Intervista ad Edmondo, professore libertario

banksyCon grande piacere vi proponiamo un’interessante intervista fatta ad Edmondo, professore libertario e autore del blog scuola libertaria, con la speranza che ciò generi dubbi su come stiamo educando i/le nostr@ bambin@ e sul ruolo reale della scuola tradizionale. Buona lettura!

1)  Cosa si intende per pedagogia libertaria? E quando e come è nata? Come la pedagogia libertaria si differenzia da quella tradizionale?

La tua prima domanda richiederebbe lo spazio di un’enciclopedia. Ogni bambino porta con sé un proprio progetto di vita, come anche proprie esigenze, proprie emozioni, proprie aspettative e desideri, una gamma di singolarità psicofisiche che lo rendono unico e irripetibile. Al contrario di quanto fanno le pedagogie autoritarie che operano opportunisticamente dall’esterno per omologare e annullare ogni individualità, la pedagogia libertaria si concentra sulle singolarità, rispetta le caratteristiche di ogni individuo, crea l’ambiente relazionale più consono affinché le attitudini possano emergere e svilupparsi. La pedagogia libertaria educa persone, non addestra sudditi. Ogni persona deve poter esprimere pienamente se stessa per diventare se stessa, e non qualcosa che altri hanno deciso. Quel progetto di vita che la natura ha fornito ad ognuno di noi deve potersi realizzare, e questa realizzazione si raggiunge soltanto attraverso un contesto libero, tra esseri umani liberi. In buona sostanza, la pedagogia libertaria educa a essere, non a dover essere.
Rispettare l’essere umano in quanto tale, nella sua totalità, di questo si occupa la pedagogia libertaria, e in questo senso la sua nascita affonda le radici nelle prime critiche all’esistente autoritario. Se ad esempio penso a un Diogene, non posso non vedere in lui uno dei primi educatori libertari. Tuttavia, il primo teorico a scagliarsi metodicamente contro l’istituzione scolastica tradizionale è stato il filosofo illuminista William Godwin. I suoi scritti -ancora oggi all’avanguardia- sono la reazione sintomatica di una malattia preesistente.

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Nel corpo. Lettera di una ex detenuta

presas

Diffondiamo una lettera scritta recentemente da una ex detenuta delle Vallette ripubblicata da Macerie, che racconta la sezione femminile del carcere, l’oscenità della repressione. Quella faccia della “giustizia” legale che tortura, rinchiude e punisce con ottusa crudeltà.
Negare la libertà non si può realizzare con quattro stupide mura ed ecco che li interviene l’Istituzione, creando regole, limiti, negazioni continue di tutto ciò che è essere se stesse, che è bellezza e creazione di legami sociali con individui umani e non. Di tutto ciò che è lotta.

Libere tutte!

«È nel corpo che si sente la sofferenza immediata del carcere. Vi racconto le piccole materialità che traumatizzano le membra e fanno del carcere di Torino una delle galere più invivibili (a detta di chi di galere ne ha girate molte e a lungo).
Nel femminile, diviso in 4 sezioni, sono collocate circa 200 donne, 2 in ogni cella.
Le celle sono piccole e scure, hanno dimensioni di 4 metri per 2 nello spazio abitativo che dispone di un letto a castello, un tavolino a muro, 2 sgabelli -se si è fortunati- e 4 piccoli pensili. Il bagno è di dimensioni 4 metri per 1 con water, lavandino e bidet. In cella non c’è acqua calda, che è invece fredda e terribilmente terrosa. Se lasci la moka bagnata il giorno dopo puoi scorgere la traccia grigiastra lasciata dall’acqua. Se le due concelline non sono entrambe smilze e piccoline è quasi impossibile muoversi contemporaneamente senza toccarsi e intralciarsi.
Le finestre sono piccole e basse, infossate verso l’interno e circondate da sbarre e da una grata a maglia fine (messa dopo la protesta delle lenzuola). L’aria già riciclata dall’esterno, chiusa dalle alta mura dei vari perimetri, non riesce a circolare e ad arieggiare la cella. Chi ha problemi di claustrofobia ed asma ne patisce molto.
Di conseguenza il minimo da pretendere è che le celle rimangano aperte, mentre c’è la possibilità di uscire dal proprio cubicolo solo 4 ore su 24.
Dalle 9 alle 11 della mattina c’è la possibilità di uscire all’aria, in un cortile spoglio con alte mura e nessuna fontana. Nello stesso orario è concesso fare il bucato e la doccia con l’acqua calda in un unico locale che dispone di 3 docce e un lavandino. Solo 3 persone alla volta possono recarsi a fare la doccia, in sezione si è in 50 donne.
Al pomeriggio la stessa storia. Dall’una alle tre c’è l’aria e ci sono le docce aperte. Se non si fa né l’una né l’altra si rimane chiuse.
All’aria c’è una rete di pallavolo e due porte barcollanti da calcio, ma c’è solo una palla bucata e sgonfia con cui oltre che calciarla per scaricare il nervoso non si può fare nessun gioco.
In più le guardie portachiavi riducono il tempo d’apertura. Ad un quarto aprono e a meno un quarto chiudono, mai all’orario giusto.
Riassumendo… la concomitanza degli orari dell’aria e della doccia riduce il tempo di stare all’aperto e crea l’impossibilità di fare entrambe le cose. Le docce sono poche e fanno schifo, il soffitto è giallo dall’umidità e sgocciola, l’acqua troppo dura fa squamare la pelle, lo spazio per l’aria è triste, troppo assolato e senza fonti d’acqua corrente durante l’estate, senza riparo per l’inverno. Una bella lista di ovvi motivi per lottare. I tempi e gli ambienti delle ore d’aria sono fondamentali per un minimo di sopravvivenza possibile.
Rispetto alla possibilità di fare movimento e sport… ecco non c’è nessuna possibilità.
Esiste una palestra, inagibile da oltre un anno. Hanno aperto un corso di pallavolo per 15 persone che hanno fatto richiesta e dopo mesi sono state chiamate a partecipare.
L’inattività, causata da mancanza di strutture e mezzi, facilita il corpo a sformarsi, a deprimersi di più, a non avere la stanchezza sufficiente per dormire, a trattenere il nervoso, il malessere e la mente affranta. Gli spazi ci sono e dovrebbero essere utilizzati. Ma possiamo aspettare che qualcuno ce li conceda per generosità o sarebbe ora di esigerli con forza?
Per ogni malessere non fisico il carcere propone la Terapia. La visita dallo psichiatra è quella più suggerita dalla direzione carceraria e la somministrazione di farmaci consigliata dallo psichiatra la più generosa.
La maggioranza delle detenute utilizza psicofarmaci per affrontare la sofferenza e l’insonnia. Il carrellino dell’infermeria passa tre volte al giorno per dispensare anestetici all’angoscia della carcerazione.
Per i mali fisici, per qualsiasi male, c’è il Brufen. Mal di collo, Brufen, mal di schiena, Brufen, mal di denti, Brufen… e così via.
Il personale medico non pare così professionale, a volte di fronte a non ovvi malesseri si destreggia nello sperimentare miscugli di farmaci. Al femminile ho visto donne gonfiare con il passare degli anni (io sono entrata più volte per brevi soggiorni), altre dimagrire di molti, molti, molti chili, altre mi hanno raccontato di terribili mali a causa di cure dentistiche errate e rimedi bestiali, siringhe di miscugli di antidolorifici intramuscolo. (se hai male ai denti è la fine. Il dentista in carcere fa schifo, se si sta anni dentro con qualche problema ai denti si rischia di uscire sdentate).
Ricordo che lo scorso Natale nella sezione maschile è morto un detenuto per una terapia sbagliata. Il caso è rimasto all’oscuro. Qualche suo compagno di sezione ha protestato per l’accaduto, ma come risposta ha ricevuto un immediato trasferimento in un altro carcere. I tentativi di zittire chi prende il coraggio di raccontare non devono scoraggiare. Affinché questi episodi non colpiscano più chi è costretto all’interno di un carcere, per la propria incolumità, le violenze, gli abusi e la negligenza di chi gestisce queste gabbie dovrebbero essere diffuse il più possibile e la vigilanza di chi è dentro dovrebbe essere al massimo grado, altro che psicofarmaci.
I problemi di salute derivano anche dall’alimentazione.
Il cibo che passa il vitto è abbondante, ma spesso è immangiabile e misterioso. Nei carrelli della casanza si sono visti frittate spugnose, sughi di carne e hamburger verdi, pasticci di patate acidi, riso sempre crudo e uova vecchie. Chi non ha soldi, chi vive da anni senza alcun legame con fuori o con una famiglia indigente impossibilitata ad aiutarla, oppure chi si è vista arrestare e sequestrare le proprie cose sospettate de essere i proventi dell’attività illecita commessa, si vede costretta a doversi cibare principalmente del cibo che passa il carcere. Diventa impossibile concedersi quei piccoli vizi che ti renderebbero un po’ più lieta, e allora rimandi tutto al desiderio.
L’amministrazione offre a chi non ha soldi 15 euro al mese. Con 15 euro puoi comprarti un pacco di caffè, un pacco di carta igienica, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pacco di assorbenti, un pacco d’acqua da 6 bottiglie e un dolcino di quelli economici. E i francobolli? Le buste? Una penna? Una bottiglia d’olio per condire l’insalata? Sei poverella? Mangi insipido e sei costretta ad elemosinare i bolli.
I prezzi dei prodotti della spesa sono in continua variazione, solitamente in crescita. Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti? Secondo le normative i prezzi della spesa in carcere dovrebbero essere uguali alla prima area di commercio al di fuori. Risulta difficile capirlo visto che non esiste un elenco noto con la lista di tutti i prodotti disponibili elencati con relativo prezzo precisato. Quindi altro che mantenuto dallo Stato come suole dire la gente indifferente, il carcere è mantenuto dalle stesse detenute che inoltre lo puliscono in cambio di una paga misera e ancora più misera se hai una pena definitiva, dai soldi dello stipendio ti tolgono le spese del vitto e dell’alloggio carcerario.
Altra privazione che è degna di nota è l’impossibilità di tenere il fornellino in cella per 24 ore. Esso viene ritirato alle 9 di sera alla chiusura dei blindi e ridato alle 7 del mattino. E se qualcuna insonne volesse farsi una camomilla oppure degli spaghetti aglio, olio e peperoncino? O se qualcun’altra è mattiniera e vuole bersi il caffè alle 5? “I fornellini non rimangono nelle celle perché alcune detenute sniffano il gas” questa è la scusa che hanno utilizzato le guardie, l’ispettrice e i colleghi civili, mettendo le detenute le une contro le altre, sniffatrici di gas contro cuoche notturne. E perché non incazzarci con chi ha deciso di togliercelo? C’è chi tre volte al giorno somministra terapie stordenti, chi chiude e rinchiude con mille mandate porte che ci fanno soffocare, che portano al suicidio… si preoccupano che con del gas una si possa stordire e così giustificano il fatto che ci possono levare tutto?
Non sarebbe ora di smettere di essere trattate da scolare monelle, ma di comportarci come donne dignitose che si incazzano e si riprendono quello di cui hanno bisogno?
In carcere si sopravvive grazie agli incontri. Nonostante la storie completamente differenti si trovano donne con le stesse paure e la stessa voglia di libertà. C’è sempre una storia divertente o colma di sfighe che vale la pena di essere ascoltata. A volte nascono discussioni su vicende avvenute nel trantran quotidiano, sui fatti di cronaca con punti di vista strampalati, su sogni su fuori, su vicende del passato, su lamentele sullo schifo del carcere. Non c’è mai tempo però per parlare a lungo. Le ore d’incontro sono quelle d’aria, da far incastrare con la doccia e due ore la sera di socialità (si può stare in 4 in cella). È poco il tempo per superare la superficialità delle cose che si dicono, per iniziare a dire le cose che si pensano, non sufficiente per concluderle. Proprio impossibile invece è comunicare con le altre sezioni dello stesso braccio. Al femminile si sono solo quattro sezioni una vicina all’altra ma è come se fossero distantissime, se sei in terza non sai quasi nulla di quello che succede in prima e sono una sull’altra.
È vietato ogni tentativo di comunicare. Se urli troppo dalla finestra per parlare con una tua amica che è in un’altra sezione vieni rimproverata. Con il maschile nel 2011 esisteva ancora la posta libera, senza dover mettere i francobolli. La corrispondenza era fitta, nascevano rapporti epistolari d’amore e c’era l’opportunità di scambiarsi informazioni sulle differenti situazioni di detenzione, di far girare notizie di maltrattamenti e ingiustizie, di tirar su il morale di uno/a sconosciuto/a. Oggi le lettere interne bisogna spedirle, e il tempo di una risposta può essere anche di due settimane, perché l’attesa di una missiva che esce dal carcere ha inspiegabilmente questa durata. Riducendo al minimo l’incontro fisico con le compagne di detenzione, aumentando le distanze tra sezioni differenti, tra maschile e femminile, tra dentro e fuori i legami sono più fragili, aumenta la sensazione di isolamento, diminuisce la possibilità di far girare notizie di maltrattamenti, pestaggi o iniziative di protesta che se comunicare velocemente potrebbero avere una simultanea reazione solidale nelle altre parti del carcere e fuori.
Ma per superare le difficoltà di comunicazione, e gli ostacoli che l’amministrazione penitenziaria frappone internamente tra i detenuti e tra i detenuti e il mondo di fuori è necessaria la consapevolezza che la solidarietà e la determinazione individuale e collettiva sono gli unici strumenti che abbiamo contro le violenze, gli abusi e le umiliazioni che subiamo quotidianamente. Se ci lasciamo drogare tutti i giorni, se accettiamo passivamente le condizioni in cui ci costringono a vivere, se continuiamo ad essere isolate e indifferenti perdiamo la dignità che sola ci rende libere tra quelle mura e non costruiamo nessuna ancora di salvataggio a cui aggrapparci per resistere al mare aperto in cui siamo esiliate.
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macerie @ Luglio 8, 2013

Il vero vincitore è il moralismo

La notizia la conoscete tutt@: Silvio Berlusconi è stato condannato a 7 anni e ha ricevuto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma la condanna è di primo grado, quindi ha tutto il tempo di mischiare le carte.

Premetto che, vada in carcere o meno, a me non interessa minimamente, non credo nel carcere e quindi non lo augurerei a nessun@. Credo invece nella riabilitazione, nella possibilità di comprendere i propri sbagli e cambiare, ma sfortunatamente questa “rieducazione” non è prevista nell’istituzione carceraria. Lì dentro, in quei 8 mq, non si insegna altro che la regola del “vince il più forte” e, in questo caso, lo Stato e le forze dell’ordine, ma è sempre una questione di dominio, chi ne ha di più riesce a sbattersene anche dello Stato. In sintesi è un braccio di ferro, un gioco a chi ce l’ha più grosso. Roba machista che ci dovrebbe far venire i conati di vomito.

Ma, a parte la violenza insita nel carcere, la giustizia che dovrebbe “tutelarci” e che è stata da molti lodata per questa sentenza, in realtà è la stessa che condanna chiunque decida di lottare per il diritto alla casa, contro la privatizzazione delle scuole e lo smantellamento dell’istruzione pubblica, per la salvaguardia della propria terra che i potenti vorrebbero violentare riversandoci rifiuti di ogni genere o traforandola per un progetto del tutto inutile di “alta velocità”, la lotta contro la violenza di genere che si dimentica troppo spesso essere agita anche da tanti tutori della legge, per mantenere luoghi occupati/liberati, per condizioni di lavoro migliori, perché a lavoro si continua a morire, contro la precarietà che ci schiaccia e ingabbia e tanto altro. Questa giustizia è la stessa che ha assolto gli assassini di Stefano Cucchi, e assolto i torturatori della Diaz e Bolzaneto, che ha preso di mira i/le compagn@ No Tav, che per condannare le 10 persone processate per i fatti di Genova ha riesumato reati dal codice Rocco, che adesso processa 18 compagn@ per i fatti del 15 ottobre a Roma ed ect., potrei continuare all’infinito ma penso che non serva, che questi fatti siano noti. Quando si parla di giustizia è questo quello a cui penso.

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Dalla razzista alla fascista: questa la scelta del governo italiano contro la violenza di genere

ImmagineNon è trascorso neanche un mese dalla delega come sottosegretario alle Pari Opportunità di Michaela Biancofiore, scelta che ha indignato molte persone dato che, la Biancofiore, era nota per le sue frasi razziste e omofobe. A causa, dunque, di tanto dissenso il governo decide di revocarle la delega e spostarla alla pubblica amministrazione, perché mandarla  a casa pare brutto – in fondo al governo abbiamo interi partiti razzisti, una in più che male può fare?

Dopo neanche 31 giorni il governo, che ha ampiamente dimostrato in tutti questi anni quanto tenga alla lotta contro la violenza sulle donne (valga uno per tutti il taglio ai finanziamenti dei centri antiviolenza), nomina come consigliere per le politiche di contrasto della violenza di genere e del femminicidio Isabella Rauti, persona che, secondo le dichiarazioni di Alfano, sarebbe stata “individuata per l’alta professionalità e per il costante impegno nel settore”.

Ma chi è Isabella Rauti e di quale impegno parla Alfano? Partiamo con le notizie che probabilmente saprete tutt@: la signora è figlia di Pino Rauti, sì quello del MSI, e moglie di Alemanno, sempre sì, l’ex sindaco di Roma (lui perde il posto e la moglie lo trova.. lo so, lo hanno già detto tutt@, ma dovevo sottolineare questa tempistica dato che per noi precar@ non è mai così).  Imbevuta di cultura fascista, capiamo fin da subito come questa nomina sia sbagliata a priori, ma la Rauti ha anche delle qualifiche non da poco.

Innanzitutto è antifemminista. Lo ha dichiarato lei stessa in un’intervista che vi invito a leggere, per capire con chi abbiamo a che fare e quanta ignoranza vi sia in questa donna. Vi dico solo che per lei, uno dei grandi errori del femminismo è stato il voler eliminare i ruoli di genere e cancellare l’identità maschile e femminile. Capito? Tanti anni a discutere sull’origine culturale della violenza di genere, che si basa su quei fottutissimi ruoli di genere, dove per genere si intende un costrutto sociale spacciato per naturale, ed arriva la Rauti a dire che so minchiate e che le ragioni saranno altre. Del resto mica ci educano fin da bambin@ a esser da una parte “maschi che non devono chiedere mai” e dall’altra “angeli del focolare”? Ma Rauti crede fermamente nella biopolitica, tant’è vero che dichiara che sarebbero state loro, le donne antifemministe di destra, a inventare un primo “pensiero della differenza” dove, per chi non lo sapesse, tra le tante cose si incatena la donna al suo ruolo di utero.

Sull’utero delle donne, concordo con Alfano, la Rauti ha un’attenzione quasi maniacale. Ricordiamo, infatti, che è la seconda firmataria della ddl Tarzia nel Lazio con cui si voleva permettere ai pro-life l’ingresso nei consultori, e che era in prima fila alla Marcia per la Vita. Quindi, facendo un primo sunto, la Rauti è fascista, antiabortista e non ritiene i ruoli di genere un problema, anzi, se li rivendica con forza, tanto che per lei la donna DEVE esser utero. Se questo non è sessismo cosa lo è? Se il fascismo non è violenza, violenza anche di genere, cosa lo è? Se una donna che sfila accanto a chi vuole decidere per le altre donne, che vuole obbligare tutte noi ad esser uteri per una patria ed un Dio su cui pisceremmo volentieri sopra, che si è macchiato [chi?] di omicidi come quello di Giorgiana Masi, che alimenta una cultura violenta e sessista ogni giorno, cosa è violento?

Lo abbiamo ripetuto fino alla noia in questi anni, la lotta alla violenza di genere non può che essere antifascista, antirazzista e declinata per classe. Ma la cultura del calderone, che ha dilagato in questi ultimi periodi, ha permesso a tante donne, fasciste e razziste, di ripulirsi la faccia e proporsi come paladine di una lotta contro una violenza che loro stesse, insieme ai loro partiti, hanno alimentato continuamente.

E parlando di calderoni come non ricordare il fatto che la Rauti è stata tra le promotrici del gruppo del One Billion Raising? Ve lo ricordate quell’evento mondiale che in tanti paesi ha generato discorsi seri e molto acuti sulla violenza di genere e in Italia e stato ridotto a qualunquismo e ad un balletto sincronizzato? Si sono fatte tante prove per andare tutte all’unisono, ma il tempo per farsi una domanda su chi promuoveva questo evento in Italia non lo avete trovato? Preciso che non sono contro la forma in sé, ballare piace anche a me che mi muovo malissimo, ma sono i contenuti che mancavano. Le parole qualunquiste , i discorsi nazionalpopolari che parlano di una lotta alla violenza senza mai nominare chi e cosa la genera (Stato, chiesa, cultura, media), non solo non servono a nulla ma sono nocivi perché da un parte consentono a persone come la Rauti di spacciarsi come paladina delle donne, mentre dall’altra affossano il lavoro che molt@ di noi fanno quotidianamente e che punta ad una lotta radicale (o tutt@ saremo liber@ o non lo sarà nessun@).

Alla Rauti quindi vanno queste mie domande:

  • Come intende affrontare la violenza che le leggi razziste operano nei confronti delle migranti? Conosce le condizioni in cui vivono le donne e le trans rinchiuse nei CIE? Sa che in quei lager si violano numerosi diritti umani? E’ consapevole che è una violenza l’esser rinchiuse per non aver commesso nessun reato ma perchè  si è sprovviste di un permesso di soggiorno che lo stato italiano rende in ogni modo impossibile da ottenere? Crede che le donne che scappano da guerre, condanne a morte, padri o famiglie violente, da matrimoni combinati, dalla miseria, debbano ricevere accoglienza e sostegno? Oppure appoggia le leggi che le costringono alla clandestinità e quindi ad ulteriore violenza?
  • Come intende tutelare tutte le donne vittima di lesbofobia? Ritiene giusto che una donna debba essere discriminata per il suo orientamento sessuale? Come si pone rispetto ai matrimoni lesbici? E sulla transfobia? Come crede di contrastare la discriminazione che le persone trans subiscono? Quali azioni crede che si debbano intraprendere per supportare il loro percorso di transizione? Sulla possibilità di adozione da parte di persone trans o lesbiche cosa crede si possa fare?
  • Crede che esista un solo tipo di famiglia? Pensa sia giusto tutelare giuridicamente solo la famiglia considerata “tradizionale”? Sulle coppie di fatto che opinione ha? E sulle coppie che convivono? Sul poliamore e tutte le altre forme di famiglia non convenzionale? Crede che debbano restare discriminate o intende fare qualcosa per cambiare lo status quo?
  • Come intende affrontare il problema della violenza domestica? Crede anche lei, come suo marito, che non sia un problema dei sindaci? Sa che uno dei problemi su cui si fonda tale violenza è la mancanza di autonomia economica da parte delle donne? La precarietà in cui i governi precedenti insieme a quest’ultimo ci hanno destinate impedisce a molte donne di denunciare e quindi abbandonare una situazione violenta, cosa pensa si debba fare? Come pensa di affrontare il problema di classe che dilania il paese e colpisce due volte le donne? Lo sa che la pillola del giorno dopo può venire a costare 45 euro (tra ricetta più pillola) cifra che per alcune di noi, me in primis, è proibitiva?
  • Lo sa che molte donne non vogliono esser madri? Sa che è una violenza imporglielo? Sa che l’unico modo per diminuire gli aborti è informare i/le ragazz@ sul sesso e sulle precauzioni che devono prendere per limitare i rischi di gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili? Sa che gli aborti clandestini esistono ancora? Sa che in alcune regioni l’obiezione di coscienza è così alta da impedire alla legge 194 di essere attuata? Pensa che la disinformazione clericale sulla pillola del giorno dopo, che non è abortiva ma viene spacciata come tale, e sui metodi da usare invece del preservativo (coito interrotto o calcoli di temperatura o giorni) non solo non proteggono dalle malattie ma mettono a rischi le ragazze a maternità indesiderate? Non crede che questa sia violenza perché con la disinformazione si cerca di controllare i corpi e la sessualità altrui esponendo giovani ragazze a rischi che potrebbero benissimo evitare? Non crede che lottare contro la possibilità di aborto sia una violenza contro l’autodeterminazione delle donne? Inoltre, per  chi invece vorrebbe avere dei figl@ ma non può, cosa ne pensa della legge 40? Non crede sia ora di porre fine a questa violenza che ha come obiettivo il controllo del corpo femminile?
  • Lo sa che uno dei problemi del nostro paese è la cultura moralista-cattolica? Cosa risponde a chi divide le donne in sante e puttane? Pensa che una donna debba avere il diritto ad una libera vita sessuale senza che essa sia a scopo riproduttivo? Non crede sia ipocrita una società che tappezza le città e le tv di corpi femminili erotizzati (a scopo eteronormativo) e poi censura tutto ciò che è considerato pornografico (cazzi e fighe messi in mostra)? Non pensa che i corpi delle donne e la loro sessualità siano usati come strumenti per eteronormatizzare la società? Non crede che bisognerebbe liberare i desideri censurati e i corpi dalla strumentalizzazione a cui sono sottoposti? La libertà sessuale per lei è stata raggiunta o c’è ancora tanta strada da fare? Crede che esista un effettivo immaginario fascista di bellezza? E se sì, come intende contrastarlo?
  • Come si pone contro la violenza che le forze dell’ordine e lo stato operano rispetto alle donne? Considera lecite le cariche della polizia rispetto a quei soggetti, quindi anche donne, che decidono di autodeterminarsi? Pensa sia giusto ricevere manganellate in ogni dove, essere insultate con epiteti come “puttana” o “troia” dai tutori dell’ordine, diventare il bersaglio di lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo perché si vuole difendere un diritto, quale esso sia (per una casa, per la salvaguardia di un territorio, per l’aborto libero e gratuito)? Pensa che alle donne servano tutori che le proteggano e che le menino appena disobbediscono al padre-padrone-stato?
  • Reputa fondamentale l’ingresso delle donne in luoghi di potere? Non crede che la cultura del potere sia nociva? Che differenza ci sarebbe tra una donna al potere rispetto ad un uomo? Pensa che il problema delle donne sia la mancanza di potere o l’esistenza del potere? Non sarebbe meglio lavorare sull’autorganizzazione e non alimentare una cultura basata sulla competizione? Pensa che sia un bene per le donne avere l’opportunità di entrare nell’esercito,  nelle forze dell’ordine e perpetuare le violenze che conosciamo tutt@? Pensa che permettere alle donne di divenire corresponsabili delle brutalità che qualunque istituzione autoritaria compie sia da considerarsi un passo in avanti verso l’autodeterminazione della donna?
  • Reputa giusto che le donne facciano del loro corpo ciò che credono? Crede che il lavoro di sex worker vada riconosciuto come tale? Cosa ne pensa delle leggi proibizioniste? E delle norme che in nome di una “maggiore sicurezza” e “decoro” espongono le sex worker a maggiori violenze? Cosa farà per contrastare la tratta? Lo sa che c’è differenza tra tratta e prostituzione autodeterminata?
  • Crede che la conciliazione sia un obbligo della donna? Non pensa che la donna dovrebbe condividere con il proprio compagno, ed entrambi essere supportati a livello della società, rispetto al ruolo di cura che oggi invece le viene completamente scaricato addosso? Non crede sia una vera e propria violenza far basare l’intero sistema di ammortizzatori sociali sul lavoro gratuito delle donne?
  • Reputa fondamentale la presenza nelle scuole della religione cattolica? Crede nel concetto di laicità dello stato? Sa che la Chiesa, da secoli, propone una visione della donna sottomessa all’uomo?  Sa che la religione cattolica è profondamente sessista?
  • In poche parole, crede che la lotta alla violenza di genere vada attuata a suon di leggi e maggiore militarizzazione, oppure con un’operazione di rivoluzione culturale?

La lista può continuare all’infinito, e se volete potete farlo nei commenti e appena posso li aggiungo alla lista. Intanto, penso sia chiaro che considero questa nomina l’ennesima beffa ad una lotta che per me e tante altre persone è fondamentale. Spero che queste scelte vi palesino la necessità di smetterla di chiedere, a chi ci violenta in ogni modo, di trovare modi per contrastare la violenza di genere e iniziare a delegittimare ogni forma di istituzione. Questo governo, fondato su un partito unico, è fascismo e non può, ne mai potrà, debellare la violenza di genere. La dittatura che stiamo vivendo e che si paleserà nella sua brutalità quest’autunno, dato che i segnali sono chiari, non dovrebbe ricevere da nessun@ di noi credibilità né riconoscimenti: chiedereste mai al vostro stupratore di fare qualcosa per smetterla di stuprarvi oppure resistereste con tutte le forze e con ogni mezzo? La risposta la sappiamo tutt@ e, anche se i calderoni di ogni sorta fanno da tappo ad una rabbia che agita diverse generazioni, forse la Turchia non è tanto lontana come sembra. La violenza di genere non può essere affrontata se non in maniera intersezionale, legandola ad altre lotte senza le quali ogni azione sarebbe vana. Non c’è lotta contro la violenza di genere senza antifascismo, antirazzismo e antispecismo e viceversa. Non smetteremo mai di dirlo: la Rivoluzione o è di e per tutt@ o non è rivoluzione!

Videla, quanta ipocrisia

Riportiamo con piacere questa lettera, pubblicata da Infoaut, di Hebe de Bonafini, presidentessa dell’associazione Madres de Plaza de Mayo, sulla morte del dittatore Videla. Hebe denuncia l’ipocrisia di chi oggi chiama dittatore colui le cui violenze ha sempre taciuto. Della censura dei media anche noi ne sappiamo qualcosa, anche noi conosciamo i legami tra “informazione” e potere, quindi non possiamo che condividere quanto viene dichiarato. Buona lettura!

Videla, quanta ipocrisia

desap1982È morto Videla. La notizia mi ha paralizzata. Ho pensato subito ai miei figli. Come facevo a pensare ad altro? La testa mi girava, volevo pensare a qualcosa ma niente. Pensavo a loro e alle torture che hanno subito. Vedevo i loro visi che gridavano, mentre mi chiedevano e chiamavano tutti, come hanno fatto tutti nei momenti terribili, quando erano soli, nei momenti di peggior tortura.

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Poveri per legge

King

Un breve racconto del nostro amico Sdrammaturgo, basato su fatti a lui accaduti recentemente. Buona lettura!

Per capire che lo Stato è un’istituzione fondata sull’abuso inventata dalla classe dominante per schiacciare la popolazione e che la legge è la voce del padrone atta a incatenare lo schiavo, non servono le stragi, le guerre, l’ingiustizia sociale, il capitalismo, le multinazionali, le galere, la scuola, la Diaz e Bolzaneto: basta salire sul treno.
Nella mia vita mi sarei aspettato di incappare anche in una pioggia di rane, in uno sbarco alieno, perfino nell’agognata fine delle battute sulla droga. Non si sa mai cosa può succedere, le meraviglie del possibile offrono infinite eventualità. Ma a questo, francamente, non ero preparato. La mia fantasia, pur avvezza alla science fiction distopica, si è rivelata non all’altezza della realtà più fantasmagorica concepibile nell’universo conosciuto: le regole del regime democratico.
George Orwell aspetta Machiavelli, si incontra con de Sade, passano a prendere il conte Vlad, tutti e quattro vanno a cena da Predator e insieme creano Trenitalia.
Questo è ciò che mi è successo stamattina sulla tratta Roma Tiburtina-Orte, treno delle 9.07.
Nel vagone passa una ragazza a chiedere l’elemosina. Le do trenta centesimi. Si alza un ferroviere davanti a me.

– Lo sa che lei è passibile di multa?
– Eh?!
– È vietato dare soldi a chi fa la questua. Il personale ferroviario potrebbe farle la multa.
– Ma se io le voglio dare trenta centesimi perché mi sta simpatica?
– Io gliel’ho detto, poi lei faccia come vuole.
– Infatti, con i miei soldi faccio quello che mi pare.

È ILLEGALE DARE SOLDI AI POVERI.
I trenta centesimi che scossero l’establishment.
Praticamente è obbligatorio l’abuso sul più debole.
Ho delle interessanti proposte di legge da fare al nuovo Governo:

1) divieto di nutrirsi se si ha un reddito inferiore alle aspettative del più vicino concessionario di BMW;
2) vietato soccorrere un individuo colto da malore qualora sprovvisto di carta di credito;
3) severamente proibito salutare passanti che non presentino indosso indumenti firmati.

Confesso che mi ha sorpreso. Non lo sapevo. E nemmeno lo immaginavo. Ma la legge non ammette ignoranza.
Una volta ho prestato cinque euro a un mio amico. Rischio l’ergastolo.
 

Il sessismo non si combatte con la censura

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Come penso sappiate tutt@, Laura Boldrini, la presidentessa della Camera, ha dichiarato di essere vittima di cyberstalking. Le minacce, come la stessa Boldrini specifica, sono sempre o a sfondo sessuale o di morte, che in tal caso diventa femminicidio. Perché sì, la Boldrini è stata presa di mira non solo come esponente di sinistra ma come donna. Quindi, ancor prima di esser vittima di cyberstalking, credo sia giusto affermare che è vittima di sessismo.

Premetto che alla Boldrini va tutta la mia solidarietà, perché nessun@ donna dovrebbe mai essere minacciata e perseguitata. Detto ciò, però, mi trovo in completo disaccordo con la sua ipotesi di “controllare la rete”. Credo fermamente nell’idea che la censura non serva a nulla e che anzi, a volte, sia pure controproducente. Ma, attenzione, non dico neanche che non si debba fare nulla per contrastare questo stato di cose.

Analizziamo la situazione: le donne sono spesso oggetto di cyberstalking, ovvero offese e minacce di vario genere compiute per mezzo del web. E’ ovvio che tali minacce, proprio come quelle che avvengono nella vita reale, provochino stati di ansia e di paura nella vittima, che ha il diritto di reagire come crede, anche chiedendo l’intervento della polizia postale. Ma questo è ciò che la persona, nella una specifica e singola situazione, può fare. Ad un livello generale, pensare di combattere il sessismo con il controllo e la censura della rete è pura follia.

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Riflessioni sul matrimonio gay

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Lo sappiamo ormai tutt@: l’assemblea nazionale francese ha dato il via libera alla legge sui matrimoni e sull’adozione di bambin@ da parte di coppie dello stesso sesso. Tutt@ a festeggiare, tutt@ a dichiarare la Francia come il paese da imitare quando, a mio avviso, ci sono delle cose sulle quali sarebbe bene riflettere.

E’ evidente che questa legge sia accolta come di importanza capitale da chi crede nel matrimonio come valore e vuole vederselo riconosciuto dallo Stato, o anche semplicemente da chi vuole accedere ai diritti che sono, in questo momento, esclusivi delle unioni fra etero sposati (perché altrimenti non si ha comunque alcun diritto), non mettendo in discussione l’esistenza stessa di tale dispositivo. Il matrimonio, se ci pensiamo bene, è in fin dei conti un contratto che in quanto tale offre molte agevolazioni, vantaggi che diventano ancora più preziosi in un momento di crisi come il nostro. L’aspetto romantico non è da prendersi in considerazione, dato che l’amore, in qualunque forma lo concepiate, non ha nulla a che vedere con diritti, firme, riti e simili … glieli abbiamo attribuiti noi, e sempre a noi tocca liberarlo.

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Alla maniera sarda

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Opera della street artist sarda Moju Manuli

All’interno del nuovo numero di A. Rivista anarchica compare una interessante intervista realizzata da Laura Gargiulo a Su Colletivu S’Ata Areste (“La gatta selvatica”), collettivo femminista e lesbico posizionato nel centro della Sardegna: A Sa SardA: “Alla maniera sarda”. Vita in comune, ecosostenibilità e legame con il territorio: la storia di un piccolo collettivo dell’entroterra sardo.

Qui potete leggere un estratto. Vi consiglio di sfogliare la rivista che trovate online per leggere l’intervista completa: Laura, attraverso le sue domande, ricostruisce  il percorso di questo collettivo che, a partire dall’esperienza migrante, ha sviluppato un progetto di lotta politica femminista con una ottica che unisce antisessismo e anticolonialismo.

Segnaliamo inoltre la nascita del progetto Arkivi@:

Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi, saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti, adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo, anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello internazionale…
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci qua: mojumanuli@autoproduzioni.net

Buona lettura!

Avete scritto un documento dal titolo “Dalla Sardegna un’alternativa lesbica e femminista” in cui parlate del vostro progetto: potete spiegarci come nasce e con quali obiettivi?
«Il progetto è partito dall’esigenza, come emigrate, di rientrare in Sardegna, si è legato a tanti discorsi a noi cari e mano a mano ha preso forma, evolvendosi. Abbiamo messo insieme l’idea di vivere in una piccola comunità tra lesbiche e persone che avessero voglia di lavorare a un sistema sostenibile, di solidarietà, scambio e rispetto. Siamo partite da presupposti anticolonialisti, antisessisti, antifascisti, antirazzisti, da un’idea di socialità differente, da un’idea di società diversa da quella eterosessista e patriarcale in cui viviamo, abbiamo pensato a forme di gestione orizzontale.
Inizialmente eravamo un gruppetto più numeroso, poi per una serie di cause siamo partite in tre, circa due anni fa. Abbiamo scritto la lettera/documento perché ci siamo rese conto che parlarne non bastava o non soddisfava né noi né le persone con cui avevamo un confronto.
Come abbiamo scritto, il progetto è rivolto a lesbiche, compagne/i, altre persone sarde emigrate, artiste/i, ecosardi… Abbiamo sempre cercato di parlare della cosa persona per persona, scambiando a piccoli passi».
Nel documento parlate di una prospettiva anticolonialista: ci potete spiegare cosa intendete e perché è per voi punto di partenza?
«Quando parliamo di prospettiva anticolonialista ricollochiamo il discorso sardo in un contesto più ampio, internazionale, ma ne analizziamo e riconosciamo la specificità.
Contestualizzando quindi il nostro progetto nella realtà isolana non possiamo prescindere da quelli che sono i problemi della Sardegna, non avrebbe senso teorizzare in maniera astratta senza riconoscere le caratteristiche, anche negative, della realtà in cui viviamo. Parliamo di colonizzazione (l’ultima da parte dello stato italiano) e di resistenza, della deculturazione forzata che abbiamo subito, della conseguente folklorizzazione della cultura, della perdita dell’autostima come popolo e come individue/i, del tentativo di estirpazione e cancellazione della nostra lingua, delle nostre identità, della mancanza di riconoscimento di percorsi politici anche da parte di compagne/i “continentali” e di altri parti del mondo, dell’alcolismo, dei suicidi, della costruzione di fabbriche come cattedrali nel deserto e dell’avvelenamento della terra, della militarizzazione a tappeto del territorio (sulla nostra isola è presente più del 60 per cento del territorio militarizzato appartenente allo stato italiano, siamo soffocati da caserme, carceri, radar, è un avamposto nel Mediterraneo, un territorio in prestito per il collaudo e la sperimentazione di nuove armi e proiettili a livello internazionale e per le esercitazioni di guerra)…e potremmo continuare…
Nel momento in cui cerchiamo di costruire qualcosa di concreto, di positivo, di “altro” non possiamo non tenere in conto tutto questo, dobbiamo riconoscere il problema se vogliamo cercare di risolverlo, ed è importante trovarsi con chi si muove in questo senso sul territorio per modificare lo stato di cose esistente».
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