Attivismo e rappresentazioni della violenza

Usare o non usare certe immagini, questo è il problema!

Nell’ambito dell’attivismo femminista e antispecista esistono diverse scuole di pensiero a riguardo: c’è chi sostiene che l’uso di immagini forti sia controproducente, in quanto indurrebbe una reazione di rifiuto in chi osserva – con il risultato di rendere la comunicazione inefficace – chi invece sostiene che sia l’unico modo per mettere le persone di fronte a realtà che vengono loro celate o preferiscono non conoscere.

Comunicare la violenza visivamente non è mai facile: prima di tutto perché viviamo ormai bombardati di immagini, spesso violente, reali o artefatte. Inoltre il risultato non sarà mai completamente prevedibile… quello che noi troviamo efficace può scatenare reazioni di disgusto in alcun*, cinismo e disinteresse in altr*.

Eppure, la violenza va in qualche modo documentata o rappresentata, perché spessissimo agisce nell’ombra in modo tale che nessun* possa testimoniarla e/o intervenire per evitarla, e non c’è dubbio che un immagine efficace colpisca la nostra immaginazione più di mille parole.

In questi giorni mi è capitato di vedere due diversi tipi di immagini relative a rappresentazioni di violenza sugli animali non umani,  e sinceramente non so quale delle due sia più efficace nel veicolare il proprio messaggio, ma vale la pena spenderci sopra qualche parola.

La prima immagine è questa:

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In essa si vuole rappresentare la violenza che subiscono le cosidette ‘ mucche da latte’, le quali, ingravidate artificialmente (potremmo definirle anche come  vittime di stupro interspecifico, visto che colui che agisce l’inseminazione è solitamente un animale umano di sesso maschile) al momento del parto vedono il proprio vitello strappato alle loro cure, poiché il latte che producono deve chiaramente essere destinato al consumo umano. Questo momento straziante, nel quale la mucca e il suo vitello muggiscono disperatamente per tentare vanamente di ricongiungersi, avviene in luoghi distanti dai nostri occhi (e dal nostro cuore), e si ripete diverse volte nella vita di una mucca, fintantoché può produrre ancora una quantità di latte sufficiente… come è scontato, appena non più produttiva, viene mandata prontamente al macello.

Che senso ha, qualcun* chiede, utilizzare un’immagine di donna che ha appena partorito a cui viene strappato via il proprio bambino e che sta per subire lo stesso destino delle mucche, per veicolare quel contenuto? Dal mio punto di vista immagini come queste hanno un loro senso. Prima di tutto, perché spesso le persone non vogliono affrontare la realtà della violenza (sugli animali o sulle persone, poco importa), e più ancora, la realtà della propria complicità e accettazione passiva rispetto a molte pratiche violente e di abuso di potere.

Inoltre, lo specismo nel quale siamo immersi fin da bambini, ci desensibilizza efficacemente nei confronti della sofferenza animale: mille volte capita di trovarsi di fronte alla completa inconsapevolezza e incapacità di lettura – quando non completa indifferenza – della sofferenza di un animale da parte delle persone…

Da questo punto di vista, l’immagine in questione di sicuro cattura l’attenzione, e ristabilisce la connessione tra la sofferenza degli animali umani e quelli non umani. Quest’immagine dice:

“Se non sei capace di leggere la sofferenza negli occhi e nei gesti di una mucca, riesci a leggerli in quelli di un’appartenente alla tua specie? Riesci a stabilire una connessione?” L’unico dubbio che ho rispetto all’efficacia di questa immagine, e delle immagini simili a questa, risiede nel fatto che lo specismo è potente e pervasivo, e sebbene sicuramente esistono molte persone inconsapevoli dello sfruttamento estremo e brutale subito dagli animali non umani, molte altre semplicemente se ne fregano. Lo specismo è una forma di esercizio del dominio che ci viene inculcata fin dalla più tenera età come ‘naturale’, pertanto la maggior parte delle persone è incapace di vedersi per ciò che veramente è, qualcun* che con ogni giorno rinforza l’uso e l’abuso e la distruzione non necessaria ma consuetudinaria di vite animali assolutamente a noi corrispondenti in termini di emotività, sensibilità, e desiderio di felicità.

La seconda immagine è relativa ad un’opera che circola da ieri nelle strade del Meatpacking district (non a caso!) a NY… si intitola the Sirens of the Lambs, ed è realizzata da Banksy, nell’ambito del suo nuovo progetto di street art “Better out than in”.

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Un camion per il trasporto animali – verso il macello – pieno all’inverosimile di pupazzetti di animali  -molti tipici animali da carne, ma tra essi c’è pure un panda – animati, che con i loro versi attirano l’attenzione dei passanti e sembrano chiedere aiuto. In un audio guida dedicata all’opera, presente sul sito dell’artista, si danno due diverse letture della stessa: una chiaramente riferita alla rappresentazione della realtà di violenza dell’industria zootecnica, l’altra alla perdita dell’innocenza che subiamo crescendo in questa società (impossibile non pensare ai bambin* quando vediamo i peluche).

Personalmente mi fa anche pensare alla costante desensibilizzazione che subiscono i bambini, i quali sono tipicamente molto empatici di fronte agli animali (e alle loro sofferenze), mentre crescendo perdono questo ‘dono’ e spesso in età adulta non riescono più a riacquistarlo.

Questa immagine è disturbante, bizzarra, ma non traumatica, comunque meno truculenta della prima: sarà comunque efficace nel veicolare la sofferenza reale degli animali? O forse l’effetto complessivo risulta troppo paradossale per indurre alla riflessione, quantomeno un pubblico adulto?

A giudicare dalle reazioni di fuga e disperazione di alcuni dei bambin* presenti nel video, è probabile che nel loro caso il collegamento funzioni: ma quale sarà la reazione degli adulti, riflessione o ridicolizzazione?

La questione rimane aperta.

Vedi il video di The sirens of the lambs su youtube