Riprodursi? Anche no!

 Devo ammetterlo, la questione fino a qualche anno fa non mi interessava proprio… Fino a quando sono stata felicemente immersa in quell’età nella quale la riproduzione è soltanto uno spauracchio (la gravidanza da evitare perché troppo giovane) nonché una questione teorica rimandabile (apparentemente, come tutte le cose spiacevoli – dalla calvizie maschile all’artrite) in un futuro molto più ipotetico che reale. Ma compiuto il giro di boa (non ricordo nemmeno esattamente quando), la questione dell’avere figli è diventato come un mantra. Sia chiaro, non per me: io sono rimasta, da quel punto di vista, quella di un tempo. E tra tante idee del cavolo che mi sono state inculcate dal ‘braccio amorevole del sistema’ (la famiglia), fortunatamente l’inevitabilità del mio destino di ‘fattrice-in-quanto-donna’ non ha mai attecchito particolarmente nei miei genitori, e di conseguenza, in me… Si, ecco, loro erano più il tipo ‘diventerai-un’-avvocatessa-rampante-e-spietata-vivrai-nella-grande-mela-e-il-tuo-guardaroba-sarà-come-quello-di-paperino-ma-pieno-di-costosissimi-tailleur (Acc…papà e mamma, mi spiace… you lose!). Così sono cresciuta in maniera un po’ più ‘selvatica’ dal punto di vista delle mie gonadi, considerando la questione maternità davvero molto lontana dal mio orizzonte esistenziale. Poi il tempo passa, ti laurei, inizi (tristemente) a lavorare, vai via dalla casa dei tuoi, ti trovi un compagno più o meno fisso, e il mondo intorno subisce una rivoluzione copernicana. Tic, toc, tic, toc, scopri di avere un orologio impiantato nell’utero… E da un giorno all’altro ti ritrovi tutti nelle mutande, per dirla chiaramente. Familiari, parenti, vicini di casa, perfino datori di lavoro… tutti a chiederti se hai dei figli, se ne vuoi, perché non ne vuoi, cioè, insomma, alla tua età… sei strana. Strana io? Cioè, pensiamoci un attimo: PERCHE’ DOVREI DESIDERARE UN FIGLIO?

imagesE non penso tanto a ciò che lo impedirebbe in senso negativo (le solite litanie fatte di lavoro precario, garanzia di un futuro di incertezza per il pupo, fino ad arrivare ai problemi globali di sovrappopolazione in un mondo finito, l’inquinamento, financo la minaccia atomica – sto esagerando… più o meno!), ma a quello che la rende un’opzione insensata IN SENSO POSITIVO: guardo alla mia vita di oggi… non ho un figlio, e non mi interessa averlo. Sono alla soglia dei 40, ho un lavoro precario e part-time che mi fa sì guadagnare poco (ma poi ‘poco’ rispetto a quali standard? Non certo per i miei, per i quali il mio guadagno è più che sufficiente a sopravvivere!) ma mi lascia ampi spazi di vera libertà, fatti di tempo da dedicare a ciò che REALMENTE dà un senso alla mia vita… l’attivismo politico, gli animali umani e non umani che condividono la vita con me, le cose che amo fare (leggere, passeggiare in mezzo alla natura, scrivere o disegnare). Sento di avere una vita molto piena (pure troppo!), e anzi, persino quelle 4 ore al giorno che fino ad ora sono stata costretta a dedicare al lavoro per ‘mangiare’ mi paiono ore rubate al mio tempo di vita, tanto che mi sto arrovellando per cercare un modo di limarle ancora un po’!

Non sento vuoti da riempire, né di tempo né affettivi… anzi, a dirla tutta, sì, a volte sento qualche mancanza, perlopiù quando non riesco a vedere persone a cui tengo – quelle con le quali, negli anni dell’università ad esempio, vivevi in simbiosi giorno/notte – perché stritolate in un lavoro full time o, come sempre più spesso accade, tra le due schiavitù fondanti e primarie di questa società: lavoro e casa/famiglia/figli.

3yEdQETAllora io mi chiedo, perché? Perché le persone arrivano con tanta inconsapevolezza all’età nella quale scatta quella programmazione sociale che le porta, contro ogni ragionamento e buon senso logico (individuale e collettivo) a sobbarcarsi l’enorme fatica personale/economica/di tempo di riprodursi (nonché ad aumentare il già troppo esuberante numero di persone che già esistono, e che non solo stanno cancellando dalla faccia della terra le altre specie, ma stanno anche faticando sempre di più ad esistere loro stesse – la torta è sempre quella, baby, ma gli invitati sempre di più!)? Il mondo esubera di bambini che vivono in condizioni pietose, perché questo anelito al ‘proprio’ bambino? Cos’è questo rigurgito che sa tanto di smania di proprietà e illusione di propria immortalità (cioè, davvero vi considerate così speciali)?
Mi rispondo, in parte: imprinting, noia, paura del futuro e anche una buona dose di totale incoscienza. E, prima che nei confronti di questo mondo, nei propri stessi confronti. La quasi totalità delle persone che hanno dei figli sono totalmente incoscienti, di sé stesse e del proprio ruolo all’interno del sistema di cui tanto si lamentano – quasi mai si sono fermate a chiedersi da dove derivino questi ‘insopprimibili impulsi o desideri’ prima di portarli a compimento – della mole spaventosa di responsabilità verso quel nuovo individuo – ma davvero si può essere felici di mettere al mondo un nuovo schiavo (che ci piaccia o no, questa è la realtà con la quale ci troviamo oggi a farei conti) dovendolo poi indottrinare su come piegare la testa abbastanza per riuscire a sopravvivere! – e verso un mondo che non è soltanto nostro – tutti a immaginare sacri, unici e intoccabili i PROPRI nuovi piccoli umani e mandando al macero tutti gli altri, umani e non, che non trovano posto nel nostro ‘piccolo giardino dell’eden’.
Certo, nasciamo imprintati come le papere di Lorenz, e seguiamo il mostruoso pifferaio magico tutt* felici e starnazzanti… ma poi, crescendo, possibile che non arriviamo mai a capire davvero quello che stiamo facendo? Ricordo quell’ossessivo ritornello dei CCCP (ante rincoglionimento di Giovanni Lindo Ferretti): ‘produci-consuma-crepa’, che ci angosciava da ragazzin*, tanto da ripeterlo all’infinito come le preghiere di un esorcismo – quando tutt* pensavamo che noi, così, non lo saremmo diventat*… che ci saremmo ribellat*!
Io ci riconosco in quanto schiav*: siamo schiav* di questo sistema dalla nascita, differentemente ma similmente da tutti gli altri animali, umani e non, e siamo forgiat* per esistere secondo un’idea totalitaria che non ci appartiene. Questa è la nostra origine, e non è una nostra colpa. Ma poi, poi arriva un momento nel quale subentra (o dovrebbe subentrare) la nostra coscienza e la nostra responsabilità, e lì si palesa invece la nostra collusione. Ed è così deprimente vedere le persone inanellare tappe in maniera automatica, aggiungendo schiavitù a schiavitù, invece di tentare di liberarsi da quelle che già ci opprimono (vedi la schiavitù lavorativa, tra le tante), e trasformare la propria vita, ancora acerba e priva di senso, in una corsa ad ostacoli fatta di doveri verso il datore di lavoro, i figli, la società tutta… fino al giorno in cui si potrà finalmente essere liber* di venire rottamat*, o crepare.
Così dopo l’ingresso imprescindibile nel mondo del lavoro suona la seconda campanella irrinunciabile, quella che obbliga a fare figli, e non si ha più tempo per nulla altro, per amic* e rapporti importanti, per la vita politica, la vita della mente… e i soldi non bastano, bisogna lavorare di più per guadagnare di più, il tempo non basta, bisogna svegliarsi prima per fare tutto e andare a letto sempre più tardi e più esaust*, sobbarcandosi il compito di far crescere degli altri individui, quando non si è mai nemmeno dedicato il giusto e necessario tempo a far crescere sé stess*… e quella persona che siamo e che ancora dovrebbe crescere, capire, nutrirsi di nuove idee ed esperienze finisce in un cantuccio schiacciata da ‘doveri’… autoimposti.
Insomma, perché? Cosa credete che manchi alle vostre vite? Io me lo chiedo, e non trovo una risposta.
A volte qualcun* mi dice che mi sto perdendo qualcosa. Credo abbiano ragione, ma non sanno cosa stanno perdendo loro.

1263.kidsnoway E’ una questione di scelte, del resto. Rispetto a chi ha un lavoro full time e dei figli, io ho meno denaro e più tempo. Non conosco la gioia che possono dare dei bambini, ma nemmeno le rinunce e i dolori. Conosco la gioia della libertà che me ne deriva, dei rapporti altri che coltivo, del tempo che posso dedicare alla mia crescita personale, alla vita in un senso assai più ampio ed inclusivo. Questo guardarmi così mortalmente inserita in un tutto che mi trascende, mi fa sentire assai meno speciale, e d’altro canto assai libera. Perdo qualcosa e guadagno qualcosa, perché ogni scelta presuppone vantaggi e rinunce, e credo che, per la persona che sono, questo sia quanto di più desiderabile possa esistere. Peraltro, ne vedo il grande valore aggiunto di poter avere tempo anche per altr*, la mia famiglia allargata, fatta di quegli animali umani e non umani che già esistono, qui ed ora, e purtroppo, spesso, si trovano in difficoltà.
L’estremo lo raggiunge chi mi taccia di egoismo… egoista, io? Sì, bado al mio benessere. Sono felice del mio tempo, sono felice di non dover ‘vivere per i figl*’, ma di scegliere per chi vivere, per me o per coloro che scelgo di amare. Felice anche di poter oziare, o ‘perdere tempo’. E siccome non ho mai creduto a certe bugie, so anche che la mia scelta di non avere figli ha potenzialità – non ignorabili né irrilevanti – di ripercussioni positive sugli altri esseri già viventi e sul pianeta. Ma poi, come posso essere egoista verso qualcuno che non esiste? E non sono invece costretti all’egoismo i genitori i quali, stritolati nelle cure parentali, spesso anche volendo non possono dedicarsi ad altr*?
Non si deve per forza scegliere tra la propria felicità e quella altrui, anzi: io non l’ho fatto, e la mia pratica politica femminista/antispecista e la mia vita mi hanno insegnato che spesso le due cose coincidono. Un altro mondo non arriverà mai, senza il coraggio di mettere in pratica nuove prospettive…
E non mi reputo estinzionista – almeno non nel senso negativo con cui questo termine viene evocato il più delle volte: sono sicuramente per una riduzione drastica del numero di animali umani, ottenibile non attraverso ‘l’epidemia mortale’ o la sofferenza e il dolore, ma semplicemente evitando di riprodursi in maniera incontrollata e irresponsabile. Si può fare, e si deve fare, checché l’astensione dalla riproduzione sia un tema tabù nella nostra società. Nel frattempo, e ad incommensurabile beneficio delle generazioni future (umane e non umane), mi eserciterò a diventare quella persona e immaginare quel mondo che vorrei, così distante nelle forme da quello nel quale mi ritrovo oggi a vivere. Cercando di essere io quella figlia a cui insegnare qualcosa di utile e sensato – a beneficio della mia stessa vita e di quella altrui – sforzandomi di imparare dalle altre persone e di trasmettere quello che di buono mi pare di aver inteso… questa è la maternità migliore che possa portare a termine, quella i cui frutti spero avranno davvero un potenziale trasformativo.
Perché i nostri figli siamo noi, e quell* che già ora ci circondano. Liberando noi stess*, liberiamo anche loro, e quell* che verranno.

Dunque cosa stiamo aspettando?

Le donne abortiscono perché restano incinte.

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“Il concepimento dunque è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà d’aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna.”

“Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile, che fa del concepimento un problema di chi possiede l’utero e non di chi DETIENE LA CULTURA DEL PENE”. (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile)

E’ di ieri questo articolo e questa intervista

La legge 194 – più o meno mia coetanea – da quando è diventata realtà è sempre stata sotto attacco dei catto-fascisti-ipocriti, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a quel potere incontestato che sentono di avere avuto, per millenni, sul corpo delle donne.

Il diritto ad un aborto libero, sicuro e garantito è un diritto fondamentale per tutte le donne, che va difeso senza se e senza ma. Eppure la questione non può fermarsi qui: “Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, ed a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo, cioè ricostruire tutto quello che è legato sostanzialmente all’aborto, perché se noi tagliamo fuori solo questa cosa rischiamo di dare solo una risposta parziale che si rivolta magari contro di noi o comunque non è una soluzione per noi, è un’altra ripiegatura che ci fanno fare per sanare quelle contraddizioni più evidenti.” (“Sottosopra”, fascicolo speciale Sessualità contraccezione maternità aborto, Milano 1975)

Lo scritto è di 40 anni fa, siamo ancora a questo punto, pare.

Sono femminista, ed a mio modo detesto l’aborto, perché è una pratica medica con una sua dose di rischio agita sul corpo delle donne, che sarebbe non necessaria nel 99% dei casi, ad esempio se l’accesso alla contraccezione e l’educazione ad una sessualità libera, gioiosa, consenziente e multiforme fosse all’ordine del giorno.

L’aborto non è sicuramente una passeggiata per chi lo vive sulla propria pelle – non parliamo poi dei casi in cui è attuato in clandestinità, o anche solo nella segretezza, a fronte dello stigma sociale che sovente inevitabilmente ne deriva. Ma è un’irrinunciabile opportunità in extremis, quando ci si trova a vivere all’interno di una cultura che dimostra, in maniera più o meno celata, il suo odio per le donne, che le usa come oggetti (sessuali, procreativi, di cura), le usa e le butta via senza ritegno alcuno – con la benedizione della chiesa tutta, naturalmente, che santifica la vergine sofferente, che si fa oggetto e veicolo di compimento di un altro soggetto (maschio).

Quante vite di donne sono state spezzate dal pugno di ferro del patriarcato! L’aborto è figlio della sessuofobia, è figlio dell’ignoranza, è figlio – anche – del welfare inesistente. Ma è tanto odioso quanto necessario, grazie a tutti coloro che condannano i contraccettivi di fronte agli altri (e poi magari, li usano pure), che non parlano di sesso con gli adolescenti  – consapevoli che tanto lo faranno lo stesso, e con esiti a volte disastrosi – che li abituano alla menzogna, alla vergogna del proprio corpo, al senso di colpa per la propria sessualità.

A tutti quei parassiti della gioia di essere viv* (che per quante volte si confessino, avranno sempre l’animo putrido) dico: l’aborto non cesserà mai, grazie a voi! Del resto, di fronte a persone del genere, l’aborto diventa una benedizione… l’avessero messo in atto le vostre madri, che liberazione!

Tempo fa, avevo tradotto e pubblicato su Femminismo a sud questo video: https://vimeo.com/37850266
Queste storie terribili non possono e non devono ripetersi.

Le donne abortiscono perché restano incinte, e forse, oltre a reclamare a gran voce il sacrosanto diritto all’aborto e all’uso degli anticoncezionali (a proposito, a quando quelli maschili?) dovremmo spingerci su altre vie, ancora tutte da scoprire, per agire il nostro piacere in modo disgiunto da quell’atto eterosessuale normato e normativo, nel quale uno degli attori è spesso un uomo che svuota le gonadi all’interno del corpo di una donna, fregandosene delle conseguenze (e nel caso ne risulti una gravidanza, impedendole di prendere decisioni sul proprio corpo che solo a lei spetterebbero).

“Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificatamente procreativa, ma POLIMORFA, e cioè sganciata dalla finalizzazione vaginale.” (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta femminile)

“La donna non è la Grande Madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione.” (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel: La Donna Citoridea e la Donna Vaginale)

Rivendichiamo nuovi modi di godere!

Il corpo più che umano

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The more-than-human-body di Kris Forkasiewicz, traduzione di feminoska, revisione di H20.

 Il pensiero occidentale ha perlopiù ridotto il corpo a una cosa, un oggetto del mondo come tutti gli altri. Solamente in tempi recenti è stato rimodellato in qualcosa di molto più articolato: il fondamento e l’espressione della soggettività.
I primi a spingere il discorso in questa direzione sono stati pensatori anticonformisti come James, Dewey e Nietzsche. Poi, a partire dalla metà del 20° secolo anche i fenomenologi, le femministe e gli scienziati cognitivi hanno aderito a questa visione. Ma la discussione da loro animata si è rivelata decisamente limitata, restando perlopiù circoscritta a un particolare tipo di corpo, quello dell’Homo sapiens sapiens. Questa mossa ha condizionato, pregiudicandola, la nostra predisposizione a sentirci in relazione con gli altri esseri corporei. Al tempo stesso, ha avuto l’effetto di concettualizzare il corpo come veicolo di cultura e spirito umano – per quello che continua ad essere visto come “più-che-animale.” In altre parole, il ripensamento e la rivalutazione del corpo sono serviti principalmente a sostenere un nuovo umanesimo, a rabberciare una risposta sul significato di essere umani.
Da un lato, questo approccio può essere inteso come una componente auspicabile e necessaria nella lotta contro la cancellazione tecno-scientifica del Soggetto. È più facile proteggere un’essenza umana dall’attacco tecnologico quando è perfettamente isolata dall’inessenziale. D’altra parte, una tale dissociazione è compatibile con l’atteggiamento tecnico-strumentale che seziona il mondo che circonda il Soggetto. In questo senso, offre un ulteriore apporto al processo artificiale di distanziamento dell’umano dagli altri animali. Facilita la liquidazione del Soggetto Non Umano che ora procede a velocità raddoppiata, mentre l’umanesimo va a braccetto con la reificazione tecnologica. Nel frattempo, il corpo e il somatico vengono colti, a livello concettuale, come il substrato di qualità a lungo elogiate non solo come squisitamente umane, ma rese feticcio del coronamento del processo evolutivo. La ragione, l’intelligenza e il linguaggio, ora concepiti come incarnati, sono in gran parte riservati al corpo inteso come umano. Perché nelle circostanze in cui il nostro corpo viene ancora chiamato “animale” ciò avviene per lo più in omaggio all’eredità darwiniana e al metodo scientifico in generale. E a ben guardare, la concezione prevalente vuole che l’essere umano non sia veramente e precisamente un animale.
Quali che siano le intenzioni che si nascondono dietro a una tale presa di distanza dall’animalità, alcuni degli effetti sono stati di: 1) sostenere ideologicamente la dominazione umana in un mondo profondamente specista e, 2) allontanare ulteriormente dagli animali umani la gioia di vivere. Come specie, siamo diventat* sempre più isolat*, sol* e alienat* dal mondo. Le somiglianze e differenze interspecifiche sono scoperte e riconosciute, ma non al fine di stabilire un apprezzamento pluralista. Anche quando al nostro corpo viene data maggiore attenzione, la comunanza carnale di tutti gli animali viene vista come un residuo di un passato da dimenticare. Al suo posto si dipana un’esclusione omogeneizzante dell’Altro, incoraggiata dall’ultimo colpo di scena nella narrazione dell’eccezionalità umana.
L’organizzazione caratteristica delle nostre facoltà fisiche apparentemente ci eleva, in molti modi, rispetto agli altri animali che popolano la terra. Distinguendoci, esistiamo. Sicur* della nostra unicità, possiamo permetterci di guardare dall’alto in basso i nostri parenti animali. Ci sentiamo, sfacciatamente, un caso davvero speciale. Senza nulla togliere alla nostra unicità di animali bipedi dai grandi cervelli, se guardassimo alle cose con onestà, le caratteristiche e i talenti specifici che costituiscono la nostra unicità potrebbero non offrire tutti i motivi di soddisfazione che alla maggior parte di noi piace prendere per buoni. Quella parte del nostro organismo che abbiamo astratto dalla sua propria vita e che chiamiamo “mente”, “anima” o “spirito” si è da tempo scollegata dal mondo. Da allora, siamo stati incapaci di ricondurvela. E addirittura consideriamo quella stessa astrazione come il nocciolo del sé propriamente umano.
L’umano è stato identificato proprio con questo senso prevalente di ego con tutte le sue presunte caratteristiche di autonomia, autodeterminazione, autocontrollo. Queste sono state intese agire al di là e al di sopra della carne, e poi – dopo la “svolta corporea” – attraverso la carne stessa. Quello che ne è seguito è stata una profonda e prolungata contrazione del nostro essere biologico. I vincoli e le pressioni capaci di gonfiare l’enorme ego individuale e culturale sono fin troppo reali; gli accomodamenti materiali, istituzionali e discorsivi che dominano la vita sociale strappano l’atomistico “Io” dalla spontaneità subconscia della vita corporea, scagliandola in una prigione fatta di separazione. Senza seguire un ordine particolare, l’elenco dei fattori che determinano questo stato di cose include: povertà indotta e reale accompagnata da un senso di angoscia nei confronti del futuro, predominanza di un regime di lavoro forzato e competitivo – e correlata esperienza di vita percepita come frettolosa e smarrita; sovraccarico sensoriale da una parte e noia derivante dall’isolamento all’interno delle quattro mura dall’altra; accelerazione della privatizzazione dello spazio e inaridimento della vita comunitaria. Molti più elementi potrebbero essere aggiunti, ma questa non vuole essere la sede per una loro discussione dettagliata.
Gli sviluppi menzionati sono generalmente riconosciuti. Il punto è piuttosto che, presi nel loro insieme come costitutivi del progresso umano inevitabile, possono rivelarsi come la nostra eredità primaria. Certo, esistono vantaggi pratici che ci rendono le cose più semplici e che ci sostengono. Ma a livello sistemico servono principalmente ad ammortizzare il nostro inserimento in strutture astratte ed ostili, che sorreggono e facilitano la nostra alienazione dal resto della natura, dagli altri esseri, e l’un* dall’altr*. Siamo manipolat*, spesso da forze che appaiono del tutto impersonali, nell’approfondire la nostra situazione esistenziale. Al suo apogeo civilizzato, l’umanità è più lontana che mai da una modalità relativamente armoniosa di essere-nel-mondo. Innegabilmente, l’umanità è un Impero. Ma al suo cuore si trova l’individuo che, sempre più spinto in una massa di altri senza volto, continua a sopportare, come un muscolo uno spasmo lancinante.
Non tutt* si sentono sottopost* alle richieste dell’egemonia tecnocapitalista con la stessa intensità. Le persone di posizione sociale ‘elevata’ mi accuseranno di esagerare. Ma è mia convinzione che la comodità della minoranza si costruisca attraverso una presa ferrea e continua alle gole degli innumerevoli diseredati. Nonostante il tipico torpore fatto di routine che li caratterizza e le loro impressionanti capacità di negazione, anche coloro che ne beneficiano tremano subliminalmente alle prospettive di un’instabilità crescente nella esistenza (post)moderna. L’ansia repressa ribolle, alimentando nevrosi, fino a quando non diventa matura ed esce allo scoperto. In un sistema fortemente strutturato e intriso di tecnologia, non siamo lasciat* a noi stessi nella ricerca di sollievo. Mentre una patologia dopo l’altra viene trasformata in una fonte di profitto, la moda, infinitamente riproposta e confezionata, della gratificazione immediata viene proposta come uno degli antidoti all’incombente sforzo psichico e all’intorpidimento. Le pressioni della vita quotidiana aumentano e l’industria culturale non deve sforzarsi troppo per per promuovere sciatte esperienze mirate a sostituire la sensibilità perduta della presenza animale. L’unica cosa che può offrire qui e ora è il bene di consumo con tanto di confezione appariscente.
Valide in sé, ma povere come sostituti di un’animalità traboccante – musica, arte, sport, spettacoli, turismo e altro ancora – diventano professionalizzati e standardizzati, ritagliati in comode porzioni e venduti. Tanto per non sbagliare, vengono buttati nel calderone anche dei farmaci, come scorciatoia per i risultati desiderati. Ma sia perché sono una farsa sia perché la nostra insaziabilità viene coltivata con cura, siamo perennemente insoddisfatt* di queste soluzioni tappabuchi. Invece del sollievo promesso e della liberazione dal peso del nostro ingombrante ego, sentiamo amplificarsi il nostro torpore sensoriale, e sperimentiamo l’assenza dall’esperienza. Oppure ci ritroviamo un’altra volta a non provare più neanche quella. Mentre ci rassegnamo alla gratificazione illusoria e restiamo ignar* dell’animalità repressa dentro di noi, le nostre energie vitali si disperdono sempre di più.
Finiamo anche di avere una visione distorta della spontaneità, del gioco e dell’animalità. La spontaneità viene contemporaneamente desiderata e perduta. Ridotta a oggetto di contesa, sempre sfuggente e rincorsa, è rimandata e inavvertitamente spinta fuori dalla nostra portata. A sua volta, agli occhi di molti, la giocosità viene a sovrapporsi con la frenesia dionisiaca: l’adrenalina deve scorrere a tutti i costi! Fino a quando non si impazzisce, non ci si diverte. Se lo sfondo non fosse quello di una forma di vita agonizzante, non vi sarebbe motivo di pensarla così. L’animalità viene svalutata in gioco sciocco o truce fatica. Nella realtà, come dimostrato dall’osservazione prolungata della miriade di altri animali da parte degli etologi, essa si estende ben al di là di entrambi. Gli altri animali non mancano quasi mai di prendersi cura dei propri bisogni vitali, dei quali il gioco è in molti casi una componente importante. Prima di consegnarli al “regno della necessità”, si dovrebbe osservare a lungo come giocano e come si divertono. In realtà, il confine tra “lavoro” e “gioco” nella vita degli altri animali è spesso impossibile da delimitare. Questo può essere visto come uno dei tratti distintivi dell’animalità libera.
Mentre la nostra vita si faceva sempre più compartimentalizzata, abbiamo cercato di ritrovare negli altri animali un qualche segno della nostra animalità. Ciononostante, di questi tempi, abbiamo raramente l’opportunità, la pazienza, l’attenzione o l’umiltà di notare veramente quello che fanno piccioni e scoiattoli. Gli animali considerati da compagnia potrebbero essere la tappa successiva. Ma pur essendo fonte di gioia, compagnia e amore per coloro che se ne prendono cura, molti di loro sono stati resi troppo dipendenti ed estraniati dalle proprie vite originarie per restituirci il senso di libertà che l’animalità pienamente espressa porta con sé. Basti pensare a guinzagli, collari e catene al collo dei cani. E altre specie sono già avviate nella stessa direzione. Molte persone tengono i gatti chiusi in casa per tutta la vita o li portano al guinzaglio. Lo zoo, da sempre e per definizione, non offre gioco e spontaneità ma artificio, puro e semplice. Funge da specchio, e allo stesso tempo maschera le gabbie nelle quali ci rinchiudiamo: i tratti desolati del mondo tecnologico.
Un tempo eravamo capaci di riapprendere gesti di spontaneità animale dai nostri figli. La sensazione di recuperare qualcosa che è venuta a mancare, qualcosa che è stata persa, sembra essere parte della fascinazione degli adulti verso l’infanzia e i bambini in generale. Ma, come sostenuto da alcuni abili scrittori, l’infanzia sta rapidamente scomparendo e i bambini stanno diventando sempre di più simili agli adulti. Prima cominciano a parlare, contare e leggere, meglio è. Il loro tempo diventa sempre più strutturato e organizzato da parte di professionisti, il gioco si trasforma in ricreazione progettata e sorvegliata. E la ricreazione alimenta e ruota intorno al miglioramento delle prestazioni. In questo modo, i bambini subordinano gradualmente i propri impulsi giocosi all’atteggiamento tecnico.
Il percorso che può portarci fuori da questo circolo vizioso richiede una comprensione viscerale del fatto che questo corpo è più che umano, che non è solo la base di concettualizzazioni astratte che non è semplicemente il punto di partenza verso i regni disincarnati dell’abilità tecnica e contemplativa, e non è solo un oggetto di considerazioni utilitaristiche. Ridotto a un’appendice della macchina, il corpo-come-(s)oggetto soffre e si inaridisce. L’umanesimo non è stato in grado di capire questo concetto e comprenderne le conseguenze devastanti. Ha consacrato la cultura e l’ha contrapposta alla tecnologia, dimenticando che entrambi sono costrutti che ci strappano dalla immediatezza dell’essere mondano.
Questioni riguardanti la nostra animalità possono suggerire rotte più desiderabili per il difficile compito di rinascita somatologica. Fino a quando queste ultime non sostituiranno quelle della nostra umanità, le probabilità di restare animali in guerra con noi stessi, il mondo e i nostri stessi costrutti tecnologici rimangono alte. Se l’astrazione dell’essere umano dall’animale continua ad essere analiticamente di qualche utilità, se abbiamo dovuto prendere posizione su quelle basi, sarebbe opportuna una breve confessione: è il corpo che si sostiene attraverso la sua essenza suppostamente umana, e non viceversa. È quando, sotto la pressione di circostanze materiali e culturali, il corpo usa la propria mente contro di sé, che le cose prendono una brutta piega. In caso contrario, il corpo “possiede un’innata saggezza”-come disse Nietzsche per il bene proprio e di coloro che lo circondano. È vulnerabile e fragile, compianta sede di dolore. Ma è anche poderoso, il potente sovrano di Nietzsche. Permette ma non chiede il permesso. La sua voce si esprime e si percepisce come limiti, bisogni, desideri e istinti, pensieri e come l’ego stesso. Non contiene solo la chiave di tutte le esperienze, consce e inconsce. Questo corpo sensibile e senziente è l’esperienza stessa.
Solo trascendendo la dicotomia mente/corpo, saremo in grado di apprezzare nuovamente la relativa coerenza e sanità della vita animale. Si può riconoscere a parole l’animalità, ci si può definire homo sapiens sapiens, designare uno spazio tutto per noi in uno schema tassonomico, e chiudere il discorso. Ma se veramente siamo una specie animale, e se difficoltà e tragedie costituiscono una parte inevitabile della vita animale, potrebbe veramente convenire affrontare la realtà da animali riconciliati con le proprie varie dimensioni, piuttosto che da animali autorepressi. A causa di un’idea di contrapposizione tra l’animale e l’umano, tra il corpo e la mente, abbiamo scavato un solco nella nostra carne sensibile, tentando di sfuggire a noi stessi in nome di una sorta di eterea autonomia. Ma l’umano non è l’opposto, o l’altra facciata, dell’animale. Non ne è che un’estensione, che non si sviluppa come alcuni vorrebbero credere in “verticale”, offrendo una via di fuga fino al cielo. Piuttosto, si dispiega “orizzontalmente”, lasciandoci immersi, insieme a tutti gli altri animali nelle ecologie circostanti e la sporcizia, il dolore e le gioie della vita carnale.
Queste considerazioni sono da intendersi come mero frammento della germinazione lenta di una riflessione più ampia. Come chi mi ha preceduto, intendo suggerire che è necessario riconsiderare la visione mondiale dominante che ha 1) menomato l’umano, 2) gli ha concesso una nobiltà immeritata e fasulla e, 3) ha condannato una moltitudine di altri animali alla miseria, sulla scia di una qualche supremazia umana. Tale ripensamento richiede una teoria sulla quale lavorare, insieme, intorno e contro le astrazioni in cui siamo ormai immers*, avendo sacrificato la dimensione sensuale della nostra natura animale. Ma l’impulso volto alla rivalutazione dell’animalità non ha origine nella teoria e non dovrebbe concludersi lì. Lasciare la questione sulla carta significherebbe tradirla e continuare a tradire noi stessi. Questi pensieri emergono, e rimandano alla vita pratica e quotidiana, e solo lì possono davvero diventare reali. Come tali, essi richiedono una trasformazione graduale ma radicale. In molti di noi matura un desiderio, di condizioni di vita che consentano la vera semplicità, l’immediatezza, la presenza, l’empatia e la saggezza. Attualmente, le opzioni per coloro che si sentono in disarmonia con l’ordine attuale sono poche: alcun* accolgono e accettano sostituti fallaci, altri sopravvivono ai margini, nella speranza di essere risparmiati dagli ingranaggi del sistema. La maggioranza si muove tra questi due poli. Ma questo corpo più-che-umano vuole qualcos’altro. Percepisce la verità di una vita altra.

Come realizzare un Porno Femminista

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Qui l’articolo originale in inglese. Traduzione di feminoska, revisione di H2O.
Bando alle ciance, buona lettura!

Come realizzare un porno femminista (di Reina Gattuso)

“Voglio ribaltare il dialogo culturale sul sesso e sulla sessualità”, afferma Tristan Taormino. Si definisce una pornografa femminista e col suo lavoro intende comunicare la propria visione femminista in una sfera particolarmente controversa di rappresentazione: quella della pornografia.
In una cultura satura di rappresentazioni di donne rese oggetti – rappresentazioni che troppo spesso normalizzano e perpetuano la violenza di genere – alcun* attivist* si stanno riappropriando delle telecamere. Il loro lavoro, sempre più spesso definito come ‘pornografia femminista,’ mira a sfidare le concezioni dominanti di sessualità e potere, reclamando il porno come mezzo di espressione femminista.

Taormino ha cominciato a realizzare porno nel 1999, anno nel quale ha co-diretto un adattamento cinematografico del suo libro, The Ultimate Guide to Anal Sex for Women. Scrittrice, docente universitaria e educatrice sessuale, Taormino inizialmente non pensava che la produzione di pornografia sarebbe diventata un motivo centrale della propria carriera ma, rendendosi conto del profondo potenziale del suo lavoro, ha ben presto iniziato a dedicarsi sul serio alla regia. “Voglio sfidare la nostra concezione di cosa sia il sesso, quello che si ritiene il sesso tra virgolette ‘normale'”, afferma Taormino. Dal debutto di regist* e interpreti come Candida Royalle, Nina Hartley e Annie Sprinkle, la pornografia femminista non ha lasciato indifferente l’universo dell’intrattenimento per adulti; a partire dal 2006, questo genere ha persino una cerimonia di premiazione annuale.

“Non usiamo la parola femminista per indicare un certo tipo di sessualità, in sostanza, né film che hanno solo una trama complessa o non includono scene bizzarre”, afferma Lorena Hewitt, Direttore Artistico del Feminist Porn Awards. “Vogliamo davvero riconoscere le differenze esistenti tra le donne, i loro diversi desideri, l’esistenza dell’intersezionalità.” Taormino è d’accordo. “Non credo che esista il sesso femminista,” dice. Discutendo del proprio lavoro, resiste infatti all’idea che certi atti sessuali siano intrinsecamente liberatori o degradanti. Invece, riguardo al porno femminista, afferma che “è il porno prodotto eticamente, che sfida le raffigurazioni convenzionali e stereotipate di genere, sesso, razza, classe, abilità e di altre raffigurazioni identitarie, e dialoga sia con coloro che lo realizzano che con coloro che lo guardano.” Per Taormino e altre femministe impegnate nella realizzazione e nello studio della pornografia, i contenuti sessualmente espliciti offrono l’opportunità di affrontare criticamente il rapporto tra identità e di azione. Sovvertendo e diversificando le rappresentazioni spesso stereotipate della sessualità osservabile solitamente nei media mainstream, le pornografe femministe invitano quel pubblico emarginato per tradizione a connettersi con il sesso come mezzo di piacere e di potere. Queste raffigurazioni esplicite, fondate su una conoscenza della pornografia sia come industria che come forma culturale, mettono gli spettatori nella condizione mentale di impossessarsene/appropriarsene mentre ne traggono un piacere sessuale.

1. Cose da non fare

D. Che diresti alle femministe anti-porno?
R. Direi che ne dovrebbero guardare un po’. -Lorraine Hewitt

“Sono sopravvissuta alle guerre del sesso”, dice Annie Sprinkle.
Leggendaria performer per adulti e prostituta, ecosessuale autodichiarata, artista di performance e prima pornostar a ottenere un dottorato di ricerca, Sprinkle ha trascorso gran parte degli anni Ottanta in prima linea nei contenziosi dibattiti sulla pornografia femminista. A partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, le guerre del sesso hanno polarizzato le femministe della seconda ondata lungo le direttrici contrapposte “anti-porno” e “pro-sex”. Femministe iconiche come Andrea Dworkin sostenevano che la pornografia e le pratiche sessuali come il BDSM fossero basate sulla dominazione dello spettatore o del partecipante maschio, e quindi intrinsecamente ostili alle donne. Le femministe pro-sex, d’altra parte, erano convinte che stigmatizzare quelle che venivano considerate perversioni e sopprimere la pornografia avrebbe significato incoraggiare la repressione della sessualità femminile e dell’espressione sessuale. Lo scrittore, attivista e professore di giornalismo presso l’Università del Texas a Austin, Robert Jensen, autore di Getting Off: Pornography and the end of masculinity, è spesso citato come famoso femminista anti-porno contemporaneo. Quando si racconta la storia della crociata anti-porno, Jensen sottolinea le radici del movimento.

“È importante riconoscere che la critica femminista della pornografia è emersa dal movimento anti-violenza e che la critica della pornografia rappresentava solo un aspetto della critica a una cultura che forniva un sistema di supporto culturale per tale violenza”. Jensen ritiene che questo supporto culturale dipenda dalla fusione della mascolinità con la dominazione e della sessualità con la violenza. La pornografia, sostiene Jensen, che si rivolge principalmente ad un pubblico maschile, rafforza e perpetua questa ideologia dipingendo le donne come oggetti sessuali creati per il piacere e il controllo maschile. Per gli attivisti anti-porno come Jensen, l’associazione tra lavoro sessuale e violenza si estende al modo in cui gli/le interpreti vengono trattat* quando non sono in scena, portando a quella che definisce una “industria dello sfruttamento sessuale.” “Questo non significa che ogni donna che appare in un film pornografico sia sfruttata “, dice Jensen. “Ovviamente, ci sono molte differenze a seconda del livello nel quale ogni donna lavora … ma stiamo parlando di migliaia di donne. E credo [che in base a] i dati sulle loro esperienze, anche se non sono uniformi, si possa parlare di tendenze precise. ” Jensen sostiene inoltre che molte interpreti femminili siano particolarmente vulnerabili a pratiche di sfruttamento del lavoro a causa della loro mancanza di alternative. “Quando entrano ad Harvard, pensando al proprio futuro professionale, quante giovani donne pensano seriamente al porno, alla prostituzione o allo spogliarello come a una professione per la vita?” domanda, spostando l’attenzione sulle situazioni avverse che motivano alcune donne a intraprendere una carriera nel porno.

Sprinkle si arrabbia all’insinuazione che nella sua decisione di lavorare nell’industria del porno vi sia stata una scarsa possibilità di scelta consapevole. “Ho avuto un sacco di possibilità – avrei potuto scegliere e fare ogni genere di cose – ma ho scelto quel lavoro”, afferma. Anche se molte femministe coinvolte nella pornografia riconoscono che lo stigma sociale e l’oppressione possono avere come conseguenza condizioni di lavoro poco sicure, sostengono altresì che la risposta a questo problema non è quello di vietare il lavoro sessuale, ma di legalizzarlo e regolamentarlo. “L’idea che non ci possa essere una scelta consapevole significa anche che non ci possano essere diritti, che non ci possano essere ambienti di lavoro sicuri, che le persone non possano avere voce in capitolo rispetto a quello che fanno”, sostiene Taormino. “Per me sostenere le persone che lavorano nel sesso e cercare di cambiare l’ambiente dall’interno è un atto incredibilmente femminista.” Quando si parla di pornografia, tuttavia, Jensen non crede a chi sostiene il cambiamento dal di dentro. “Perché supponiamo di avere sempre bisogno di nuovi contenuti? Perché come cultura sentiamo il dovere di avere immagini sempre più esplicite sessualmente, indipendentemente dalla natura ideologica, siano esse patriarcali o femministe? ” domanda. E continua: “Quando la cosiddetta soluzione a un problema comincia a sembrare molto simile al prodotto della cultura dominante, allora inizio a nutrire molti dubbi rispetto agli effetti che avrà.”

2. Rappresentazione

Quando Hollywood riscrive e rimodella le nostre esperienze, e le scuole ignorano le nostre storie e la nostra educazione sessuale, la pornografia queer è uno dei pochi mezzi capaci di raccontare in maniera esplicita le nostre storie. –Jiz Lee, Femminista, Performer Porno (da The Feminist Porn Book)

Le pornografe femministe sostengono che i contenuti sessualmente espliciti che loro stesse producono, rendono loro possibile la rappresentazione di se stesse e del proprio corpo in un settore – e una cultura – saturi di un immaginario alienante. “In generale, credo che l’auto-rappresentazione sia fondamentale per le comunità o che le tue storie vengano affidate a coloro che sono essenzialmente ai margini”, afferma Shine Louise Houston, pornografa. “In un certo senso è così che ci si rimpossessa del potere delle narrazioni visive.” Una femminista queer nera, Houston è spesso acclamata come una delle registe e produttrici il cui lavoro, tra cui la pluripremiata serie “Crash Pad”, ha in sé il potenziale di trasformare un’industria vietata ai minori e dominata dai desideri dei maschi bianchi etero. Anche Sinnamon Love, che si autodefinisce una performer nera femminista e regista, usa il proprio lavoro per combattere gli stereotipi sessuali e razziali spesso presenti nella pornografia. Questi stereotipi variano, sostiene, da rappresentazioni “ghettizzate” dei neri a “immagini assimilative di donne nere”, che delineano un mercato che privilegia le donne di pelle chiara dai corpi sottili e dalle “fattezze europee.” “Produttori e registi giocano con questi stereotipi per attirare i propri acquirenti “, afferma Love, notando che i produttori spesso adattano i propri prodotti pensando agli uomini bianchi visto che rispetto ai neri sono più propensi ad acquistare film porno invece che che affittarli. “È una cosa della quale, personalmente, a questa età e in questa fase della mia vita, io non voglio essere parte”.

Come Love, che si sforza di realizzare un‘immagine più fedele delle donne nere nella sua pornografia, Dylan Ryan, una performer queer, trova importante produrre contenuti sessuali che siano inclusivi della sua comunità. “Stavo cercando di creare un senso autentico del mio … senso della sessualità, della mia intenzionalità , della mia disinvoltura sessuale e della mia raffigurazione fisica,” dice. “Avevo visto molti lavori inautentici rispetto a me e alle mie esperienze, quindi mi sono sentita davvero ispirata nel mostrarmi e nel rappresentare la mia esperienza.” E quando gli interpreti si sentono fedelmente rappresentati, il pubblico risponde. “Siamo diventat* una sorta di modello per le persone giovani che si interrogano circa il proprio orientamento o la propria identità di genere”, dice l’attrice femminista Jiz Lee, che si identifica come genderqueer. “Siamo qui perché non ci sono altre voci nei media mainstream.”
Tuttavia, gli attivisti di entrambe le posizioni sottolineano che il porno fatto da registe donne non risulta automaticamente femminista. “Alcune donne hanno realizzato porno davvero misogini” afferma Sprinkle. “Il porno femminista può essere fatto da chiunque, non per forza da una donna.”

3. Metti in discussione il potere, dai dignità al lavoro

Il porno femminista è un genere che è anche un movimento sociale, che sta tentando di prendere un tipo di film e metterlo assieme alla politica in questo modo davvero importante e complicato. -Dylan Ryan

Tema comune di molti film porno femministi è il riconoscimento e la negoziazione del consenso reso visibile, attraverso la collaborazione tra interpreti e registi in merito ai contenuti dei film. Nei propri film, Taormino include interviste in stile confessionale agli interpreti, allo scopo di fornire agli spettatori un’idea dei desideri e delle discussioni che hanno avuto luogo con i performer. Questa tattica, dice Taormino, “afferma il consenso in modo davvero molto esplicito e stabilisce anche il livello di proattività sessuale degli/lle interpreti nella scena”, cosa che permette agli spettatori di “lasciarsi andare alla fantasia” in modo rilassato. Secondo Taormino, la trattativa riportata sulla pellicola diventa particolarmente importante per quelle scene che raffigurano fantasie palesemente basate su dinamiche di potere, come quelle BDSM, o altre pratiche sessuali storicamente controverse. “Dominazione maschile e sottomissione femminile di per sé non sono automaticamente misogine o anti-femministe, specialmente se le persone coinvolte sono consenzienti rispetto a quello che stanno facendo”, sostiene. Le femministe anti-porno, tuttavia, sostengono che il consenso del/della interprete non obliterano i potenziali effetti psicologici legati alla visione di contenuti sessualmente aggressivi. “Non credo che sia sano a livello sociale presentare il sesso come costantemente legato al binomio dominazione-subordinazione”, dice Jensen. Anche quando una scena pornografica è “girata con persone che la hanno compresa, concordata e vi hanno acconsentito,” continua Jensen: “Qual è l’effetto del continuo rinforzo della fusione tra sesso e dominio?” Eppure per Taormino, rispettare la volontà delle proprie interpreti significa privilegiare il loro benessere e desideri al di là delle sue convinzioni personali di ciò che comportano quei desideri. “Trovo piuttosto prevaricatorio chiedere a qualcun* di far valere la propria opinione e i propri desideri per poi negarli o trovarli in qualche modo inadeguati, perché la mia idea è differente o perché ho una diversa nozione preconcetta su come le cose dovrebbero avvenire”, afferma.

4. Azione / Attivismo

“Il lavoro è sempre stata una questione femminista. Il lavoro sessuale è una questione femminista. È davvero tempo di dare seguito a tali [ideali ] nell’ambito della pornografia, che è una forma di lavoro sessuale.”
-Tristan Taormino
“La nostra cultura svaluta il lavoro sessuale e il sesso”, sostiene Taormino. “Denigriamo e stigmatizziamo le persone che fanno porno e contemporaneamente consumiamo voracemente il prodotto che deriva da tale lavoro.” In risposta a ciò che molti percepiscono come un atteggiamento disinvolto dell’industria del porno in merito alle condizioni di lavoro, diverse femministe impegnate nella pornografia sono diventate convinte attiviste a sostegno dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. Sprinkle, che è attiva nel movimento dal 1974, osserva che i molteplici problemi affrontati dalle prostitute sono spesso il risultato degli sforzi compiuti per far rispettare leggi che criminalizzano la prostituzione. “C’è una guerra in corso sulle puttane, da lungo tempo”, dice Sprinkle. “Donne che non possono rivolgersi alla polizia per denunciare di essere state stuprate o derubate mentre si dedicavano al lavoro sessuale, perché hanno paura di essere arrestate.” Ryan, che sostiene la causa delle prostitute come assistente sociale, nota che lo stigma contro i/le sex worker esiste anche tra le persone che lavorano nel porno. Afferma di non essere sorpresa di vedere spesso in gioco differenze di classe, in grado di riaffermare una “gerarchia all’interno del lavoro sessuale.” “Quando parlo del valore del lavoro sessuale di strada, come di qualcosa che dovrebbe essere … socialmente sostenuto e reso più sicuro, penso sia quello il momento in cui mi caccio maggiormente nei guai – a causa di tutt* quell* che si dedicano al porno e insorgono dicendo che “beh, io non sono un/a prostituta”. Per Ryan, questa mancanza di solidarietà è a dir poco miope. “Una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso”. “Criminalizzare uno degli aspetti nel quale viene praticato tale lavoro in ultima analisi avrà delle conseguenze a cascata su tutti gli altri, in termini di come vengono percepite, sulle condizioni di lavoro, sui diritti e le possibilità disponibili per le donne che ci lavorano, cose così.” Ryan afferma che a livello personale, la sua identità di attrice porno che ha scelto e ama il suo lavoro le permette di abbattere alcuni stereotipi negativi sulle sex worker. “È sempre emozionante e divertente parlare con qualcuno, una persona impegnata nel sociale e raccontarle del lavoro sessuale, o accennare qualcosa al riguardo durante una conversazione”, dice. “È tutta una questione di scardinare gli stereotipi.”

5. Critica

La mia tattica è sovvertire dall’interno. Sii il cambiamento. -Shine Louise Houston

Mentre il porno femminista ha senza dubbio tante definizioni quanti sono i suoi spettatori, un principio guida che si può utilizzare per delineare il genere è la convinzione che la rappresentazione esplicita della sessualità abbia la capacità di interrogare in modo critico la cultura riguardante genere, potere e identità e, in ultima analisi, di cambiarla.
Considerata la storica controversia dell’impegno femminista verso la pornografia, la designazione di un approccio specifico al porno che si possa intendere “femminista” è qualcosa che molt* ancora mettono in discussione. Eppure è innegabile l’empowerment di coloro che sono stat* storicamente oggetto di uno sguardo sessualizzato – donne, queer, persone di colore – nel momento in cui diventano protagoniste del proprio desiderio. In una cultura inondata di contenuti che travisano più di quanto non divulghino, non c’è forse mezzo più appropriato dello schermo per mettere in atto questo intervento. Per molte delle femministe che si cimentano con il genere, la politica della pornografia riguarda molto più che la semplice realizzazione di immagini nelle quali gli spettatori possano identificarsi. Piuttosto, la pornografia femminista rappresenta un quadro di riferimento utile a concettualizzare l’identità, il potere e il desiderio, una lente attraverso la quale interrogare e criticare una cultura. Taormino, per esempio, è convinta del potere trasformativo della pornografia. Come scrive in The Feminist Porn book, un’antologia che ha co-curato sul genere, il porno può avere un ruolo molto più importante della funzione di procurare piacere: “Penso che il sesso possa cambiare il mondo.”

Poveri per legge

King

Un breve racconto del nostro amico Sdrammaturgo, basato su fatti a lui accaduti recentemente. Buona lettura!

Per capire che lo Stato è un’istituzione fondata sull’abuso inventata dalla classe dominante per schiacciare la popolazione e che la legge è la voce del padrone atta a incatenare lo schiavo, non servono le stragi, le guerre, l’ingiustizia sociale, il capitalismo, le multinazionali, le galere, la scuola, la Diaz e Bolzaneto: basta salire sul treno.
Nella mia vita mi sarei aspettato di incappare anche in una pioggia di rane, in uno sbarco alieno, perfino nell’agognata fine delle battute sulla droga. Non si sa mai cosa può succedere, le meraviglie del possibile offrono infinite eventualità. Ma a questo, francamente, non ero preparato. La mia fantasia, pur avvezza alla science fiction distopica, si è rivelata non all’altezza della realtà più fantasmagorica concepibile nell’universo conosciuto: le regole del regime democratico.
George Orwell aspetta Machiavelli, si incontra con de Sade, passano a prendere il conte Vlad, tutti e quattro vanno a cena da Predator e insieme creano Trenitalia.
Questo è ciò che mi è successo stamattina sulla tratta Roma Tiburtina-Orte, treno delle 9.07.
Nel vagone passa una ragazza a chiedere l’elemosina. Le do trenta centesimi. Si alza un ferroviere davanti a me.

– Lo sa che lei è passibile di multa?
– Eh?!
– È vietato dare soldi a chi fa la questua. Il personale ferroviario potrebbe farle la multa.
– Ma se io le voglio dare trenta centesimi perché mi sta simpatica?
– Io gliel’ho detto, poi lei faccia come vuole.
– Infatti, con i miei soldi faccio quello che mi pare.

È ILLEGALE DARE SOLDI AI POVERI.
I trenta centesimi che scossero l’establishment.
Praticamente è obbligatorio l’abuso sul più debole.
Ho delle interessanti proposte di legge da fare al nuovo Governo:

1) divieto di nutrirsi se si ha un reddito inferiore alle aspettative del più vicino concessionario di BMW;
2) vietato soccorrere un individuo colto da malore qualora sprovvisto di carta di credito;
3) severamente proibito salutare passanti che non presentino indosso indumenti firmati.

Confesso che mi ha sorpreso. Non lo sapevo. E nemmeno lo immaginavo. Ma la legge non ammette ignoranza.
Una volta ho prestato cinque euro a un mio amico. Rischio l’ergastolo.
 

La malafede della zoofobia – IV (e ultima) parte

Homelessmanandhisdog

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§ Ritmo, Grazia e Afflizione
Esistono validi motivi per supporre che la crisi globale della nostra creazione non richieda un inasprirsi della dominazione tecnoscientifica e zoofobica, ma un ritorno ai nostri sensi, ovvero, ad una vita animale più libera. Infatti, in Dialettica Negativa Adorno scrive che “l’individuo rimane con niente più che… provare a vivere in maniera tale da poter pensare di essere stato un buon animale.” (51) Essere un buon animale (umano), commenta Christoph Menke, significa agire mossi da un sentimento di solidarietà. Il soggetto animale è tale che “non separa sé stesso dalle proprie “spinte” o “impulsi” per seguire la legge e per liberarsene, ma la cui libertà, anzi, la cui propria forza, consiste nel permettere alle sue pulsioni e impulsi di esprimersi. Solo così, in “armonia”, persino in “riconciliazione” con sé stesso, l’uomo può essere buono verso gli altri.”(52)
Gli homo sapiens possono essere se stessi, e specificatamente esseri umani, solo se sono buoni animali, e quindi solo quando “non agiscono, e tantomeno si presentano, come persone,” (53) vale a dire, come ego che sopprimono i propri impulsi interiori. In Body Transformations, Alphonso Lingis attinge a Nietzsche dicendo che “le forze lussuriose di un individuo possono allontanarsi dall’immagine ideale di sé proiettata dagli adulti della propria famiglia, classe, etnia, nazione e razza per puntare su quegli istinti antichi che risorgono in lui, affermandoli e conferendo loro potere. “(54) Ma i tratti che costituiscono un buon animale non possono essere fabbricati; “la nobiltà non si rivela dalla gestione del carattere;”(55) l’unica vera virtù è spontanea, senza pretese, ed emerge con l’emancipazione dell’impulso, libera di assumere spontaneamente una molteplicità di significati.(56) Ma far sì che gli impulsi libidinosi trovino piena espressione oggi, pone l’individuo a rischio; la civilizzazione stessa è stata progettata precisamente per addomesticarli e sottometterli ad un’autorità “superiore”. Qualsiasi essi siano, gli istinti “renderanno quell’individuo disadattato nel proprio tempo e possono renderlo eccentrico o folle.”(57) Finché la civilizzazione non sarà rimodellata per fargli spazio, rimarrà “un selvaggio nato troppo tardi.”(58) “L’uomo ‘civilizzato’ – nota Fromm – ha sempre vissuto nello ‘Zoo’ – cioè in diversi gradi di cattività e non-libertà – e questo è tuttora vero”(59) Per la verità, forse ancor di più nelle società tecnologicamente più avanzate, che da qualsiasi altra parte.
Nella maggior parte dei casi, la nostra tendenza all’essere guidati da processi pre-riflessivi e a noi connaturati, oscilla tra riluttanza ed odio.(60) Per questo motivo introduciamo nelle nostre vite lo sforzo di un eccessivo autocontrollo. Watts ha associato questo processo all’afferrare una mano con l’altra, per timore che sbagli in qualsiasi cosa stia facendo. La conclusione è che, in quest’ottica, non ci si può fidare di nessuna delle due mani. “Chi sorveglierà le guardie stesse?”(61) è una domanda che dovrebbe essere posta ma generalmente non lo è. Nel frattempo, si è persa una delle due mani, e cioè metà della propria abilità, in una ricerca sostanzialmente impossibile di controllo di se stessi e degli altri. A causa di questa lotta e di questo soffocamento auto-inflitto, il mondo diventa una gabbia. Sicuramente, dice Watts, “ci saranno errori, ma se non ti fidi affatto finirai per strangolarti. Finirai per circondarti di regole e leggi e prescrizioni e polizia e guardie – e guardie per fare la guardia alle guardie. Quindi, per vivere dobbiamo avere fiducia. Dobbiamo confidare in ciò che è completamente ignoto e in una natura che non ha padroni.” (62) Riformulando il punto di vista di Alfred North Whitehead sulla questione, Hamrick e Van der Veken scrivono di un evidente cambio di atteggiamento nella filosofia moderna nei confronti della percezione sensoriale, prodotto da una variazione dell’antica domanda, ovvero da “Cosa sentiamo?” a “Cosa possiamo sentire.” Un mutamento così compiuto ha dato i natali ad un “atteggiamento di ‘attenzione forzata’ per percepire dati che oscura la base dell’esperienza da cui i dati stessi originano,” con la percezione sensoriale che diventa il prodotto di una “attenzione cosciente che esclude più di quanto includa…. Per Whithead – dicono – la filosofia deve criticare queste astrazioni e, superando la ‘fallacia di una concretezza malriposta,’ ristabilire la nostra connessione con la natura e con la nostra esperienza morale, emotiva, e sostanziale. “(63)
Alcune parti di Il pensiero selvaggio di Levi-Strauss potrebbero essere utili per indirizzarci verso tale modello alternativo di vita. Il pensiero selvaggio è “pensiero nel proprio stato non addomesticato, così distinto dal  pensiero educato o addomesticato allo scopo di ottenere qualcosa. La caratteristica peculiare del pensiero selvaggio è la sua eternità…Una moltitudine di immagini prende forma simultaneamente, nessuna esattamente uguale all’altra, cosicché nessuna fornisce più di una conoscenza parziale.” (64) Per ridefinire lo strutturalismo dell’autore in una narrativa di vita sensuale, il “pensiero selvaggio” è, in senso stretto, non tanto mente o pensiero, (65) ma una certa presenza viscerale dell’organismo nel proprio mondo. E’ un corpo che si orienta nelle immediate vicinanze, cercando soluzioni ai problemi in ciò che è a portata di mano, approfittando dell’immediata possibilità, esistendo – presente nella situazione e trascendendola attraverso questa stessa presenza. C’è la gioia del coinvolgimento in tale “incarnazione [che] riguarda il corpo che tracima il proprio senso di costrizione, nel permettere la creazione di ritmi condivisi.” (66) Da questo punto di vista, la vita sulla terra ha un aspetto ritmico che è organico e, in un senso davvero primitivo, musicale. I corpi umani sono fondamentalmente legati ai ritmi della terra, posto che non inibiscano il proprio schiudersi entro sé stessi. Saul Williams sostiene che “siamo l’equivalente manifesto di tre secchi d’acqua e una manciata di minerali, realizzando così che quegli stessi secchi girati sottosopra forniscono l’elemento percussivo dell’eternità. Se devi contare per tenere il ritmo – aggiunge in alcune interpretazioni dal vivo – allora conta.” (67) Ma sostenere questo testimonia già una realtà di separazione; più civilizzati, e cioè orientati alla cultura, diventiamo, più diventiamo incapaci di comprendere questo concetto, anche mentre continuiamo ad esserne soggetti. Le nostre vite allora perdono sincronia con il battito diversificato delle ecologie circostanti e dei loro abitanti senzienti. Siamo così privati di ciò che potrebbe chiamarsi grazia animale – non solo quella che caratterizza la facilità con cui un gatto salta giù da un albero, ma anche quella che – sottolineata dalla sofferenza – opera in mezzo al dolore, alla perdita e all’infelicità. Secondo Mazis, “le radici della parola afflitto indicano ‘essere oppresso.’ Il mondo, se preso sul serio, davvero ci opprime. Essere afflitti significa sentire il peso dell’esistenza, un peso che ci riporta ad un livello condiviso con tutte le altre creature viventi. E’ una via verso casa.”(68) Una casa non perfetta, almeno non secondo le nozioni riduzioniste di perfezione lineare; troppo imprecisa, vaga e “inafferrabile” per ospitare esemplari perfetti. Non si sposa con la geometria Euclidea; una montagna non è più rozza, ma molto più complessa di un triangolo. Inoltre, per il disappunto sia di quelli che vorrebbero costruire un concetto di umanità come negazione dell’animalità, sia di quelli determinati a sviscerare l’inconfutabile nocciolo dell’animalità, nella ricchezza della molteplicità animata non risulta esserci una riconoscibile singola qualità che renda un animale tale. E quindi, semmai, l’animalità è non-essenzialista ed estremamente eterogenea. (69) Ralph R. Acampora sostiene giustamente che “non ci sono animali generici che vagano per la terra, e la pura/perfetta ‘animalità’ in quanto tale può essere evocata nel paradiso di Platone solo in via ipotetica.” (70) Questa, tuttavia, non è l’antica Grecia (71) e non serve a nulla aggrapparsi a standard di perfezione demoralizzanti e incorporei capaci di inibire l’apprezzamento della carne fallibile del mondo. “Di tutte le emozioni – dice Mazis – il dolore ha il grande potere di rallentarci, se lo lasciamo fare. Come la sensazione al centro dei nostri corpi di essere influenzati da tutti questi altri esseri, il dolore ci chiama ad essere partecipi di una rete intrecciata e complessa fatta dei fili sottili dell’interconnessione.” (72) Anche se non è una lezione piacevole, ci permette di realizzare che essere completamente permeabili al mondo – con il sangue, il sudore, e le lacrime che ne derivano – ha la sua propria perfezione. Perciò, sicuramente, invece di premere qualche interruttore immaginario sulla modalità “apprezzamento dell’animalità”, tornare a casa significa prima di tutto sentire il peso del mondo, provare dolore per i miliardi di nostri simili che muoiono, vedere quanta sofferenza deriva dalle nostre azioni. E si tratta di agire in base al dolore. La domanda è: saremo in grado di farne qualcosa, considerate le barriere alla compassione innalzate tutto intorno a noi, che ci separano dal mondo e si sostituiscono ad esso? Nessun sentimento si sviluppa nel vuoto, nella res cogitans di un pensatore Cartesiano opposta alla res extensa del mondo. Siccome, piuttosto, una persona percepisce dentro e attraverso la densità delle cose, sostengo che il vero essere-con (Mitstein) rimuoverà questi ostacoli materiali e percettivi, dovrà coraggiosamente rimpiazzare le immagini con la realtà, il ferro e il vetro con la terra e gli alberi, l’aria condizionata con il vento, la benzina con l’acqua, l’astratto con il concreto, un movimento necessario a restituire incanto al disincantato. Non è una vaga idea buttata a caso. Sia i prerequisiti sia le implicazioni di un recupero di una piena e diretta presenza nel mondo e l’uno  verso l’altro sono sbalorditivi, e fondamentalmente richiedono niente meno che un capovolgimento della reificazione, irreggimentazione e mercificazione della vita senziente. Un tale capovolgimento è, sempre più evidentemente,  tanto necessario quanto inevitabile.
NOTE

51 Adorno, Dialettica Negativa, 299.
52 Ch. Menke, Genealogy and Critique [in:] “Cambridge Companion to Adorno,” ed. Tom Huhn. Cambridge and New York: Cambridge UP 2004, 320.
53 Adorno, Dialettica negativa, 277.
54 A. Lingis, Body Transformations: Evolutions and Atavisms in Culture. New York: Routledge 2005, 16.
55 ibid.
56 Nel seguire le tracce di John Dewey, Shannon Sullivan insiste nell’usare “impulsi” invece di “istinti” per indicare che la “corporeità di un organismo generalmente segue un disegno, piuttosto che a caso.” Mentre “‘istinti’ implica che le energie di un organismo si presentino già confezionate in organizzazioni necessarie e definite di dati significati… gli impulsi… ottengono il proprio scopo solo da consuetudini che li organizzano… la corporeità è organizzata da consuetudini, che sono gli stili di attività acquisiti da un organismo che gestiscono l’energia dei suoi impulsi.” L’abitudine, a sua volta, è molto più che la ripetizione della routine. E’ “non tanto la ricorrenza di azioni particolari, quanto uno stile o una maniera di comportarsi che si riflette attraverso l’essere di ognuno.” Gli automatismi comportamentali sono riflesso non della realtà, ma di faziosità positivista. Vedi S. Sullivan, Living Across and Through Skins. Transactional Bodies, Pragmatism, and Feminism. Bloomington, Indianapolis: Indiana UP 2001, 30-1.
57 Lingis, Body Transformations … , 16
58 ibid.
59 Fromm, Anatomy … , 103.
60 In questo rimaniamo ignari del fatto che questo stesso atteggiamento è un’espressione della vita corporea, insieme al pensiero cosciente come tale, esso stesso non così indispensabile come a tutti piacerebbe forse pensare. Michael Steinberg sostiene che “il pensiero cosciente è completamente intrecciato con il sub-personale … bisognerebbe ricordare costantemente che i pensieri di cui siamo coscienti sono solamente aspetti parziali e a volte anche casuali di un più grande complesso di processi … Il nostro pensiero è solo un aspetto della vita del corpo, esso stesso aperto a tutte le cose.” Vedi M. Steinberg, The Fiction of a Thinkable World. Body, Meaning, and the Culture of Capitalism. New York: Monthly Review Press 2005, 24-5.
61 “Quis custodiet ipsos custodes?” è un proverbio latino attribuito al poeta romano Giovenale, spesso richiamato da Watts nelle sue letture e nei suoi libri relativamente alla futilità ultima dell’auto-controllo e alla necessità di fidarsi della propria natura. Vedi per esempio il suo The Tao of Philosophy (Boston: Tuttle Publishing 2002, 33-4).
62 ibid.
63 W. Hamrick, J. van der Veken, Nature and Logos. A Whiteheadian Key to Merleau-Ponty’s Fundamental Thought. Albany, NY: State University of New York Press 2011, 53.
64 C. Levi-Strauss, The savage mind (il Pensiero Selvaggio), trad. George Weidenfeld and Nicholson Ltd. London: Weidenfeld and Nicholson 1966, 219, 263.
65 Il titolo francese originale de The Savage Mind è “La Pensée Sauvage” dove la pensée è più naturalmente tradotto come “pensiero” piuttosto che “mente”. Mente in francese solitamente si traduce con l’esprit.
66 G. A. Mazis, The Trickster, Magician and Grieving Man: Reconnecting Men with Earth. Santa Fe, New Mexico: Bear & Company Publishing 1993, 207.
67 S. Williams, Coded Language [su:] Amethyst Rock Star, American Recordings 2001.
68 Mazis, The Trickster…, 269, enfasi nell’originale.
69 La nozione essenzialista dell’animalità “tende a uniformare la varietà esistenziale degli esseri animali (in divenire) in un’astrazione concettuale – assegnandoli e relegandoli, così, ad una generica categoria di ‘animalità.’” Vedi Acampora, Corporal Compassion … , 9.
70 ibid.
71 Secondo Steinberg, nelle antiche arti e miti Greci, “gli dei e gli uomini erano legati in una sorta di gioco a somma zero. Gli dei sonotutto ciò che noi non siamo e noi siamo d’altra parte ciò che loro non sono: possiamo cambiare, invecchiare, ammalarci e morire, ma gli dei sono senza età e non cambiano mai.” Uno degli intenti ed effetti dell’arte greca che non è apprezzata dai critici contemporanei era una condanna ad una imperfezione terrena, corporea. “Il credente greco, malato o affamato o semplicemente fuori forma come la maggior parte delle persone, non si faceva ingannare, come noi, dalla forma umana di Zeus o Apollo. ” Vedeva, nell’abisso che separava la propria carne dalla loro, “con crudele precisione le inadeguatezze e le miserie della vita umana.” La nozione greca della perfezione somatica degli dei quindi “mostra la nostra carne fiacca, deforme, cadente come una parodia grottesca della nostra forma ideale.” Così, mentre il corpo umano arriva ad odiare se stesso, il dio inventato – un substrato della nostra paura zoofobica – pesa tremendamente sull’animale che siamo. Vedi Steinberg, The Fiction…, 78-9.
72 Mazis, The Trickster…, 18.

Tutte le fonti online erano accessibili al 6 Dic. 2012.

Dedicata al 25 aprile…Liberazione, ma per chi?

PigSanctuary

Car* compagn*,
anche quest’anno non potremo festeggiare assieme la festa del 25 aprile.
Come sempre, nei giorni precedenti una ricorrenza così importante e sentita, cerco informazioni su tutte le iniziative organizzate per commemorare la giornata simbolo della lotta al fascismo, e come tutti gli anni mi ritrovo – tristemente – nell’impossibilità a prendervi parte. Se non avete ancora capito il perché, è presto detto: faccio parte di quelle (non poche) persone incapaci di festeggiare la lotta per la libertà dal dominio e dalla sopraffazione con in bocca i corpi martoriati di altri individui.
Ebbene, sì, anche quest’anno il rituale della grigliata costringerà molt* di noi a tenersi lontani da dove sicuramente saremmo felicissimi di stare. Tutto ciò è molto triste, e mi dà da pensare… perché la questione non è risolvibile con quell’approccio molto politically correct (e scegliendo questo termine ho detto tutto), che apparentemente risolve il problema proponendo alternative definite “onnivore, vegetariane e vegane”. Io, ad esempio, ad una grigliata del genere non verrò comunque, perché onnivoro per me è sinonimo di assassino, e dal momento che la mia scelta di non nutrirmi del dolore e della morte di altri individui non è una scelta ‘personale’, come ad alcun* piace pensare, ma politica, che dunque mi richiede responsabilità e coerenza, essere lì presente a vedervi nutrire del corpo di individui schiavi, privati del proprio diritto a vivere la propria vita per colpa di un’ideologia dominante della quale vi dimostrate spesso inconsapevoli sostenitori, ecco, non potrei comunque sopportarlo.

Non dando alla scelta portata avanti da molt* di noi alcuna dignità politica, so già come, in un modo o nell’altro, la derubricherete … i/le solit* estremist*, come possono pensare di imporre le proprie scelte alle altre persone? E perciò, per l’ennesima volta, il fatto di non essere lì con voi sembrerà dipendere da noi, quando in realtà non è così.

Io chiedo solo di guardare alla situazione dal nostro punto di vista, e da quello degli animali di cui vi ciberete. Perché se quella che abbiamo compiuto è una scelta politica, e se davvero tenete in considerazione le scelte politiche altrui anche quando sono più distanti dal vostro sentire, come potete pensare che si possa gioire insieme a voi quando, nelle vostre mani e tra i vostri denti, vediamo la carne, le ossa, i cadaveri di esseri viventi sfruttati ed uccisi?

Dite che sto esagerando? Capovolgendo il vostro ragionamento, io mi sento davvero di esprimere un legittimo dubbio… Eravamo al vostro fianco per le strade in tante occasioni: abbiamo manifestato insieme contro alla precarietà, per il diritto ad un aborto sicuro e garantito, per la lotta per il diritto alla casa. Abbiamo respirato insieme lacrimogeni in val susa, sostenuto i diritti dei migranti e gridato sotto alle grigie mura dei cie. Vi consideriamo compagn*, persone in lotta contro le ingiustizie, persone speciali.
Speciali sì, ma non così tanto da immaginare, anche solo per un momento, di rinunciare alla grigliata per festeggiare tutt* insieme. Quella della liberazione dovrebbe essere la NOSTRA festa, la cosa più importante e bella dovrebbe perciò essere quella di vivere una giornata così importante insieme… invece pare che sopra tutto, sia necessario riaffermare la supremazia dei mangiatori di carne.
Avete mangiato vegano in mille occasioni, e vi è piaciuto molto. Sarebbe così bello immaginarci tutt* lì, alla festa della liberazione, dopo il corteo e le commemorazioni, a fare festa insieme. Una festa di liberazione per tutt*, animali umani e non. Festeggiare una liberazione senza puzza di carne che brucia, senza grasso che cola, senza ossa e senza morte. Ma nemmeno quest’anno sarà possibile, per via di un’ideologia così radicata in voi, da esserne del tutto inconsapevoli.

Tra lo stare insieme senza crudeltà e il perpetrare il rituale di mangiare cadaveri (rituale che comunque ripetete centinaia di volte ogni anno, perciò nemmeno così eccezionale, almeno per voi), avete scelto il secondo. Per non rinunciare a quei corpi martoriati, avete preferito rinunciare alla presenza di chi è in fondo a voi davvero vicin*, e così spesso al fianco in molte occasioni di lotta.

Da parte mia vi auguro la migliore delle feste della liberazione, però non riesco a non domandarvi: chi è davvero l’estremista tra di noi?
Buon 25 aprile.

La mentalità della carne

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LA MENTALITA’ DELLA CARNE

(Traduzione dell’articolo MENTALITY OF MEAT di Melanie Joy a cura di feminoska – revisione di Panta Fika e H20, grazie!!!) 

“Non ci penso [agli animali allevati per la propria carne come individui]. Non riuscirei a fare il mio lavoro, se instaurassi un rapporto così personale con loro. Quando dici “individui”, vuoi dire come una persona unica, come qualcosa con il suo nome e le proprie caratteristiche, le proprie caratteristiche uniche? Sì? Sì, preferirei non saperlo. Sono sicuro che li hanno, ma preferisco non saperlo.”
– 31 anni, macellaio e mangiatore di carne

“Io non mangio agnello perchè … Ti fa sentire in colpa. Sembrano, come dire… sono così dolci. E’ proprio un peccato che vengano uccisi e che noi ce li mangiamo. Si beh, anche le mucche sono dolci, ma loro le mangiamo. Non so come dire …. la carne di mucca la mangiano tutti. Costa poco, le mucche sono tante, ma gli agnelli… sono semplicemente un’altra cosa. Non ti metti a coccolare una mucca. Sembra quasi che mangiare una mucca vada bene, ma un agnello no … che strana differenza, no?”
– 43 anni, mangiatore di carne

Dichiarazioni come quelle di cui sopra incarnano i tipi di commenti fatti dai mangiatori di carne in grado di disorientare i vegetariani. Ed è veramente sconcertante: un macellaio non sarebbe in grado di portare avanti il proprio lavoro se davvero pensasse a quello che sta facendo, e un maschio adulto razionale è affettuoso verso una specie, ma ne mangia un’altra e non ha alcuna idea del perché. Prima di essere invitati a riflettere sui propri comportamenti, nessuno dei due pensava ci fosse nulla di strano nel modo in cui si relazionano agli animali che diventano il loro cibo, e dopo tale riflessione quella consapevolezza si è dissolta in poche ore. Così il macellaio continua a tenere a bada la spiacevole realtà del proprio lavoro e a ‘lavorare’ gli animali, mentre il mangiatore di carne ignora il proprio paradosso mentale e continua a mangiarne. Non c’è da meravigliarsi che i vegetariani trovino la mentalità della carne incoerente.

Eppure, per molti vegetariani, ciò che è più sconcertante non è la tendenza dei mangiatori di carne ad evitare di riflettere sulle proprie scelte alimentari, ma le variegate motivazioni che danno per spiegare perché sia “impossibile” smettere di mangiare carne: dopo aver appreso i numerosi benefici nutrizionali di una dieta a base vegetale, il mangiatore di carne salutista afferma di non voler rischiare una carenza di proteine. Dopo aver letto le statistiche del danno ambientale operato dall’allevamento intensivo, il mangiatore di carne alla guida di un’auto ibrida afferma di essere oberato da altre questioni sociali, e di non mangiare molta carne “rossa” in ogni caso. Dopo aver appreso che innumerevoli negozi di alimentari e ristoranti offrono abbondanti opzioni vegetariane, e che esiste una immensa varietà di libri di cucina e starter kit vegetariani, che offrono le linee guida per la transizione a una dieta vegetale, il mangiatore di carne intellettuale dice che smettere di mangiare carne sarebbe troppo complicato. Dopo aver sentito parlare della sofferenza degli animali da allevamento, il mangiatore di carne sensibile esprime la propria sentita comprensione, per finire poi al Burger King drive più tardi lo stesso giorno, perché non riesce a rompere con l’abitudine di mangiare animali. E dopo aver mangiato un altro delizioso pasto a base di seitan che, sostiene, “è tanto simile alla carne da non coglierne la differenza”, il mangiatore di carne afferma che “non potrà mai” diventare vegetariano, perché la carne gli piace troppo. Le stesse persone che trovano impossibile smettere di mangiare carne hanno magari cresciuto una famiglia senza alcun aiuto, sono sopravvissute a una malattia mortale, hanno studiato tutta la vita, si sono misurate con un trauma importante, hanno vinto un premio Nobel o raggiunto un notevole numero di successi, che sicuramente richiedono più sforzo e sacrificio rispetto al diventare vegetariani.

Comprensibilmente, i messaggi contraddittori inviati dai mangiatori di carne causano ai vegetariani esasperazione e frustrazione. Ma piuttosto che mettere in discussione la mentalità di un mangiatore di carne, cosa che porterebbe ad una maggiore comprensione, i vegetariani spesso mettono in discussione il carattere stesso del mangiatore di carne, che porta ad ulteriore tensione e confusione – nel migliore dei casi il mangiatore di carne è visto come una persona egoista e pigra, che mette la propria comodità e convenienza al di sopra delle vite degli altri animali e alla salvaguardia del pianeta. Ma anche se è comprensibile che i vegetariani arrivino a trarre tali conclusioni, queste presupposizioni sono senza dubbio illogiche come quelle poste dai mangiatori di carne. Molti mangiatori di carne sono anche padri, madri e amici affettuosi. Sono persone impavide che si dedicano a missioni di salvataggio, insegnanti devoti al proprio lavoro, attivisti appassionati, instancabili leader di comunità, filantropi di buon cuore, compassionevoli volontari animali, partner leali e grandi umanitari.

La mentalità della carne è tale da permettere a persone razionali e compassionevoli di indulgere in comportamenti irrazionali e crudeli, senza nemmeno rendersi conto di quello che stanno facendo. Quindi, i vegetariani farebbero bene a concentrarsi sulla mentalità dei mangiatori di carne, piuttosto che sulla loro morale, e cominciare perciò le conversazioni con curiosità piuttosto che risentimento. Approcciarsi al mangiare carne con curiosità può portare i vegetariani a porre domande che li aiuteranno più efficacemente a entrare in relazione con i mangiatori di carne: come possono individui compassionevoli portare alla bocca le parti del corpo di esseri morti e trovare l’esperienza piacevole, piuttosto che ripugnante? Come può una nazione di consumatori critici, capaci di rimuginare sulla marca dei jeans da acquistare, vivere le proprie scelte alimentari in modo così acritico – scelte che guidano un settore che uccide 10 miliardi di animali l’anno? Come fanno le persone a non vedere le contraddizioni che stanno proprio di fronte a loro? I vegetariani – e anche molti mangiatori di carne – capiscono perché le persone non dovrebbero mangiare carne, ma poche persone comprendono perché lo fanno, ed è quest’ultimo punto che deve essere affrontato in modo da intrattenere conversazioni più produttive circa il consumo di carne.

IDEOLOGIA

Le risposte alle domande di cui sopra hanno senso solo attraverso le lenti dell’ideologia. L’ideologia è un sistema di credenze sociali che plasma ciò in cui le persone credono, sentimenti e comportamenti. Una ideologia dominante è il sistema di credenze di un gruppo sociale dominante – per esempio quello dei maschi, bianchi e/o economicamente avvantaggiati – ed è così socialmente radicata che la sua influenza è in gran parte invisibile. Le ideologie dominanti plasmano la nostra realtà, modellano la lente attraverso cui vediamo il mondo, promuovendo credenze, atteggiamenti, pratiche, leggi, valori e norme sociali come verità universali piuttosto che come un insieme di opinioni che riflettono e rafforzano gli interessi del gruppo al potere .
Le ideologie dominanti i cui dogmi (credenze e pratiche) sono in contrasto con i valori più profondi della maggior parte delle persone, devono impegnarsi attivamente per garantire la partecipazione della popolazione. Senza il sostegno popolare il sistema crollerebbe. Queste ideologie si basano su strategie specifiche, o difese, atte a nascondere le contraddizioni tra valori e comportamenti delle persone, consentendo pertanto alle persone di fare eccezioni a quello che sarebbe normalmente considerato etico. Queste ideologie esistono sia a livello sociale che individuale; le loro difese funzionano sia esteriormente (definendo istituzioni sociali e norme) che interiormente (plasmando la nostra mentalità). Le difese esteriori mantengono una struttura sociale che costringe le persone a conformarsi alla norma, premiando coloro che lo fanno (per esempio, facendoci sentire socialmente accettati) e punendo coloro che deviano (ad esempio, facendoci sentire inadeguati e ostracizzati). Le difese interiori perpetuano la mentalità che sostiene le norme sociali, e queste difese si attivano in qualsiasi momento vengano presentate informazioni che minacciano l’ideologia. Le difese interiori non sono risposte logiche: sono reazioni automatiche che bloccano o distorcono le informazioni in grado di smascherare l’ideologia.

La difesa primaria di una ideologia dominante “non etica” è l’invisibilità, e il modo principale per tale ideologia di rimanere invisibile è restare senza nome. Se non la nominiamo, non la vedremo, e se non la vediamo, non possiamo parlarne. L’invisibilità protegge l’ideologia dalla verifica e, quindi, dall’essere messa in discussione. Questa è la ragione per la quale, almeno inizialmente, solo le ideologie non dominanti sono nominate; per esempio, mentre da lungo tempo esiste un nome per l’ideologia di coloro che non mangiano carne, il vegetarianismo, l’ideologia dominante del mangiare carne non è stata nominata fino a tempi recenti.

CARNISMO

Carnismo è il nome che ho dato all’ideologia secondo la quale è considerato etico e opportuno mangiare certi animali. Dal momento che mangiare carne non è necessario per la sopravvivenza, è una scelta, e le scelte derivano sempre dalle convinzioni. I mangiatori di carne non sono carnivori, che sono animali che hanno bisogno di carne per sopravvivere. Né sono semplicemente degli onnivori che, come i vegetariani, sono animali che sono in grado di sopravvivere consumando sia la materia vegetale e animale. “Carnivoro” e “onnivoro” riflettono nulla più che una predisposizione biologica. Per gli esseri umani, mangiare carne non è una necessità biologica, ma una scelta filosofica basata su una serie di idee sugli animali, il mondo e se stessi. [1]
Non assegnando un nome al sistema che è il carnismo, il mangiare carne è visto più come un dato di fatto che come una scelta, e i presupposti che guidano il consumo di carne rimangono inesaminati. Questa mancanza di consapevolezza è alla base del motivo per cui la gente mangia i maiali ma non i cani senza avere la minima idea del perché.

Il carnismo è un sistema che si organizza intorno ad una massiccia ed inutile sofferenza animale. Poiché la maggior parte delle persone non vuole provocare sofferenza agli (altri, mia aggiunta, n.d.t.) animali, e tanto meno vuole essere consapevole di aver partecipato a tali sofferenze, il sistema deve impedire loro di fare le giuste connessioni, psicologicamente ed emotivamente. Il sistema carnistico è improntato allo scopo di ostacolare la consapevolezza, per bloccare l’empatia e la sua emozione gemella, il disgusto. Quando una persona si siede per mangiare un hamburger, per esempio, non è consapevole, o non pensa, all’animale vivente che sta mangiando. Essa, pertanto, non prova empatia per la sofferenza dell’essere che è diventato il suo cibo, e trova la carne appetitosa piuttosto che rivoltante. Ma questo stesso commensale (americano, o occidentale n.d.t.) non ha subito anni di condizionamento carnistico quando si tratta di mangiare cani. Se si trovasse a mangiare un hamburger identico, ma fatto di carne di cane piuttosto che manzo, sarebbe consapevole dell’animale da cui la carne è stata procurata e probabilmente sarebbe troppo disgustato per mangiarlo.
Il carnismo permette alle persone di mangiare la carne di un gruppo selezionato di animali, attraverso l’impiego di una serie di difese specifiche che operano a livello sia collettivo sia individuale. Queste difese includono, ma non si limitano a, negazione (“Gli animali allevati per la carne in realtà non soffrono così tanto”), evitamento (“Non me lo dire, mi rovini il pasto”), dicotomizzazione (“I cani sono amabili, i maiali appetitosi”), dissociazione (“Se pensassi all’animale che è diventato la mia carne, sarei troppo disgustato per mangiarla “) e giustificazione (“Mangiare certi animali va bene, perché sono allevati a tale scopo”). Le difese carnistiche sono intensive, estensive e si intrecciano nel tessuto stesso della nostra società e delle nostre menti.

RELAZIONARSI AI CARNISTI

Gran parte della confusione e tensione tra i vegetariani e mangiatori di carne, o carnisti, esiste perché nessuno dei due gruppi riconosce la mentalità carnistica o la tremenda pressione per mantenere lo status quo carnistico. I vegetariani devono comprendere che i carnisti sono intrappolati in un sistema invisibile, impegnato attivamente per costringerli ad agire contro i propri interessi (coerenza psicologica e autenticità emotiva) e gli interessi di altri. I vegetariani devono anche rendersi conto che chiedere a un carnista di smettere di mangiare carne significa chiedere molto di più di un cambiamento nel comportamento. Si sta chiedendo un cambiamento fondamentale nell’identità, un cambiamento di paradigma profondo e gli/le si sta chiedendo di resistere a difese psicologiche profondamente radicate. Non importa quanto facile possa essere stato per qualcuno smettere di mangiare carne; per la maggior parte delle persone, questo tipo di cambiamento avviene solo nel corso del tempo, quando si sentono psicologicamente ed emotivamente abbastanza sicure da iniziare a mettere in discussione alcuni dei propri presupposti esistenziali. In Strategic Actions for Animals, descrivo modalità specifice per comunicare e sostenere i propri principi di fronte ai carnisti, in modo tale da aumentare la probabilità che l’interazione si dimostri reciprocamente positiva e che il messaggio venga ricevuto. Seguono alcuni punti utili:

• SII L’ESEMPIO DELLE QUALITÀ CHE STAI CHIEDENDO: mostra curiosità, compassione, empatia, rispetto e la volontà di ascoltare veramente e di riflettere. Più sei sulla difensiva, più farai scattare le difese nel tuo interlocutore.
• RELAZIONATI AI CARNISTI COME PERSONE, PIUTTOSTO CHE MANGIATORI DI CARNE: anche se non rispetti affatto la loro scelta di mangiare animali, è essenziale rispettare i carnisti in quanto animali umani (differentemente dall’autrice preferirei usare il termine esseri viventi, ma ho mantenuto umani aggiungendovi però ‘animali’ n.d.t.).
• ANALOGAMENTE, RICORDA CHE I CARNISTI SONO INDIVIDUI, molti dei quali hanno più cose in comune con te di quanto non ne abbiano tra loro. Non renderli un gruppo uniforme e non proiettare stereotipi su di loro.
• CONCENTRATI DI PIÙ SUL PROCESSO (la dinamica, o il “come”) che sul contenuto (il soggetto, o il “cosa”) di una conversazione. Invece di avere come obiettivo quello di influenzare il punto di vista di un’altra persona, sforzati di avere un dialogo reciprocamente rispettoso e illuminante. Non importa quanto fortemente desideri promuovere il vegetarianismo, più ti sforzi di “convertire” l’interlocutore, meno probabile è che tu riesca a raggiungere quello scopo.
• RICONOSCI CHE I FATTI NON VENDONO L’IDEOLOGIA. L’unico motivo per cui una persona sceglie di mangiare un hamburger piuttosto che un hamburger vegetariano identico, è a causa di ciò che la carne rappresenta, piuttosto che di quello che effettivamente è. Sapere questo ti aiuterà a sentirti meno frustrato con i carnisti resistenti.
• NON LASCIARE CHE I CARNISTI SULLA DIFENSIVA TI MANCHINO DI RISPETTO. Alcuni carnisti attaccano i vegetariani per difendere il proprio mangiar carne. Non si dovrebbe mai lasciare che altre persone ti giudichino estremista, ipocrita, schizzinoso, ipersensibile, ecc.
• CREA UN AMBIENTE ‘EMPOWERING’’. L’empowerment è la sensazione di essere connessi al proprio potere personale, e le persone che sentono tale connessione sono molto più portate a realizzare cambiamenti positivi. L’opposto dell’empowerment è la vergogna, e la vergogna nasce dal sentirsi giudicati. Per favorire quel senso di padronanza delle proprie potenzialità negli altri, trattali come se fossero fondamentalmente degni – parla col cuore, con l’obiettivo di condividere quella che senti come la tua verità e distaccarti dall’esito del dialogo.

Comprendere la mentalità carnistica può essere enormemente liberatorio per entrambi, carnisti e vegetariani. Rendendo visibile l’invisibile, facciamo un passo fuori dal sistema carnistico e possiamo scegliere in che ruolo parteciparvi. I carnisti possono scegliere di esaminare più a fondo il loro mangiare carne, i vegetariani possono scegliere di esaminare più a fondo il proprio rapporto con carnisti. Ed entrambi i gruppi possono meglio coltivare le qualità che, in ultima analisi, trasformano il sistema: consapevolezza, empatia e compassione.
[1] Questa affermazione non si riferisce a coloro che sono geograficamente o economicamente impossibilitati a scegliere se mangiare o meno la carne.

MELANIE JOY, Ph.D., Ed.M. è professore di psicologia e sociologia presso la UMass-Boston. È l’autrice di “Strategic actions for animals” e del libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche: Introduzione al Carnismo.”

Per approfondimenti, leggi l’intervista a Melanie Joy, pubblicata su Asinus Novus.

 

 

La malafede della zoofobia – parte III

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Continua da qui. Paura, senso di colpa e odio sono tutti interconnessi in questo gioco di verità e bugia. Nel desiderare una libertà dalla carne tanto astratta quanto impossibile, siamo annichiliti dal terrore di fronte alla libertà della carne di seguire i propri ritmi. Per questo abbiamo usato una violenza incredibile per sopprimerla, poi, sentiti i riverberi della miseria animale e il senso di colpa strisciante, abbiamo provato a sopprimere anche gli animali, con la rinnovata, contorta aggressività libidinosa propria di un animale che odia se stesso.
In quanto oppressori attivi e spesso morbosamente appassionati di altri animali, abbiamo bisogno di capri espiatori (notare l’origine del termine), proprio come l’antisemita ha bisogno dell’Ebreo. Non c’è altro modo di rafforzare una falsa identità se non attraverso un inganno continuo; ed è necessario un grande sforzo per sostenere un tale inganno nel tempo. Per innalzarci dalla nostra condizione animale abbiamo bisogno di opprimere, sottomettere e sopraffare la carne. Abbiamo bisogno di sfogare, ovvero, di punire la carne sulla quale ammiccano le nostre parole di auto-conforto. Allo stesso tempo, nell’attuale oppressione di altri animali, dobbiamo lottare per dimostrare quanto diversi siamo da loro, in modo da non cadere dalla parte degli oppressi. Schiavizzare si è rivelato in generale difficile per noi, se non attraverso una narrativa sufficientemente valida a illustrarne i vantaggi. Intessute nel corso dei secoli, le narrative volte alla giustificazione sono state, per la nostra specie, l’esito di pratiche crudeli, atte allo scopo di mistificare la realtà con le parole.

§ La carne insultata
La zoofobia è corredata da un ricco compendio di invettive mirate alle vittime di queste forme di sfruttamento inter-specie (i.e. gli animali non umani). Nella maggior parte dei casi i loro stessi nomi sono associati all’inferiorità, rivelando la loro reale condizione in mani umane e le reazioni, spesso incomprese, a questo stato di fatto. In pratica, tutte le forme verbali del disprezzo si sono evolute come sfondo della proiezione di paura e violenza precedenti. Perciò, la maggior parte del mondo animale non umano consiste di “bestie” che sono “stupide”, “sudicie”, “viziose”, ecc. L’aggettivo “stupido” è, tra gli altri, riferito a pecore, asini, mucche.
Le pecore, scrive Richard Gray, “sono animali apparentemente così poco brillanti da essere diventati sinonimo di stupidità e del seguire la massa senza pensare.”(41) In maniera istintiva, da individualisti auto-professi, potremmo sentirci insultati da forti istinti di branco – ovvero istinti sociali – ma la presenza di tali istinti non deve essere scambiata per stupidità. Di fatto “scienziati dell’Università di Cambridge hanno scoperto che queste creature hanno un’intelligenza pari a quella di roditori, scimmie e, in alcuni test, persino di esseri umani.” (42) “Stupido” è riferito anche a esseri così alienati dal proprio habitat naturale ed estraniati dalla loro stessa natura attraverso l’allevamento selettivo, al punto da trovare incomprensibile questa realtà costruita, prodotta dall’artificio umano. Il termine è stato inoltre utilizzato nei confronti di creature rese troppo docili perché possano difendersi da sole, rese tali attraverso l’esperienza ripetuta del come possa essere più sicuro “aspettare che passi”. “Sudicio” è stato un insulto rivolto ad animali che si rotolano nel fango, quali maiali, facoceri, bisonti, ippopotami, rinoceronti, elefanti etc.
Piuttosto che testimoniare scarsa igiene, in realtà i bagni nel fango si rivelano essenziali per abbassare la temperatura corporea, eliminare i parassiti, proteggere la pelle dal sole, o marcare il territorio. Perché, allora, i maiali sono considerati l’animale sporco per eccellenza? Forse perché sono così oppressi e facilmente disponibili ad ogni ridicolizzazione, già serviti a pezzetti su un piatto, simbolo del fallimento della carne in quanto sudicia, un sostituto per quello ciò che siamo decisi a sradicare da noi stessi – ossessionati come siamo da una sterilità a livello ospedaliero, da un’attenta cura dell’aspetto e dal distanziarci dal sudiciume del mondo che ci circonda. A sua volta “malvagio” è stato riservato a quegli animali che non hanno paura di mordere, in primis ai lupi.
La loro reputazione di animali aggressivi è stata largamente esagerata, e di contro la loro socialità ridimensionata. Eppure mai un lupo è stato osservato mordere i testicoli della sua preda per trattenerla come sventurato schiavo. Di fatto, scrive Glen A. Mazis,

I forti legami di affetto, fedeltà, cura, attenzione, giocosità, cooperatività, comunicatività e fiducia che permangono tra i lupi del branco sono le caratteristiche che più colpiscono del comportamento di gruppo dei lupi, come notato dagli etologi che hanno trascorso tempo in loro vicinanza. Prova di questi tratti è il loro condividere la cura dei piccoli, il corteggiamento lungo un anno e il far coppia a vita, costellato da dimostrazioni d’affetto continue, il nutrire i membri feriti del branco, il lutto della durata di mesi qualora perdano un membro del gruppo, e il bisogno di appartenenza al branco.(43)

Questo per dire che le rappresentazioni culturali dei lupi sono servite in modo univoco a supportare la pratica sterminatrice perpetuata nei loro confronti dagli esseri umani, sia in Nord America sia in Europa. “Non solo i lupi sono stati uccisi fino all’orlo dell’estinzione – scrive Mazis – ma sono stati anche massacrati con una veemenza che è sconcertante”(44), certamente il riflesso di una minaccia prima immaginata e proiettata. Ovviamente si possono individuare numerosi esempi di aggressioni intra-specie o inter-specie anche in altri animali. Gli scimpanzé, per esempio, sono stati visti intrufolarsi nei territori di altri gruppi di scimpanzé vicini e dilaniare a morte maschi presi alla sprovvista. In apparenza sistematici nel fare ciò, scelgono pazientemente la concorrenza, “finché sia il territorio che le femmine non diventino loro”(45). Gli scimpanzé sono inoltre stati avvistati coinvolti in combattimenti e “sanguinose battaglie all’interno del gruppo per determinare il maschio alfa.”(46) Infine, in case eccezionali, le femmine sono state viste uccidere e persino mangiare i neonati di altri femmine(47). È significativo, tuttavia, che questi comportamenti siano stati osservati in aree caratterizzate da una pesante invasione umana e serie pressioni ambientali che indicano uno stato di emergenza, non di normalità. Animali di innumerevoli specie provano ansia patologica mentre il mondo gli si stringe addosso(48). A dire il vero, nel suo Anatomia della Distruttività Umana, Erich Fromm non esita ad affermare che “se la specie umana avesse lo stesso livello di aggressività ‘innata’ degli scimpanzé che vivono nel loro habitat naturale, allora vivremmo in un mondo piuttosto pacifico” (49).
Mentre solitamente l’oppressione è resa accettabile attraverso narrative di denigrazione, lo stesso risultato può essere ottenuto tramite un discorso nobilitante. In quanto simbolo di coraggio e forza, il leone appare nell’immaginazione come il re della “giungla”. Data la prevalenza di questa percezione, diventa poi eternamente attraente l’idea di detronizzarlo e sottometterlo; cosa che in parte spiega la diffusa presenza dei leoni negli zoo e nei circhi. Nel primo caso, i leoni sono in gabbia ed esibiti in quanto sconfitti, nel secondo invece sono ridotti a buffoni di corte, che si esibiscono al capriccio della frusta dell’addestratore, per la soddisfazione del pubblico. Persino quando apparentemente esaltata, la carne serve come oggetto di dominio e di sopraffazione definitiva. Esiste, tuttavia, anche un altro modo implicito per giustificare la pratica oppressiva, la cui aberrazione è resa più facile da perpetuare in nome della sua stessa pervasività.
Rimozione, sottomissione e sterminio sono resi naturali semplicemente in virtù del fatto che stanno già avendo luogo. Indipendentemente da quello che gli sfruttatori raccontano a se stessi, indipendentemente da quello che provano a far credere a se stessi coloro che volontariamente prosperano sulla sofferenza degli animali, non esiste alcuna narrativa e alcuna prova della superiorità, se non la pratica del dominio stessa. Se mai, è questa distruttività irrazionalmente razionale, logica, civilizzata e senza precedenti per dimensioni, ciò che pone gli esseri umani su un piano separato dal resto degli animali. Sulla base di prove paleontologiche, antropologiche e storiche, Fromm ha concluso che “il grado di distruttività cresce col crescere dello sviluppo della civilizzazione, piuttosto che il contrario”.(50) Ma che succederebbe se noi – gli animali civilizzati che siamo – volessimo rovesciare la situazione?

Note:
41 R. Gray, Sheep are Smarter than Previously Thought [in:] The Telegraph, http://www.telegraph.co.uk/science/science-news/8335465/Sheep-are-far-smarter-than-previously-thought.html.
42 ibid. Stabilire dei criteri in merito all’intelligenza è già un esercizio di potere. Dato che sono sempre gli umani che preparano i test, esiste (come minimo) la seria possibilità di distorsione intrinseca. E prendendo uno dei tanti esempi possibili, la maggior parte degli umani si chiamano l’un l’altro attraverso l’uso di nomi, ci si aspetta che li memorizzino e si identifichino con essi, e che rispondano quando sentono il proprio nome pronunciato. Gli altri animali non si chiamano l’uno con l’altro “Ivan,” “Janet,” o “Giuseppe.” Nei test, noi proviamo a chiamarli a modo nostro e, se si rifiutano di assecondare la nostra piccola idiosincrasia, sono loro che “devono essere stupidi.” Sullo stesso tema, merita di essere menzionata la motivazione strumentale dietro ai test a Cambridge . La Professoressa Jenny Morton, una neuroscienziata, “stava studiando l’intelligenza delle pecore nella speranza che potessero essere utili come modelli animali per il Morbo di Huntington, un disturbo neurodegenerativo che porta alla demenza e colpisce il controllo dei muscoli.” L’articolo conclude che, di sicuro, le pecore “offrono un grande potenziale per studiare le funzioni cognitive e anche per essere modelli di Morbo di Huntington.” Il senso critico suggerisce che potrebbero non sopravvivere al loro essere modelli scientifici; con gli umani al comando, è pericoloso essere giudicati stupidi, ed è male essere considerati intelligenti.
43 G. A. Mazis, Human Ethics as Violence Towards Animals: The Demonized Wolf. Non pubblicato, letto su http://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2011/10/Mazis.pdf, 9.
44 Mazis, Human Ethics…, 8.
45 A. Weisman, The World Without Us. New York: Thomas Dunne Books 2007, 50.
46 ibid. Questo deve essere confrontato con le osservazioni alternative fatte da A. Kortland del 1962 e riportate da Erich Fromm. Kortland aveva assistito ad un esempio di “un vecchio scimpanzé canuto che è rimasto il capo del gruppo nonostante fosse fisicamente decisamente inferiore rispetto agli esemplari più giovani.” Fromm sostiene che “evidentemente la vita in libertà, con tutti i suoi stimoli gli aveva permesso di sviluppare una certa saggezza che lo qualificava come capobranco.” Ora, se la dominazione fisica fosse un priorità automaticamente presunta tra gli scimpanzé, una situazione simile non potrebbe verificarsi. Invece, osserviamo quanto le loro vite possano essere versatili, a seconda delle variazioni nelle condizioni di vita, popolazione ecc. Vedi E. Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness. New York/Chicago/London: Holt, Reinhard and Winston 1973, 106.
47 Ch. Q. Choi, Female Chimps Kill Infants. LiveScience, May 14 2007. Http://www.livescience.com/1518-female-chimps-kill-infants.html.
48 Fromm discute della ricerca di C. H. Southwick sull’influenza dell’affollamento sull’aumento nell’aggressività animale. Afferma che “la diminuzione dello spazio priva l’animale di importanti funzioni vitali quali movimento, gioco, ed esercizio delle proprie facoltà…” Un altro aspetto del sovraffollamento, che probabilmente favorisce ancor di più un atteggiamento aggressivo, è la distruzione della struttura sociale di un gruppo animale. “Ogni specie animale [sociale conosciuta-KF] vive all’interno di una struttura sociale caratteristica per la specie. Gerarchica o no, la struttura sociale specifica della specie è il quadro di riferimento a cui l’atteggiamento dell’animale si adatta. Un equilibrio sociale sopportabile costituisce una condizione necessaria alla sua esistenza.La sua distruzione attraverso l’affollamento costituisce un’enorme minaccia all’esistenza animale, e l’aggressione è il risultato che chiunque si aspetterebbe, specialmente dato il ruolo difensivo dell’aggressione, specialmente quando la fuga è impossibile.” Nonostante le strutture sociali possano cambiare per una singola specie e non siano così fortemente predefinite come Fromm può aver pensato, la sua conclusione generale sembra corretta: sotto pressione per l’affollamento, la comunità animale tipicamente diventa “una folla malevola.” Vedi Fromm, Anatomy… 105-6.
49 ibid., 103.
50 Fromm, Anatomy…, 4.

La malafede della zoofobia – parte II

humananimal2Continua da qui
“La nostra esperienza primordiale, preconcettuale… è intrinsecamente sinestesica”(12), scrive David Abram. Cita Merleau-Ponty nell’affermare che esiste uno “strato primario dell’esperienza che precede la sua divisione in sensi(13) separati”, e che la ragione per cui non siamo consapevoli del primato della sinestesia nella percezione è “perché la conoscenza scientifica sposta il centro di gravità di esperienza, in modo tale che abbiamo disimparato a vedere, sentire e, in generale, percepire, al fine di dedurre dalla nostra organizzazione corporea e del mondo per come il fisico lo concepisce, che cosa dobbiamo vedere, ascoltare e sentire(14).” Lo scienziato contrasta la percezione selvatica o bestiale esplorando le pareti della grotta buia del mondo con una piccola torcia elettrica, poco a poco, la totalità solo successivamente assemblata nel pensiero(15). La divisione sociale del lavoro e la lotta che ne consegue sono correlate alla frattura all’interno del corpo umano individuale e fenomenico.
La società capitalista divisa in classi ha, sopra ogni cosa, lo scopo di disciplinare la carne per imporre il lavoro di accumulazione del capitale come prevalente su tutti gli altri aspetti della vita quotidiana. Degli innumerevoli esempi possibili, prendiamo in considerazione l’azienda cinese Foxcomm, la più grande produttrice mondiale di elettronica che assembla, tra gli altri, i computer Apple. Nel solo 2010, diciotto dei suoi operai hanno tentato di suicidarsi lanciandosi dal tetto degli edifici aziendali. Quattordici sono morti. Durante le recenti proteste, circa 150 lavoratori hanno minacciato di gettarsi. Quale soluzione è stata messa a punto dalla dirigenza? Hanno affrontato le cause di disagio dei lavoratori? Non hanno assolutamente fatto nulla di ciò. Invece, hanno messo a punto una “non-soluzione” che è tanto ovvia quanto scandalosa: dopo la prima ondata di suicidi, hanno installato enormi reti di sicurezza per evitare ulteriori salti(16). Cerchiamo di immaginare lo scenario non così improbabile che potrebbe svilupparsi, quello in cui i lavoratori e i loro responsabili si spingano sempre più in là, cercando di superarsi in astuzia l’un l’altro, realizzando un vero e proprio spettacolo di tecno-efficienza e disperazione. Ora, quanti di noi utilizzeranno computer Apple per scoprirlo?
In India, i suicidi degli agricoltori legati alla “crisi agraria” sono diventati normali. Si stima che circa 17.000 agricoltori si siano suicidati nel solo 2009. Quando i prezzi sul mercato azionario scendono, a migliaia perdono il proprio sostentamento. L’Indian National Crime Records Bureau dichiara che circa 216.500 sono morti per questo motivo nel periodo 1997-2009(17). Nella produzione del cotone, ad esempio, si fanno soldi in tutto il mondo in stretta relazione con le fluttuazioni dei prezzi che hanno causato queste morti. Come il mercato azionario dell’attore aziendale e le sue massicce sovvenzioni statali, il suicidio di massa è una questione di calcolo statistico nel solito giro di affari, e nulla di più.
Non dovrebbe essere difficile spiegare come il sentimento di orrore di fronte a “sistemi, sistemi razionali, razionali tra virgolette, strumentalmente razionali” sia di per sé logico(18). Date per scontate, le decisioni individuali dettate dal senso comune e volte alla soddisfazione di interessi immediati risultano, tutte insieme, in esiti irrazionali. Per esempio, migliaia di persone salgono sulle proprie auto, desiderando di tornare a casa il più presto possibile dopo una dura giornata di lavoro, per poi ritrovarsi bloccate nel traffico nel bel mezzo della strada, soffocando nello smog e lì bloccate per ore e ore. E questo scenario si ripete ogni giorno mentre si parla di “rivoluzione verde,” un assurdo kafkiano trasformato in un universale normalizzato.
L’alienazione delle relazioni sociali, altrimenti naturali, è resa comprensibile solo in maniera mediata – attraverso la scrittura, la musica, l’arte. Incorporata saldamente nel cuore di abitudini non liberamente sviluppate, ma generate in maniera coercitiva dalle strutture materiali e ideologiche della produzione, l’alienazione è qualcosa che si conosce, ma che non si può riconoscere profondamente se non attraverso un qualche tipo di mezzo attraverso il quale il corpo possa riconnettersi con se stesso in maniera sicura, ampiamente e preventivamente programmata. In una buona società (ossia, non alienata) queste mediazioni sarebbero inutili; la loro sopravvivenza segnala, soprattutto, le carenze della vita umana. Adorno apre la sua Dialettica negativa scrivendo che “la filosofia, che un tempo sembrava superata, continua a vivere perché mancò il momento di realizzarla.”(19)
Nel frattempo, la nostra esperienza è in declino, ridotta in gesti riprodotti meccanicamente, ritualizzati, sempre più standardizzati. Come spesso accade con ciò che viene dato per scontato e con ciò che si vuole dimenticare, i fondamenti della vita corporea, la nostra vitalità sensuale e la nostra partecipazione sensoriale, sono stati spinti sullo sfondo dallo spirito della rinuncia. Pertanto, mentre la carne soggiogata sommessamente costituisce e ricostituisce tutta la vita senziente, per la maggior parte rimane invisibile. Ma le cose cambiano. In un primo momento a poco a poco, poi convulsamente, il tessuto della normalità è rotto, e una nuova intuizione si riversa forzatamente nei nostri occhi mentre assistiamo a un ritorno del rimosso.
La vita sensuale riemerge in bella vista in sintomi morbosi: ossessione dilagante e compulsione, depressione e apatia, ansia, irritabilità e aggressività, obesità, dipendenza dal lavoro, ipertensione, solitudine, intorpidimento, noia, stanchezza cronica nel bel mezzo di un sovraccarico sensoriale, suicidio, dipendenza da internet, malattie cardiache, la violenza assoluta dell’omicidio seriale e della guerra organizzata – la nostra natura selvaggia sta diventando perversa, implodendo su se stessa o esplodendo nel mondo. Tutto questo viene compensato con rimedi rapidi – un volo nell’artificialità intensificata della desublimazione repressiva (20), la farmacologia, l’ingegneria genetica e l’incarcerazione.
Il ventre molle dell’esistenza reificata risiede nella pervasività del tecno-produttivismo: ogni problema è una questione di tecnica e richiede una soluzione tecnica, e le soluzioni tecniche comportano la manipolazione sistematica dei simboli e delle cose. Soffocando efficacemente la sensibilità del corpo, le procedure amministrative e le catene di comando sono rapidamente ristabilite mentre pseudosoluzioni lasciano intatte le cause dei problemi, che verranno affrontate da ulteriori azioni alienate. Interessata principalmente a svincolarsi da situazioni vissute, e non solo questa o quella volta, ma a risolvere questo o quel problema una volta per tutte, la mente scientifica eccelle nel regno dell’astrazione. Non c’è nulla nell’atteggiamento scientifico che si frapponga al nostro svegliarci un giorno a darci pacche l’un l’altro su spalle cyborg appena acquistate con le nostre nano-armi, o con i nostri nuovi io disincarnati caricati su dischi rigidi. E questa attitudine si sta diffondendo a macchia d’olio. Per parafrasare Alan Watts, staremmo tutti indossando camici bianchi, se potessimo farlo. Siamo tutti tecnici oramai(21).
Atrofizzandosi, l’anima umana carnale si trova a fronteggiare un mondo alieno attraverso la lente di un sistema che vanta diversità, ma si fonda sulla quantificabilità universale della merce(22), un sistema che promette profondità, ma si ritira, a poco a poco, nella piattezza dell’immagine(23). Per quanto tempo può durare? Per quanto tempo al corpo vivente, risucchiato dal gorgo del capitalismo industriale, sarà chiesto di negare se stesso, sacrificato sull’altare della produzione? E quanto peggio stanno i miliardi di altri corpi che condividono il mondo con noi. Manipolati nella schiavitù, una legione di altri animali occupa i vasti spazi recintati, ingabbiati e reclusi di un’economia schiavista globalizzata.

§ … e tutti gli Altri
Con le incessanti trasformazioni della natura, la morte diviene un dato di fatto e riempie il cuore umano con un terrore che s’irradia in ondate di violenza crescente e sistematica. L’emergere di un programma distinto volto all’auto-stabilità umana di fronte all’inevitabile è stato reso possibile dalla precedente degradazione degli altri animali a portata di mano dell’uomo. Ora, il quesito scottante resta di determinare chi sia compreso nella categoria homo sapiens, e chi ne sia escluso. Nella lotta per l’emancipazione degli Afro-Americani negli Stati Uniti, Malcom X poté affrontare la questione con le seguenti, ben note, parole,
Diritti umani! Rispetto in quanto esseri umani! È questo che le masse di neri americani vogliono. È questo il vero problema. Le masse di neri non vogliono essere degradate come se fossero appestate. Non vogliono essere murate vive nelle baraccopoli, nei ghetti, come animali. Vogliono vivere in una società aperta e libera, dove possano camminare a testa alta, in quanto uomini e donne(24).
In altre parole, l’obiettivo per i neri è di essere liberi come esseri umani, invece che non liberi come animali. Indipendentemente da quale sia la nostra razza o etnia, abbiamo costruito il senso di un’identità umana immutabile sulle schiene spezzate di altri animali, per elevarci – nella nostra pratica economica, nel nostro senso comune, nella nostra sensibilità religiosa e nelle nostre scienze – verso quella che Merleau-Ponty ha chiamato “contemplazione dall’alto”(25). È dai corpi non umani – cacciati, controllati, stuprati e allevati, tenuti in cattività e macellati, sfruttati e utilizzati come cavie – che abbiamo imparato la maggior parte di ciò che sappiamo riguardo a come nuocere, mutilare, torturare e uccidere.
Le vittime spaziano da quelle definite in modo mirato (come il cosiddetto topo marchiato OncoMouse, sezionato nei laboratori in nome della ricerca sui trattamenti per il cancro) ai danni collaterali (come gli abitanti della foresta amazzonica, sterminati dal disboscamento della loro casa perpetuato per permettere il pascolo di mucche in schiavitù). L’olocausto animale globale è così pervasivo che è difficile stabilire il confine tra intento assassino e morte accidentale. Il solo numero di animali terrestri uccisi per fini alimentari è di 56-60 miliardi l’anno(26). Oltre ciò, e agli animali marini non contabilizzati, l’attuale ondata di estinzione di specie animali – soprannominata dai principali ricercatori come “La Sesta Grande Estinzione” – è la più vasta degli ultimi 65 milioni di anni, quando scomparvero i dinosauri(27). Juliette Jowit, del The Guardian, afferma che
L’IUCN (International Union for the Conservation of Nature−KF) nel 2004 dette origine a ondate di reazioni con la sua importante valutazione sulla biodiversità mondiale, secondo la quale il tasso di estinzione aveva raggiunto una cifra 100-1.000 volte maggiore di quella suggerita dalla datazione dei fossili nel periodo antecedente la comparsa degli esseri umani(28).
Aggiunge che mentre
Da allora non sono stati pubblicati calcoli ufficiali… i conservazionisti concordano che il tasso dell’estinzione è aumentato da allora, e … è possibile che siano corrette le drammatiche proiezioni fatte da esperti come il rinomato biologo di Harvard E.O.Wilson, che prevedono, in un ventennio, un tasso di estinzione fino a 10.000 volte quello di base(29).
La pressione ecologica esercitata sugli habitat di altri terrestri e sui loro stessi corpi da parte di industrie umane essenzialmente parassite è incredibile e senza precedenti.
Le vittime animali del passato e del presente, che segnano il percorso insanguinato dello sviluppo capitalistico-civilizzatore, chiedono un riscatto nelle urla quotidiane di milioni e miliardi di gole tagliate. Un riscatto non è possibile – come potrebbe esserlo; e, in ogni caso, le urla restano inascoltate. La crisi della sensibilità (capacità di percepire con i sensi) ha serie ripercussioni sul modo in cui la violenza è perpetrata: l’orrore dei macelli e dei laboratori di vivisezione è in genere nascosto alla vista e, con l’aumentare della distanza tra corpi sensibili, pervade i mondi abitati delle vittime(30). Anche gli zoo si preoccupano affinché la profondità della sofferenza degli animali rimanga invisibile, nascondendola in modo scrupoloso con un’esposizione palese ed esagerata: vedendo troppo, perdiamo di vista il reale(31). Al massimo la violenza viene raccontata, e ciò non è abbastanza.
Patiamo la mancanza di un contatto diretto, sentito e sensoriale con il mondo, nonostante esso sostenga ogni nostro passo. La mediazione – il filtro tra il mondo e il nostro corpo che conosce il mondo – è lo strumento del distacco, e il distacco è il prerequisito dell’oppressione. La materia resiste alla fredda analisi. Niente sembra essere completamente accidentale, né profondamente compreso.
L’orrore eterno subito da esseri fragili è sia al di là di ogni comprensione, sia reso incredibilmente normale. In maniera acuta, Karen Davis scrive che
[p]er quanto riguarda i miliardi di polli, di tacchini, di anatre, di bovini, di maiali e degli altri animali che, come i loro corrispettivi selvatici, si sono evoluti a condurre vite sociali complesse nei loro habitat naturali e hanno dimostrato di essere in grado di ritornare a vivere in modo indipendente dagli uomini – ovvero – di ridiventare selvatici – il destino genocidario non è quello di essere estinti fisicamente, ma quello di proliferare con trasformazioni virtualmente infinite e strazianti dei loro corpi; trasformazioni al fine di renderli adatti a quei letti di Procuste che sono l’industria agricola e la ricerca(32).
Le pratiche industriali sono tutte pianificate, programmate, chiaramente definite, riproducibili, sistematiche e ambiscono alla prevedibilità e non-ambiguità. In quanto parte di un’intensificazione ed esternalizzazione di quella fuga, antica come l’uomo, dalla nostra condizione animale, la moderna oppressione degli animali fa parte di una serie di olocausti che, per la loro portata, ci invitano a mettere in prospettiva Auschwitz, Treblinka, Chełmno, e gli altri campi di sterminio(33).
Nell’intreccio di passato e presente, persino da uno sguardo superficiale emergono chiaramente due verità collegate: 1) siamo impegnati in un sistema di dominazione quasi totale e 2) sembra esserci una traiettoria storica riconoscibile, dai toni distintamente cupi: una spirale discendente messa in moto gradualmente da un errore concettuale di base che tuttavia non è facile da tracciare e che di certo non sarà esaminato qui. In tutto ciò deve aver avuto un ruolo importante la zoofobia, intesa come forza ideologica, psicologica e legittimante, “l’altra medaglia” della produzione fin dagli esordi della transizione epocale dalla società di cacciatori a quella civilizzata e agricola. Rendere gli animali schiavi non è stata certo una passeggiata – schiacciargli il collo sotto al piede per sottometterli la prima volta probabilmente non è stato facile. Cacciare è una cosa, ma dominare dev’essere stato diverso.
In contrasto con immagini romanticizzate della prima addomesticazione animale, Charles Patterson ci ricorda che
Nell’uccidere gli animali per la loro carne e sfruttarli per il loro latte, per le loro pelli, o per il loro lavoro, i pastori impararono come controllare i movimenti, la dieta, la crescita e la vita riproduttiva attraverso l’uso della castrazione, limitazioni al libero movimento, marchiature, tagli d’orecchie e di certi strumenti, come grembiuli di cuoio, fruste, sproni e infine catene e collari(34).
Ovunque sia avvenuta, l’addomesticazione a un certo punto ha implicato necessariamente brutalità.
L’obiettivo era “produrre i tipi di animali più utili” per i bisogni dei pastori che “uccisero o castrarono la maggior parte dei maschi per assicurarsi che quello ‘selezionato’ per la riproduzione ingravidasse le femmine”(35). Le pratiche contemporanee di pastorizia ci offrono degli indizi su come la sottomissione degli animali ha proceduto quando è iniziata circa 11.000 anni fa(36). La castrazione è ancora d’importanza capitale con bovini, cavalli, cammelli e maiali ed è attuata di solito squarciando lo scroto e tagliando via i testicoli, a volte con un coltello di metallo o bambù, altre volte con la lama di una lancia. Talvolta i pastori si limitano a legare lo scroto strettamente con una corda, finché i testicoli non si atrofizzano. Realizzando un sadismo particolarmente vivido, i lapponi bloccano la renna, avvolgono lo scroto in un telo e lo masticano con i denti finché i testicoli non sono spappolati. Con una crudeltà altrettanto sconcertante, ci si è ingegnati in modi per sfruttare le femmine per il loro latte e impedire ai cuccioli di averne.
Per esempio, gli uomini delle tribù Rwala uccidono i piccoli di cammello per cibarsene, poi imbrattano un altro cucciolo col sangue di quello morto e lo portano dalla madre. A loro volta i lapponi sporcano con escrementi le mammelle della renna, cosicché i cuccioli non vogliano succhiarle. Per concludere con un esempio di come il movimento degli animali in cattività può essere controllato, Patterson riporta delle genti alle sorgenti dello Sepik, che rimuovono gli occhi dei maiali perforandoli con bastoni, in modo che il liquido fuoriesca dalla cavità oculare, e poi rimettono il bulbo oculare in posizione. In questo modo i maiali non vagheranno troppo lontano. Più avanti poi, saranno uccisi e mangiati(37).
Non appena gli umani iniziarono a sistematizzare il controllo sugli altri animali e a imporre loro con la violenza atteggiamenti sottomessi, divennero padroni della loro vita o della loro morte. Il processo di domesticazione degli animali non è stato poi tanto diverso da quello che rende drogati: la vittima doveva essere “agganciata”, privata della sua indipendenza, e resa dipendente dall’agente oppressore. Il servilismo e l’acquiescenza che apportano alla vittima benefici di breve durata e attimi di sollievo dalla violenza esplicita hanno un grande prezzo. L’animale è stato strappato dal suo mondo e spinto in una realtà aliena, dove vive una vita di seconda mano. Da allora, ha in genere tollerato il suo oppressore e, incapace di fare altrimenti, ha obbedito. E, nel caso avesse mancato di eseguire gli ordini, sarebbe presto diventato evidente chi era il padrone e chi lo schiavo(38).
Chiaramente, come ribadiscono Carl Sagan e Ann Druyan, “una netta distinzione tra umani e ‘animali’ è essenziale quando si vogliano piegare questi ultimi al nostro volere, costringerli a lavorare per noi, indossarli, e mangiarli – senza inquietanti sfumature di senso di colpa o rimorso”(39). Alla cultura che opprime bisogna che sia fornita una narrativa che ponga una netta separazione del contatto diretto e della vicinanza corporea tra oppressore e oppresso, tale che sia attivato un “cambiamento gestaltico”, un inganno giocato alla percezione in cui non vediamo più la realtà per come è, in cui la realtà è occultata da una nebbia concettuale e ideologica. Tuttavia, poiché la narrativa della dicotomia uomo-animale era fin dall’inizio chiaramente falsa, i rimorsi della coscienza non solo non si sono mai acquietati, ma si sono trasformati in odio – un odio talvolta represso e talvolta esplosivo contro ogni apparenza di falsa compostezza.
Un’altra analogia con l’oppressione razzista potrebbe aiutare a illuminare meglio la questione. Nei primi tempi del suo ministero musulmano, Malcom X predicò ai suoi fratelli neri, “Sapete perché l’uomo bianco vi odia? È perché ogni volta che vede il vostro volto, vede il riflesso del suo crimine, e la sua coscienza colpevole non riesce ad affrontarne la vista”(40). Nemmeno una narrativa costruita attentamente di generazione in generazione è sufficiente per cancellare l’impatto causato da un incontro immediato. Una narrativa zoofobica, proprio come una razzista, corre sempre il rischio di essere smascherata, poiché nasconde una realtà che pretende di essere riconosciuta: nel profondo dei nostri cuori, siamo animali auto-repressi che tengono in ostaggio il mondo.

Note:
12 D. Abram, Spell of the Sensuous. Perception and Language in a More-Than-Human World. New York: Vintage Book 1996, 60.
13 M. Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception. Trad. C. Smith. London: Routledge & Kegan Paul 1962, 227.
14 ibid., 229.
15 Alan Watts afferma che lo scienziato deve ancora “necessariamente usare la propria intuizione nel comprendere la totalità della natura, anche se non si fida di essa. Deve sempre fermarsi e controllare la propria comprensione intuitiva con l’esile raggio luminoso del pensiero analitico.” Noi facciamo affidamento su ciò che Watts chiama intuizione, e su ciò a cui io mi riferirei come l’attività percettiva spontanea della vita pre-cosciente, pre-riflessiva, sub-personale, ad un livello straordinario, per ogni nostro movimento, incluso quello del pensiero analitico. Vedi A. Watts, Nature, Man, and Woman. New York: Vintage Books 1970, 62-3.
16 M. Moore, ‘Mass suicide’ protest at Apple manufacturer Foxcomm factory [in:] The Telegraph, 11 Genn 2012. http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/china/9006988/Mass-suicide-protest-at-Apple-manufacturer-Foxconn-factory.html.
17 India: 2009 records highest number of farmer suicides [in:] One World South India, Dec 28 2010, http://southasia.oneworld.net/news/india-2009-records-highest-number-of-farm-suicides.
18 Vedi la discussione di Rick Roderick sulla posizione di Marcuse riguardo alla razionalità strumentale, Rick Roderick on Marcuse−One-dimensional Man, http://www.youtube.com/watch?v=WNAKr1TQ0xc.
19 T. W. Adorno, Negative Dialectics, trad. E. B. Ashton. London and New York: Routledge & Kegan Paul Ltd 1973, 3.
20 La desublimazione repressiva è un meccanismo per il quale sono garantite espressioni artificiali controllate e limitate ai desideri e alle pulsioni represse, espressioni legittimate dall’apparato produttivo e infine ritornanti in esso. Così, per esempio, il business della pornografia è una forma di manifestazione inversa della povertà della vita erotica, una compensazione per la precedente soppressione della sessualità, che permette un certo grado di sfogo sessuale in assenza di intimità. Per un’analisi dettagliata vedi H. Marcuse, Eros and Civilization. A Philosophical Inquiry into Freud. Boston: Beacon Press 1966.
21 Per suggerire un modo in cui questo funzioni anche in situazioni abbastanza banali, lasciate che proponga un aneddoto. Una mia amica, una donna, mi ha detto recentemente di essere un’assidua frequentatrice di palestra. Quando le ho chiesto perché ci andasse, lei mi ha risposto: “Per le endorfine che rilascia.” Così uno rimane a chiedersi quanto tempo ci vorrà prima che non ci venga più chiesto se noi stiamo bene, ma se sta bene l’equilibro biochimico dei nostri cervelli.

Impercettibili temi di microanalisi potrebbero rivelare potenti tendenze sociali. Il linguaggio tecnico-scientifico è ormai usato da non-specialisti in aree nelle quali non hanno alcuna competenza specifica. Nondimeno, essendo una sorta di nuova teoria e fede popolare, ha un’influenza profonda e crescente sul modo in cui essi vedono se stessi, gli altri, e il mondo. Per divagare un altro po’, mi sovviene un altro aneddoto, questo dall’autobiografia di Malcolm X.

X scrive del modo artificiale con cui i bianchi approcciano il ballo, come qualcosa che impedisce l’espressione spontanea. Chiarisce che la spontaneità richiede una rinnovata connessione con qualcosa di corporeo e antico, e un liberarsi  dalla tecnica. Dice, “ero tra la folla sgomitante – e all’improvviso, inaspettatamente, ho capito. I miei istinti Africani soppressi a lungo esplosero e si liberarono. Avendo passato così tanto tempo in … un ambiente bianco, avevo sempre creduto e temuto che danzare implicasse un certo ordine o schema di passi specifici – così il ballare è concepito dai bianchi. Ma qui, tra la mia gente meno inibita, ho scoperto che si trattava semplicemente di lasciare che i tuoi piedi, le tue mani e il tuo corpo agissero spontaneamente sulla base di qualsiasi impulso venisse stimolato dalla musica.” Vedi Malcolm X, The Autobiography of Malcolm X: As Told to Alex Haley. New York: Ballantine Books 1973, 60, enfasi nell’originale.
22 Federic Jameson sottolinea come “al minimo accenno di qualche variazione del libero mercato … la più standardizzata e uniforme realtà sociale nella storia” ci può essere rivenduta “come la ricca lucentezza della macchia di petrolio di diversità assoluta, e le più inimmaginabili e inclassificabili forme di libertà umana.” Vedi, F. Jameson, The Seeds of Time. Wellek Library Lectures. New York: Columbia UP 1994, 32.
23 Da confrontare con Debord, Society of the Spectacle, trad. D. Nicholson-Smith. New York: Zone Books 1995. A pagina 26 Debord parla della “dominazione della società da parte di cose le cui qualità sono ‘allo stesso tempo percettibili e impercettibili dai sensi.’ Questo principio è assolutamente realizzato nello spettacolo, dove “il mondo percettibile è rimpiazzato da una serie di immagini che gli sono superiori, ma allo stesso tempo di impongono come eminentemente percettibili;” enfasi mia.
24 Malcolm X, The Autobiography…, 278, la prima enfasi nell’originale, la seconda è mia.
25 Merleau-Ponty, The Visible and the Invisible, 27. Mentre la fisica, ad esempio, ha visto qualche cambiamento nella relazione percepita tra il soggetto e l’oggetto, il paradigma Newtoniano per cui i due sono indipendenti e completamente separabili regna ancora, e non solo per motivi pratici, ma come espressione del moderno senso comune. La “visione dall’alto” sopravvive anche in pieno postmodernismo al punto che il linguaggio è considerato un fenomeno esclusivamente umano e onnicomprensivo. Queste due condizioni danno le basi ideologiche alla dominazione antropocentrica; la prima attraverso l’affermazione dell’eccezionalità umana, la seconda attraverso l’estensione del suo fulcro a tutta la realtà concepibile.
26 Vedi GLiPHA (Global Livestock Production and Health Atlas), http://kids.fao.org/glipha per i dati del 2007 forniti da FAOSTAT. Il numero totale di morti cresce stabilmente. Non classificati come bestiame gli animali marini sono solitamente ammassati tutti insieme e pesati, non contati. Il numero delle loro morti annuali è difficile da determinare.
27 Vedi N. MacFarquhar, Trying to Lace Together a Consensus on Biodiversity Across a Global Landscape [in:] NY Times, 29 Sett 2010 (http://www.nytimes.com/2010/09/30/world/30nations.html?pagewanted=all).
28 Juliette Jowit, Warning sounded on decline of species ([in:] The Guardian, Mar 7 2010 (http://www.guardian.co.uk/environment/2010/mar/07/extinction-species-evolve).
29 ibid.
30 MacFarquhar, Trying to Lace Together a Consensus L’autore scrive che la perdita di specie ha la caratteristica di essere “lontano dagli occhi, lontano dal cuore.” In parte ciò è dovuto alla piccola dimensione degli organismi e analogamente i fattori dati, ma per la maggior parte può essere collegato alla cattiva consuetudine della civilizzazione di agire in modo superficiale a distanza, inclusa la distanza psicologica, dall’oggetto. In questo modo è stato riconosciuto che si aumenta il disprezzo per le conseguenze e si sopprime la compassione per l’altro. Quindi, lo sviluppo economico moderno ha molto a che vedere con le moderne azioni militari nel senso che entrambi includono uccisioni di massa e indiscriminate.
31 Questa è l’argomentazione di Acampora in varie pubblicazioni, per esempio in Extinction by Exhibition: Looking at and Inside the Zoo [in:] Human Ecology Review, vol.5, no. 1, 1998, 1-4.
32 K. Davis, Procrustean Solutions to Animal Identity and Welfare Problems
[in:] Critical Theory and Animal Liberation. Ed. J. Sanbonmatsu. Plymouth: Rowman & Littlefield Pubishers, Inc. 2011, 41, enfasi mia.
33 Ch. Patterson, Eternal Treblinka. Our Treatment of Animals and the Holocaust. New York: Lantern Books 2002. Tristemente, persino uno scrittore e pensatore capace come Patterson qua e là separa l’umanità dal regno animale. Di sicuro, sembra farlo proprio nel titolo del suo altrimenti prezioso libro. A suo credito, tuttavia, va detto che affronta la materia estremamente controversa di stabilire un paragone tra olocausti, muovendosi all’interno del delicato terreno nel quale la sofferenza degli Ebrei, Rom, Polacchi etc. tende ad essere sacralizzata, estetizzata e depoliticizzata.
34 ibid., 7.
35 ibid.
36 Zerzan suggerisce che l’addomesticamento di altri animali, o piante peraltro, non fu incontestato. Dice che di fatto “le testimonianze archeologiche in tutto il mondo dimostrano che molto gruppi umani provarono l’agricoltura e/o la pastorizia e poi li abbandonarono, ritornando alle più affidabili strategie della ricerca del cibo e della caccia. Altri rifiutarono per generazioni di adottare le pratiche di addomesticamento dei confinanti.” Vedi J. Zerzan, Twilight of the Machines, Port Townsend, Washington: Feral House 2008, 107-8.
37 Patterson, Eternal Treblinka … , 8-10.
38 La discussione di Barbara Noske sull’addomesticamento animale lo rappresenta come un fenomeno complesso, che coinvolge reversibilità e gradualismo. Scrive, ad esempio, che “Soltanto in numero relativamente basso le domesticazioni sono sopravvissute fino ai tempi moderni. Ciononostante, vi è la tendenza a considerare la relazione di domesticazione come una sorta di culmine evoluzionistico: come se, una volta che una specie sia stata addomesticata, resti in tale stato per sempre. Questo punto di vista corrisponde molto poco alla realtà storica.” Vedi B. Noske, Beyond Boundaries. Humans and Animals. Montréal /NY/London: Black Rose Books 1997, 5-6. Eppure, io concorderei con Patterson che le narrazioni dell’addomesticamento troppo spesso evitano ogni cenno alla coercizione implicita o esplicita, elementi che, anche se in gradi differenti, devono essere stati presenti nella maggior parte, se non in tutti, i casi di addomesticamento.
39 Citato in Patterson, Eternal Treblinka … , 25.
40 Malcolm X, The Autobiography … , 208.