La malafede della zoofobia – parte III

tnB1277302955_jpg

Continua da qui. Paura, senso di colpa e odio sono tutti interconnessi in questo gioco di verità e bugia. Nel desiderare una libertà dalla carne tanto astratta quanto impossibile, siamo annichiliti dal terrore di fronte alla libertà della carne di seguire i propri ritmi. Per questo abbiamo usato una violenza incredibile per sopprimerla, poi, sentiti i riverberi della miseria animale e il senso di colpa strisciante, abbiamo provato a sopprimere anche gli animali, con la rinnovata, contorta aggressività libidinosa propria di un animale che odia se stesso.
In quanto oppressori attivi e spesso morbosamente appassionati di altri animali, abbiamo bisogno di capri espiatori (notare l’origine del termine), proprio come l’antisemita ha bisogno dell’Ebreo. Non c’è altro modo di rafforzare una falsa identità se non attraverso un inganno continuo; ed è necessario un grande sforzo per sostenere un tale inganno nel tempo. Per innalzarci dalla nostra condizione animale abbiamo bisogno di opprimere, sottomettere e sopraffare la carne. Abbiamo bisogno di sfogare, ovvero, di punire la carne sulla quale ammiccano le nostre parole di auto-conforto. Allo stesso tempo, nell’attuale oppressione di altri animali, dobbiamo lottare per dimostrare quanto diversi siamo da loro, in modo da non cadere dalla parte degli oppressi. Schiavizzare si è rivelato in generale difficile per noi, se non attraverso una narrativa sufficientemente valida a illustrarne i vantaggi. Intessute nel corso dei secoli, le narrative volte alla giustificazione sono state, per la nostra specie, l’esito di pratiche crudeli, atte allo scopo di mistificare la realtà con le parole.

§ La carne insultata
La zoofobia è corredata da un ricco compendio di invettive mirate alle vittime di queste forme di sfruttamento inter-specie (i.e. gli animali non umani). Nella maggior parte dei casi i loro stessi nomi sono associati all’inferiorità, rivelando la loro reale condizione in mani umane e le reazioni, spesso incomprese, a questo stato di fatto. In pratica, tutte le forme verbali del disprezzo si sono evolute come sfondo della proiezione di paura e violenza precedenti. Perciò, la maggior parte del mondo animale non umano consiste di “bestie” che sono “stupide”, “sudicie”, “viziose”, ecc. L’aggettivo “stupido” è, tra gli altri, riferito a pecore, asini, mucche.
Le pecore, scrive Richard Gray, “sono animali apparentemente così poco brillanti da essere diventati sinonimo di stupidità e del seguire la massa senza pensare.”(41) In maniera istintiva, da individualisti auto-professi, potremmo sentirci insultati da forti istinti di branco – ovvero istinti sociali – ma la presenza di tali istinti non deve essere scambiata per stupidità. Di fatto “scienziati dell’Università di Cambridge hanno scoperto che queste creature hanno un’intelligenza pari a quella di roditori, scimmie e, in alcuni test, persino di esseri umani.” (42) “Stupido” è riferito anche a esseri così alienati dal proprio habitat naturale ed estraniati dalla loro stessa natura attraverso l’allevamento selettivo, al punto da trovare incomprensibile questa realtà costruita, prodotta dall’artificio umano. Il termine è stato inoltre utilizzato nei confronti di creature rese troppo docili perché possano difendersi da sole, rese tali attraverso l’esperienza ripetuta del come possa essere più sicuro “aspettare che passi”. “Sudicio” è stato un insulto rivolto ad animali che si rotolano nel fango, quali maiali, facoceri, bisonti, ippopotami, rinoceronti, elefanti etc.
Piuttosto che testimoniare scarsa igiene, in realtà i bagni nel fango si rivelano essenziali per abbassare la temperatura corporea, eliminare i parassiti, proteggere la pelle dal sole, o marcare il territorio. Perché, allora, i maiali sono considerati l’animale sporco per eccellenza? Forse perché sono così oppressi e facilmente disponibili ad ogni ridicolizzazione, già serviti a pezzetti su un piatto, simbolo del fallimento della carne in quanto sudicia, un sostituto per quello ciò che siamo decisi a sradicare da noi stessi – ossessionati come siamo da una sterilità a livello ospedaliero, da un’attenta cura dell’aspetto e dal distanziarci dal sudiciume del mondo che ci circonda. A sua volta “malvagio” è stato riservato a quegli animali che non hanno paura di mordere, in primis ai lupi.
La loro reputazione di animali aggressivi è stata largamente esagerata, e di contro la loro socialità ridimensionata. Eppure mai un lupo è stato osservato mordere i testicoli della sua preda per trattenerla come sventurato schiavo. Di fatto, scrive Glen A. Mazis,

I forti legami di affetto, fedeltà, cura, attenzione, giocosità, cooperatività, comunicatività e fiducia che permangono tra i lupi del branco sono le caratteristiche che più colpiscono del comportamento di gruppo dei lupi, come notato dagli etologi che hanno trascorso tempo in loro vicinanza. Prova di questi tratti è il loro condividere la cura dei piccoli, il corteggiamento lungo un anno e il far coppia a vita, costellato da dimostrazioni d’affetto continue, il nutrire i membri feriti del branco, il lutto della durata di mesi qualora perdano un membro del gruppo, e il bisogno di appartenenza al branco.(43)

Questo per dire che le rappresentazioni culturali dei lupi sono servite in modo univoco a supportare la pratica sterminatrice perpetuata nei loro confronti dagli esseri umani, sia in Nord America sia in Europa. “Non solo i lupi sono stati uccisi fino all’orlo dell’estinzione – scrive Mazis – ma sono stati anche massacrati con una veemenza che è sconcertante”(44), certamente il riflesso di una minaccia prima immaginata e proiettata. Ovviamente si possono individuare numerosi esempi di aggressioni intra-specie o inter-specie anche in altri animali. Gli scimpanzé, per esempio, sono stati visti intrufolarsi nei territori di altri gruppi di scimpanzé vicini e dilaniare a morte maschi presi alla sprovvista. In apparenza sistematici nel fare ciò, scelgono pazientemente la concorrenza, “finché sia il territorio che le femmine non diventino loro”(45). Gli scimpanzé sono inoltre stati avvistati coinvolti in combattimenti e “sanguinose battaglie all’interno del gruppo per determinare il maschio alfa.”(46) Infine, in case eccezionali, le femmine sono state viste uccidere e persino mangiare i neonati di altri femmine(47). È significativo, tuttavia, che questi comportamenti siano stati osservati in aree caratterizzate da una pesante invasione umana e serie pressioni ambientali che indicano uno stato di emergenza, non di normalità. Animali di innumerevoli specie provano ansia patologica mentre il mondo gli si stringe addosso(48). A dire il vero, nel suo Anatomia della Distruttività Umana, Erich Fromm non esita ad affermare che “se la specie umana avesse lo stesso livello di aggressività ‘innata’ degli scimpanzé che vivono nel loro habitat naturale, allora vivremmo in un mondo piuttosto pacifico” (49).
Mentre solitamente l’oppressione è resa accettabile attraverso narrative di denigrazione, lo stesso risultato può essere ottenuto tramite un discorso nobilitante. In quanto simbolo di coraggio e forza, il leone appare nell’immaginazione come il re della “giungla”. Data la prevalenza di questa percezione, diventa poi eternamente attraente l’idea di detronizzarlo e sottometterlo; cosa che in parte spiega la diffusa presenza dei leoni negli zoo e nei circhi. Nel primo caso, i leoni sono in gabbia ed esibiti in quanto sconfitti, nel secondo invece sono ridotti a buffoni di corte, che si esibiscono al capriccio della frusta dell’addestratore, per la soddisfazione del pubblico. Persino quando apparentemente esaltata, la carne serve come oggetto di dominio e di sopraffazione definitiva. Esiste, tuttavia, anche un altro modo implicito per giustificare la pratica oppressiva, la cui aberrazione è resa più facile da perpetuare in nome della sua stessa pervasività.
Rimozione, sottomissione e sterminio sono resi naturali semplicemente in virtù del fatto che stanno già avendo luogo. Indipendentemente da quello che gli sfruttatori raccontano a se stessi, indipendentemente da quello che provano a far credere a se stessi coloro che volontariamente prosperano sulla sofferenza degli animali, non esiste alcuna narrativa e alcuna prova della superiorità, se non la pratica del dominio stessa. Se mai, è questa distruttività irrazionalmente razionale, logica, civilizzata e senza precedenti per dimensioni, ciò che pone gli esseri umani su un piano separato dal resto degli animali. Sulla base di prove paleontologiche, antropologiche e storiche, Fromm ha concluso che “il grado di distruttività cresce col crescere dello sviluppo della civilizzazione, piuttosto che il contrario”.(50) Ma che succederebbe se noi – gli animali civilizzati che siamo – volessimo rovesciare la situazione?

Note:
41 R. Gray, Sheep are Smarter than Previously Thought [in:] The Telegraph, http://www.telegraph.co.uk/science/science-news/8335465/Sheep-are-far-smarter-than-previously-thought.html.
42 ibid. Stabilire dei criteri in merito all’intelligenza è già un esercizio di potere. Dato che sono sempre gli umani che preparano i test, esiste (come minimo) la seria possibilità di distorsione intrinseca. E prendendo uno dei tanti esempi possibili, la maggior parte degli umani si chiamano l’un l’altro attraverso l’uso di nomi, ci si aspetta che li memorizzino e si identifichino con essi, e che rispondano quando sentono il proprio nome pronunciato. Gli altri animali non si chiamano l’uno con l’altro “Ivan,” “Janet,” o “Giuseppe.” Nei test, noi proviamo a chiamarli a modo nostro e, se si rifiutano di assecondare la nostra piccola idiosincrasia, sono loro che “devono essere stupidi.” Sullo stesso tema, merita di essere menzionata la motivazione strumentale dietro ai test a Cambridge . La Professoressa Jenny Morton, una neuroscienziata, “stava studiando l’intelligenza delle pecore nella speranza che potessero essere utili come modelli animali per il Morbo di Huntington, un disturbo neurodegenerativo che porta alla demenza e colpisce il controllo dei muscoli.” L’articolo conclude che, di sicuro, le pecore “offrono un grande potenziale per studiare le funzioni cognitive e anche per essere modelli di Morbo di Huntington.” Il senso critico suggerisce che potrebbero non sopravvivere al loro essere modelli scientifici; con gli umani al comando, è pericoloso essere giudicati stupidi, ed è male essere considerati intelligenti.
43 G. A. Mazis, Human Ethics as Violence Towards Animals: The Demonized Wolf. Non pubblicato, letto su http://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2011/10/Mazis.pdf, 9.
44 Mazis, Human Ethics…, 8.
45 A. Weisman, The World Without Us. New York: Thomas Dunne Books 2007, 50.
46 ibid. Questo deve essere confrontato con le osservazioni alternative fatte da A. Kortland del 1962 e riportate da Erich Fromm. Kortland aveva assistito ad un esempio di “un vecchio scimpanzé canuto che è rimasto il capo del gruppo nonostante fosse fisicamente decisamente inferiore rispetto agli esemplari più giovani.” Fromm sostiene che “evidentemente la vita in libertà, con tutti i suoi stimoli gli aveva permesso di sviluppare una certa saggezza che lo qualificava come capobranco.” Ora, se la dominazione fisica fosse un priorità automaticamente presunta tra gli scimpanzé, una situazione simile non potrebbe verificarsi. Invece, osserviamo quanto le loro vite possano essere versatili, a seconda delle variazioni nelle condizioni di vita, popolazione ecc. Vedi E. Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness. New York/Chicago/London: Holt, Reinhard and Winston 1973, 106.
47 Ch. Q. Choi, Female Chimps Kill Infants. LiveScience, May 14 2007. Http://www.livescience.com/1518-female-chimps-kill-infants.html.
48 Fromm discute della ricerca di C. H. Southwick sull’influenza dell’affollamento sull’aumento nell’aggressività animale. Afferma che “la diminuzione dello spazio priva l’animale di importanti funzioni vitali quali movimento, gioco, ed esercizio delle proprie facoltà…” Un altro aspetto del sovraffollamento, che probabilmente favorisce ancor di più un atteggiamento aggressivo, è la distruzione della struttura sociale di un gruppo animale. “Ogni specie animale [sociale conosciuta-KF] vive all’interno di una struttura sociale caratteristica per la specie. Gerarchica o no, la struttura sociale specifica della specie è il quadro di riferimento a cui l’atteggiamento dell’animale si adatta. Un equilibrio sociale sopportabile costituisce una condizione necessaria alla sua esistenza.La sua distruzione attraverso l’affollamento costituisce un’enorme minaccia all’esistenza animale, e l’aggressione è il risultato che chiunque si aspetterebbe, specialmente dato il ruolo difensivo dell’aggressione, specialmente quando la fuga è impossibile.” Nonostante le strutture sociali possano cambiare per una singola specie e non siano così fortemente predefinite come Fromm può aver pensato, la sua conclusione generale sembra corretta: sotto pressione per l’affollamento, la comunità animale tipicamente diventa “una folla malevola.” Vedi Fromm, Anatomy… 105-6.
49 ibid., 103.
50 Fromm, Anatomy…, 4.