essere più intelligenti… se fate un giro per i tanti articoli al “femminile” che raccontano della meraviglia del cervello delle donne, della marcia in più, di come sappiamo fare bene tutto, incluso salvare il mondo, della necessità di mettere a capo di tutto una femmina che sicuramente saprà gestire meglio, del fatto che le donne abbiano neuroni da sprecare e invece gli uomini sono degli imbecilli, beh, allora se verifico certa supponenza, anche in contesti antisessisti in cui si parte dalle lotte per non discriminare le donne e si finisce per raccontare di un maschile pessimo e irrecuperabile, da rieducare all’umano e civilizzare, quasi che fossimo diventate colonizzatrici dell’umana specie, dico che questa frase loro posso capirla eccome. Però istigherebbe la loro rabbia e istigherebbe un minimo di misoginia. Non so se ci conviene divulgarla [è una poesia, non una ricerca di sociologia. Non deve affrontare la completezza dei discorsi di genere dati alla mano – è una poesia. Non ha senso paragonarla a tanti articoli al “femminile” perché non è un articolo. E’ una poesia. Non va giudicata per ciò che descrive, né interpretata alla lettera. E’ una poesia. Scritta in una certa epoca, in una certa lingua, in un dato contesto culturale. Metterci dentro salvare il mondo, una femmina che sicuramente saprà gestire meglio, gli uomini sono imbecilli, e così via, è una lettura piena di pregiudizi – e inutile. E’ una poesia: metterci quello che non dice è ingiusto e palesemente scorretto – è una poesia, non ha pretese di completezza. E poi: ci conviene? Stai parlando in rappresentanza di qualcuno? E di chi? E grazie a quale potere?].

“E se / le donne fossero quelle che fanno le guerre”

Le fanno, infatti. Dalle Segretarie di Stato che coccolano strategie guerrafondaie alle soldatesse e alle torturatrici di Abu Ghraib credo che le donne abbiano ampiamente dimostrato che la guerra non sta all’uomo come la pace non sta alla donna. Guerre e diserzioni riguardano ogni genere di persona, salvo il fatto che c’è chi dice oggi – paradosso nel paradosso – che accedere alla guerra, per soldatesse o soldati gay, sia un fatto di pari opportunità mentre prima tanti disertori di sesso maschile, di qualunque orientamento sessuale, si facevano la galera per non essere obbligati a indossare le divise. [Complimenti, abbiamo incastrato la poetessa inchiodandola al significato letterale delle parole – proprio quello che si richiede a una poesia: usare le parole per etichettare le cose, per descriverle precisamente. Il riferimento ad Abu Grahib poi è eccezionale – la poesia è di vent’anni fa, pre-web e pre tante altre cose, come cercava di dire la lettera, ma perché tenerne conto? Anche le donne sparano e ammazzano, ed è tipico del loro modo di vedere il mondo, da sempre, si sa – ‘sta poesia è proprio falsa. Notoriamente, le poesie possono essere false, no? Come i teoremi, come le prove indiziarie, come i giuramenti. Vabbè.]

“E se troppi dei vostri amici fossero stati violentati da donne con vibratori giganti / e senza lubrificante”

E qui bisogna capirsi [no, perché magari avevate pensato che le poesie non potessero essere metaforiche, allusive, provocatorie; qui bisogna capirsi, finora era tutto chiaro]. Lo stupro è stupro [e la guerra è guerra, l’arte è arte, la vita è vita, l’amore è amore, la maggica è la maggica]. Dopodiché loro possono rispondervi che ci sono altre forme di violenza che hanno subìto e che nessuno se li fila [loro chi? Boh, meglio lasciare sul vago. Infatti la poesia, com’è noto, serve a fare paragoni – ma attenzione che il meglio sta per arrivare]. Pesare l’entità delle violenze non è mai un ottimo stimolo comunicativo per suscitare empatia [EH? Le poesie sono atti lirici, assolutamente soggettivi – se ne fregano di pesare e di suscitare empatia. Le poesie sono espressioni di sé, fine. Come tutte le manifestazioni artistiche, rischiano l’incomprensione, l’inutilità, la retorica – ma non fanno analisi né hanno uno scopo, come invece fa la comunicazione. Confondere le due cose è sintomo di una profonda ignoranza – o di una grave malafede. Le si rifiuta, le si commenta, ma non si decostruiscono, è inutile. Perché a una poesia, se la smonti, le fai dire quello che vuoi – e non è onesto]. Semmai vengono fuori banalizzazioni e negazionismi dove non si riesce a dire in altro modo che il fatto che tu e lei e lei e lei siate state stuprate è un fatto increscioso, orribile, ma che non si può farne un’arma per vittimizzare un genere e criminalizzare l’altro [e infatti questa poesia non è un’arma, come non lo è nessuna poesia. E’ l’intenzione di chi la adopera con uno scopo a farne un’arma di offesa a qualcuno. Siamo ancora a queste cose? Dopo secoli di poesia usata a scopi politici?].

“E se il poliziotto / che vi ferma allo svincolo dell’autostrada / fosse una donna / e avesse una pistola”

Ricordo solo che tra i poliziotti condannati per l’omicidio colposo di Aldrovandi c’è una donna [ricordo a chi legge che interpretare alla lettera una poesia è da ipocriti – usare celebri casi di cronaca per farlo aggiunge un tocco di cinismo molto alla moda].

“E se / la capacità di mestruare / fosse il requisito per i posti di lavoro / più remunerativi”

Si, ma a parte che la precarietà oramai ammazza tutti/e [la poesia è scritta nei primi anni ’90 negli USA, che la precarietà oramai ammazza tutti/e è l’ennesimo ipocrita modo di svilire una poesia con l’attualità. Allora smettiamo di leggere Dante perché è roba del Trecento, no?], in questo non serve empatia unilaterale per farci recuperare spazio ma serve empatia reciproca per cedere spazio per affettività e cura anche a loro, agli uomini, che lo chiedono [questa poesia è appunto quella richiesta, basterebbe leggerla come una poesia, e non come un articolo di Travaglio, per rendersene conto]. Perché, tra l’altro, il mondo non è più diviso in due generi [è una poesia, non un trattato di sociologia, è parziale e soggettiva come tutte le poesie] e questa visione dei limiti nel lavoro va vista a 360° gradi prima di rivendicare conciliazione famiglia/lavoro e status coccolati per il materno [non sta rivendicando nulla, è una poesia, non un decreto legge di Fornero o simili]. Ricordiamoci che il peggiore nemico di tante donne per aiutare quelle che non trovavano lavoro e non lo trovano tuttora sono altre donne che propagandano il valore del “materno” chiedendone tutela come se la madre fosse una incapace di intendere e volere, una malata sociale [cosa vera, peccato che con questa poesia non c’azzecchi niente, perché questa è una poesia, non una bozza di contratto collettivo].

“E se / il vostro essere attraenti per le donne dipendesse / dalla grandezza del vostro pene”

Accade anche questo. La retorica machista sulle misure del pene sono ampiamente avallate e veicolate anche dalle donne [è una poesia, non è un’inchiesta sull’immaginario erotico, non avalla nessuna visione, cerca solo di stimolare un immaginario].

“E se / ogni volta che le donne vi vedono / suonassero il clacson e facessero segni con le mani come per masturbarsi”

Si, ok, dunque? E se ogni volta che le donne vedono uno stronzo che fa così tirassero fuori un dito medio? Perché questo canto vittimista di chi non sa tirare fuori la grinta neppure davanti un deficiente che si fa una sega al volante? [la poesia è espressione di sé, è essa stessa un dito medio – lo si capirebbe se non la si volesse leggere a tutti i costi come un elenco di prescrizioni. Infatti sta avendo tanto successo tra le giovani proprio perché loro hanno bisogno soprattutto di espressioni come questa poesia, e non di cinismo analitico. In più questo passaggio presta molto i fianchi a chi dice che se subisci violenza e poi non reagisci allora te la sei cercata. Visto? So fare il cinico anche io. Uh che bello.]

“E se / le donne facessero sempre battute / su quanto sono brutti i peni / e che brutto sapore ha lo sperma”

Io ne ho sentite. Il pene non è più argomento tabù e perfino io mi permetto di satireggiarci sopra [e chissenefrega. E’ una poesia, non è un manuale di linguistica, né di psicologia. Da quando i gusti personali sono metro di paragone? E’ una poesia, non vuole avere ragione né tantomeno proibire la satira. Sta descrivendo una possibile immaginazione, non vietando altre espressioni].

“E se / doveste spiegare cos’è che non va con la vostra auto / a delle grosse donne sudate con le mani sporche di grasso / che ti fissano il pacco / in un garage dove siete circondati / da poster di uomini nudi con l’erezione”

I calendari di uomini nudi oramai esistono pure quelli e se guardi il porno ci sono migliaia di corpi al maschile che sono lì a dimostrare che o sei virile o muori. E’ una analisi anche questa vittimista circa i corpi oggetto e conseguenti stereotipizzazioni e sessismi perché tutto ciò riguarda tutti/e noi [NON E’ UN’ANALISI VITTIMISTA, E’ UNA POESIA! Come si fa a essere ignoranti o in malafede fino a questo punto? Carol Diehl è un’artista, può scegliere il mezzo espressivo che vuole, e ha spiegato tutto quello che serve su questa poesia. Altrove ha fatto le sua analisi, ma questa è una poesia! Non va letta come altro che come UNA POESIA!].

“E se / le riviste maschili avessero copertine / con foto di ragazzini 14enni / con calzini infilati sul davanti dei jeans / e articoli del tipo: / ‘Come capire se vostra moglie è infedele’ o / ‘Quello che il dottore non vi dice sulla prostata’ / o / ‘La verità sull’impotenza’ ”

Ci sono riviste così e articoli del genere, purtroppo [e ci sono pure persone più realiste del re, purtroppo].

“E se il dottore che vi esamina la prostata / fosse una donna / e vi chiamasse ‘gioia’ ”

Non so di donne che molestano i pazienti ma di uomini che molestano ragazzini ho sentito dire [attenzione, ho sentito dire, adesso abbiamo la riedizione di Erodoto contro Tucidide intorno a una poesia. Ma cosa c’entra l’aderenza ai fatti, è una poesia!] Però questo è un punto rispetto al quale l’empatia arriva se si smette, forse, di raccontarla dichiarando che tu sei più vittima tra le vittime [premesso che, come detto sopra, l’empatia non c’entra nulla e poi non si capisce perché l’empatia dovrebbe bastare a far “arrivare” le cose, questo testo non ha messo nessuno prima di un altro. E’ una poesia, non “racconta” un bel niente se non i sentimenti di un solo soggetto. Non c’è alcun paragone] e che in quanto vittima vivi santificata da una cornice di innocenza grazie alla quale tutto ti è perdonato e concesso [chi santifica sono altri, non la vittima – quella ha altro a cui pensare. Chi santifica la vittima ha lo stesso atteggiamento di chi pensa di smascherarla col cinismo: se ne frega di quello che le è successo, e la strumentalizza. Per esempio, tratta una poesia come un saggio di filosofia di genere, e la critica cinicamente].

“E se / doveste respirare l’alito pesante del sigaro della vostra boss / mentre insiste che dormire con lei fa parte del lavoro”

Succede pure questo [e chissenefrega due, è una poesia di vent’anni fa, non puoi chiederle di essere una descrizione della realtà!]. Non esattamente così ma di donne capo che sono di una stronzitudine assurda e che trattano i dipendenti in modi diversi a seconda se gli piacciono o meno io ne ho conosciute [aspetta, chi è che fa la vittima adesso?]. Perché ‘a carnuzza è carnuzza, in generale, anche se non ho sentito di molestie fatte da donne/capo [e informati allora! O il match è solo tra quello che sai te e quello che dice la poesia? E se così fosse, chissenefrega tre!].

“E se / non poteste scappare / perché il regolamento della ditta / richiede che portiate scarpe / concepite per impedirvi di correre”

Ecchèdduepalle, ‘sto piagnisteo [non è un piagnisteo, è una poesia]. #OccupyDitta e imponi un regolamento diverso [oh, meno male che ci sei tu con una soluzione per tutto, invece de ‘ste poetesse fancazziste]. Se perfino io, che dovevo stare sui trampoli per lavoro, sono riuscita a far considerare sexy i piedi scalzi, può farlo chiunque [e senza scrivere poesie sull’adeguarsi al modello sexy!].

“E se / dopo tutto questo / le donne volessero ancora / che voi le amaste?”

Dunque la soluzione sarebbe odiarli? Cioè: si sta spiegando l’avversione? [No, è una poesia, non sta spiegando niente! Tenta di creare un immaginario nuovo, o di sconvolgere quello esistente. Ma a te non interessa.]

Ora io spero che questa poesia non sia utilizzata come biglietto di presentazione per far passare l’esame all’uomo che volete approcciare, con cui volete stare, con il quale volete trombare, perché fossi in lui direi che potreste andare a quel paese [e chissenefrega quattro, dei tuoi sistemi di seduzione. La poesia non parla di questo, ovviamente, ma ormai siamo a ruota libera].

Ma in quale mondo autodeterminato e femminista io mi presento con questa password vittimista e normativa per presentarmi da martire a qualcuno con il quale vorrei avere una relazione paritaria? [Infatti succede solo nel mondo di fantasia che stai creando per potertela menare come ti pare, dato che nella poesia che hai commentato non c’è niente del genere. E’ una poesia, non un biglietto da visita né un manuale di savoir-faire.] Perché se mi presento in questo modo non voglio parità ma costruisco le basi per determinare sostanziali ragioni culturali per esprimere e manifestare superiorità morale [non si capisce perché un* dovrebbe usare questa poesia per presentarsi – mi parrebbe un comportamento paranoico a prescindere dalla poesia e dal sesso di chi la usa. Ma continuiamo pure]. Io sono vittima. Io martire [faccio notare che la poesia non dice nulla del genere – grammaticalmente è una sequenza di frasi ipotetiche]. Dunque io superiore [non c’è questa deduzione]. Tu non puoi toccarmi [neanche questa]. Puoi solo adorarmi [neppure questa]. E se ti chiedo un cunnilingus e non ce la fai perché mi vedi come se io fossi la Madonna sarà anche un po’ colpa tua [ipotesi interessante, ma che c’entra con la poesia? Niente, come tutto il resto].

Questa poesia desessualizza le donne e inibisce gli uomini [però, hai capito che forza. Stai a vedere che allora le canzoni di Jovanotti e Bono potrebbero convincere il FMI a cancellare il debito]. E se l’obiettivo è fare abortire erezioni maschili perché a noi ci piacciono mosci, flagellati, ad espiare e fare mea culpa, direi che ci sono tutte le possibilità di farcela [è una poesia, e a parte che non mi pare proprio scritta per ottenere debarzottamenti, fa diretto riferimento al gusto personale di chi legge. Se qualcun* mi confessasse che questa poesia l’ingrifa di brutto, non avrei proprio nulla da opporre, sono i suoi gusti].

Non sto dicendo in chiave maschilista che le femministe suscitano impotenza perché apriti cielo se i misogini (e loro, pro-forma, testosteronicamente e più virilmente, avversari patriarchi del terzo millennio e tutori della vulva) non stanno lì a cercare ragioni per evitare di analizzare la propria sessualità [tutto questo in una poesia? Mi sono perso qualcosa, aspetta che rileggo. Ma anche no]. Dove sessualità sta per reciprocità e consensualità e la consensualità non la costruisci né tracciando l’inaccessibilità del mio corpo [la poesia non ne parla affatto] – in quanto sant@ [la poesia non dice di santificare nessuno] – né sul pentimento e sulle colpe [altre cose che nella poesia non ci sono].

Non do via la fika come premio a chi si pente dopo che ha recitato le mille Ave Marie femministe che gli impongo [grazie dell’informazione, “adesso me lo segno” (cit.)].

E c’è un motivo, secondo me, perché questa retorica [la retorica l’hai messa tu, quella è una poesia], che a mio avviso è anti-femminista [a tuo avviso ‘sta poesia dice tante di quelle cose…], ché non mi responsabilizza, non mi reputa in grado di autodeterminarmi, di essere presente a me stessa e alle mie scelte, come se io fossi perennemente lì a subire e basta, torna prepotentemente oggi in pieno backlash gender, quando essere femministe per certune significa essere più o meno delle sante [che in sé è pure una critica giustissima ma… che c’azzecca con questa poesia? NIENTE].

Giusto oggi che il moralismo arriva dappertutto, che le battaglie femministe sono diventate la maniera revisionista di autorizzare neocolonialismi, razzismi, mammismi, donnismi, ché fondamentalmente sono fascismi, l’unico femminismo che va’ di moda è tanto lontano dall’essenza stessa del femminismo quanto lo sono le sante dalle puttane autodeterminate [il motivo per cui questa cosa la si debba dire in coda a una poesia che non parla di nessuna delle cose elencate rimane un mistero].

Io sono femminista e sono sporca, sono sessuata, sto all’inferno, sento le fiamme di roghi e inquisizioni sotto il culo, non trovo solidarietà sociale né legittimazione morale da parte di patriarchi e tutori, ché sono io a difendermi, io a decidere cosa e come fare, io a restituire il mio personal/politico scommettendo sull’umano, con la fiducia per la capacità di disobbedienza e il senso critico di ciascuno [guarda che le poesie servono anche a dire questo. Questa non lo fa, secondo te? E chissenefrega cinque – rimane il fatto che non hai alcun diritto di argomentare che la poesia non rappresenta tutto lo spettro dei femminismi possibili, perché nessuna poesia è tenuta a farlo – non è un articolo di dominio pubblico, non è un saggio di sociologia, non è una legge, non è un regolamento. E’ una poesia].

Io faccio investimenti di intelligenza e se voglio fare capire a qualcun@ quanto la mia condizione sia discriminata non percorro le stesse vie cristiane [la poesia non lo fa], non mi metto in croce, non perdo la mia umanità perché in terra io resto, tra peccatori e peccatrici e non veicolo dicotomie [la poesia non veicola dicotomie, cerca di sollecitare un immaginario], volgari riferimenti alla mia fragilità carnale perché la mia carnalità vuole essere presa, afferrata, sensualmente graffiata, cullata, appassionatamente scopata [e c’era bisogno di scomodare Carol Diehl per dirlo?].

La mia umanità non sta nel fatto che io possa essere percepita come angelica, creatura indifesa da rispettare [cosa che nella poesia non viene minimamente accennata]. Sta invece nel fatto che io riesca a definirmi come difettosa e umana senza che ciò diventi la giustificazione per potermi prevaricare e opprimere, anima (laica) e corpo, nelle mie decisioni [che è quello che dice la poesia, se l’avessi letta come tale e non come l’ultimo articolo di Camillo Langone].

Perciò invece di tutti quei “Se” vittimisti, cui seguono auspici di tutela e d’autoritarismo vario [che siano vittimisti è una tua interpretazione, libera come tutte le altre interpretazioni, essendo quella una poesia; dove sono questi auspici però non si capisce, dato che la poesia è fatta solo di se], io avrei detto totalmente altro [e fallo allora: fai una bella poesia e vediamo quanto la condividono in giro. Poi ci chiediamo il perché, ok?]. Sennò prima o poi finiremo per realizzare un vero e proprio rovesciamento per nulla sovversivo: se siamo martiri… gli uomini sarebbero stregoni, gli stregoni sono diavoli e i diavoli vanno bruciati al rogo [e se mio nonno c’aveva tre palle era un flipper]. Se volevamo dare vita ad un’altra inquisizione [tipo questa sulle poesie? Ma dove l’hai vista questa inquisizione? E’ una poesia che chiede solo “se”] bastava tenerci quella che c’era ed esigerne i posti di comando e le possibilità di giudizio. Però mi è davvero nuova quella dello sconfiggere i sessismi, gli integralismi, i fascismi, replicandoli con un cambio di sesso. Davvero nuova… [non è nuova. È la tipica retorica di chi non sa leggere poesie se non come opposizione insanabile tra il pensiero giusto e quello sbagliato. Incurante di ogni altra espressione libera – come sono le poesie.]

Non si decostruiscono le poesie. Qui c’è scritto da un pezzo il perché. Dovrebbe bastare saper leggere.

Appunti per conversazioni non transfobiche

CARTEL-MANI-TRANSFOBIA-2011
Ecco alcune azioni che dovrebbero essere categoricamente evitate nel parlare con e di una persona trans*:

– Chiamarl* con nomignoli storicamente insultanti che la persona t* non usa. Rientrano spessissimo nella categoria “transettone”, “travello”, “travone” e affini. Molt* di noi credono nella riappropriazione politica dei termini, è vero, ma questo non vuol dire certo che ognun* di noi si senta a proprio agio con il reclamare l’uso di alcuni o di tutti i termini in oggetto. Vuoi sapere se li usa e quali usa? Solitamente, salvo essere ciechi e/o sordi, è sufficiente ascoltare o leggere la persona interessata per scoprire questo arcano, e ad ogni modo è molto meno imbarazzante porre una domanda che darsi a improbabili scivoloni dialettici per spiegare mancanze etiche ingiustificabili.

– Riferirsi a l*i con nomi e linguaggi che non usa. Può essere il maschile per alcuni, il femminile per altre, e c’è anche chi preferirebbe forme neutre. Rispetta questa necessità. Non si tratta di egoismo linguistico e non iniziare dibattiti linguistici sulla correttezza di asterischi e via discorrendo. Le persone vengono prima dei nazismi grammaticali.

– Rammentare alla persona t*, costantemente ma anche occasionalmente, in una maniera o nell’altra, che la genetica l’ha generat* in una certa maniera. Ciò che si chiama “disforia” è, molto banalmente, il malessere derivante – sorpresa! – dal non corrispondere fisicamente a ciò che si sente. Spiattellare dunque fascismi biologici è molto poco carino e genera in qualunque persona t*  il genuino desiderio di smolecolarizzarti l’arteria femorale a morsi.

– Fare humour a casaccio sull’argomento senza premurarsi di sapere cosa ne pensa la persona, per poi avere diverbi e molestarl* con amenità come “scusa, non volevo offenderti”. Se commetti una cagata, la cosa migliore da farsi è ammetterlo e scusarsi genuinamente senza spostare la responsabilità del proprio agire alla reazione di l*i. La sua rabbia, il suo scazzo e qualsiasi altra emozione ed opinione è legittima a prescindere dai toni con la quale questa viene espressa, purché non siano -isti o -fobici e più semplicemente oppressivi essi stessi.

– Cooptarl* a priori in quella che potremmo chiamare “altrizzazione”. Le donne trans* sono donne, gli uomini trans* uomini. Poi chiaramente ci sono persone genderqueer che sfuggono le categorie, e probabilmente in una palla tridimensionale dei generi c’è chi si trova in posti assai complicati. Questo non autorizza nessun* a considerarl* inclus* in una sorta di terzo genere degli indefiniti. Non è indefinit* – si identifica in maniera ben precisa, se e quando si identifica. Parlare di  donne, uomini e trans* è terribilmente offensivo visto che un sacco di persone trans* sono uomini o donne. Si potrebbe sostituire questa espressione con donne, uomini e persone nonbinarie.

– Una persona trans* non si “identifica” soltanto in un genere, ha un genere; quel genere. Frasi quali si sente donna/uomo/nonbinari@  sono a dir poco raccapriccianti, in particolare se abbinate a pronomi sbagliati. Noto anche che si prova ad usare persone che si identificano uomo/donna per essere più inclusiv*, ma l’unico risultato ottenuto nella pratica è perpetuare la degenderizzazione delle persone trans*, perché – ad esempio – nella mentalità dell’italiano medio rimarrà normale usare “donna” per riferirsi alle donne cisgender e “donna trans”, o più spesso solo “trans”, per riferirsi alle donne trans. Questo implica che il genere delle persone cisgender è automaticamente più valido, ma ciò è falso. Il sentire di ognun@ è valido.

– Non riferirsi a “corpi maschili” parlando di donne trans* e “corpi femminili” parlando di uomini trans*. La biologia non è un destino, e soprattutto non può essere ciò che si trova tra le gambe a determinare la definizione del resto del suo corpo. Autodeterminazione anche nei linguaggi, please!

Non c’è in questa lista la pretesa di essere esaustiv*, assolutamente, ed in ogni caso l’unico metodo sempre affidabile per rivolgersi ad una persona senza mancarle di rispetto è domandarle quali sono i suoi confini, limiti, off-limits, eccetera. Buona chiacchierata 🙂