La leggenda è reale: sono una puttana (e il motivo per cui non lo dirò mai alla mia famiglia)

4La mia famiglia sospetta da tempo che io sia una puttana.

Tutto è cominciato con il mio ex. Da abusante manipolatore quale è, ha divulgato questa informazione ad amici comuni (che l’hanno usata poi contro di me quando ci siamo lasciati), alla mia famiglia e, probabilmente, alla sua. Mia madre mi ha preso da parte, più volte, chiedendomi: “E’ vero? Sai che puoi dirmelo, puoi dirmi tutto e io ti vorrò sempre bene”.

La verità è che mi piacerebbe parlarne con la mia famiglia. Attualmente mi sto dedicando alla scrittura utilizzando uno pseudonimo, perché non voglio che la mia famiglia scopra il mio lavoro… Il che è un vero peccato, perché sono davvero molto orgogliosa di quello che ho realizzato finora e spero di avere un certo successo attraverso il self-publishing. Allora perché non ho ancora fatto outing? Perché non lo facciamo tutte?

In una parola: puttanofobia.

La puttanofobia è la forma specifica di discriminazione che i/le sex worker sperimentano. E’ fortemente intrisa di misoginia e disprezzo (slut shaming), spesso mischiata a transmisoginia, razzismo, classismo e altre forme di emarginazione. Quella del/la sex worker è in sé un’identità marginalizzata e, come nella maggior parte dei casi, modulabile lungo uno spettro. Nel nostro settore la chiamiamo la ‘gerarchia’, però di solito questa parola si riferisce alle idee interiorizzate su quale sia possibile considerare un comportamento legittimo, e dunque lavoro, e ciò che non lo è. Tuttavia, definire una persona ‘ballerina di burlesque’ (se lo si considera lavoro sessuale, alcun* non lo fanno, ed esiste una grande varietà di tipi di burlesque artistico) è molto diverso rispetto a confidare che sei una prostituta di strada. La maggior parte delle forme di lavoro sessuale portano con sé uno stigma fortissimo, che ha un impatto duraturo sulle nostre eventuali altre carriere professionali non sessuali e sulle relazioni interpersonali, e il lavoro sessuale completo (cioè avere rapporti sessuali con i clienti) è il punto più basso ed estremo dello spettro. Questo è il tipo di lavoro sessuale al quale mi sono dedicata.

Distante dagli standard normativi, non avrei avuto molte altre opzioni; mentre le prostitute esistono in ogni forma e dimensione, le spogliarelliste sono – in generale – più rispondenti a determinati standard di bellezza. Questo in parte spiega, a mio avviso, la ragione per la quale la prostituzione in strada è considerata il gradino più basso; è vista da alcun* come l”ultima risorsa’, dentro e fuori l’industria del sesso. Anche se tutti i tipi di lavoro sessuale sono considerati indissolubilmente legati al consumo di droga e ad altri problemi sociali, sul lavoro sessuale completo anche questa volta ricade il fardello più pesante. Esiste un preconcetto, sia nelle persone in generale che nei professionisti medico-sanitari, psicologi, assistenti sociali, forze dell’ordine e protezione dell’infanzia che la prostituzione sia inevitabilmente legata al disagio. Preconcetto opinabile.

In procinto di lasciare il mio ex-partner abusante, confidai alla mia assistente sociale (dopo averle chiesto a lungo rassicurazioni in merito alla propria politica di riservatezza, che lei mi assicurava essere totale) che avevo precedentemente lavorato come sex worker in un bordello. Accettò di lasciare questa informazione fuori dal mio dossier, ma mi informò che, se fossi stata ancora in attività in quel momento, avrebbe allertato i servizi di protezione dei minori. Quando le chiesi perché, dal momento che praticavo la mia attività lontano da casa e i miei figli erano seguiti dalla mia famiglia mentre ero al lavoro, rispose che “la prostituzione è di solito indicativa di altre problematiche”. Più tardi, un’amica e collega con la quale ne parlai al bordello, mi raccontava di come suo figlio fosse stato allontanato da lei, perché il suo ex compagno, nel corso di un’udienza per la custodia, aveva menzionato la cosa agli assistenti sociali. Non c’era stato bisogno di sollevare ‘altri problemi’; la presunzione di ‘altri problemi’ e l’ignoranza in merito alla realtà del sex work, erano bastate per perdere la custodia del proprio figlio.

Un’altra mia amica, dello stesso bordello, venne minacciata (da quello che sarebbe presto diventato il suo ex-marito) di essere denunciata – in quanto sex worker – se avesse richiesto supporto legale nel corso della separazione. Piuttosto che correre il rischio di perdere i propri figli e la propria famiglia, ha preferito perdere la casa, la stabilità finanziaria, tutti i risparmi e tutto quello per cui aveva lavorato fino a quel giorno. L’ex-marito si è preso tutto.

Il preconcetto secondo il quale il lavoro sessuale si accompagna al disagio fa acqua da tutte le parti, ma è anche risultato di un’inversione di causa ed effetto; è proprio l’esperienza di essere parte di un gruppo che viene abitualmente discriminato che allontana dal resto della società, negandoti servizi quali assistenza medica, assistenza abitativa, assistenza all’infanzia, ecc. e contribuendo a esacerbare questioni gravi quali le molestie della polizia e la patologizzazione. Questi sono gli aspetti che portano a quegli “altri problemi” come la violenza domestica (o, più precisamente, la mancanza di opzioni per sfuggirvi), la povertà, i problemi di salute mentale, l’uso di droghe e l’abuso/indifferenza per i figli. Questo schema si verifica nella maggior parte dei gruppi più emarginati. Il rovescio della medaglia però, è che il sex work offre anche una via d’uscita da queste situazioni, quando sono causate da altri fattori; il lavoro sessuale è relativamente ben pagato in Occidente, e non richiede istruzione formale o formazione, rendendolo accessibile a persone in difficoltà. Non c’è però un legame intrinseco tra sex work volontario e disagio. La correlazione non implica causalità, e il rapporto esistente è in gran parte circostanziale. Se non fosse per la puttanofobia e la relativa marginalizzazione, questa discriminazione non esisterebbe e l’aumento dei casi di problemi familiari e sociali tra i/le sex worker potrebbe anche diminuire. Purtroppo, l’esistenza di questi problemi viene usata come prova per giustificare l’atteggiamento bigotto nei nostri confronti. Si tratta, in sostanza, di colpevolizzazione delle vittime.

Sono stata trattata come merda dal personale medico nel richiedere il mio esame di routine per le malattie sessualmente trasmissibili, e poi messa in imbarazzo per il fatto di aver riscontrato dei batteri – naturalmente presenti – nella mia vagina, cosa che si verifica in circa l’80% degli adulti sessualmente attivi e la cui presenza di solito non è nemmeno testata perché innocua. Ho visto medici scuotere la testa e chiedermi perché mi dedicavo ad un’attività così pericolosa in giovane età, quando in realtà il bordello era il mio rifugio sicuro dal mio partner violento.
Ad oggi, il mio ex mi manda minacce poco velate e si riferisce a me con nonchalance come ‘una di quelle’ nella migliore delle ipotesi, o ‘stupida puttana’ se si sente particolarmente crudele. Sono anche certa che la disumanizzazione delle/i sex worker è stato uno dei motivi per cui un conoscente si è sentito libero di violentarmi, dopo tutto le puttane sono di proprietà pubblica e siamo felici di scopare chiunque in qualsiasi momento, no?

Avevo confidato ad un altro partner importante che ero una sex worker e mi ero sentita profondamente toccata dalla sua comprensione. In un primo momento, il fatto che si trattasse del passato significava che per lui non era più importante, ma poi, quando ho ripreso a lavorare, capì che la sua gelosia era fuori luogo dato che lo facevo solo perché avevamo bisogno di soldi. “E’ solo un lavoro, no?”, diceva. Scoprii poi una serie di messaggi che aveva inviato dal mio telefono ad un’amica – anche lei sex worker, una spogliarellista – in cui si riferiva a me come una ‘prostituta tossica’ per rivaleggiare con i racconti estremi della propria amica riguardo al suo lavoro.

Mi chiedo, ogni giorno, se parlare del sex work sia davvero una buona idea, perché sono dolorosamente consapevole che mi potrebbe costare la custodia dei miei figli.

Quando con la mia famiglia si parla della mia mancanza di lavoro, e io affermo di aver recentemente avuto un lavoro (la mia copertura è il tipico cliché della receptionist, in quanto questo spiega i miei strani orari e rende più semplice coprire le tracce) la risposta è in genere “veramente abbiamo sentito tutt’altro”. L’implicazione qui è che il lavoro del sesso non è realmente lavoro. Il mio tempo, la mia fatica e abilità non contano nulla, perché il mio lavoro è visto come illegittimo, pur essendo praticamente legale nella mia situazione particolare e nonostante il fatto che, grazie ad esso, provvedo finanziariamente ad un certo numero di persone, tra cui la mia famiglia allargata in diverse occasioni. Non posso sapere quello che i miei genitori immaginano in merito al lavoro sessuale, anche se nel discutere del mio lavoro di ‘receptionist’, mia madre diceva “non posso credere che le donne possano vendere i loro corpi così” e dichiarazioni simili che abbiamo tutt* sentito migliaia di volte. Non mi sono messa a discutere, però avrei voluto dire “una massaggiatrice offre relax fisico con il proprio corpo, sta vendendo il proprio corpo o sta vendendo un servizio?”

Vorrei poterle raccontare dei miei clienti, in generale uomini gradevoli, normali, come quelli che incontriamo ogni giorno. Vorrei poterle dire che nessun cliente mi ha mai fatto del male fisicamente o che ho subito un solo abuso verbale da parte di un cliente, mentre ho subito qualche forma di abuso fisico o sessuale da quasi tutti gli uomini incontrati nella mia vita personale, il che dimostra chiaramente come il problema non sia il lavoro sessuale. Vorrei raccontarle la sorellanza che ho sentito e sento con altre sex worker, che hanno rappresentato alcuni dei rapporti più significativi della mia vita. Vorrei dirle di come abbiamo discusso regolarmente delle nostre famiglie, di come ci siamo mostrate a vicenda le foto dei nostri figli, fornito consigli e sostegno emotivo, trucchi e profumi e, in generale, di come ci siamo reciprocamente prese cura l’una dell’altra. Vorrei che sapesse come, in quanto madre e femminista, non deve demonizzare il sex work, perché non solo i clienti si sono dimostrati più rispettosi degli uomini che pensano di avere gratuitamente diritto al tuo tempo, ma la Sorellanza è viva e vegeta nel bordello locale. E siamo tutte diverse, come accade in ogni gruppo eterogeneo unito da un’esperienza condivisa, e ci prendiamo cura l’una dell’altra.

Se dovessi raccontare adesso alla mia famiglia del mio lavoro, lo considererebbero senza dubbio un terribile tradimento della loro fiducia, non solo perché ho ​​mentito quando me lo hanno esplicitamente chiesto, ma perché non sono stata schietta dall’inizio. Ma in realtà, come avrei potuto esserlo? Per quanto mi riguarda, fare coming out in quanto sex worker offriva molto poco in confronto a quello che avrei potuto perdere, come il rispetto della mia famiglia, la custodia dei miei figli, per non parlare del pubblico disprezzo e delle possibili conseguenze legali. Ho intenzione di parlargliene un giorno, ma immagino non prima di molti anni.

Traduzione di questo post da parte di feminoska.

Diritto delle donne al lavoro…sessuale.

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Traduzione a cura di feminoska di questo articolo di Beatriz Preciado.

Produzione e vendita di armi: lavoro. Uccisione di una persona applicando la pena capitale: lavoro. Tortura di un animale in un laboratorio: lavoro. Fare una sega ad un pene con la mano fino a provocare eiaculazione: crimine! Da cosa si può capire che le nostre società democratiche e neoliberali rifiutano di considerare il sesso come un lavoro? La risposta non va ricercata nella filosofia morale o politica, ma piuttosto nella storia del lavoro femminile nella modernità. Esclusi dal campo di applicazione del sistema produttivo in nome di una definizione che li rendeva beni naturali inalienabili e non negoziabili, i fluidi, gli organi e le pratiche corporee delle donne sono state oggetto di un processo di privatizzazione, cattura ed espropriazione che si confermano al giorno d’oggi attraverso la criminalizzazione della prostituzione.

Facciamo un esempio per comprendere questo processo: fino al XVIII secolo, molte donne appartenenti alle classi lavoratrici guadagnavano da vivere vendendo i propri servizi come balie professionali. Nelle principali città europee, oltre due terzi dei bambini delle famiglie aristocratiche e dei cittadini urbani sono stati allattati da balie.

Nel 1752, lo scienziato Carlo Linneo pubblicò il pamphlet ‘la balia matrigna’ in cui esortava ogni donna ad allattare al seno i propri figli per “evitare la contaminazione di razze e classi” attraverso il latte e invitava i governi a vietare, a vantaggio dell’igiene e dell’ordine sociale, la pratica dell’allattamento al seno per le/i figli* altrui. Il trattato di Linneo condurrà alla svalutazione del lavoro delle donne nel XVIII secolo e alla criminalizzazione delle balie. La svalutazione del latte nel mercato del lavoro venne accompagnata da una nuova retorica del valore simbolico del latte materno. Il latte, rappresentato come materiale fluido attraverso il quale la madre passa al/la figli* il legame sociale e nazionale, doveva essere consumato nella sfera domestica e non essere più oggetto di scambio economico.

Forza lavoro che le donne proletarie potevano mettere in vendita, il latte diventa un prezioso liquido biopolitico attraverso il quale scorre l’identità razziale e nazionale. Il latte cessa di appartenere alle donne per appartenere allo Stato. Un triplo processo è compiuto: la svalutazione del lavoro delle donne, la privatizzazione dei fluidi, l’imprigionamento delle madri nello spazio domestico.

Un processo simile è all’opera con l’espulsione delle pratiche sessuali femminili dalla sfera economica. La forza di produzione del piacere delle donne non è loro: appartiene allo Stato – è per questo che lo Stato si riserva il diritto di multare i clienti che fanno uso di questa forza, il cui prodotto deve spettare unicamente alla produzione o riproduzione nazionale. Come nel caso del latte, le questioni dell’immigrazione e dell’identità nazionale sono al centro delle nuove leggi contro la prostituzione.

La prostituta (migrante, precaria, le cui risorse affettive, linguistiche e somatiche sono gli unici mezzi di produzione) è la figura paradigmatica del/la lavorator* biopolitico del ventunesimo secolo. La questione marxista della proprietà dei mezzi di produzione trova, nella figura della sex worker, una modalità esemplare di sfruttamento. La prima ragione d’alienazione nella prostituta non è l’estrazione di plusvalore del lavoro individuale, ma dipende principalmente dal mancato riconoscimento della sua soggettività e del suo corpo come fonte di verità e di valore: e si afferma nel dire che le puttane non sanno, non possono, non sono soggetti economici o politici a pieno titolo.

Il lavoro sessuale consiste nel creare un dispositivo masturbatorio (attraverso il tatto, il linguaggio e la messa in scena) suscettibile di innescare meccanismi muscolari, neurologici e biochimici che regolano la produzione del piacere nel cliente. Il/la sex worker non vende il suo corpo, ma trasforma, come fanno osteopat*, attor* o pubblicitari*, le proprie risorse somatiche e cognitive in forze vive di produzione. Come l’osteopata usa i suoi muscoli, il/la sex worker fa un pompino con la sua bocca, con la stessa precisione con la quale l’osteopata manipola il sistema muscolo-scheletrico del cliente. Come la/il attor*, la sua capacità sta nel mettere in scena il desiderio. Come un* pubblicitari*, il suo lavoro è quello di creare specifiche forme di piacere attraverso la comunicazione e la relazione sociale. Come qualsiasi lavoro, il lavoro sessuale è il risultato della cooperazione tra soggetti viventi basata sulla produzione di simboli, linguaggio ed emozioni.

Le prostitute sono la carne produttiva subalterna del capitalismo globale. Che un governo socialista faccia del divieto alle donne di trasformare la propria forza produttiva in lavoro una priorità nazionale la dice lunga sulla crisi della sinistra in Europa.

Beatriz Preciado è filosof* , direttor* del programma di studio indipendente presso il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona (MACBA) .

Perché le femministe dovrebbero ascoltare le/i sex worker

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“I/Le sex worker si trovano spesso di fronte a preconcetti radicati, per via dei quali se non divulghiamo le nostre storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut* da molte persone appartenenti al movimento femminista. E’ ora di finirla, perché non vogliamo mettere in scena il nostro ‘porno tragico’ a vostro beneficio”, scrive Elena Jeffreys.

Discorso tenuto da Elena Jeffreys, Presidente Nazionale di Scarlet Alliance, alla conferenza Feminist Future organizzata a Melbourne, Australia, il 28-29 maggio 2011, nell’ambito della discussione “L’importanza del femminismo”.

Scarlet Alliance è un’associazione di rilevanza nazionale formata da sex worker e organizzazioni di sex worker australian*, aperta alla partecipazione di tutt* i/le sex worker, passat* e presenti. Scarlet Alliance incarna oltre due decenni di storia di organizzazione formale tra pari in Australia, ed è formata da diversi collettivi di sex worker in tutto il paese.

Questi collettivi sono attivi nel campo della sensibilizzazione, sviluppo di comunità, promozione della salute, prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e HIV, sostegno alle persone colpite dalle politiche anti-traffico , sostegno per quanto riguarda rapporti di lavoro, giustizia economica e finanziaria, diritto alla casa, assistenza sociale, rinvii giudiziari e di polizia, salute e politica dei diritti umani – oltre 20.000 occasioni di erogazione di servizi diretti a sex worker in Australia ogni anno – e sono parte dell’associazione al fine di garantire che tutte queste informazioni si trasformino in potenti messaggi di rappresentanza a livello nazionale. In occasioni come questa.

Prendiamo molto seriamente la nostra attività di informazione, organizzazione, attivismo e politica da/per sex worker. Non è per noi uno scherzo. Non è indulgenza accademica. L’attivismo delle/i sex worker non è un percorso volto alla carriera. E’ volontariato: nessuno ci paga per essere qui. Non siamo qui per promuovere le nostre carriere e non stiamo cercando di riabilitare lo stigma che sopportiamo nella nostra vita di sex worker o di professionalizzare il nostro curriculum facendo attivismo.

L’attivismo non è una scusa per evadere dalla discriminazione che affrontiamo giorno dopo giorno in quanto sex worker. Il nostro attivismo per i/le sex worker potrebbe anche essere chiamato organizzazione del lavoro, perché senza di esso non avremmo alcun diritto. Tutto quanto le/i sex worker hanno ottenuto in termini di condizioni di lavoro, dignità, salute e accesso ai servizi, lo abbiamo ottenuto perché abbiamo lottato per noi stess*.

Credete a ciò che dico?

Ho la responsabilità, in quanto Presidente Nazionale della Australian Sex Workers Association, di comunicarvi il messaggio politico delle/dei sex worker.

Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.

Non date per scontato nulla delle/i sex worker che incontrerete alla conferenza di Scarlet Alliance questo fine settimana. Non date per scontato nulla sulle/i sex worker incontrat* su Facebook , nei media, e che si dedicano all’attivismo. Non date per scontato che non siamo stat* vittime di violenza, discriminazione, allontanamento dalla famiglia, abuso, violenza, pessime condizioni di lavoro, violenza domestica, povertà, corruzione della polizia o criminalità. Siamo persone, come voi, che hanno affrontato tutto ciò che nel corso di una vita affronta qualsiasi individuo. Ma, in quanto sex worker, affrontiamo anche preconcetti radicati, il che significa che se non condividiamo con voi le storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut*.

Questo è ciò che noi chiamiamo il “porno tragico”: un desiderio, nel movimento femminista, di ascoltare storie tragiche di disagio delle/i sex worker, e quando non lo accontentiamo, ci troviamo ad affrontare l’accusa di nascondere la “verità” sul sex work. Ad esempio, quando parliamo dell’assenza di incidenti relativi alla questione del traffico nell’industria del sesso, siamo accusat* di non riconoscere le condizioni di vita delle/i sex worker migranti. O quando presentiamo statistiche reali sul consumo di droga nell’industria del sesso, ci viene detto che stiamo ignorando o mentendo sul consumo di droga nel lavoro sessuale. Ci si aspetta che ‘mettiamo in scena’ una pornotragedia stereotipata per il pubblico delle femministe, e quando non ci stiamo, non veniamo prese sul serio.

Beh, sto per dirvi qualcosa che potreste non aver preso in considerazione. Non vogliamo recitare per voi.
Non dovremmo usare occasioni come questa come forma pubblica di counselling, o momento di sfogo per le difficoltà della nostra vita, allo scopo di convincervi quando diciamo che esigiamo i nostri diritti umani.

E non vogliamo che la comunità femminista si aspetti, ricompensi, o applauda una persona quando si lascia andare a descrivere tutte le esperienze negative che ha sopportato nella propria vita. Le persone che hanno realmente bisogno di counselling e sostegno per elaborare i propri traumi esistenziali non sono tenute a mostrarveli al fine di accedere ai diritti umani di base, assistenza o giustizia.

Se non credete a ciò che vi diciamo solo perché non vi mostriamo le nostre tragedie, allora siete parte di un circo malato, nel quale le/i sex worker rappresentano una forma di intrattenimento non consensuale.

Le/i sex worker non sono qui per questo. Siamo qui per sostenere la nostra battaglia, e chi non riesce a capirlo si è spostato qui accanto, perché non vogliono vederci vivere la nostra vita traboccanti di forza. [NB: la conferenza Feminist Futures si era divisa sull’argomento: Sheila Jeffreys e altre femministe radicali avevano affittato uno spazio per proseguire con quella che chiamavano la “vera” conferenza femminista, in segno di protesta contro le/gli attivist* pro sex work /pro trans invitat* all’ultimo momento].

Dunque, perché un gruppo di femministe si sente minacciato a tal punto dalle/i sex worker che affrontano energicamente le proprie vite? Beh, la risposta più semplice è che i/le ‘salvator*’ aumentano il proprio prestigio rendendo noi vittime e loro stess* salvator*. Non è una novità, è un fenomeno noto a partire dalla metà del XIX secolo, ai tempi rappresentò la via attraverso la quale molte donne di classe media sfuggirono dalla casa per entrare a far parte della vita pubblica nelle democrazie occidentali, tra cui anche l’Australia. Senza le Puttane Maledette non vi era alcuna necessità della Polizia Divina – le femministe che affermavano di essere la salvezza delle/i sex worker trovarono la fama, vennero celebrate, influenzarono le politiche ed ebbero voce in capitolo in Australia nel corso degli ultimi due secoli. A nostre spese.

Quell* tra voi impegnat* nelle organizzazioni della ‘salvezza’ , devono ammettere che a ‘salvare’ si ottiene privilegio. Posizionandosi nel ruolo di chi aiuta le/gli altr* si ottiene un ruolo nella società, che senza ‘vittime’ semplicemente non esisterebbe.

Questo è il motivo per il quale Scarlet Alliance sostiene una forma di educazione tra pari nel campo del sex work. Un approccio critico che vede le/ i sex worker sostenersi reciprocamente e autonomamente. Questo è il motivo per il quale sosteniamo le organizzazioni delle/i sex worker. Organizzandoci in maniera critica per noi stess*.

Questo è il motivo per cui non reciteremo la ‘nostra tragedia’ per voi. Perché per vivere la nostra vita con forza, è necessario che ci accettiate al nostro meglio. Vogliamo che il movimento femminista la smetta di punirci per la nostra forza, gratificarci per il nostro dolore, guadagnare privilegio alle spalle delle nostre esigenze, e vogliamo che ci ascolti quando parliamo. Noi continueremo ad alzare la voce per i nostri diritti e voi dovrete ascoltarci.

Perché chi nega la nostra esperienza , nega la nostra esistenza. Combattiamo già pessime leggi, non abbiamo anche bisogno di combattere metà della comunità femminista australiana.

Elena Jeffreys è Presidente di Scarlet Alliance. Articolo originale qui.

I’ll show you mine, ovvero chi ha paura della vulva?

I’ll Show You Mine è un libro realizzato da Wrenna Robertson – attivista, accademica e stripper – e dalla fotografa Katie Huisman, insieme a tutte le donne rappresentate nel libro.

Il libro è una risorsa educativa creata allo scopo di decostruire le norme artificiali e irrealistiche della società riguardo alla normalità e bellezza della vulva, aiutare le persone ad avere un’idea realistica dei diversi aspetti di una vulva, e soprattutto delle diverse percezioni che le donne stesse ne hanno. Wrenna ha deciso di realizzare questo libro provocatorio, originale e toccante allo scopo di celebrare la bellezza insita nelle diverse vulve, dopo aver notato che sempre più donne prendono in considerazione la chirurgia estetica o la labioplastica allo scopo di correggere quelle che considerano vulve ‘anormali’ o poco attraenti.

Nel libro vengono quindi rappresentate 60 donne, di etnie ed età diverse, ognuna attraverso due foto della propria vulva accompagnate dal racconto, fatto dalle stesse protagoniste, delle proprie esperienze – tragiche o celebrative, rabbiose o sensuali – in merito alla propria sessualità. Le donne rappresentate appartengono ai percorsi esistenziali più disparati, sono studentesse, dottore, artiste, accademiche, sex worker, madri, nonne, casalinghe, imprenditrici, ecc.

Nelle prossime settimane, proporremo le immagini di alcune delle protagoniste del libro, insieme alla loro storia: cominciamo oggi con Diana. Buona lettura!

Mi chiamo Diana.

Quando ero molto piccola, amavo così tanto la mia vagina. Il suo odore e il suo aspetto mi facevano sentire così bene e a mio agio, ed esprimevo in maniera molto esplicita l’orgoglio che provavo nell’essere una bambina.

Quando ero ancora abbastanza piccola e carina da essere percepita, da occhi adulti, come innocente e innocua, mi vantavo lungamente dei miei genitali, descrivendone nel dettaglio la struttura – considerandoli addirittura di molto migliori rispetto a quelli dei ragazzini che conoscevo.

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Non ricordo esattamente quando, come, o chi mi ha contagiato con la paura e la vergogna che ho sviluppato in merito alla mia vagina, ma dai 6 o 7 anni ho cominciato ad augurarmi che non esistesse. Intorno ai 10 anni, ero praticamente riuscita a nasconderla completamente, anche a me stessa. Le perdite occasionali di fluidi e il terrore mestruale erano le sole cose capaci di ricordarmi di quello spazio che avevo tra le gambe. L’arrivo delle mestruazioni mi fece sentire solamente sporca e consapevole, e cominciai a impacchettare la mia vergogna nella carta igienica e nel cotone, avvolgendo gli assorbenti usati in strati su strati di carta igienica, sperando che la mia famiglia non avrebbe mai scoperto il mio sanguinare.

Non sono cresciuta in un ambiente nel quale alle donne fosse consentito di essere orgogliose di essere donne.

Quando iniziai ad avere rapporti sessuali, avevo già collezionato oltre un decennio di vergogna sessuale. Mi ci è voluto quasi un anno per imparare a sentire, a respirare attraverso il disagio, l’imbarazzo e la colpa, ad accorgermi del fatto che potevo, davvero, sperimentare il piacere.

Ci vuole ancora un sacco di fatica e di incoraggiamento, personale e da parte di altr*, per sentirmi a mio agio nell’esprimere la gioia e la felicità che un tempo provavo per la mia vagina. Partecipare a questo progetto mi ha consentito di provare un nuovo sentimento di amore nei confronti di questa parte del mio corpo – sentire che la mia vulva è desiderata, e può essere amata, e che questo amore è meritato.

 

Il paradosso del paragone tra animalist*e pro-life: una riflessione

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Andy Warhol era un profeta.

Davvero molto interessante osservare lo tsunami di commenti che si sono avvicendati sui social, a velocità frenetica, in seguito alla mediatizzazione del caso di Caterina (la nostra riflessione in merito è qui). Quello che colpisce è la quantità di preconcetti, frasi fatte, inesattezze ripetute come mantra a qualsiasi interlocutore, possibilmente farcite di aperto disprezzo, dileggio, ostilità e violenza verbale. Mantenere toni pacati quando qualcun* ti grida in faccia di essere “estremista” – peraltro ignorando qualsiasi tuo tentativo di stabilire una connessione, un dialogo che ristabilisca la possibilità di una riflessione pacata – è davvero un’impresa ardua. Riflettere dunque è quello che cerchiamo di fare qui, e riflettere costa certo più tempo e fatica che insultare e pontificare in 150 parole, ma dal nostro punto di vista, è sicuramente più interessante e produttivo.

Da dove partire dunque? Beh, la tentazione di riprendere per filo e per segno le tante assurdità speciste lette o ascoltate in questi giorni è forte: essendo tutt* nat* e cresciut* in un milieu specista, sarebbe divertente – se non fosse tragico negli esiti per gli animali non umani – rilevare come la mente addestrata ad essere specista dall’infanzia infarcisca di giustificazioni pseudomorali, pseudoevoluzionistiche e financo pseudocreazioniste la realtà dell’uso della violenza che sottende il dominio, il potere, l’assoggettamento schiavistico e utilitaristico dei cosiddetti ‘animali’ (non umani, aggiungiamo noi). L’acriticità con cui si usano i più svariati argomenti, spesso contraddittori, allo scopo di giustificare l’uso della violenza e il mantenimento del privilegio specista è davvero aberrante, di una malafede senza fine e caratterizzato da un dogmatismo raro (un esempio per tutti, nello stesso dialogo si pone la radicale differenza tra ‘umani’ e ‘animali’ (schiacciando in un calderone informe zanzare e scimmie antropomorfe che condividono il 90% del patrimonio genetico con noi, che a questo punto dobbiamo, per mantenere le distanze, elevarci al parnaso dei semidei), per poi usare invece l’esempio dei carnivori obbligati e le attività di predazione come giustificazione dell’uso della violenza  -ah, ma allora siamo animali? – e stabilire quindi che anche se siamo così indubitabilmente divers* non lo siamo poi davvero nel momento in cui ci serve utilizzare gli animali per la sperimentazione a beneficio umano… i quali insomma, sarebbero uguali a noi quando ci fa comodo, ma diversi da noi quando gli interessi da salvaguardare sono i loro, e che passano continuamente in uno stesso discorso dallo status di simili a quello di dissimili, senza che nessun* alzi un sopracciglio).

Un vero insulto a quel carattere di intelligenza, moralità ed etica che si presuppone alla radice di tutta questa ‘differenza innata’ tra ‘noi’ e gli altri animali. A volte un sincero “sarà come dite, ma in sostanza me ne frego” sarebbe molto più dignitoso, anche perché le pseudo-giustificazioni ricordano tanto le dinamiche di potere che opprimono le donne su basi ugualmente false e arbitrarie (in bocca a quegli uomini che usano allo stesso modo il proprio potere e privilegio a proprio vantaggio, giustificandolo affermando ad esempio che le donne ‘se la sono cercata’ quando vengono stuprate, che le donne sono ‘naturalmente materne’ pertanto da ricacciare nell’ambito domestico e di cura senza se e senza ma, ecc.ecc.)

A proposito di donne, e a proposito di femministe.

Dal mio punto di vista situato – di donna e femminista antispecista – sento l’esigenza di focalizzare l’attenzione su di un aspetto particolare, nel quale sono incappata diverse volte in questi giorni, per lo più in ambito femminista: il paragone tra animalist* e pro-life, sul quale vorrei spendere qualche parola in più.

Prima di tutto, è interessante notare come le uscite inqualificabili di alcuni individui, identificati come animalist*, ma che non esiterei a definire persone psicologicamente disturbate, siano state usate a pretesto per definire in senso negativo un’intera categoria di persone (e, ancor peggio, ricacciare gli animali nel loro inferno senza ripensamenti o dubbi): una generalizzazione funzionale alla creazione del ‘mostro antispecista’, essere umano che ha voltato le spalle alla propria specie per una forma di perversione o odio di sé o masochismo, che ne fa un essere pericoloso e distruttivo, per sé e per gli altr*. Questa dinamica ha generato una fiumana di reazioni parimenti odiose o anche più estremiste da parte di specist* che però non avrebbero potuto essere messe in discussione nemmeno da un Gandhi redivivo, in virtù di un appiattimento e di una polarizzazione del discorso che ha realizzato un conflitto cieco e violento al pari di quello tipico delle curve di uno stadio alla domenica pomeriggio.

Questa dinamica ha caratterizzato gli scambi anche all’interno di contesti che avrei reputato meno inclini a facili generalizzazioni, come quello femminista, il quale, apparentemente aperto all’intersezionalità – quando parla di relazione inscindibile tra antisessismo e antirazzismo, per dirne una – spesso rinsalda il proprio muro difensivo dogmatico di fronte a qualsiasi tentativo di problematizzazione in senso antispecista, anche di fronte a persone appartenenti allo stesso contesto che, in altre situazioni, non si è esitato a definire “compagne” o “sorelle”… alla faccia della sorellanza!

La dinamica probabilmente dipende da fattori complessi, che passano anche attraverso la difficoltà di esperirsi non solo in quanto categoria oppressa ma anche oppressiva (risulta difficile farlo anche tra diversi femminismi!), dalla ancora relativa invisibilità dell’oppressione specista (un’oppressione è tanto più invisibile quanto più è considerata ‘normale’ dalla maggior parte della persone appartenenti alla categoria che detiene il privilegio), dalla paura tutta femminista di essere ricacciat* in un animalità che, da tempi immemori, è stata la cifra caratterizzante di tutto un discorso volto a dominare i corpi e le vite di donne, persone di colore, diversamente abili, comunità deboli in generale.

Il fatto che lascia perpless* però, è che invece di smascherare i meccanismi che stanno alla base dell’oppressione – ad esempio la creazione arbitraria di una supposta distinzione di valore, atta a dare ad alcuni soggetti diritto di esistenza e di qualità dell’esistenza, a scapito dell’esistenza e della qualità dell’esistenza di altri soggetti – squalificati per le proprie differenze da un ‘esemplare tipo’, di volta in volta ricalcato su chi in quel momento è il dominante (il maschio bianco eterosessuale occidentale in un caso, l’essere umano generico nell’altro) – si cerca semplicisticamente di rientrare nell’insieme privilegiato, senza andare a sradicare il sistema di dominio basato sull’imposizione del proprio potere, perlopiù coercitivo, su altri individui.

Tra le strategie che sono state utilizzate in questo senso, una merita particolare attenzione, ed è quella di paragonare l’atteggiamento animalista (o antispecista, parola che andrebbe conosciuta meglio negli ambiti di attivismo sociale e che è invece altezzosamente ignorata) a quello dei militanti pro-life: un tasto dolorosissimo e sensibile per tutte le femministe, che ha come risultato una chiusura difensiva a riccio, ma a ben vedere un paragone completamente erroneo, come cercherò di far intendere a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qui.

Quello che le femministe faticano a vedere è che, nei fatti, è proprio l’elevazione arbitraria della vita umana a valore insuperabile e inarrivabile tipica dello specismo,  una sacralizzazione che va a braccetto con la foga religiosa anch’essa da sempre propugnatrice di privilegi impossibili da scalfire in virtù dell’adesione ad una fede aprioristica (che stabilisce il primato di dio sull’essere umano, dell’essere umano maschile su quello femminile, dell’essere umano in generale su tutti gli altri animali – tutte categorie e ‘caste’ presenti e ricorrenti in tutto il testo biblico a cui si rifanno la maggior parte dei pro-life) a proteggere il feto e ad elevarlo persino al di sopra della donna che lo porta in grembo, che è ridotta a contenitore di ‘vita in potenza’.

Il biopotere, che penetra nelle nostre vite e nei nostri corpi, sottostà alle stesse dinamiche e non fa grosse differenze, che si tratti di animali umani o non umani: anzi, spesso i non umani sono il ‘banco di prova’ di pratiche poi inevitabilmente utilizzate anche in ambito umano.

Pattrice Jones, attivista femminista antispecista, allarga la riflessione ulteriormente, e scrive in proposito:

Esiste in merito una corrispondenza superficiale, perché entrambe le controversie si focalizzano sul disaccordo fondamentale circa le prerogative delle persone in relazione a classi specifiche di organismi. Ma le somiglianze finiscono qui.  Diciamo che “la carne è assassinio” perché il mangiatore di carne non ha giustificazioni nell’uccidere un altro essere vivente al solo scopo di provare la sensazione piacevole che può derivare dal mangiar carne. Chi sostiene il carnivorismo offre ogni sorta di giustificazione alla pratica, ma nessuno può mettere in discussione il fatto che l’animale ucciso non è la stessa entità rispetto a chi si nutre della sua carne. La discussione verte quindi sul fatto se sia o meno giustificata l’uccisione, piuttosto che sul decidere se l’animale sia o meno un’entità separata. All’opposto, coloro che si definiscono attivist* “pro-life” definiscono l’aborto omicidio, mentre chi si definisce pro-choice risponde: “i nostri corpi, le nostre vite, il nostro diritto a decidere”.  Il fulcro del conflitto risiede perciò nel considerare l’entità abortita un individuo o meno. La maggior parte delle persone concorda nell’affermare che tutt* hanno il diritto di disporre dei propri corpi, fintantoché nel farlo non si nuoccia ad altr*. Allo stesso modo, quasi tutte le persone sono d’accordo nell’affermare che nessuno ha il diritto di uccidere un’altra persona salvo la giustificazione dell’autodifesa. Il problema qui, è il disaccordo che esiste sul quando una donna incinta e il feto che si sta sviluppando diventano entità separate. Non possiamo raggiungere un consenso sull’aborto perché la gravidanza è un processo misterioso.  All’inizio del processo esiste una sola persona che ha il diritto di disporre del proprio corpo, mentre alla fine del processo le persone esistenti sono due, e ognuna ha il diritto di non subire violenze da parte di altr*. Dunque nel corso del processo, l’organismo madre-figlio è precisamente il tipo di paradosso che la cultura occidentale non può tollerare: una persona e due individui allo stesso tempo. […] Per questo non sorprende che sia difficile trovare un punto di contatto […] anche tra donne.  In questo momento di empasse, sarebbe sicuramente più produttivo se i pro-life e i pro-choice, invece di passare il tempo a dibattere sull’aborto, focalizzassero la propria attenzione su quelle pratiche che sappiamo ridurre le gravidanze indesiderate, quali la contraccezione garantita per tutt*,  fare in modo che le persone, specialmente giovani, conoscano i diecimila modi di fare buon sesso che non includono la penetrazione, problematizzare e mettere in discussione quell’idea culturale che vede l’attività sessuale penetrativa alla base di una relazione sentimentale, ponendo la parola fine allo stupro e al sesso non consensuale caratteristico di molte relazioni eterosessuali, e allo sfruttamento sessuale. Se ci concentrassimo su questi aspetti, suppongo che la necessità di aborti diventerebbe così insignificante che smetterebbe di costituire una controversia di tali proporzioni […] Siamo onest*: a nessuna piace abortire. Non è orribile come una gravidanza indesiderata portata a termine, ma non è piacevole. La vera libertà riproduttiva  passa attraverso la libertà dalle gravidanze indesiderate.  Pertanto, mentre non ritengo la controversia sull’aborto in alcun modo analoga a quella riguardante la liberazione animale, credo che la libertà riproduttiva sia un tema centrale rispetto alla liberazione animale. Che cos’è esattamente il processo di domesticazione? Riduzione in schiavitù combinata a controllo della riproduzione. Come si perpetua l’allevamento? Attraverso il controllo totale delle vite riproduttive degli animali dominati. […] Dobbiamo approfondire e chiarire la nostra comprensione del ruolo centrale che ha il controllo della riproduzione nello sfruttamento, degli animali non umani e delle donne.

Ritornando perciò al concetto di biopotere.

Ribaltando il paragone erroneo tra animalist* e pro-life, ho cercato qui di dimostrare come la difesa del feto attuata dai pro-life scaturisca proprio da quell’idea di unicità inarrivabile e distanza tra l’umano e tutto ciò che non lo è; e di converso, che la biopolitica attuata sui corpi degli animali non umani anche in merito al controllo della riproduzione, è lo specchio e l’anticamera del controllo sempre più pervasivo che viene attuato anche sui corpi umani e la loro riproduzione (in merito perciò all’aborto, alla fecondazione assistita, ma allargando il discorso anche, ad esempio, su eutanasia e fine vita). Lo stringersi delle maglie del controllo da parte del sistema passa attraverso il corpo degli animali non umani, e lo specismo, discorso fondante della nostra società, ha avallato pratiche di dominio vergognose, che in realtà possono ritorcersi contro qualsiasi essere, umano e non.

Finché non abbracceremo un’idea davvero libertaria e rivoluzionaria che sostenga ‘senza se e senza ma’ la libertà e dignità di animali umani e non, finché non la smetteremo di disprezzare nel profondo ‘gli animali che dunque siamo’, non potremo che abbracciare, consapevolmente o meno, le dinamiche di dominio e di potere del sistema che diciamo di voler abbattere il quale sceglie, arbitrariamente e di volta in volta, le categorie da privilegiare e da opprimere.

Ignorare la sofferenza degli animali non umani, in sostanza, fa il gioco di quel potere che opprime da sempre non solo i non umani, ma anche innumerevoli e incolpevoli animali umani, ovvero… noi stess*. E’ ora di aprire gli occhi e rendersene conto.

L’ultima frontiera della sperimentazione animale: strumentalizzare malat* per ottenere consenso.

 

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Se qualcosa salta all’occhio di tutto il bailamme di mosse, contromosse, proclami, interessi economici e politici, nonché di casta* che si agitano intorno alla sperimentazione animale – anche alla luce della tremenda Direttiva 2010/63/UE (qui si può avere un’idea delle torture che continueranno a subire milioni di animali non umani) – è sicuramente il fatto che la lobby che ruota intorno a certa ricerca, quella smaccatamente pro sperimentazione animale, è “scesa in campo”, in maniera aggressiva e senza esclusione di colpi, per difendere il proprio diritto a disporre dei corpi e delle vite altrui a proprio piacimento. Questo è un buon segno: quantomeno a livello politico, significa che qualcosa si sta muovendo. E’ un segnale piccolo e ancora insufficiente, ma inequivocabile: chi ha grossi interessi da perdere ha deciso di giocare qualsiasi carta possibile per riguadagnare il consenso popolare, e così ad ogni piè sospinto fa la voce grossa con il sostegno di tutti i media mainstream, golosamente alla ricerca del titolo più altisonante.

Il titolo di oggi, uno dei tanti, è  questo (ma c’è anche questo, o questo): Difende test su animali. Giovane malata riceve auguri di morte su Facebook.

Ecco, questo fa schifo, ma veramente tanto.
Usare l’immagine iconica di una ragazza malata, occhi dolci contornati dall’ingombrante e tragica presenza del respiratore, per di più vegetariana e che studia veterinaria (ma ciononostante favorevole alla sperimentazione animale) per sponsorizzare la ricerca che utilizza gli animali non umani è veramente una tra le mosse più becere di qualsiasi campagna di marketing emozionale mai inventata sinora.

Mi spiace molto per Caterina, che credo in buona fede: e non nego in alcun modo la sua sofferenza, né quello che reputa essere il proprio genuino amore per gli animali, ma immagino non si sia resa conto che la sua iniziativa sarebbe stata cavalcata per sostenere ben altri interessi, sull’onda dell’emozione (come politici vari hanno subito fatto, allo scopo di ottenere un pò di promozione gratuita).

Per inciso, è interessante notare come il punto di vista estremamente situato di una malata grave (che non è di certo neutro rispetto alla propria malattia e sofferenza) viene accolto, proprio in virtù della carica emotiva che porta con sé, in maniera totalmente acritica da migliaia di persone. Insomma, se una ragazza giovane, dolce e amante degli animali, afflitta da malattie invalidanti e orribili, pur tuttavia reputa legittima la sperimentazione animale, perché non dovrebbero farlo tutte le altre persone?

Il punto però è un altro: il punto non è la generica quanto vaga affermazione di  ‘amare gli animali’, il punto è semplicemente ammettere che possiamo fare loro quello che facciamo (dalla sperimentazione, agli allevamenti, ecc.ecc.) perché ne abbiamo la forza, e con forza intendo la forza bruta, ovvero attraverso l’uso della violenza. 

Caterina di certo soffre, come è destino di molti, se non tutti gli animali, umani e non. Caterina desidera vivere, e anche gli animali, umani e non, sottoposti ad atroci torture o sofferenze lo desidererebbero. E non è neanche importante sottolineare che gli altri animali non sono ‘solo’ topi, ma anche cani, uguali a quelli che Caterina stringe a sé e che ama, riamata, o scimmie antropomorfe, gatti, e qualsiasi essere ritenuto candidato ideale alla tortura. 

VivisectionQuello che non va, in questo ragionamento, è che non può esistere alcuna scusa ‘morale’, per usare violenza, per dominare altri esseri viventi, per imporre sofferenza fisica e psicologica intollerabile e morte. Non auguro a nessuno la morte, ancor meno la sofferenza (e quell* che lo fanno, e lo hanno fatto in questa situazione, sono persone deprecabili a cui va tutta la mia pena). Non la auguro a Caterina, ma nemmeno agli animali che la stanno subendo ora, chiusi in qualche asettico laboratorio. E non sono qui a dire che chi soffre non dovrebbe curarsi con farmaci sperimentati su animali, come potrei? Ad oggi nemmeno esistono! Ma che errore fa Caterina nell’affermare “sono viva grazie alla sperimentazione animale”.

L’errore si manifesta in due modi: primo, perché lei – come tutt* noi – non può sapere a che punto sarebbe oggi la ricerca scientifica se lo sviluppo etico fosse progredito alla velocità di quello tecnologico, e se avessimo rinunciato da tempo ad usare gli animali non umani per scoprire come combattere la malattia e l’inevitabile sofferenza. Chi può dire se oggi la scienza sarebbe più o meno progredita rispetto allo stato attuale? Inoltre vale la pena notare che al momento una persona come lei, volendosi curare – e di persone affette da svariate patologie ne esistono tante, anche tra le/gli antispecist*! – non avrebbe comunque, anche desiderandolo, altra possibilità.

Le alternative non vengono quasi mai presa seriamente in considerazione, e alla ricerca senza animali vanno sempre le briciole di quei fondi così prodigalmente raccolti da Telethon et similia.  Da quando la sperimentazione sugli animali ha preso piede, è stato l’unico paradigma considerato valido, un mantra ripetuto a generazioni di studenti, una prassi imposta che ha tarpato le ali alla possibilità di una scienza etica, che non definisca arbitrariamente quali siano i soggetti degni di essere curati e quelli che possono essere sacrificati.

La ‘scienza’ che invece conosciamo ha ritenuto possibile, citando casi nemmeno così lontani nel tempo, compiere esperimenti anche su neri, ebrei, comunità povere  (qui una efficace disamina delle intersezioni tra sperimentazione animale umana e non umana di Breeze Harper), animalizzando questi individui, reificandoli, approfittando della loro debolezza esattamente come avviene per gli animali non umani. E questo chiaramente esplicita come, fino a quando esisteranno categorie di valore tra individui (umani e non), davvero nessun* potrà essere sicur* di ricadere nell’insieme dei privilegiati.

La realtà è che viviamo in un mondo specista – oltreché razzista e sessista – fatto di distinzioni arbitrarie di valore e privilegio sostenute con l’uso della forza – anche quando è “legittimata”, è sempre forza – e della sopraffazione. L’ottica antispecista richiede invece di lasciare indietro le dicotomie degli opposti tanto care a chi sostiene la sperimentazione, e al posto di scegliere ‘tra il cane e il bambino’ è tesa a trovare il modo di salvaguardare gli interessi di entrambi. Questo è quello che andrebbe fatto, questo è quello che ci sforziamo di mettere in pratica, e la consapevolezza del fatto che ciò non è sempre possibile nella situazione attuale (o che la coerenza assoluta tra principi e prassi, per quanto auspicabile, è spesso difficilmente realizzabile) non può rendere lo sfruttamento degli altri individui una regola, anziché una eccezione.

Ed ecco svelato anche perché ‘l’icona Caterina’, trasformata in martire votata alla sperimentazione – in parte anche contro la sua volontà – ha avuto, solo sul sito di Repubblica.it,  migliaia di condivisioni, mentre le dichiarazioni di Susanna Penco, ricercatrice e biologa dell’Università di Genova contraria alla sperimentazione animale, oltreché malata di sclerosi multipla (qui un suo video di qualche tempo fa, dove con calma e precisione circostanzia, da addetta i lavori, la sua scelta e la difficoltà ad andare controcorrente pestando i piedi di chi ha grossi interessi da difendere) vengono prese blandamente in considerazione.

Le dinamiche di potere in mano alla politica e a chi ha grossi interessi economici e di prestigio in ballo, ricevono euforicamente l’appoggio della malafede specista, tanto cara a tutte le persone che volentieri tacitano le voci in disaccordo, trovando un buon motivo per continuare a dominare, sopraffare, seviziare e uccidere nell’approvazione generale. Sono d’accordo con Caterina quando dice che bisognerebbe rinunciare alla carne, rinunciare alla caccia, rinunciare alle pellicce… ma non basta, e queste sue affermazioni sono passate sicuramente inascoltate, come tutte quelle che invece di guardare al quadro globale, instaurano la teoria delle priorità (prima gli umani, poi tutti gli altri) per non cambiare di una virgola il sistema.

Non basta, dicevo, perché bisogna rinunciare anche alla sperimentazione animale: non certo per far morire gli ammalati, ma per curarli senza sporcarsi le mani del sangue e della sofferenza di altri individui. 

Si può scegliere di essere malati? Certo che no. Si può chiedere di voler essere curati senza far soffrire altr* e perciò sostenere una ricerca senza l’uso di animali? Sicuramente sì. Si deve per questo rinunciare alle cure? Io credo di no, ma anzi bisogna farsi ambasciatrici e ambasciatori, in quanto malat* e perciò persone con una conoscenza profonda della sofferenza, della necessità di una scienza finalmente senza crudeltà.

*definizione di ‘scienziati’: moderni e, a loro dire, infallibili profeti della legge divina del nuovo millennio, quella Scienza con la esse maiuscola che richiede sacrifici, umani e non umani, e la fede cieca del volgo al pari di vecchie e nuove religioni.

 


 

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

di Carol J. Adams.

Tratto da: C. Adams, «Ecofeminism and the Eating of Animals», Hypathia, No. 6, Spring 1991, pp. 134-137.

Traduzione di Marco Reggio, originariamente pubblicata su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 44-46.

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Una rappresentazione pubblicitaria che promuove l’alimentazione carnivora giocando sull’alleanza tra «natura» e «cultura»: «Il reparto surgelati: il nuovo terreno di caccia dei carnivori», locandina della ditta francese Charal.

Siamo o no predatori? Nel tentativo di considerare noi stessi come esseri naturali, alcuni sostengono che gli esseri umani sono semplicemente predatori, come alcuni altri animali. Il vegetarismo, pertanto, è considerato innaturale, mentre il carnivorismo di altri animali viene reso paradigmatico. I sostenitori dei diritti animali sono criticati «perché non capiscono che il fatto che una specie dia o riceva sostentamento da un’altra rappresenta la modalità con cui la natura mantiene la vita» (Ahlers 1990, p. 433). Le profonde differenze rispetto agli animali carnivori vengono ignorate poiché la nozione dell’umano come predatore è conforme all’idea secondo cui noi abbiamo bisogno di mangiare carne. In realtà, il carnivorismo è un dato di fatto solo per il 20% circa degli animali non umani. Possiamo davvero generalizzare a partire da questo dato e sostenere di conoscere precisamente che cosa sia la «modalità naturale», e possiamo estrapolare il ruolo degli umani conformemente a questo paradigma?

Alcune femministe hanno sostenuto che mangiare animali sia naturale perché noi non possediamo il doppio stomaco o i molari piatti tipici degli erbivori ed inoltre gli scimpanzé mangiano carne e lo considerano un cibo speciale (Kevles 1990). Questo argomento tratto dall’anatomia implica un’operazione di filtraggio selettivo. Infatti, tutti i primati sono principalmente erbivori. Sebbene alcuni scimpanzé siano stati osservati mentre mangiavano cadaveri – al massimo sei volte al mese – alcuni di essi non ne mangiano mai. La carne di cadavere costituisce meno del 4% della dieta degli scimpanzé; molti mangiano insetti, e non mangiano latticini (Barnard 1990). Vi sembra paragonabile alla dieta degli umani?

Gli scimpanzé, come la maggior parte degli animali carnivori, sono apparentemente molto più adatti a catturare animali rispetto agli umani. Noi siamo molto più lenti. Loro possiedono canini molto sporgenti per strappare la pelle; tutti gli ominidi hanno perso i lunghi canini 3,5 milioni di anni fa, apparentemente per facilitare la frantumazione necessaria ad una dieta a base di frutta, foglie, semi oleosi, germogli e legumi. Se anche noi riusciamo ad afferrare le prede, non possiamo lacerarne la pelle. È vero che gli scimpanzé si comportano come se la carne fosse un cibo speciale. Quando gli umani vivevano come raccoglitori e quando il petrolio era raro, la carne degli animali morti era una buona fonte di calorie. Può darsi che la connotazione di «cibo speciale» abbia a che fare con una capacità di riconoscere fonti di calorie concentrate. Comunque, non abbiamo più bisogno di fonti di calorie concentrate come il grasso animale, dal momento che il nostro problema non è la scarsità di grasso ma piuttosto l’eccesso di grasso.

Quando viene presentato l’argomento per cui mangiare carne sarebbe naturale, si presume che si debba continuare a consumare animali perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: per sopravvivere conformemente ad una vita libera dai vincoli artificiali e culturali che ci privano della possibilità di esperire la nostra reale essenza. Il paradigma degli animali carnivori fornisce la rassicurazione che mangiare animali sia naturale. Ma come facciamo a sapere che cosa è naturale quando si tratta di alimentazione, sia per via della costruzione sociale della realtà, sia per via del fatto che la nostra storia indica un messaggio molto ambivalente riguardo il cibarsi di animali? Alcuni li mangiavano, ma la maggior parte no, o almeno non in grande quantità.

L’argomento riguardante che cosa sia naturale – ovvero, secondo un significato di tale termine, non culturalmente costruito, non artificiale, ma qualcosa che riporta alla nostra vera essenza – si ritrova in un contesto diverso che desta sempre dei sospetti da parte delle femministe. Viene spesso sostenuto che la subordinazione della donna all’uomo è naturale. Questo argomento cerca di negare la realtà sociale facendo appello a quella «naturale». L’argomento del predatore «naturale», analogamente, ignora la costruzione sociale. Dato che mangiamo cadaveri in modo molto diverso da qualsiasi altro animale – smembrati, non appena uccisi, non crudi, e accompagnati da altri cibi – che cosa rende naturale tale abitudine?

La carne è un costrutto culturale fatto per sembrare naturale e inevitabile. Nel momento in cui viene elaborato l’argomento dell’analogia con gli animali carnivori, l’individuo che lo elabora ha probabilmente consumato animali da prima ancora di aver imparato a parlare. Le razionalizzazioni del consumo di animali sono state probabilmente suggerite quando questo individuo, all’età di quattro o cinque anni, è rimasto sconcertato nello scoprire che la carne proviene da animali morti. Il sapore dei corpi morti viene prima delle giustificazioni razionali, ed offre una forte base per credere che tali razionalizzazioni siano vere; inoltre, i figli del boom economico hanno dovuto fare i conti con un ulteriore problema, e cioè con il fatto che durante la loro crescita carne e latticini sono stati consacrati come due dei quattro gruppi di cibi fondamentali. (Questo è accaduto negli anni Cinquanta come conseguenza di un’azione lobbystica dell’industria della carne e del latte. All’alba del nuovo secolo, ci sono invece dodici gruppi di cibi fondamentali.) Quindi gli individui non hanno semplicemente sperimentato una gratificazione a livello di gusto nel mangiare animali, ma forse credono davvero a quanto è stato loro detto incessantemente fin dall’infanzia, ossia che gli animali morti sono necessari per la sopravvivenza umana. L’idea che mangiare carne sia naturale si sviluppa in tale contesto. L’ideologia fa sembrare naturale, predestinato ciò che è artificiale. In realtà, l’ideologia stessa scompare dietro la facciata per cui si tratterebbe di una questione di «cibo».

Noi interagiamo con singoli animali quotidianamente nel momento in cui li mangiamo. Ciò nonostante, questa relazione e le sue implicazioni sono ricollocate in modo che gli animali scompaiano e che si possa dire che stiamo interagendo con una forma di cibo che è stata chiamata «carne». In The Sexual Politics of Meat, ho chiamato questo processo concettuale in cui l’animale scompare la struttura del referente assente. Gli animali di nome e di fatto vengono resi assenti in quanto animali affinché esista la carne. Se gli animali sono vivi non possono essere carne. Dunque, un corpo morto sostituisce l’animale vivo e gli animali diventano referenti assenti. Senza gli animali non ci sarebbe alcun carnivorismo, eppure sono assenti dall’atto di mangiare carne poiché sono stati trasformati in cibo.

Gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio che rinomina i corpi morti prima che i consumatori condividano il fatto di cibarsene. Il referente assente ci permette di dimenticarci dell’animale in quanto entità a sé stante. L’arrosto nel piatto è smembrato a partire dal maiale o dalla scrofa che una volta era. Il referente assente ci permette inoltre di resistere ai tentativi di rendere presenti gli animali, perpetuando una gerarchia fra mezzi e fini.

Il referente assente deriva dalla prigionia ideologica e la rinforza: l’ideologia patriarcale stabilisce la posizione culturale di uomo e animale; crea dei criteri che presuppongano l’importanza della differenza di specie quando si considera chi può essere un mezzo e chi può essere un fine, e poi ci indottrina a credere che abbiamo bisogno di mangiare animali. Contemporaneamente, la struttura del referente assente mantiene gli animali assenti dalla nostra comprensione dell’ideologia patriarcale e ci rende restii a considerare gli animali come presenti.

Ciò significa che dobbiamo continuare ad interpretare gli animali dal punto di vista dei bisogni e degli interessi umani: li vediamo come utilizzabili e consumabili. Molti discorsi femministi sono partecipi di questa struttura nel momento in cui non riescono a rendere visibili gli animali.

L’ontologia riassume l’ideologia. In altri termini, l’ideologia crea ciò che appare come ontologico: se le donne sono ontologizzate come oggetti sessuali (o stuprabili, come sostengono alcune femministe), gli animali sono ontologizzati come fonti di carne. Ontologizzando donne e animali come oggetti, il nostro linguaggio elimina contemporaneamente il fatto che qualcun altro agisca come soggetto / agente / esecutore di violenza.

Sarah Lucia Hoagland dimostra come funziona tale meccanismo: «John ha picchiato Mary» diventa «Mary è stata picchiata da John», poi «Mary è stata picchiata», infine «donne picchiate», e quindi «donne maltrattate». Hoagland fa notare che «ora qualcosa che gli uomini fanno alle donne è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura delle donne. E perdiamo completamente di vista John».

La nozione del corpo animale come commestibile si presenta in modo analogo e rimuove l’azione degli umani che comprano animali morti per consumarli: «Qualcuno uccide gli animali in modo che io possa mangiarne i corpi sotto forma di carne» diventa «gli animali vengono uccisi per essere mangiati come carne», poi «gli animali sono carne», infine «animali da carne», e quindi «carne». Qualcosa che facciamo agli animali è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura degli animali, e perdiamo completamente di vista il nostro ruolo.

Bibliografia

Julia Ahlers, «Thinking like a mountain: Toward a sensible land ethic», Christian Century, April 25, pp. 433-34.

Neal Barnard, «The evolution of the human diet», in The power of your plate, TN: Book Publishing Co, 1990 Summertown.

Sarah Lucia Hoagland, Lesbian ethics: Toward new values, CA: Institute for Lesbian Studies, 1988 Palo Alto.

Bettyann Kevles, «Meat, morality and masculinity», The Women’s Review of Books, May 1990, pp. 11-12.

Siate come i maiali

Riceviamo, e volentieri condividiamo, questo post di Sara Romagnoli. Buona lettura!

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In questi giorni, centinaia di allevatori si sono radunati in piazza, davanti a Montecitorio.

Lo hanno fatto con alcuni maiali, che inconsapevoli, insieme a loro, protestavano perché non riconosciuti come maiali italiani da forchette, coltelli e più in generale signori palati e compagne papille.

Chiusi in un recinto, sdraiati su giacigli di paglia nel vano tentativo di dormire, cuccioli di maiale si stringevano forte gli uni sugli altri, un unico roseo corpo. Tra gli esponenti della Coldiretti qualcuno li accarezzava – i cuccioli fan sempre un certo effetto, nonostante tutto – e nel fragore di clacson, fischietti, megafoni e microfoni giornalistici si sbraitava, si accusava, si denunciava e soprattutto si pretendeva di argomentare facendo uso di termini come “materia prima”, accomunando quegli stessi cuccioli alle spighe di mais i cui chicchi macinati al mulino diventano farina, ed in seguito filoni di pane.

Svolgendo quell’equazione matematica frutto di sociopatia per la quale i maiali stanno al Parmacotto come le conifere della Russia stanno all’Ikea, il teatrino svoltosi in piazza a Roma costringe l’antispecismo teorico ad inventare nuove teorie e ad affinare quelle già discusse, perché con la protesta di oggi (e a dire il vero con proteste simili già svoltesi anni addietro), ha chiamato in causa qualcosa di peggiore del fatidico “referente assente”, giacché il referente era presente eccome, in carne ed ossa – è proprio il caso di dirlo – al centro del dibattito, spalleggiato da parenti più o meno stretti sotto forma di cosce affumicate.

Nella recriminazione di una folla arrabbiata che rivendica diritti per se stessa, in quanto categoria lavoratrice, nessuno pare cogliere l’irrazionalità di un comportamento quasi bipolare che dispensa carezze al suo protetto ed al tempo stesso esige il rispetto ed il riconoscimento per la sua futura carriera di cotechino.

Inutile sottolineare in questa sede, quanto al danno si aggiunga la beffa per coloro che, volenti o nolenti, si ritrovano a contribuire ANCHE di tasca propria a questa forma di follia istituzionalizzata, giacché le sovvenzioni agli allevatori incarnano talmente bene lo spirito democratico del Paese che non fanno distinzioni ed attingono in egual misura da animalisti, vegetariani, vegani, antispecisti, che diciamolo chiaramente, spenderebbero più di buon grado quegli stessi soldi in cubetti di ghiaccio in Antartide.

E mentre nella capitale della politica italiana va in scena la mistificazione distillata della felice storia di tutte le Peppa Pig del mondo, nella capitale della Cina italiana (Prato), il palco è impegnato con la citazione delle tre scimmiette: Io non vedo, Io non parlo, Io non sento.

Complice la crisi, l’assenza di questi ulteriori referenti dagli occhi a mandorla è diventata man mano sempre più accentuata, ma si tratta di un accento che si limita a farsi (non)sentire solo sul piano nominale.

Che piccole mani orientali tessano, cuciano, incollino, taglino, sferruzzino e tanto altro ancora 24h su 24 è risaputo da tutti ormai, ma i cinesi ci rendono le cose molto più semplici: si rendono “assenti” senza che ci sia bisogno che qualcun altro lo faccia per loro; si fanno piccoli, più piccoli di quanto già non siano, e si calano talmente bene nell’occidentalissimo ruolo di “risorse umane” (quanto fa schifo questo termine? Diciamo anche questo suvvia), da diventare schiavi.

Schiavi che stipati, pigiati, pressati e sfruttati lavorano in silenzio per meno di 3€ l’ora senza lamentarsi, senza denunciare, senza quasi scomporsi. Limitandosi a tentare di salvarsi la vita quando proprio sono al limite e quando arriva il fuoco a lambire gli scatoloni ove a conti fatti dormono, mangiano e lavorano.

Le analisi di premesse e dinamiche che permettono che cose come queste avvengano sono complesse e meriterebbero interi saggi.

A quei cinesi qui possiamo solo limitarci a dire di essere come i maiali. I maiali da vivi, ben inteso.

Avete mai provato a forzare un maiale? A costringerlo a fare qualcosa che capisce esser male per lui, o anche semplicemente a fargli fare qualcosa che non vuole, che non gli piace?

Il maiale strepita, si dibatte, si agita, si impunta, si dispera, urla, piange. Il maiale si ribella.

E a dispetto dello specismo che lo prende a prestito per indurre la vergogna ed indicare perversione e lordura, il maiale è un animale nobile che sconta l’esser divenuto l’incarnazione del concetto di risorsa al massimo livello.

Perché del maiale non si butta via niente dice l’antico adagio.

Niente esclusa la vita. Aggiungiamo noi.

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Paura dei sentimenti: trauma e guarigione nel movimento di liberazione animale

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di Pattrice Jones, traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Anche nel caso di questa traduzione sottolineiamo che nel testo viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Sola su di un palco alla Syracuse University, Sarahjane Blum trema dall’emozione mentre racconta ciò che ha visto all’interno di una fabbrica di foie gras. Ascoltando ma anche vivendo le sue parole, il pubblico assiste alla sofferenza delle anatre attraverso gli occhi di Sarahjane. Quando le parole vengono a mancare, Sarahjane mostra alcune scene del video ‘Delicatezza della Disperazione’. Seduti nella sala buia, studiosi e attivisti vorrebbero sottrarsi, ma si sforzano di assistere alla sofferenza visibile sullo schermo.

Su un banchetto informativo appena fuori dall’auditorium, uno schermo trasmette in loop video di maltrattamenti animali filmati sotto copertura all’interno dei laboratori dell’Huntingdon Life Sciences. Ripetutamente, un uomo urlante in camice bianco da laboratorio compie abusi su cuccioli di beagle. Si possono solo immaginare le elucubrazioni mentali necessarie alle/agli attivisti seduti al banchetto per tollerare la raffica incessante di rabbia umana e sofferenza animale. E che dire dell’attivista che è entrata all’HLS sotto copertura, come dipendente, per far emergere la realtà di tali abusi? Come ha potuto gestire le proprie emozioni in quel momento? Che cosa sente ora?

In un bel pomeriggio di fine settembre, Karen Davis, Presidente di United Poultry Concerns si ferma al rifugio Eastern Shore. È sconvolta, ha appena assistito all’eutanasia di una gallina malata e incurabile dal veterinario. Come sempre, Karen è rimasta con la gallina fino alla fine. Le persone le chiedono di continuo: “Come puoi andare avanti senza sentirti turbata?” Quello che non capiscono, dice, e il tono di voce si fa più alto, è che “io sono sempre turbata!” Tutto quello che può fare, sostiene Karen, è andare avanti, incanalando i propri sentimenti in qualcosa – qualche documento, qualche discorso, qualche parola – in grado forse di fare la differenza.

Il disastro ha colpito un’altra fabbrica di uova. I soccorritori convergono sul posto, cercando di salvare il maggior numero possibile di galline. Migliaia sono già morte. Essendo rimasti senza cibo né acqua per molti giorni, gli uccelli sopravvissuti – intrappolati nelle gabbie con i loro compagni morti – sono ancora più sconvolti delle solite galline in batteria. Qualcuno sbatte le ali freneticamente, altri stanno immobili, i dorsi ricurvi esprimono i loro sentimenti di impotenza. Uno dei soccorritori nota alcune galline intrappolate nelle fosse degli escrementi sotto le gabbie e guada il letame nel tentativo di salvarle, ma deve tornare indietro quando, ormai immerso fino alla cintola, rischia di essere risucchiato. Nelle settimane successive, soffrirà di insonnia, sogni ricorrenti di essere impotente in mezzo ad animali non umani che hanno bisogno di aiuto e ricordi intrusivi degli uccelli che non ha potuto salvare.

Le nostre emozioni animali

Le persone sono animali. Gli animali hanno sentimenti. Gli animali hanno corpi che sperimentano ed esprimono i loro sentimenti. Come tutti gli altri processi fisiologici, i sentimenti persistono anche quando vengono ignorati o negati.

Uno dei miti della superiorità umana è che siamo in grado di trascendere le nostre percezioni, mentre gli altri animali ne sono vincolati. Questo va di pari passo con l’idea che possiamo e dobbiamo superare la nostra corporeità, mentre gli animali non umani vi coincidono sempre. Questa idea è così profondamente radicata in molte culture occidentali ed orientali che anche le/gli attivist* per la liberazione animale possono implicitamente abbracciarla.

Quando ci rifiutiamo di riconoscere i nostri limiti fisici o ci aspettiamo di essere immuni dal fattore emotivo che influenza gli altri animali, siamo pericolosamente vicin* alla mentalità “mente (umana) contro corporeità (animale)” che porta alla biotecnologia e agli altri sforzi per rimodellare il mondo naturale secondo le nostre fantasie di onnipotenza e di controllo.

In realtà la vita segue le proprie regole, non le nostre. Non abbiamo più controllo sulle nostre emozioni animali di qualsiasi altro vertebrato. Possiamo scegliere quello che facciamo dei nostri sentimenti e anche, in certa misura, se sperimentarli pienamente. Ma non possiamo scegliere di non arrabbiarci per le ingiustizie o di sentirci tristi di una perdita, più di quanto un pollo possa scegliere di non avere paura di un falco o di sentirsi frustrato da una gabbia.

I sentimenti possono essere sia spaventosi che seducenti poiché rimangono selvatici, indipendentemente da quanto invece siamo diventati addomesticati noi. Tuttavia, l’unica cosa da temere dei sentimenti è la paura di quei sentimenti. Come fiumi, i sentimenti sono più pericolosi quando arginati o impropriamente incanalati. Come fiumi, fluiranno in ogni caso e possono diventare imprevedibilmente distruttivi, se non gli si permette di seguire i propri percorsi naturali.

Spesso, le/gli attivist* esitano a parlare dei propri sentimenti – o anche a pensarci – perché la sofferenza degli altri animali è, a confronto, molto più grande. I motivi di questa auto-repressione sono altruistici, ma i risultati possono essere controproducenti. Ovviamente, il disagio causato dall’assistere alla violenza non è paragonabile al terrore e al dolore vissuto dalla vittima della violenza. Ma l’angoscia del testimone è reale e non può essere cancellata dai paragoni. Recenti ricerche hanno dimostrato che gli eventi traumatici possono avere un impatto emotivo ugualmente potente sui testimoni e sulle vittime. Sia i testimoni sia le vittime di stupro e violenza domestica, per esempio, possono sviluppare sintomi di stress post-traumatico (PTSD). Secondo la PTSD Alliance, segni di stress post-traumatico possono svilupparsi dopo ogni esperienza che porti a sentimenti di “paura intensa, orrore e senso di impotenza.” L’impotenza di fronte al pericolo per sé o altr* è un enigma per il corpo. I sensi gridano “Questa è un’emergenza!” e il sistema nervoso risponde bloccando la digestione, pompando sangue extra per i muscoli di braccia e gambe, liberando adrenalina nel sangue, rendendo la visione più acuta, e in ogni modo preparando l’organismo a combattere o fuggire. Ma il corpo non ha nulla da fare! Il sistema nervoso mantiene su di giri i motori interni e i sensi continuano a gridare “Emergenza!”, ma non c’è nessun posto per tutta quell’energia ed emozione. Se questa situazione persiste abbastanza a lungo o si ripete abbastanza spesso, l’organismo può venirne danneggiato permanentemente. Era facile notare atteggiamenti come questi durante la prima guerra mondiale, quando i soldati bloccati nelle trincee sopportarono bombardamenti apparentemente senza fine senza poter fare nulla per combattere o difendersi. Molti finirono colpiti da psicosi traumatica, seduti immobili in letti d’ospedale mentre i loro cuori battevano come se fossero ancora sotto il fuoco.

Stress traumatico

Gli americani hanno scoperto lo stress traumatico – come lo intendiamo oggi – sulla scia della guerra in Vietnam. Incubi, flashback e sentimenti debilitanti di paura o rabbia – scoprimmo – erano le conseguenze più comuni dell’esposizione agli orrori della guerra. Come Judith Herman ha ampiamente dimostrato nel suo libro ‘Trauma e guarigione’, è una lezione che abbiamo dimenticato prima ancora di impararla. Ogni generazione cerca di dimenticare i traumi che ha subito e, così facendo, diventa più probabile infliggere un trauma alla generazione successiva.

Un trauma è una lesione o uno shock. Lo stress dovuto all’aver vissuto un evento traumatico, di avervi assistito, o persino di esserne venut* a conoscenza può scatenare reazioni cognitive, emotive o fisiche. Recenti studi sulle persone con PTSD hanno mostrato che episodi traumatici, in particolare quando sono subiti o ripetuti, possono portare a cambiamenti nella chimica del cervello, nel flusso del sangue e nel metabolismo. I liberatori, le persone che compiono investigazioni nei luoghi dove si commettono crudeltà sugli animali non umani, il personale dei rifugi e le/gli attivisti per i diritti animali affrontano e spesso testimoniano direttamente e ripetutamente sofferenze estreme, sperimentando continuamente la combinazione di emergenza e di impotenza che è il segno distintivo di ogni evento traumatico. Come risultato di ciò, spesso lottiamo con disturbi del sonno, ricordi intrusivi ed emozioni troppo acute o al contrario assenza di emozioni.

Se hai livelli elevati di noradrenalina, livelli più bassi di serotonina e un flusso anormale di sangue al cervello, raccontarti che gli animali non umani hanno la peggio non cancellerà i problemi. Se questi problemi ti impediscono di riposare a sufficienza, interferiscono con la tua capacità di concentrazione, o compromettono la tua capacità di mantenere rapporti di lavoro produttivi con le altre persone, allora è probabile che anche l’efficacia del tuo attivismo per gli animali non umani peggiori. Le quattro caratteristiche dello stress post-traumatico sono:
• Tendenza a rivivere l’esperienza traumatica. Incubi, ricordi intrusivi, flashback e forti risposte emotive nel richiamare l’esperienza sono tutti i modi in cui una persona rivive le esperienze traumatiche.
• Intorpidimento emotivo. Può assumere la forma di sentimenti di distacco o estraneità, perdita di interesse per attività solitamente piacevoli, mancanza di sentimenti positivi, o mancanza di qualsivoglia sentimento.
• Tendenza ad evitare ricordi legati all’esperienza. Le persone spesso evitano o addirittura sviluppano reazioni fobiche a persone, luoghi, cose o attività che ricordino in qualche modo l’esperienza traumatica. A volte, cambiamenti di comportamento che sembrano non avere alcun senso risultano essere sforzi per evitare di ricordare il trauma.
• Maggiore eccitazione. Può assumere la forma di una reazione amplificata a rumori forti o altri stimoli, ma anche di una maggiore soglia di vigilanza nei confronti tutto ciò che riguarda il trauma vissuto.

Se subisci un trauma, devi essere pront* ad una reazione di stress. Fai il possibile per prenderti cura di te stess* o permetti ad altr* di farlo, ricordando che – se ci si prende il tempo di farlo immediatamente – puoi così prevenire o attenuare l’emergere di sintomi di PTSD più persistenti e debilitanti. Trova il modo di vivere e di esprimere i tuoi sentimenti, soprattutto parlando con persone che si immedesimino facilmente, ma anche attraverso il movimento, la musica, l’arte, o altre modalità sicure di espressione. Presta particolare attenzione al riposo e all’alimentazione, in modo che il corpo abbia le risorse per far fronte agli aspetti fisiologici del trauma. Se noti che tu o altr* state sviluppando sintomi riconducibili allo stress post-traumatico da un mese o più e che queste reazioni sono causa di disturbo o disagio significativo, è il momento di agire. I gruppi di lavoro – che si tratti di una terapia di gruppo con un terapista o una serie di discussioni tra pari con regole di base in uno spazio sicuro e moderato da un mediatore esperto – possono essere modalità d’elezione per gli attivisti che hanno a che fare con lo stress legato al proprio lavoro con gli animali. La terapia individuale si è dimostrata efficace contro i casi di PTSD legata a un’ampia gamma di traumi. Conosco divers* attivist* animalist* che hanno cercato una buona dose di psicoterapia con psicolog*, assistenti sociali, o altri consulenti professionisti.

Diversi farmaci hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento di sintomi fisici come nervosismo e insonnia. Coloro che evitano i prodotti farmaceutici commerciali a causa della sperimentazione animale, dovrebbero sapere che esistono una serie di rimedi a base di erbe che, in studi clinici con volontari umani, hanno dimostrato un’efficacia pari o superiore a quella dei farmaci sintetici. Consulta un medico qualificato, allopatico o olistico, può aiutarti a decidere se e come trattare i sintomi. Qualunque cosa decidi di fare, non vergognarti di essere un animale. Qualunque cosa senti è la risposta naturale del tuo corpo a ciò che hai vissuto. Nascondere o negare i tuoi sentimenti non li farà svanire, ma potrebbe anzi farti sentire peggio. Al contrario, portare i tuoi sentimenti allo scoperto spesso aiuta ad indirizzarli. Prima li affronti, prima ti senti meglio e sei in grado di fare ciò che desideri.

Depressione.

La depressione è un’altra conseguenza comune dell’esposizione prolungata o ripetuta a ingiustizie e sofferenze. Come nel caso del disturbo da stress post traumatico, la depressione può compromettere in modo significativo la capacità di agire dell’attivista ed è spesso accompagnata da cambiamenti nel sistema nervoso e nel metabolismo. La depressione è una condizione debilitante spesso associata allo stress post-traumatico, ma può anche essere causata da fattori che vanno da una carenza vitaminica temporanea a conflitti intra-psichici persistenti. Chiunque passa attraverso brevi periodi di tristezza che si possono definire “depressione”. Ma si tratta di una depressione diversa dalla depressione clinica, che è una condizione grave che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera una minaccia a livello mondiale. Se non trattata, la depressione clinica può durare per anni senza sollievo. Con un trattamento adeguato, la depressione può sparire completamente o diventare molto più gestibile.

I sintomi della depressione clinica includono:
• Tristezza prolungata o pianto inspiegabile.
• Cambiamenti significativi nelle abitudini alimentari o di riposo.
• Irritabilità persistente, rabbia, preoccupazione, agitazione o ansia.
• Pessimismo o indifferenza.
• Perdita di energia, letargia persistente o stanchezza inspiegabile.
• Sentimenti persistenti di vergogna, senso di colpa, o inutilità.
• Difficoltà di concentrazione o incapacità di prendere decisioni.
• Isolamento sociale o mancanza di interesse per attività precedentemente piacevoli.
• Dolori inspiegabili.
• Pensieri ricorrenti di morte o suicidio.

Se hai cinque o più di questi sintomi per più di due settimane, o se uno qualsiasi di questi sintomi provoca grave sofferenza o disagio, è il momento di chiedere aiuto a un medico. Poiché molti dei sintomi della depressione possono anche essere causati da patologie gravi, è fondamentale parlare con qualcuno che sia qualificato per determinare se la depressione sia il problema primario e, in caso affermativo, decidere quali misure adottare per trovare un po’ di sollievo, mentre si cercano la causa o le cause.
Esistono persino più modalità di trattamento per la depressione rispetto al PTSD. Le terapie cognitive, comportamentali e psicodinamiche hanno dimostrato di aiutare alcune persone che soffrono di depressione. Se un tipo di terapia non funziona, prova una terapia o un trattamento del tutto diversi. Come nel caso del PTSD, esistono rimedi a base di erbe con efficacia dimostrata pari o superiore a quella dei farmaci sintetici, così non devi scendere a compromessi con i tuoi principi per ottenere un sollievo sintomatico. Come nel caso del PTSD, la mente e il corpo influenzano e sono influenzate dalla depressione. Oltre al riposo e alla nutrizione, l’esercizio fisico è molto importante per le persone che convivono con la depressione.

Se qualcuno che conosci sta parlando di morte o di suicidio, non esitare: chiama l’1-800-SUICIDE per avere consigli su cosa fare. Dimentica quello che pensi di sapere su omicidio e suicidio. Parla con persone competenti in materia e ascolta i loro consigli.
Se sei tu che stai pensando al suicidio, ricordati che il suicidio è una decisione irreversibile che non dovrebbe essere presa alla leggera. La maggior parte delle persone che si suicidano lo fanno perché non si rendono conto che possono liberarsi della propria depressione. Puoi sentirti meglio, e succederà, una volta che avrai avuto il tipo di aiuto giusto per te. Allora, avrai a disposizione molti altri anni per lavorare per gli animali non umani. Anche se non credi che riuscirai a fermare lo sfruttamento animale, devi sapere che l’essere salvato è la cosa più importante per ogni singolo animale che viene salvato. Se stai pensando al suicidio, chiama senza indugi l’1-800-SUICIDE, un numero verde locale, il tuo ex insegnante preferito, il tuo migliore amico, o la persona più simpatica del tuo gruppo per i diritti degli animali non umani.
Prima di proseguire, vorrei offrire un pensiero a qualsiasi attivista che stia lottando contro la depressione: puoi non avere alcuna speranza in questo momento, ma io ne ho tanta e te la posso prestare finché non recuperi la tua. Poi potrai passarla a qualcun altr* e saremo pari, perché anche io ho dovuto prenderla in prestito da altre persone in passato. Dico sul serio. Pensaci un minuto e la percepirai. E quando arriverà il momento di trasmetterla, saprai cosa fare.
Ciò che ognun* di noi può fare.
Che ne siano o meno consapevoli, tutt* coloro che si occupano di rifugi per animali, indagini o salvataggi devono gestire le conseguenze naturali di un lavoro emotivamente pericoloso.

Tutt* abbiamo visto cose che nessuno dovrebbe vedere perché tale sofferenza non dovrebbe esistere. Tutt* abbiamo affrontato il peggio che le persone sono in grado di fare e siamo consapevoli che nessuno è veramente sicuro nel mondo perversamente violento dell’attività umana. Siamo tutt* traumatizzati dalla nostra incapacità di fermare la violenza e perseguitat* dai ricordi di animali che non siamo stati in grado di salvare. Sappiamo tutt* che il nostro è un trauma secondario, che il trauma primario è subito dagli animali. Ma sappiamo anche che dobbiamo prenderci cura di noi stess* e delle/gli altr*, anche solo allo scopo di agire in modo più efficace per gli animali.

Stando così le cose, ci sono una serie di cose che gli individui, i gruppi, e il movimento come entità possono fare per aiutarci a essere più in salute possibile nel contesto profondamente malsano del mondo sociale che le persone hanno creato.
Il primo passo è quello di ricordare che sei un animale e che gli animali hanno dei sentimenti. I sentimenti associati con PTSD e depressione sono le reazioni normali di un organismo sottoposto a stress innaturale. Prima impariamo a riconoscere e rispondere ai sintomi di depressione e stress post-traumatico in noi stess* e nelle altre persone, più forte diventerà il nostro movimento.

Strategie personali

Riposati. Stress e depressione sono sia cause che conseguenze dell’insonnia. Da sola, la privazione del sonno può trasformare persone altrimenti felici in persone ansiose, arrabbiate, o abbattute. Se sei già alle prese con sentimenti difficili, la mancanza di riposo adeguato può rendere la lotta più difficile. Riposa il corpo anche se hai difficoltà a dormire. Puoi provare un rimedio di erbe per la mancanza di sonno che non crei dipendenza, come la camomilla, o prendere in considerazione altre strategie per favorire il sonno. Prendi delle vitamine. I corpi sani sono più in grado di sopportare forti emozioni senza crollare. Inoltre, una carenza di alcune vitamine può a sua volta causare depressione. Parla dei tuoi sentimenti. Ascolta quelli degli altri. Esprimi empatia quando si può.
Ascolta il tuo corpo. Dove ti fa male? Che cosa ti aiuta? Che cosa sta cercando di dirti? Ricorda che il tuo corpo ha i propri diritti animali. Non fargli del male. Dagli aria fresca, molto esercizio fisico, e qualsiasi piacere sicuro e consensuale che desideri. Non peggiorare le cose. Le persone a volte cercano di “curare” il loro stress o la loro depressione con alcol o droghe. Se bere in compagnia va bene, bere regolarmente o in maniera compulsiva crea più problemi di quanti ne risolva. Dal momento che l’alcol ha effetti depressivi, le persone alle prese con la depressione dovrebbero evitarlo del tutto.

Strategie collettive

Il tuo gruppo è impegnato in un lavoro che potrebbe portare a stress post-traumatico? Se è così, cosa fa il gruppo per aiutare i propri membri a prendersi cura di se stessi e degli altri? Un gruppo non è altro che un insieme di relazioni. Se queste relazioni sono forti e nutrienti, il gruppo durerà più a lungo e svolgerà più lavoro utile. Il tempo investito nel rendere il gruppo più sano e più solidale sarà restituito con un aumento di produttività e una diminuzione dei tassi di abbandono.

Strategie di movimento

Se potessi, vieterei l’espressione “(x) è niente in confronto a (y)” da tutte le riunioni di movimento e conferenze. Le persone la usano per rimproverarsi le une le altre ed evitare i propri sentimenti di stress e depressione.
I polli “da carne” vivono in capannoni affollati e sono trasportati dai camion verso una morte dolorosa e terrificante a circa sei settimane di età. Le galline ovaiole nelle fabbriche di uova sopportano fino a due anni di tortura nelle gabbie prima di essere trasportate, magari con un viaggio lunghissimo, verso le proprie morti dolorose e terrificanti. Non diremmo mai che ciò che i polli da carne sopportano “non è niente” rispetto a quello che sopportano le galline ovaiole. Anche se è relativamente minore, la sofferenza dei giovani polli da carne è reale e significativa. È particolarmente reale e significativa per loro.

No, il trauma della persona che per svolgere indagini sotto copertura osserva scimmie torturate non è così grave come la sofferenza delle scimmie stesse. Ma non è “niente”. Tutta la sofferenza è reale e significativa, in particolare per chi la subisce. Dobbiamo cambiare l’atteggiamento del nostro movimento verso un’empatia per tutt*, inclus* noi stess*.

Dobbiamo anche iniziare a costruire un’infrastruttura di movimento che aiuti a far fronte in modo più efficace al trauma insito in molte forme di attivismo animale. Perché non abbiamo gruppi di sostegno con moderatori addestrati a tutte le nostre conferenze? Perché non esiste una rete di psicologi per i diritti degli animali che offrano trattamenti gratuiti o a basso costo per gli animalisti che hanno subito traumi? Perché si parla – quando lo si fa – dei nostri sentimenti solo in conversazioni frettolose tra una riunione e l’altra?

Io e la mia compagna gestiamo un rifugio per polli nel bel mezzo di una regione dominata dall’industria avicola. Camion per il trasporto dei polli rombano proprio di fronte alla nostra porta di casa. Non posso dire quanti uccelli siano morti tra le mie braccia. Questo mese sarà il nostro quinto anniversario. Dubito che avrei superato il dolore del primo anno se non fosse per la vicinanza e il sostegno di altre persone che salvano polli. Ci capiamo allo stesso modo – ne sono certa – delle persone che devono affrontare le sfide estreme ed uniche del lavoro sotto copertura. Cerchiamo di trovare modi di sostenerci l’un l’altr* in modo che nessuno di noi si senta sol* nella lotta!

Prima di co-fondare l’Eastern Shore Sanctuary and Education Center, Pattrice Jones ha studiato e lavorato nella psicologia clinica, specializzandosi in terapia individuale e di gruppo per i sopravvissuti ai traumi.

25 Novembre – Una violenza enorme che ne oscura tante (più o meno) piccine

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25 Novembre, e non so cosa dire.

Ogni volta che leggo gli articoli, le riflessioni, i post scritti in  occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne, mi sembra di guardare la Terra da  Plutone. Di più, mi sento ammutolire: perché sento parlare di  femminicidio, di botte e stupri, e io, seppur femminista, di queste  cose non so parlare. Non ne so parlare perché non le conosco, o  meglio non le conosco direttamente, sulla mia pelle o sulla pelle di  chi mi è più vicin@ – e non ho mai assistito (fortunatamente) ad  episodi di violenza estrema e brutale.

Eppure, mentre mi apprestavo a seguire il filo dei pensieri e degli  eventi legati a questa importante giornata da spettatrice, mi sono  resa conto che la violenza sulle donne la vedo agita ogni giorno, da  sempre. Non è una violenza eclatante, da prima pagina dei  giornali, non si chiama femminicidio, né botte, né stupro. Eppure  esiste, è pervasiva, è quotidiana, è come la goccia che scava, scava  e attraversa l’anima, annichilisce persone con costanza e pazienza nell’arco di una vita, in molti casi trasformando chi la subisce in maniera radicale.

Quella agita su tante donne che ho conosciuto e conosco, intrappolate per una vita in rapporti coniugali impari, alla mercé di mariti i quali, seppure non platealmente ‘violenti’, sono quasi sempre freddi, distratti, economicamente e psicologicamente abusanti e inclini ad approfittare di qualsivoglia privilegio patriarcale sia a portata di mano per trattarle come colf, badanti, mammine di ricambio e sex workers, al bisogno e, ovviamente, gratis.
Quella su colleghe di lavoro precarie come me, mandate via alla prima gravidanza in quanto non più pienamente produttive e in alcun modo tutelate – le stesse che, alla notizia della gravidanza, ricevevano il plauso patriarcale della dirigenza maschile per aver ottemperato ai propri impliciti ‘doveri biologici’ di femmine – rispedite prontamente al mittente del lavoro di cura e della dipendenza economica, senza vergogna né rimorso.
E poi c’è quella ubiquitaria che ho sentito sulla mia pelle, su quella di amiche o semplici conoscenti continuamente sottoposte a controllo, giudicate e condannate dall’inquisizione patriarcale che agisce in ognun@ di noi, uomini e donne – sempre troppo puttane, troppo suore, troppo maschiacci, troppo loquaci, troppo sciacquette, troppo serie, arriviste, pazze, stupide, instabili, fragili, grasse, magre, aggressive, audaci, passive, indolenti, indipendenti o dipendenti… sempre troppo o troppo poco di qualsiasi cosa, perennemente fuori posto o talmente al loro posto da meritare in ogni caso solo disprezzo.

Ecco, questa è la violenza che io conosco. E mi spaventa pensarla così ‘normale’, così quotidiana, così pervasiva da diventare invisibile, persino a volte ai nostri stessi occhi. Perché di fronte al femminicidio, di fronte alle botte, di fronte allo stupro, io ammutolisco. Qualcun@ mi direbbe persino che io, ‘al confronto’, sono una donna fortunata. Eppure anche io conosco la violenza, una violenza che accompagna i miei giorni, da sempre: e non mi sento fortunata, proprio no, quando penso a quante volte ho dovuto incassare i colpi di un sistema che mi discrimina in quanto donna.

E allora quello su cui rifletto oggi, in una giornata così importante e simbolica, è che la violenza contro le donne non si riduce al suo estremo, e la violenza brutale non cancella tutte le altre, ma va inserita – concettualmente e politicamente – in un contesto più ampio, quello che richiede un’azione culturale e sociale che nessun provvedimento emergenziale e securitario potrà in alcun modo sostituire.

Auguro a tutte le donne di trovare la forza – in sé stesse e in amic@,compagn@, sorell@ – di riconoscere e opporsi a qualsiasi forma di violenza, anche le più piccole, anche quelle considerate insignificanti, che le riguardi in quanto donne. Perché dalla nostra personale dose di violenza quotidiana, nasca la forza di una resistenza che è anche e soprattutto politica.