Sardinia Reggae Festival: boicottiamo Capleton!

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Riportiamo e condividiamo il documento del Collettivu S’Ata Areste:

 

CAPLETON ARRIVA AL SARDINIA REGGAE FESTIVAL 2013

Al Sardinia Reggae Festival arriva Capleton, uno degli artisti di punta del panorama reggae mondiale, capace di distinguersi e primeggiare per il suo messaggio di odio verso gay e lesbiche e boicottato per questo in tutta Europa!!!
Solo per fare qualche esempio, Capleton canta versi come «sodomiti e gay, io gli sparo… whoa», oppure «brucia il gay, fai vedere il sangue al gay», e ancora, «yow, legateli e impiccateli vivi / di tutti i gay che girano qua intorno / la madre terra dice che nessuno può sopravvivere».
Per saperne di più potete andare in questo link.
In un paese dove la violenza e l’intolleranza nei confronti di gay, lesbiche e trans è all’ordine del giorno, la presenza di un cantante omofobo come Capleton non è tollerabile. A solo un mese di distanza da manifestazioni importanti per la nostra Isola, come Diritti al Cuore ed il primo Sardegna Pride, dove fra le istanze condivise c’erano diritti civili e fine delle violenze sessiste, omo-transfobiche e razziste, dobbiamo apprendere che la Sardegna si ritrova ad ospitare un personaggio come Capleton, NOI NON CI STIAMO:

BOICOTTA CAPLETON!
BOICOTTA LA MUSICA SESSISTA E OMOFOBA!

Un rapporto di Amnesty International datato 17 maggio 2004, a proposito di
un concerto reggae svoltosi in Giamaica nello stesso anno, denuncia che sia
Capleton che altre reggae star stanno minacciando di uccidere i gay: «Durante
il corso della serata, Capleton, Sizzla e altri, hanno cantato quasi
esclusivamente liriche sui gay. Usando il termine dispregiativo per gay ­
«chi chi men» o «batty bwoys» ­ hanno esortato il pubblico ad «ucciderli, i
batty bwoy devono morire, colpi di pistola sulle loro teste, chiunque voglia
vederli morti, alzi le mani».
Il 13 giugno 2007 l’associazione inglese Outrage! ha diffuso la notizia che tre dei principali cantanti reggae/dancehall hanno rinunciato all’omofobia e condannato la violenza contro gay e lesbiche, firmando un accordo denominato “Reggae Compassionate Act”, in cui Sizzla, Capleton e Beenie Man dichiarano tra l’altro: «concordiamo di non cantare testi e suonare canzoni che incitino all’odio o alla violenza contro chiunque, di qualsivoglia comunità».
L’establishment del business musicale preoccupato dalla diffusione internazionale delle campagne di boicottaggio e soprattutto di salvaguardare i suoi profitti (visto che alcuni sponsor cominciavano a farsi indietro) è corso ai ripari imponendo il “compassionate act”, un capolavoro di buonismo ipocrita dove gli stessi cantanti che fino al giorno prima esprimevano il loro odio omofobico e sessista si impegnavano a diffondere un messaggio di pace e amore. Un espediente per mettere a posto le coscienze dei business-men e di tutti gli ingenui che così potranno ancora acclamare i loro idoli. Inutile aggiungere che il “compassionate act” è stato ripetutamente violato in molti concerti. Per maggiori info leggi qua.

Il Sardinia reggae Festival si propone così:
“I motivi che hanno spinto le due associazioni ad organizzare il Sardinia Reggae Festival sono diversi: la grande passione per la musica Reggae, il desiderio di creare nuove ed interessanti attività sociali per l’isola, ma sopratutto l’idea comune di far diventare la Sardegna il punto ideale per la crescita del reggae e per lo scambio con realtà internazionali.”
“Il progetto dell’Ass.Cult. Sardinia Reggae è quello di mettere in atto un importante scambio culturale e di creare un grande ponte virtuale tra Sardegna, Europa e Jamaica, permettendo a tutto il pubblico europeo ed extraeuropeo di conoscere storia, tradizioni e cultura sarda ed al pubblico italiano, di approfondire cultura e storia della musica reggae nazionale ed internazionale.”

Noi chiediamo: che tipo di scambi? Che tipo di cultura? Noi immaginiamo scambi fra comunità internazionali all’insegna della condivisione, del riconoscimento reciproco delle differenze, delle lotte, non certo all’insegna della comune condivisione e dell’odio contro gay e lesbiche!
Chiediamo al Sardinia Reggae Festival di prendere una posizione chiara e netta:
ANNULLATE IL CONCERTO DI CAPLETON, non pensiamo che non foste a conoscenza di tutto questo, ma in ogni caso prendete posizione contro e fatelo adesso, come altrove, in più occasioni, è stato fatto!!!

Invitiamo tutte e tutti a scrivere agli organizzatori del Festival per chiedere l’annullamento del concerto:
sardiniareggaeufficiostampa@hotmail.it

Colletivu S’Ata Areste

Antifascismo e antispecismo: dipaniamo la matassa

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Noto con tristezza che un sacco di vegan e/o antispecist@ adottano la politica del ‘se non si palesano come fascisti, allora non lo sono, oppure me ne fotto’. Quello che intendo fare è esprimere delle perplessità circa questa politica, che mi risulta essere totalmente fallimentare in materia di prevenzione del fascismo nel milieu antispecista. Piccola nota sul termine: quando uso questo termine non sto escludendo a prescindere la presenza di fascisti/razzisti/sessisti/eccetera, perché, per l’appunto, se ‘in teoria’ così dovrebbe essere, nella pratica così non è. E il primo passo per risolvere un problema è ammetterne l’esistenza.

A volte vengono promossi concetti reazionari proprio da coloro che non lo sono, o che non vorrebbero esserlo. Si pensi ad esempio a quante volte le argomentazioni antispeciste vertono sull’agire secondo natura o quantomeno in rispetto della natura.  In realtà il concetto stesso di natura appartiene alla cultura ed è usato dal dominio per naturalizzare l’oppressione, cioè renderla naturale, normale (e da normalità a normatività, il passo è davvero breve): in tutto questo, non dovrebbe meravigliare che un sacco di organizzazioni ecofasciste bazzichino il filone dell’ecologia profonda, che purtroppo condivide i presupposti di un biocentrismo troppo spesso declinato in termini non difformi da quelli in cui lo declina il dominio; vedasi la loro definizione di natura e di vita (hanno spesso anche posizioni antiabortiste; il che la dice lunga su quanto ci tengano alle vite che già esistono). Con questo non sto affermando che non può esistere una declinazione di natura che non sia ecofascista, beninteso; soltanto che quello attuale è tale – proprio perché la natura è (anche) cultura, è possibile immaginare una ‘cultura della natura’ non ecofascista. Si pensi infine all’interclassismo insito nel concetto, in odor di estinzionismo, per cui davanti agli animali saremmo tutti nazisti: davvero nel sistema la mia vicina di casa, donna immigrata, ricopre la stessa posizione di un borghese, bianco, a capo di una multinazionale leader nel mercato dei derivati animali? L’evidenza dimostra il contrario, a prescindere dall’eventualità che la mia vicina di casa possa essere o meno vegana.

Il fascismo non bussa mai alla porta presentandosi come tale. Si presenta ‘oltre destra a sinistra’, come ‘apolitico’ (c’è differenza tra apartitico e apolitico), come ‘alternativa’, come ‘terza via’. Codesti individui non si palesano in nessun caso come fascisti, se non in rarissimi casi, ovvero quelli in cui non riescono a camuffarsi con successo. Sicché questa è la storia delle infiltrazioni neofasciste in qualsiasi ambito non esplicitamente politicizzato, come ad esempio quello associazionista, bisogna stare attenti. Il purismo militante è fuffa; la coerenza fra mezzi e fini, invece, è fondamentale.

Si dice spesso che agli animali non importa se a liberarli è un fascista, ma se è per questo, agli animali non importa nemmeno se a liberarli è qualcuno che non è né vegetariano, né vegano e tantomeno animalista e antispecista. Cosa si penserebbe di un’associazione antispecista i cui membri finanziano in maniera attiva uno dei capisaldi della prassi specista? Si può supporre che se ne pensi tutto il male possibile. Perché agire differentemente con i fascisti, allora, mi chiedo; e nel caso in cui questi si dichiarino non fascisti o addirittura antifascisti ma aiutino organizzazioni che diffondono fascismo, che differenza c’è? nessuna. Non si danno giudizi politici in base all’autoidentificazione di una persona, ma in base agli esiti del suo agire politico.

Un’altra accusa punta il dito sul dibattito fascismo/antifascismo dipingendolo come antropocentrico, ma non è possibile ottenere la liberazione animale a fianco di gente che nei secoli dei secoli ha oppresso e ammazzato animali umani al soldo di quello stesso sistema economico che sfrutta e uccide gli animali non umani; coloro che parlano di etica dicendosi apolitici, non sanno lo ‘stato etico’ è proprio del fascismo. Si parla di antispecismo debole (o di animalismo) come se l’etica non fosse pertinente ad un antispecismo politico; ma l’etica non è avulsa né al personale né al sociale, e pertanto al politico.

Sarebbe opportuno quindi incominciare fare i nomi. A quelli pronti ad accusarmi di caccia all’uomo, chiedo di riflettere su questo: voi un macellaio che fa un’associazione (dove vi sono anche persone genuinamente vegane/antispeciste) per raccogliere fondi (destinati anche, ma non soltanto, alla sua macelleria) presso attivisti “all’acqua di rose” e inconsapevoli vari, lo tollerereste in virtù di quel poco che fa per la causa? (quale  causa, soprattutto, verrebbe da aggiungere). E che non mi si chieda cosa fare con i casi ambigui, perché chiunque possiede un minimo di cultura, di capacità e di esperienza sa distinguere le ambiguità fortuite da quelle intenzionali.

Qualche consiglio musicale militante #1

The Casual Terrorist – Michel Foucault is My Favourite Skinhead

The Casual Terrorist vive in quel di Newcastle. Dice che beve troppo latte di soia al cioccolato, che è un artista a tempo perso, che gli piace leggere Foucault e che ama vedere poliziotti bruciacchiati. Qui il link per poter scaricare e/o acquistare canzoni ed album. Altre tracce consigliate: We Are Born For the Sea, This Universe Terrifies Me, Anarchists Make Better Lovers.

7 Seconds – Man Enough To Care 

http://youtu.be/gJJEHM_2BoU

Il testo parla per sé: All your life they told you, never shed a tear, cuz boys don’t crave affection / Boys ain’t got no fear / But did they ever show you how to shut those feelings on then off again / And now you gotta hide yourself, hide yourself away / Show you care and you might show the world that you’re only gay /Crying is for babies, for boys is it a sin /To be a caring, sharing, loving, human one. Altre tracce consigliate: Not Just Boys’ Fun, Racism Sucks, Young Till I Die.


Laura Jane Grace – Transgender Dysphoria Blues

Qualcun@ l’ha conosciuta in passato come Tom Gabel, il front(wo)man degli Against Me. Ora si chiama Laura Jane Grace ed è una meraviglia di donna. Altre tracce consigliate: Black Me Out (ma anche la sua produzione con gli Against Me).


Harum Scarum – Civilization’s Dying

Questa è una cover dei Zero Boys, ma preferisco la versione delle Harum Scarum.
Altre tracce consigliate: CCTV, The Fight Inside of Me, Fear.


L7 – Fast and Frighening

http://youtu.be/hCm32cE_XKo

Popping wheelies on her motorbike / Straight girls wish they were dykes / She’ll do anything on a dare / Mom and Daddy’s worst nightmare / Down at the creek smoking pot / She eats the roach so she don’t get caught / Throws her mini off in the halls / Got so much clit she don’t need no balls. Altre tracce consigliate: Pretend We’re Dead, The Masses are Asses, Bad Things.

 

Considerazioni lampo su sessismo e omotransfobia nella musica hip hop

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Vi presento Le1f!

Mi capita con una certa frequenza di sentir parlare dell’hip hop come di un genere musicale particolarmente disastroso dal punto di vista della giustizia sociale, e  mi rendo conto che  indubbiamente scorgere una quantità considerevole di aspiranti rapper che si comportano da carogne non aiuta certo a sfatare questo mito.
In effetti, basta fare una passeggiata digitale sui canali Youtube di alcune ragazze rapper per leggere una marea di insulti sessisti. E nelle battaglie di rap, non è affatto infrequente l’utilizzo di frasi e concetti omofobici e transfobici per sminuire l’avversario, colpendolo dove fa più male a un maschio etero (e non, visto che gli omosessuali misogini non mancano, purtroppo) che non tenta di disertare il patriarcato: nella sua mascolinità.

Mi si permetta però di spezzare una lancia a favore di questo tipo di musica: laccusa monogenere non regge.  Ci sono canzoni e autori (perfino autrici, qualche volta) altrettanto sessisti, misogini e omotransfobici nel rock, nel metal,  nel punk, nell’indie,  nell’elettronica: pressoché ovunque. Tuttavia, nessuno di questi riceve condanne, e anche quando ciò succede, non sono mai così esplicite e feroci come quelle dirette contro l’hip hop. Perché? e perché così tante persone si ricordano dell’esistenza della violenza di genere selettivamente, stigmatizzando (com’è giusto che sia) Chris Brown che picchia Rihanna ma non la violenza domestica di Sean Penn nei confronti di Madonna?

Non è un mistero che questa cultura sia una delle poche ad aver mantenuto una dominanza nera anche sfondando nel mainstream, quando sistematicamente buona parte della cultura black ha subito un’appropriazione da parte bianca e non di rado schernita, umiliata, resa uno scherzo: per fare un semplice esempio, quanti scherzano sullo stereotipo cinematografico della donna nera che gesticola molto? con questi precedenti, possiamo dire che si tratta di razzismo. Sì, proprio razzismo: implicito, ma pur sempre tale.

Esistono assolutamente rapper, nere/i e non solo, che parlano (con continuità e senza) di tematiche affini a quelle lgbtqia e femministe: il punto è che non ricevono alcuna visibilità. C’è addirittura un intero sottogenere a sè stante, che si chiama homo hop, e mi vengono in mente Melange Lavonne, Big Dipper, Mykki Blanco, Katastrophe, Deep Dickollective, Le1f, Yo Majesty, Tori Fixx, Queen Latifah, Immortal Technique. Giusto per nominarne un po’.
Eppure indovina chi è che riceve gli elogi della critica per aver scritto una canzone contro l’omofobia? Macklemore e Ryan Levis. Entrambi maschi, bianchi, etero.

La dinamica che si verifica in questi casi  dovrebbe dar da pensare anche a chi di musica (e di hip hop) frega nulla o relativamente poco, perché è l’espressione palese di come i propri privilegi influiscano negativamente su chi è oppress* anche cercando più o meno di combatterli. Si può essere antisessist* e antirazzist* e attuare inconsapevolmente sessismi e razzismi, e questo è il caso. Come combattere tutto questo? i due avrebbero potuto rifiutare i complimenti e dare spazio mediatico a qualcun* de* rapper queer e nere/i, ma non l’hanno fatto.  Non gliene sto  facendo un peccato capitale, beninteso, ma il primo privilegio che si ha è proprio quello di non accorgersene. E all’occorrenza, quello di negarne l’esistenza.

Anche il sentimentale è politico. Ad libitum.

Dicofaccioproduco cose interessanti (oppure no).
Ho tante buone qualità (oppure no).
Sono figo (oppure no).
E la psiche è una stronza.

Andiamo tutte e tutti dall’analista a spiattellare anni su anni di traumi psicologici causati da scuolafamigliarelazionieccetera e quando ci chiediamo come va non riesco ad ottenere che un fiume impetuoso di risposte false. E intanto chi non vuole o non riesce a sottostare all’autoritarismo del vatuttobene come imperativo sociale è pazzo scemo depresso e via discorrendo.

Tutto questo non è passibile di discussione in una qualsiasi assemblea. Ma il personale non era politico? Io lo so benissimo perchè sono così. Tutto questo gigantesco mucchio di merda non piove dal nulla (tipo certe piogge a ciel sereno). Me l’hanno buttato addosso.
E allora un sentito vaccagare.

Ai bulletti fascistelli e machisti delle scuole medie, manovalanza becera dello status quo già da marmocchi.

Leggi tutto “Anche il sentimentale è politico. Ad libitum.”

Di violenza di genere e media. Basta indignazione, incominciamo con la rabbia!

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Femminicidi. Così li chiamano i giornali quando non sono omicidi passionali.
Avrei potuto inserire qui il nome di una vittima e scrivere un lungo piagnisteo ricco di morbosità sulla vita della lei di turno. Perché per saziare la voglia di morbosità di chi apre il giornale per sbraitare e chiedere repressioni a casaccio, è importantissimo parlare degli hobbies, dei calzini, delle gonne e delle relazioni di quella lì. E invece no, perché a me non interessa stuzzicare le più basse voglie narrative dell’italiano medio.

Un sacco di persone vedono la stampa come qualcosa di più o meno neutrale, o perlomeno non prettamente politico, ma così non è. La stampa ha la precisa funzione politica di fornire pornografia emotiva di massa. Non mi aspetto che si forniscano grandi analisi sul tema della violenza di genere: non l’otterrò mai e se anche l’ottenessi, sarebbe inevitabilmente sbagliata, perché i complici di una lunga serie di nefandezze non confessano, e se lo fanno, sono pentiti; non innocenti. Cosa ci si può aspettare di buono da chi piazza la vittima nel corteo funebre mediatico dei fatti di cronaca? Già trattarlo come un fatto casuale e non come questione politica nasconde una visione dei fatti ben precisa. Per non parlare del fatto che probabilmente quello stesso giornale annovera nella sua sezione scientifica mille pseudoricerche neurosessiste atte a giustificare ruoli di genere, nonché banner pubblicitari che strabordano maschilismo da ogni pixel.

Il padre lacrimante dice: non volevo che frequentasse quel tipo lì. Smania di controllo, ma molti la leggeranno come premurosità genitoriale e come tentativo di garantire sicurezza alla vittima – sì, ma a che prezzo, aggiungo io. Del fidanzato mi dicono che è geloso da morire. Che non le concedeva nessun tipo di libertà, che la picchiava a sangue. Quella doveva chiedere il permesso perfino per un gelato. Per avere un profilo facebook. E tutti sanno, proprio tutti. Ma nessuno s’è degnato di far qualcosa. Padri, padroni, padreterni: mi rintontiscono col paparino possessivo che piange, col moroso possessivo che però in fondo è un ragazzino, oppure è giustificato perché quella era una poco di buono e anche se non lo era sticazzi: le giustificazioni si sprecano. Ecco il prete che benedice quella povera donna uccisa, perché la violenza sulle donne dev’essere una sorta di piaga divina per non si sa cosa. E poi frotte di poliziotti, a difesa delle italiche femmine, gli stessi che stuprano le migranti nei CIE. Chissà che sicurezza possono offrire dei soggetti simili.

E io sono incazzato. Non indignato: gli indignati sono quelli che dopo la chiusura del browser o la cestinazione del quotidiano vivono un tabula rasa che consente loro di vivere più o meno serenamente e sbattersene. In fondo riguarda loro? No. E si sentono giustificati nell’ignorare. Salvo poi riaprire il browser/quotidiano. Indignarsi. E ovviamente lasciar stare tutto quanto di nuovo.
Gli indignati sono quelli che non ti guardano nemmeno se ti stanno spaccando la faccia, ma che hanno sempre le energie per richiedere forche a gran voce.
C’è chi li chiama femminicidi, per poter dare adito a politiche emergenziali e securitarie in nome di un termine che racchiude soltanto donne bianche, cisgender, quelle che non sono lavoratrici sessuali e quelle dalle vite più o meno regolari e racchiudibili nel modello dell’angioletto del focolare inoffensivo, della schiava uccisa per sbaglio (e i vari padroni s’arrabbiano, certo. Per spreco).
C’è chi toglie i fondi ai centri antiviolenza e toglie reddito alle donne, per poi meravigliarsi del fatto che queste non riescano a ottenere indipendenza per scappare dall’aguzzino-del-mulino-bianco.
C’è chi ne fa una battaglia politica propria. Col sangue altrui sulle mani.
C’è chi nega l’esistenza stessa di una violenza di genere.
C’è chi semplicemente non si pone il problema.
E poi c’è chi si incazza. Si prende le denunce. Fa le slutwalk e protesta per tutte, ma proprie tutte, senza esclusioni.
Non chiede permesso proprio a nessuno, non mendica e lotta. Ma quella gente si incazza.
Mica si indigna.

Fenomenologia del razzismo italico

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Si avvertono i potenziali lettori che la lettura del seguente testo potrebbe causare rash cutanei ma soprattutto ideologici presso gli antirazzisti da bar che ammorbano l’etere con cacate retoriche sul fatto che abbiamo tutti il sangue rosso, salvo poi bollare come violent*  coloro che si ribellano. Oh, io ve l’ho detto. 

Facciamo finta che io sia un imprenditore di qualsivoglia dimensioni.
In seguito alle lotte sociali degli anni ’70 il costo del lavoro degli operai italiani è indubbiamente salito (anche se ora non si può più dire lo stesso, grazie ai miei deliri neoliberisti). Il sottoscritto è un taccagno schifoso col pallino dell’accumulazione di capitale (come qualsiasi altro capitalista, mini e non), senza un briciolo di cultura, che aspira all’ascesa sociale stile american dream e pretende di farlo attraverso lo sciacallaggio delle risorse altrui perché oggettivamente troppo coglione per riuscirvi con le proprie.

Le guerre nelle quali lo stato presso il quale risiedo ha partecipato, hanno saccheggiato altrove risorse e generato povertà e distruzione tale da far immigrare quantità considerevoli di esseri umani da queste parti. La mia preoccupazione è, però, arricchirmi; ne consegue che io desidero lavoratori con un costo del lavoro basso (siano essi italiani o di chissà dove). Questa è la logica per la quale sposto i luoghi di produzione lontano da qui e quella per la quale assumo principalmente persone immigrate, non certo per il poco impegno, sacrificio o bassa professionalità della classe operaia locale, anche se mi piace far credere che sia così (il popolino è davvero decerebrato, miseriaccia). Però, ogni notte prima di infilarmi sotto le coperte – oppure ogni mattina prima di infilare il maglioncino di cachemire e sproloquiare pseudomarxisticamente – mi cago in mano di fronte alla possibilità che anche il costo del lavoro migrante possa salire. 

Che fare? colpo di genio: chiamo il mio amico giornalista e gli dico di pubblicare articoli a raffica su stupratori immigrati ignorando bellamente le statistiche istat sull’endemicità della violenza domestica (quella degli italiani). Dopodichè, faccio lobby con le pariopportuniste di turno per ottenere decreti e leggi varie in nome di uno ben specificato ideale di sicurezza irrimediabilmente violato. Dipingo i migranti come scansafatiche che vengono qui a rubarci il lavoro. Spingo la sinistra a promulgare la Turco-Napolitano e la destra a dare origine alla Bossi-Fini. Rendo la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno indissolubilmente legata al possesso di un contratto di lavoro. Concludo in bellezza con l’istituzione prima dei CPT e poi dei CIE: trattasi in ambo i casi di un vulnus nello stato di diritto (che è una barzelletta, ma a me fa comodo un popolino giustizialista che combatte minchioni insignificanti e osanna i magistrati), visto che si introducono concetti come detenzione amministrativa (traduco: vi incarcero come e quando vi pare, senza dovermi appellare a chicchessia) e di fatto si incarcerano persone non tanto per un reato, quanto per una condizione; degli effettivi lager. Risultato? Nessuno si ribellerà alle mie schifosissime condizioni lavorative imposte, grazie allo spauracchio del carcere-che-non-si-chiama-tale, e gli italiani bianchi se la prenderanno con le vittime della mia strategia e promuoveranno neofascismi a piene mani.

Domande?

Piselli, patate e altri ortaggi: brevissima guida alla sessualità trans*

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Intanto, mi presento: scrivo quanto segue per chiarire le idee su argomenti molto poco discussi, in particolare in un paese dove di transessualità, transgenderismo, genderqueer e compagnia bella non si parla praticamente mai. e Questo intende essere il primo di tanti altri scritti, ognuno su tematiche e stereotipi relativi al mondo trans*.

Si dà per scontato che ad un genere corrisponda un determinato set di caratteristiche perché abbiamo una cultura fortemente binaria: non vediamo oltre l’Adamo macho virile cazzomunito ed Eva femmina fertile vaginadotata. Per questo, di fronte all’ipotesi di avere una relazione con una persona trans* o esserne attratt@, solitamente vengono sfoderate delle risposte del tutto assurde, inerenti soprattutto la mancanza dei genitali solitamente collegati alle persone del genere che attrae l’interlocutore. Queste non sono altro che frutto di pregiudizi, sì, ma quali?

La prima grossa supposizione è che tutte le persone trans* abbiano delle determinate caratteristiche comuni, fatta eccezione per la disforia. Esistono persone trans* che prendono ormoni e quelle che non; quelle che si operano e chi sta bene così com’è, persone alte, basse, magre, grasse, glabre, pelose, etero, gay, bisessuali, pansessuali, asessuali, sessuali, monogam*, poliamoros*, sadomasochist*, vanilla, binari@ e genderqueer, con più generi, senza generi, con corpi diversi e transizioni diverse: sono tutt@ divers@, esattamente come il resto del pianeta. Bisognerebbe farsene una ragione.

La seconda grossa supposizione è che l’avere un determinato set di caratteristiche legate al sesso di nascita significhi automaticamente “utilizzarle” nella stessa maniera in cui lo si farebbe se si fosse stati cisgender. Una persona trans* potrebbe  volere che le persone si rapportino ai suoi genitali con dei nomi e approcci differenti da quelli che pensavate, avere dei limiti che non vogliono oltrepassare o non averne affatto. Inoltre, la genitalità di una persona trans* può e spesso è diversa da quella di una persona cisgender, in particolar modo se si sottopone a ormoni/chirurgia/eccetera. Mai dare niente per scontato, dialogare è indispensabile a capire come agire.

La terza grossa supposizione è che essere attratt* da una persona trans* comporti automaticamente l’attrazione per il suo sesso genetico. Peccato che ciò non tenga in considerazione un uso, appunto, alternativo dei genitali discordanti che si hanno oppure la presenza di nuovi genitali. Prendiamo ad esempio il famoso stereotipo per cui chi va con una prostituta transessuale non operata è segretamente omosessuale, oppure ha in sè una qualche componente di fluidità sessuale e bisessualità. Si sottintende in questo stereotipo che quella donna sia un uomo (grazie car*, ma di transfobia ne abbiamo abbastanza). Direste lo stesso di un tale che si fa penetrare con qualcosa di diverso da un pene dalla fidanzata ma rifugge totalmente gli uomini, oppure una ragazza cisgender che si masturba? il piacere meccanicamente ottenuto da parti del proprio corpo non è intrinsecamente connesso all’orientamento sessuale: la clitoride non sta mica a guardare chi ci gioca, la prostata non fa differenze fra pelle e silicone.  Ad ogni modo, se c’è chi crede seriamente che un uomo gay che si fa penetrare da un ftm stia sperimentando l’amore per la vulva solo in virtù del fatto che il suo partner con la vulva c’è nato, deve essere davvero imbecille. E per contrastare ciò, credetemi,  non c’è acculturamento che tenga.

Per approfondimenti, consiglio assolutamente la lettura di questo opuscolo.

 

Senza il lavoro il paese muore. Stacchiamo la spina!

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Senza lavoro il Paese muore e questo Paese non può morire…Tutte le risorse disponibili, a partire da quelle derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, siano dedicate alla redistribuzione del reddito da un lato ed alla creazione di lavoro dall’altro. (cit. Susanna Camusso) 

 

E il lavoro di quelli che vi montano i palchi del “concertone”, del tutto impolitico ed organizzato da chi non fa altro che concertare, palchi sotto i quali ogni tanto qualche povero stronzo schiatta nell’indifferenza generale?

E il lavoro precario, fatto di contratti inesistenti, progetti a scadenza, co.co.qualcosa, stage e promesse che impediscono di pianificare la propria vita senza dover sottostare al volere del datore di sfruttamento?

E il lavoro culturale, concepito come una specie di volontariato in incognito dove vengono richieste prestazioni lavorative gratis – aspetto che si allarga ormai al lavoro tutto?

E il lavoro migrante, fatto di paghe ridicole, lavoro nero che non garantiscono un permesso di soggiorno ed una quantità esagerata di ricatti da accettare per non finire dentro un C.I.E., e poi dentro un carcere, e poi di nuovo in un C.I.E. e così all’infinito, finché non si viene rimpatriati?

E il lavoro di cura, mai pagato dentro le mura di casa, e poco pagato fuori le mura; e mentre il lavoro si femminilizza per ironia della sorte (ma non per contraddizione) sono proprio le donne ad essere licenziate per prime? l’assurda pretesa di conciliare casa/lavoro e la violenza domestica del fidanzato con le palpatine al culo ricevute dal capo?

E il lavoro sessuale, svolto in condizioni pessime, senza alcun tipo di tutela per chi lo svolge, né vie d’uscita per le vittime di tratta?

E quelle categorie per le quali il lavoro non esiste a prescindere, come le persone transessuali, manifestazione dell’ipocrisia di chi di notte ti cerca ed il mattino successivo al colloquio ti nega il posto, oppure quelle disabili?

E le pensioni che non ci saranno e che ci costringeranno a spaccarci la schiena finché non finiremo al camposanto, e tutta quella gente che non ha nemmeno più idea di cosa sia un reddito? e la lotta all’evasione fiscale, di cui si parla tanto, che lascerà  stare i grandi evasori, cioé imprenditori e politici?

E la sicurezza sul lavoro, che è alla stregua di un miraggio irraggiungibile nel bel mezzo del deserto, priorità accantonabile in nome del non c’è tempo, non ci sono soldi, e chissà quante altre stronzate?

E la media di tre morti e duemila incidenti sul lavoro al giorno, cadaveri invisibili dei quali in vita si parla solo in termini di capitale umano e simili amenità? e tutto il lavoro che non ho elencato?

Chi se ne frega di risollevare i bilanci, le austerity colpiscono sempre i soliti, quindi noi, e coi prodotti interni lordi si misura la quantità di denaro che fluttua dalla tasca di un riccone ad un altro, non certo la qualità della vita di chi vive in questo paese. C’è assoluto bisogno di un primo maggio e non solo, costruito ad autogestito dal basso; di  sciopero non-stop,  lotta irreversibile, rifiuto del lavoro e del non-lavoro: il capitalismo è un morto che si  tiene in vita con la respirazione artificiale del respiro che ci sottrae,  soffocandoci. E se lo lasciassimo morire? 

La debolezza dell’antispecismo debole


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Leggevo questo post ed avrei un bel po’ di obiezioni. Secondo Caffo, sarebbe possibile slegare l’antispecismo da tante altre tematiche. Io, invece, credo proprio non sia possibile.

Non è vero che i maiali non fanno la rivoluzione. Gli animali fanno politica eccome. Innanzitutto perché anche gli umani sono animali, e l’antispecismo, mi risulta, è teso all’abbattimento del dominio e della discriminazione basati sulla specie e la categoria sociale di specie; un primo piccolo passo in questa direzione sarebbe riconoscere la nostra stessa animalità, seppur soffocata, taciuta e/o addomesticata, nonché appiattita in un concetto di umano che pretende di omogeneizzare individualità tra loro differenti come il giorno e la notte e spesso materialmente confliggenti.

Anche gli animali ‘non umani’, poi, sono ben lungi dall’essere apolitici. Le reazioni di lotta o fuga messe in atto dagli animali oppressi, appaiono ben consapevoli e volontarie: essi subiscono gli effetti di condizioni materiali ben precise e chiunque riconosca loro la capacità di soffrire, dovrebbe riconoscer loro anche la capacità di voler smettere di soffrire, e dunque sottrarsi in primis alle relazioni sociali di dominio.   Il finto eroismo pietista di coloro che, accecati dalla retorica del salvataggio, non si rendono conto di attribuire ai non umani teorie e pratiche proprie (come invece imputano alle antispeciste ed agli antispecisti non deboli) di fatto nega agli animali oppressi qualsiasi possibilità di autodeterminazione, col risultato che, se anche magicamente parlassimo tutti la stessa lingua, questi verrebbero comunque sovradeterminati.

Trattasi dunque non di una nuova teoria, per un nuovo mondo bensì della stessa vecchia teoria, per lo stesso, identico, orrendo mondo di sempre. E’ vero, il soggetto politico principale dell’antispecismo finora è stato chi, apparentemente, è l’unica vittima dello specismo: i non umani. Termine che, fra le altre cose, schiaccia una quantità infinita di esseri viventi in un appiattimento semantico che andrebbe  quantomeno discusso e problematizzato, e che omogeneizza anche  l’altro termine, umani, che tutto è fuorché omogeneo. E francamente, no: non tutti gli umani hanno le stesse responsabilità nel perpetuarsi dell’ideologia e dello sterminio specista. Tuttavia, alla luce del fatto che razzismi, sessismi, fascismi e molteplici -ismi per autogiustificarsi fanno abbondante uso di deumanizzazione e generalizzazione nei confronti dei soggetti che opprimono, creando tipologie standard di individui da marginalizzare ed opprimere, chiunque si definisca antispecista, e per la precisione antispecista politico – poiché ogni rivendicazione è una rivendicazione politica – dovrebbe prendere in considerazione all’interno della propria analisi anche questioni che esulano dall’idolatria di agnellini, tenuti in braccio da qualche randomico forzutissimo attivista in passamontagna; senza liquidare chi si oppone al dominio del sistema come una persona che ripropone quelle che verrebbero da taluni considerate come squallide categorie antropocentriche, oramai superate. Nelle occasioni pubbliche di cortei, dibattiti e quant’altro, coloro che lottano per la liberazione della propria e altrui animalità non possono tollerare la presenza di alcuni personaggi che includono la liberazione animale nel proprio oppressivo percorso militante, assumendo il ruolo paternalistico del salvatore che toglie la parola (o il verso) e l’espressione autonoma autodeterminata alle categorie di soggetti che esulano da un tipo – umano – ben  riconoscibile.

L’antispecismo debole presenta perciò il reale rischio di diventare la versione animalista del più famoso e tremendamente qualunquista non esistono più destra e sinistra, appiattendo la questione antispecista sull’asse morale; il nemico diventa un generico male da combattere – e coloro che non hanno voglia di appiccicare i propri vaneggiamenti iperpragmatici ai più deboli in assoluto sono additat* come qualcun* che litiga per cazzate. Per certe logiche, dovrei quasi scusarmi se oso dubitare dell’aspetto qualitativo della “liberazione” di chi ha dominato, domina e continua a dominare altri, e perché? Perché qualcuno ha stabilito aprioristicamente  che la sacralizzazione dei non umani travestita da liberazione animale è un bene che va adeguatamente difeso dagli inenarrabili danni di presunte “beghe umane”.

Mi rifiuto di considerare valido un assunto di questo tipo. Sono femminista – e non solo;  nella mia esperienza,  dal basso delle mille oppressioni che subisco quotidianamente, assai spesso chi si fa vanto di agire per la protezione di chicchessia è proprio il primo ostacolo nella strada verso la libertà. Basti pensare alle leggi securitarie che vengono proposte e/o realizzate per salvare le donne, alla voce in capitolo mai data alle/ai sex workers in merito alla loro stessa occupazione, al neocolonialismo espresso ultimamente dalle Femen e, non ultima, l’evidente maniera in cui la santificazione della donna,  ben lungi dall’essere antisessismo, in realtà alimenta la sempiterna dicotomia santa/puttana, caposaldo dell’ideologia patriarcale;  probabilmente potrei citare migliaia di altri esempi. Inoltre, gli stessi non umani non fanno esperienza unicamente dello specismo. L’assoggettamento delle femmine non umane dovrebbe essere ampiamente incluso nella critica femminista a questa società come anche  il trattamento riservato alle animalità froce, eliminate ed invisibilizzate perché del tutto non funzionali alla necessità di profitto, dunque di forze di ri/produzione,  dell’eterocisnormatività capitalista. Per dire.

Continueremo noi ad essere coloro che vengono accusat* di spaccare il movimento, nonostante la quantità disarmante di merda sessista, razzista, omotransfobica precluda a tant* l’entrata nella comunità antispecista e lo spacchi di fatto ogni giorno? Salvare gli animali non umani sarà l’obiettivo unico di animali umani privilegiati e ciechi di fronte alle oppressioni che gravano su molti loro simili, e schiacceranno allo stesso modo le istanze di tutti gli altri animali, considerate inesistenti o definite a priori senza entrare nel merito di un reale sforzo di comprensione di un mondo animale vasto e al momento, largamente incompreso? Alla luce di quanto ipotizzato, quello che più temo è che questi siano concetti del tutto incomprensibili a chi pare godere del privilegio maggiore: il lusso della monotematicità, quello di potersi occupare di una lotta soltanto.