Deconstructing la zappa sui piedi

zappa2Del linguaggio di Mario De Maglie mi sono già occupato in passato, qui e qui. Adesso che torno a parlare di lui, mi pare il caso di premettere delle cose che ritengo importanti.
De Maglie coordina il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (C.A.M.) di Firenze, e solo per questo si meriterebbe un monumento, dato che lo fa in Italia. Però nel suo blog su “Il Fatto Quotidiano” online usa spesso un linguaggio, e degli argomenti, molto discutibili, e ancor più incredibili dato il lavoro che fa. Leggere per credere.

Autoconsapevolezza maschile, tra necessità ed opportunità

Partita ed in fase costituente l’esperienza di Diversa-Mente Molteplice, Riflessioni a Passo d’Uomo, nonostante le difficoltà di coinvolgere attivamente gli uomini, sono sempre più convinto dell’utilità dei gruppi di autoconsapevolezza maschile come luoghi nei quali si possa realizzare uno spazio di confronto e ascolto reciproco in merito ai piaceri e alle criticità dell’essere uomo e del proprio rapporto con il femminile [approvo e sottoscrivo. Il post potrebbe finire qui]. Nessuno ci ha istruito in proposito, a rapportarci con il proprio e l’altrui genere (non solo maschile e femminile), sembrerebbe cosa così naturale e spontanea da essere portati a pensare che non ci sia niente da imparare, ma, se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali e sulle conseguenze di questi ultimi, sembra chiaro che qualcosa decisamente non vada [soprattutto non va parlarne così. Se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali, ci accorgiamo che questa modalità di rapportarci con il proprio e l’altrui genere non è per niente così naturale e spontanea. E’ un dato di fatto che non solo non è vero che nessuno ci ha istruito, ma che si posso facilmente fare nomi e citare sistemi culturali e sociali che hanno ben istruito al maschilismo generazioni di uomini. Ci sono fior di studi in proposito, perché non dirlo chiaramente?].

La mia impressione è che, dopo un periodo di conquiste e di rivendicazioni da parte delle donne, che forse ha avuto il suo apice con i movimenti femministi negli anni 70 [forse?], almeno in termini di consapevolezza, siamo in una fase di stallo in cui si oscilla tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati [EH? A parte che rimane da capire cosa c’azzecca la digressione sulla storia del femminismo, come sarebbe che dagli anni ’70 siamo in una fase di stallo? Scusate l’elenco di nomi, ma tanto per dire di cose fatte e dette dopo i ’70: Adrienne Rich, Monique Wittig, Angela Davis, Andrea Dworkin, Carol Gilligan, Riane Eisler, Donna Haraway, Teresa De Lauretis, Luisa Muraro… i primi che vengono in mente a me. E attualmente il femminismo è ancora, come sempre, un ribollire di forze e di esperienze politiche diverse. E queste sarebbero donne che oscillano tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati?]. Questo penso possa essere dovuto anche (se non soprattutto) al fatto che la capacità di autoanalisi e di autodeterminazione del femminile arrivano ad un punto morto, se poi il maschile non comincia a fare altrettanto, smettendo di fare “concessioni”, ma riequilibrando il potere in modo consapevole ed autodeterminato [cioè, per far andare avanti il pensiero femminista servono gli uomini? De Maglie, “you can’t be serious” (cit). Una cosa è dire che gli uomini devono partecipare attivamente allo smantellamento del potere patrarcale per demolirlo davvero – e ci mancherebbe che non fossi d’accordo pure io; un’altra è sostenere che nel frattempo il femminismo s’è fermato perché senza l’òmo non si va da nessuna parte: scherziamo?].

Il maschile si trova spesso arrocato in una posizione difensiva che gli è poco utile, ma questo perché ha paura e se ha paura è perché si sente in pericolo, il pericolo di perdere il proprio stabilito ruolo (quanta inconsapevole fatica starci dentro!) [si può essere d’accordo su questo – a parte lo spesso: a me pare perlopiù che al maschile, nella maggior parte dei casi, non gliene frega niente della crisi del suo ruolo, perché è ancora avvertita in troppo pochi casi limite].

Faccio un esperimento ed invito i lettori a leggere i commenti che seguiranno a questo post da parte di molti uomini. Se questi saranno i soliti, in cui a contenuti dai toni equilibrati, anche se non necessariamente condivisibili, perché la libertà di opinione non è un optional, seguiranno una serie di commenti ai confini con l’insulto, la minimizzazione, la denigrazione verso l’autore o l’autrice, avrò evidenziato le problematiche di cui parlo. Cose viste e riviste per i blogger de Il Fatto Quotidiano che parlano di violenza e questioni di genere e che diventano facile  tiro al bersaglio dei soliti ignoti. [Sul commentatore medio dei blog de IFQ mi espressi anche io, e siamo d’accordo: ma questo che tipo di esperimento è?  A cosa serve farlo? Per dimostrare una posizione difensiva di un intero gruppo sociale bastano i commenti a un blog? De Maglie, sei sicuro di agire sensatamente verso la tua stessa credibilità? Io mi sono limitato a contarle, le risposte a un post, e a dividerle per risposta: mi pare il massimo che si possa fare. Con quali strumenti se ne può invece ricavare con certezza un atteggiamento sociale di massa? Se ci sono, non sarebbe il caso di parlarne prima?]

Ovviamente il lettore può non essere d’accordo con il contenuto di un post e decidere di commentarlo, ma, a seconda di come esprime il suo disaccordo, si evidenzia se e cosa smuove in lui, non di rado una rabbia mista ad indignazione difficile da comprendere per chi mostra di possedere  una certa sensibilità verso le nostre tematiche. Questo per fare un esempio legato alla vicina realtà per la quale scriviamo, il tutto è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi [De Maglie, stai proponendo analisi psicologiche dai commenti a un post. Anche questo tuo modo di fare e di parlare a vanvera è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi, temo, che è sintentizzabile in: fuffa. Ma tu coordini un CAM!!!].

Ben lieto di ricredermi, se i commenti saranno di diverso stampo.

Potersi permettere tra uomini di non dover parlare necessariamente di “figa”, “sesso”, “calcio”, “lavoro”, ma anche di donne, amore, passioni e tempo libero è un lusso che i gruppi di autoconsapevolezza maschile avvierebbero a trasformare in quotidianità. [Sì, ma detto in questo modo non si capisce il problema, che non è solo di ordine psicologico. Per la stragrande maggioranza degli uomini etero in Italia le donne sono “figa”, l’amore è “sesso”, la passione è “il calcio” e il tempo libero è un “lavoro”. E ci si trovano benissimo a parlarne tra loro, senza alcun  necessariamente ma molto naturalmente. E’ in gioco un ordine culturale che proprio il femminismo, sia prima che dopo i ’70, contrasta con tutte le sue forze. Fase di stallo? Ma per favore.]

La strada è ancora lunga, me ne accorgo perché sto imparando quanto sia arduo coinvolgere gli uomini, ma si comincia. I cambiamenti epocali hanno bisogno di epoche intere per stabilizzarsi, il prezzo della conquista. [E’ lunga sì, se il coordinatore di uno dei pochi centri per uomini maltrattanti presenti nel paese si esprime in questo modo. Sigh. Questo modo di fare e di esprimersi, a mio modestissimo parere, può solo sintetizzarsi con un “darsi la zappa sui piedi”.]

Per quanto il lavoro con gli uomini maltrattanti sia importantissimo – soprattutto in assenza sia di un livello politico accettabile di consapevolezza del problema della violenza di genere sia, conseguentemente, di strutture pubbliche adeguate – e tenendo conto che non mi sogno nemmeno di contestarne l’utilità, rimane il fatto che le dinamiche legate alla supposta paura di perdere il proprio ruolo egemone non dicono tutto del sessismo vigente, e non credo siano le migliori leve per chiedere agli uomini di parlare tra loro.

Per esempio, quando leggo un pezzo come quello che segue, scritto dal redattore di un quotidiano online come risposta alla giusta indignazione di una donna per l’ennesima pubblicità sessista, mi pare ovvio che il paradigma della perdita di potere è ancora ben lontano dallo spiegare la tranquilla strafottenza con la quale un uomo si permette atteggiamenti sessisti che, scritti nero su bianco, sono da ritenere socialmente molto più violenti di qualunque cosa possa commettere un uomo maltrattante nel suo ambito privato. Questa è violenza che passa tra chiunque legge l’articolo. Le botte si fermano a una o poche più vittime. Se si vuole fare qualcosa per una massa di uomini, la chiave è la cultura comune e non la psicologia del singolo.

“Ho visto il corpo femminile divenire un santuario”

[già il titolo mette paura]
Cara Enrica, nel tuo sfogo tu proponi una serie di giuste osservazioni, eccellentemente argomentate, ma è stato il finale a farmi pensare un bel po’. Concludi dicendo Io non ci sto a far passare il mio corpo come oggetto sessuale. Non ci sto.  Giustissimo, ma rifletti su una cosa: se la foto che ti ha fatto indignare esiste, è perché qualcuno l’ha fatta, ma anche perché una donna procace se l’è fatta scattare. [La colpa del sessismo è delle donne che lo permettono. Complimenti, Luca.] E perché se l’è fatta scattare? Per soldi, perché fa la modella, perché compra il pane e il latte facendosi scattare (anche) foto di quel tipo. È una scelta, deprecabile o meno, ma una scelta. Personale e sicuramente motivata. [Notoriamente, alle donne sono permesse, consentite e agevolate tutte le forme di lavoro; fare la modella è da sempre una libera scelta di una donna procace, no?] Il corpo è il primo strumento di cui ci avvaliamo per fare qualsiasi cosa [con questa bella frase il caro Luca mette insieme il gesto strumentale e lo sfruttamento lavorativo, ma sì, sono la stessa cosa, è tutto fatto col corpo] ed alcuni di noi, una minoranza, hanno un corpo così gradevole che suscita suggestioni tali negli occhi e nelle menti altrui da poterci guadagnare qualcosa. A volte molto [e certo, è il corpo che suscita suggestioni, mica esiste una cultura che ti insegna quelle associazioni e che ti inculca a cercarle, quelle suggestioni. E’ tutta natura].

Sono d’accordo sul fatto che ormai alcune pubblicità si riducono ad un bombardamento osceno teso a far cadere il gonzo di turno nella rete della bellona procace [notate: la responsbilità della trappola è della bellona procace, è lei che guadagna, mica l’agenzia, il produttore, il cliente dell’agenzia pubblicitaria, no no, loro non c’entrano niente] che vede per quei cortissimi e lunghissimi trenta secondi di durata media di uno spot, ma non sono d’accordo sull’appiattire tutto sul subconscio che assorbe le informazioni senza filtro [il subconscio? Quella c’ha le tette di fuori, ma quale subconscio!]. Esso è solo una parte della questione. Siamo noi stessi che, consciamente e non inconsciamente, moltissime volte ci lasciamo andare all’assimilazione passiva, perché siamo pigri e svogliati [si vabbè, ma noi stessi chi? Pure la bellona procace?]. L’inconscio lavora, ma lo spirito critico e l’umanità di ognuno possono lavorare altrettanto bene per farci essere persone capaci di valutare quello che vediamo e di rispettare chi abbiamo di fronte [certo, soprattutto dopo decenni di machismo pompato da tutti i media, da tutti i coetanei, da tutti gli ambienti quotidiani. Non sai che spirito critico che viene su, in una società sessista come questa].
Sono passati poco più di due mesi da quando ho visto uscire mia figlia dal corpo della mia compagna e ti posso dire che ho visto con questi occhi il corpo femminile divenire un santuario [ecco, appunto: il corpo femminile o è un santuario o è la bellona procace, o sante o puttane, siamo sempre lì, all’ABC del maschilismo] capace nello stesso tempo di manifestare una forza sovraumana e di creare una meraviglia.
Se non tutti gli uomini capiscono il rispetto che alla donna si deve, ti prego allora di essere clemente, nell’evoluzione delle capacità intellettive vi stiamo inseguendo, ma per prendervi ci vuole ancora un bel po’ [capito, Enrica? Praticamente Luca t’ha detto di aspettare, ancora non hai sofferto abbastanza, l’uomo ancora non c’è arrivato. T’ha fatto un buono: e che vuol dire?]

Allora: cosa distingue chi dice che il femminismo è fermo dagli anni ’70 da chi dice che il corpo femminile è un santuario? Cosa distingue chi dice che nessuno ha istruito gli uomini ai rapporti tra generi da chi dice che fare la modella è una scelta e che quindi la responsabilità di pubblicità sessiste è delle donne raffigurate?
Che cosa continua a far sì che chi ha i titoli e l’esperienza necessarie per fare antisessismo e parlarne come si deve, invece continui a darsi la zappa sui piedi?

Di alcune forme di stronzaggine

1964957_10202740464326669_1264403541_n Tra le cose che produciamo come collettivo politico ci sono le “traduzioni militanti”. Fuori dell’Italia si producono cose ottime, e in grande quantità, riguardo questioni di genere e temi che in questo paese sono ancora tabù. Ci è sempre sembrato un lavoro di per sé quasi rivoluzionario prendere qualche testo e farlo conoscere nella nostra lingua, rendendone possibile l’accesso a un pubblico che altrimenti non ha e non avrà la minima speranza di leggerlo mai.

Si tratta quindi di un’operazione strettamente politica, per molti versi considerabile come sovversiva. Cerchiamo di suscitare interesse, coltivare dibattiti, aumentare la diffusione di linguaggi che trovano grandi difficoltà di circolazione a causa dei limiti culturali della nostra opinione pubblica.

Le nostre traduzioni sono “militanti”, realizzate cioé nell’urgenza della trasmissione politica, i contenuti del testo, di norma, prevalgono sugli aspetti di stile. Ciò non significa che evitiamo di porci questioni di questo genere, solo che le risolviamo più velocemente di quanto faremmo se la nostra traduzione avesse un tempo di elaborazione simile a quello che si dedica a un testo pagato.
Siamo comunque molto orgoglios@ di ciò che facciamo che resta, nel confine del suo scopo, accurato. D’altra parte ci capita di ricevere anche qualche complimento, ma soprattutto i ringraziamenti di chi a quel testo, in lingua originale, non avrebbe mai avuto accesso.

Sarebbe scontato poi puntualizzare che le nostre traduzioni non sono un testo sacro, come non lo è nessuna traduzione, e chi le legge può farci quello che vuole, tra cui anche dire e dimostrare che sono imprecise, o sicuramente perfettibili. Ma se evidentemente siamo stati lo spunto per farvi fare qualcosa – pensare, scrivere, ritradurre, interessare – quello era il nostro scopo, ed è appunto uno degli scopi politici della traduzione militante. Noi mettiamo sempre il link alla fonte originale, così che le nostre scelte di traduzione siano sempre confrontabili e affinché ciascuno/a, se vuole, possa tradurre per conto suo.

Siamo ben felici se qualcuno/a prende spunto dalla nostra traduzione per farne una sua; è prassi corretta e civile, se questa traduzione diversa è riportata in qualche sito, linkare anche noi, in modo che lo scopo principale della traduzione militante – allargare la base della discussione politica su un certo testo – sia raggiunto.

Ritradurre significa entrare in relazione con le traduzioni già esistenti e, sopratutto, non significa copiare una traduzione già fatta – che rappresenta la risposta di quel traduttore ai problemi linguistici e di mediazione culturale del testo – cambiando qualche parola per non farsi sgamare.

Se quindi, dopo averlo letto qui, tu prendi il nostro link, le nostre parole, fai una tua traduzione e non dici una parola su chi ti ha dato l’idea o dove l’hai presa, sei semplicemente ed evidentemente un/a stronzo/a.

Ovviamente non c’entrano nulla questioni di “diritti d’autore”, plagio, o cose del genere. Comportarsi in quel modo significa stroncare la possibilità di un dibattito politico, perché noi non sapremo mai cos’hai fatto né avremo la possibilità di confrontarci sul testo. Quindi lo scopo politico di tutta l’operazione sparisce nel tuo (finto) originale tentativo, per il quale raccogli complimenti magari meritati – per la traduzione tua –  ma rubati – per l’idea del testo, che hai preso da noi. Proprio un modo di fare da stronzo/a, che è un attributo personale e non politico.

Se togli lo scopo politico a tutta l’operazione, rimane solo una vanagloria raccolta per mero narcisismo personale. Dovrebbe essere eticamente conseguente accennare a chi ti ha fatto venire in mente l’argomento, il testo da tradurre, le critiche a noi che pubblichi da te; invece la tua etica non ti ha suggerito nulla del genere. E non l’ha fatto perché è l’etica di uno/a stronzo/a.

Lorenzo Gasparrini per il collettivo Intersezioni.

Verso la fine delle politiche della rispettabilità

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Una donna sessualmente attiva che parla in maniera aperta e non morbosa di questo aspetto della sua vita viene prontamente etichettata come non-donna dalle altre (“quella non è una donna, è una femmina” è una frase che credo di aver sentito un miliardo di volte), una che rovina la categoria, perché non aderisce al ruolo di genere che le hanno confezionato su misura. Spesso persone LGBT si affrettano a denigrare il pride e la visibilità – le stesse cose che gli consentono, rispetto a qualche secolo fa, un’esistenza meno nascosta. Una persona trans è spinta ad adeguarsi a modelli di mascolinità e femminilità più irraggiungibili di quelli riservati a una persona cis, perché deve “provare” il suo genere (ma per molt* cis, il pensiero di fondo è che questo non sia valido a prescindere, con o senza prove, ammesso che esistano – beato cissessismo). Qual è stata la prima donna nera a non cedere il suo posto, protestando contro la segregazione razziale sugli autobus? Rosa Parks. Sbagliato. Si chiama Claudette Colvin. Se ne restò fermamente seduta ben nove mesi prima, ma era quindicenne, troppo scura di pelle, la sua famiglia viveva nella parte più povera di Montgomery e rimase incinta poco dopo, senza sposarsi. Una figura poco sponsorizzabile per il Civil Rights’ Movement (o qualsiasi altro movimento sociale).

Quello che hanno in comune tutti questi esempi sono le politiche della rispettabilità. Le politiche della rispettabilità  sono quelle politiche che lavorano per modificare l’immagine di un gruppo sociale oppresso facendogli assumere i connotati che sono considerati accettabili dal gruppo sociale oppressore (dalla cultura dominante).  L’approccio emerge quasi naturalmente: quando ti etichettano come altro, la tua prima idea è di rispondere che sei uguale. E allora chi hai di fronte ti risponde: ok, dimostramelo. È un tentativo di asserire la propria dignità d’esistenza, ma non per questo meno fallace. Perché?

Una comunità che finisse per rispondere in quella maniera, non necessariamente farebbe la cosa giusta, poiché nel farlo potrebbe appoggiare valori orribili – anche, e soprattutto, quelli alla base della propria oppressione (che non è per forza una soltanto).  Cosa che non andrebbe confusa con una qualunque attività di rinforzo della normatività esistente da parte di un gruppo dominante – perdio, un oppressore si chiama così perché opprime – e non si può fare un calderone gigante in cui infilare le responsabilità e renderle tutte uguali. Non lo sono: per chi è oppress*  si tratta di una forma (anche inefficace, anche controproducente) di difesa, mentre il dominio attacca e basta.

Se le politiche della rispettabilità nascono come regole/linee guida sociali, culturali, lavorative, sessuali, artistiche, ecc. da seguire per divenire umani, allora è automatica l’implicazione che chi fa questa richiesta non appartenga all’umanità, e che debba in qualche maniera meritarsela, come se non fosse già sua e gli fosse invece negata da altri. È proprio questa l’idea che va combattuta: che si debba audizionare per farsi riconoscere la capacità ad essere sé stessi, ad agire in una maniera ritenuta non-standard. Nessuno dovrebbe essere accettato o approvato, men che meno come modello da seguire per tutt* coloro con cui quel soggetto condivide delle caratteristiche. Ad un essere umano bianco, maschio, abile, eterosessuale e cisgender si riconosce il diritto all’unicità, ad essere individuo. Il resto del mondo è obbligato ad essere in qualche modo rappresentativo della sua categoria. Un comportamento atipico può diventare un’emarginazione ulteriore, stavolta dai propri simili, se ritenuto vergognoso per la comunità tutta.

Tali politiche – diffuse, ma non per questo meno elitarie – alienano il target di soggetti che vorrebbero liberare dal resto della società, rendendolo cattivo e irresponsabile in una maniera che con altri gruppi non ha luogo; in più, si prefigurano irrealisticamente di raggiungere uno status che non verrà mai autenticamente raggiunto, fintanto che sarà concesso, in quanto i  termini di una concessione li decide chi concede. In questa maniera, nessun obiettivo potrà mai essere portato a termine, perché il gruppo dominante continuerebbe perennemente ad alzare l’asticella rendendo impossibile arrivare a superarla.  Come oppress* e militanti per una società di eguali è necessario mettere da parte strategie come questa, perché non saranno mai rivoluzionarie: il loro scopo è privare i soggetti della loro capacità destabilizzante, di poter minacciare l’esistente, e sono esse stesse oppressive, perché li privano di autonomia e autodeterminazione nel nome della pubblica immagine.

 

 

Basta il pensiero (deconstructing il Metodo Scanzi)

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Sono stato a lungo indeciso sul titolo da adottare per questo post. Di Andrea Scanzi in sé non me ne può fregare di meno, ovviamente, ma ha costruito un personaggio nella comunicazione talmente identificabile e noto che ormai solo a pronunciarne il nome potete vedere nei vostri interlocutori le smorfie di disgusto o l’aprirsi di un sorriso – ormai è nel mito, e pazienza se di questi tempi non abbiamo l’Olimpo ma il web e la TV. Rimane il fatto però che la sua retorica individua un metodo molto scorretto di argomentare e di proporre contenuti; un metodo vecchio come il cucco ma che ancora, stante l’ignoranza endemica accelerata dal ventennio berlusconiano, risulta vincente per fare proseliti, per attirare clic, per “convincere gli scettici”, per portare acqua al proprio mulino. Ve ne porterò due recenti esempi, più un altro in link. Mi scuso fin d’ora per la lunghezza – ma l’argomento la merita, credo.

Parlare del metodo retorico usato da Scanzi spero servirà a rendere intelligibile quest’uso della comunicazione anche in futuro e anche altrove: soprattutto spero che contribuisca a rendere meno automatica la lettura dei testi di figure di riferimento (una volta si diceva opinion leaders), in modo che prima possibile l’italiano medio perda il brutto vizio di essere d’accordo con X prima di leggere-controllare-criticare consapevolmente cosa ha detto X, e di insultare Y prima di leggere-controllare-criticare consapevolmente cosa ha detto Y. Dite che sono un illuso? Scrivo di questioni di genere in un collettivo transgenere in Italia, certo che sono un illuso.

Spero anche presto si diffonda una sana diffidenza per tutti quegli improvvisi salti di qualità fatti da sedicenti esperti di sessismo – quelli che “io lo so cos’è, ma per favore non perdiamo tempo” –  che usano così tanto la tecnica dell’empowerment su se stessi da ergersi in breve tempo a censori, distributori di giudizi, consiglieri, testimoni e custodi dell’unica e sola verità. Se a un certo punto qualcuno comincia a sentirsi particolarmente bravo e sapiente soprattutto sui giornali e in TV, è perché fa bene il suo lavoro sui giornali e sulla TV: cioè sa raccogliere pubblicità. L’esperienza si fa, prima di tutto, di persona e con le persone. Web, clic e like sono solo strumenti che hanno un prezzo.

Un ultimo chiarimento: non m’interessa né difendere Boldrini, né esaltarla, lo sa fare benissimo da sola. Stesso discorso per M5S, che non m’interessa attaccare o ridicolizzare – sono problemi loro.
A me interessa difendere la mia intelligenza, la mia libertà, la mia cultura, la mia capacità critica; non perché queste cose mi servano a fare politica, ma perché queste cose
sono la politica.

(1) Imu-Bankitalia: la vergogna della tagliola-Boldrini e una democrazia in agonia [ricordatevi il titolo del post, ci ritorneremo] 30 gennaio 2014

E’ davvero un bel momento per la democrazia italiana. Un’agonia conquistata a fatica. Svetta, per distacco, la Preside Boldrini [la Preside? Metodo Scanzi #1: usare un immaginario facile e ovvio per indirizzare una facile rabbia politica. Tutti siamo andati a scuola e tutti abbiamo sofferto per un* preside lontan* e autoritari*, no?]. Da ieri non è solo la donna con una voce che andrebbe vietata – come minimo – dall’Onu [Metodo Scanzi #2: la risata grossolana, la presa in giro alla Pierino. Boldrini ha una voce insopportabile, e chi nella vita non ha incontrato una donna dalla voce insopportabile?].
È anche la presidente che ha usato per prima la ghigliottina vile e orrenda contro le opposizioni [esiste da più di un decennio, lei l’ha usata per prima perché fa parte del suo lavoro, e questa è la sua colpa: notate come vile e orrenda siano solo in parte aggettivi attribuibili a un oggetto]. Vent’anni di berlusconismo ci hanno così disabituato all’opposizione che, se qualcuno la esercita, “giustamente” viene ritenuto anomalo. E dunque va zittito [Metodo Scanzi #3: o sei con me o sei contro di me, chiunque tu sia. Boldrini è una epigona di Berlusconi, se si oppone all’opposizione – non importa in quale modo, con quale funzione, per quale motivo. Ti sei opposto all’opposizione? Sei come Berlusconi. Punto].
Complimenti: del comunismo, evidentemente, la gentil signora [prima Preside, ora gentil signora: continua il tono canzonatorio privo di contenuti] pare aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale e l’intolleranza zdanovista per il dissenso [notate bene la tecnica: in venti parole Scanzi dice che: 1) esiste il veterofemminismo (falso, il femminismo è più complesso di un duopolio vetero/neo); 2) lo si impara dal comunismo (falso, il femminismo non è certo nato come parte del comunismo); 3) in quanto vetero, è caricaturale (e perché? Opinione di Scanzi, sempre ammesso che esista, il veterofemminismo) 4) agire da Presidente della Camera è equiparato allo zdanovismo sempre e solo in base al Metodo Scanzi #3; l’agire nell’interesse della Camera, che è il suo lavoro, passa per reazione di un regime, come se Boldrini fosse il dittatore. Per ora siamo a Boldrini=Berlusconi= Zdanov(Stalin). Non è finita qui.]. Proprio come Re Giorgio, infaticabile comunista migliorista di destra. [Ve l’avevo detto: Boldrini=Berlusconi= Zdanov(Stalin)=Napolitano. Tutti uguali.] Lei e i tre o quattro vendoliani rimasti [Metodo Scanzi #4: il nemico dev’essere sempre dipinto come solo e patetico, anche se potente], oltre ad alcuni noti resistenti piddini, hanno festeggiato cantando Bella ciao [non è vero, ma a ‘sto punto, chi ci pensa più?] (poveri partigiani, vilipesi ormai pure da chi dice di ispirarsi a loro. Se Fenoglio avesse saputo che un giorno le sue mirabili gesta sarebbero state fraintese da uno Speranza qualsiasi, avrebbe scritto al massimo Lo sfigato Johnny) [Metodo Scanzi #5: deduci da una falsità, se la conclusione è vera nessuno penserà più alla premessa falsa. Che i partigiani siano quotidianamente vilipesi ormai pure da chi dice di ispirarsi a loro, è vero, peccato che qui non c’azzecchi nulla]. In un certo senso i reduci (di se stessi) di Sel non hanno sbagliato a festeggiare: hanno appena celebrato la fine definitiva del loro partito [Metodo Scanzi #6: approfitta del richiamo non giustificato per colpire a destra e a manca, intanto. Non si capisce perché la ghigliottina doveva portare vantaggi o svantaggi a Sel, che ha i suoi grossi problemi del tutto indipendentemente da Boldrini; ma già che ci siamo…], regalando peraltro ulteriori voti a chi vorrebbero cancellare dalla scena politica (la loro miopia è pari alla loro arroganza). Sel era già morta con quelle risate al telefono di Vendola [appunto, e allora perché parlarne? Ah, sì, i clic e i like], e tutto sommato non c’era neanche bisogno del Troiaium [era da un po’ che non diceva nulla di sessista, gli è sembrata carina l’ennesima battuta alla Pierino] con la soglia di sbarramento all’8% per affossarli (Sel, al momento, se va bene supera il 2) [rileggete il titolo dell’articolo e ditemi che c’azzecca tutto ‘sto pippone su Sel. Credo che c’entri qualcosa Freud, ma non è di mia competenza e non insisto].

La Preside Boldrini [e dàje] ci ha comunque tenuto a disintegrare quel poco che restava di un partito che pure vanterebbe non poche eccellenze al suo interno (Fava, Airaudo) [Metodo Scanzi #7: il nemico, oltre che solo e patetico, si disgrega da solo e noi tendiamo la mano a chi merita – in modo da disgregarlo più rapidamente. Voi direte: noi chi? Sotto quale testata Scanzi scrive tutto ciò? Di chi è questa testata? Ecco noi chi]. Si può dire? Con quella vocetta da robot Super Vicky para-leninista [aridàje], la Preside(nte) Boldrini è una delle più grandi delusioni nella storia recente della politica italiana [ovviamente, no? Ve l’ha detto prima: Boldirni come Berlusconi, quindi come qualunque altro politico deludente, di qualunque epoca, sono tutti uguali, tutti contro di noi. Noi chi? Ve l’ho già detto, state più attenti]: supponente, sussiegosa coi potenti, per nulla imparziale e drammaticamente respingente [Metodo Scanzi #8: dedurre le caratteristiche dall’aggettivo, non dalla realtà. Queste quattro caratteristiche sono della Preside con la voce da robot Super Vicky para-leninista, non dalla reale conoscenza di Boldrini come persona o come politica. Basterebbe leggersi il suo CV]. Lei e le quasi-femministe [Scanzi, noto storico del femminismo, sforna categorie interpretative: dopo il veterofemminismo, c’è anche il quasi-femminismo] che hanno letto Erica Jong senza capirci una mazza [Metodo Scanzi #9: io non sono supponente, ma tu sei un* cretin* che non sa manco quello che legge], si rasserenino: non sono criticate in quanto donne, ma in quanto politiche disastrose. [Metodo Scanzi #10: ti cucino una merda ma te la impiatto come un profiterole. Secondo questo metodo, Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza sono critiche politiche, non in quanto donne. Complimenti per il profiterole.] Oppure – si parva licet – dovremo dire d’ora in poi che anche le Santanché, le Biancofiore e le Madia sono attaccate “poiché donne” (e c’è chi lo ha scritto, tipo Gramellini) [se succede davvero allora così va scritto, Scanzi, indipendentemente dalla persona. Ma immagino che non ti interessino queste distinzioni. Come le chiameresti tu? Ah, certo, roba da veterofemministe].

Che dire? Grazie a chi si impegna così alacremente per regalarci questo eterno crepuscolo morale [morale, notate bene: la condotta, discutibile ma secondo il regolamento, del Presidente della Camera è giudicata immorale. Questo invece sarebbe un giudizio politico? Come si chiamano le donne immorali? Lo sappiamo, vero?]. Ieri è stata una giornata tremenda, non come quella che portò alla uccisione politica di Rodotà e alla rielezione del monarca Re Giorgio, ma siamo lì [vi prego sempre di notare l’aggettivazione; sembra che Scanzi parli dell’uccisione di Falcone e Borsellino o della strage alla stazione di Bologna]. Complimenti dunque a chi ci regala tali emozioni: alla preside Super Vicky Boldrini, al simpatico questore Dambruoso che ha schiaffeggiato la deputata 5 Stelle Lupo (che fai Boldrini, lo cacci? Oppure l’espulsione con nota annessa per i genitori è solo per i discoli che salgono in cima ai tetti per difendere la Costituzione? [a parte il continuo uso della metafora scolastica, notate che questo fatto molto grave viene menzionato solo adesso, e solo per dire che anche in questo caso Boldrini è stata scorretta e amorale – peccato che Scanzi sia altrettanto scorretto: perché fa finta di non sapere che prima di cacciare Dambruoso serve la relazione dei questori della Camera? E poi, allora, qual è l’oggetto dell’articolo?]). Complimenti al Pd, che quando c’è da mostrare i muscoli (che non ha) a caso è sempre in prima fila [Dambruoso è di Scelta Civica, ma tanto il Metodo Scanzi l’avete capito come funziona]. E complimenti a quei meravigliosi renziani che, con il loro coraggio da Don Abbondio arrivisti, da una parte resuscitano il Caimano con una legge elettorale vergognosa [cosa c’entra adesso? Di che parla l’articolo?] e dall’altra regalano soldi pubblici alle banche private. [Oh, ci siamo arrivati! All’ultima riga del post finalmente si tocca l’argomento del titolo – e non se ne dice niente. Ah, già, il SEO, i clic. Complimenti.] Fenomeni mica da ridere. [Non solo loro, Scanzi caro.]

Nei giorni seguenti il Metodo Scanzi si è arricchito di un nuovo stratagemma, ma nuovo solo per lui: la “scusa SE è successo che”, come racconta Mazzetta qui. Come ho già detto anche io, il metodo “mi scuso se ma tanto è lo stesso” è tipico dei sessisti. Ma io sono un veterofemminista che ha letto letto Erica Jong senza capirci una mazza.
Comunque il nostro, nei giorni seguenti, continua col suo metodo, stavolta ergendosi a consigliere del M5S, lui che di politica e comunicazione, come abbiamo visto, le sa tutte. Per avere un’idea di quale sia “l’errore” che m’interessa evidenziare qui, vi lascio qualche link di altr* veterofemminist* che hanno letto Erica Jong senza capirci una mazza:
Che cosa è diventato il Movimento 5 Stelle? (a proposito di equivalenze politiche); Insulti sessisti e auguri di stupro (a proposito di Erica Jong letta male); Il nuovo femminismo (per capire che aria tira in certi ambienti, diciamo così); Andrea Barbato a Beppe Grillo nel ’92 (un po’ di storia pre-web, illuminante anche sul Metodo Scanzi); Insulti a cinque stelle, non è soltanto Laura Boldrini vittima di sessismo e omofobia (tanto per ricordare che ce n’è per tutti, non sono cose casuali).

Alla luce di tutto ciò, dicevamo, il nostro si erge consigliere e attua il Metodo Scanzi #11: parlo di te per non parlare di me. Leggiamo ‘sto capolavoro. Lo interromperò di rado, confido in quanto finora detto senza ripetermi troppo.

(2) Cari M5S, non potete fare errori (2 febbraio 2014)

Nella sua intervista a Daria Bignardi, a un certo punto il deputato Alessandro Di Battista ha detto: “Camminiamo su un cornicione, non possiamo sbagliare e quando lo facciamo dobbiamo chiedere scusa” [di come andrebbero fatte e dette le scuse abbiamo già detto sopra]. E’ un punto centrale: il M5S non può fare errori, perché gli altri (i “nemici”, cioè quasi tutti [di nuovo la logica duale: ci sono solo bianchi e neri, bene e male, belli e brutti – o stai con me o stai contro di me, non c’è spazio per il diverso]) non aspettano altro e perché ogni errore mina la fiducia di quei milioni di italiani che continuano a ripetere che quel movimento è l’unico anticorpo contro il potere. Una fiducia di cui dovete avere un rispetto sacrale [che bell’aggettivo, sacrale. Con una parola sola si passa dal politico al religioso, e tutt’intorno è silenzio]. Per questo:

1) Cari M5S, non potete dire “boia” o “boia chi molla“. Mai, mai e poi mai. Capisco la rabbia che porta il sangue agli occhi e induce a straparlare, ma queste frasi sono tremende ed evocano ricordi oltremodo foschi. Sono frasi imperdonabili, ancor più se dette da deputati solitamente bravi come Angelo Tofalo. E non venite a dirmi che in origine “Boia chi molla” non era uno slogan fascista: adesso è a quello, al fascismo, che fa pensare. Ed è un assist gigantesco per chi vuole – ora comicamente e ora in malafede – tratteggiarvi come nuovi Farinacci. Come no: Crimi camicia nera, Fucksia (un’altra che non ne indovina mezza neanche per disgrazia) balilla e tutti insieme eia eia elalà. Bugie totali. Ma c’è chi ci crede. Perché ci vuole credere. [Sì, io ci voglio credere, ma non perché qualcuno ripete slogan in piena incoscienza. Ci voglio credere perché, come hai sostenuto tu stesso tempo fa, M5S è “ecumenico”, cioè si allea con chiunque, e accoglie chiunque, voglia fare le stesse cose – anche i fascisti. Per me invece conta il motivo per cui vuoi farle e quale storia porti con te; perché se non guardi anche a queste cose, succede che le parole di Grillo diventino un riassunto di quelle di estremocentroalto, e tu non te ne accorgi. Dovrebbe bastare saper leggere, non si tratta solo di bugie o verità. Contano anche la storia, la memoria, e un sacco di altre cose.]

2) Cari M5S, non potete regalare l’alibi multiuso e multitasking del “sessismo” quando combattete una battaglia nobilissima come quella su Imu-Bankitalia (vi hanno dato ragione perfino Dragoni e Barisoni, certo competenti e certo non “grillini”). Le allusioni grevi ai “pompini” sono schifose, costituiscono un harakiri imbarazzante e regalano agli eterni soloni la giustificazione per scrivere lenzuolate di quasi-femminismo in cui “loro” sono democratici e gli altri poco meno che stupratori. Ovviamente quella stessa gente, di fronte allo schiaffone di Dambruoso alla 5 Stelle Lupo, minimizza o magari solidarizza (con Dambruoso). Due pesi e due  misure, ma in Italia funziona così. E le parole di De Rosa sono indifendibili e irricevibili. [Un dibattito serio avrebbe argomentato come in questo blog la vicenda Imu-Bankitalia – ma servono persone competenti e che non urlano, e giornalisti disposti a divulgare senza fare slogan. E comunque, a proposito di due pesi e due misure: pompinara è un insulto sessista, mentre invece Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza, che cosa sono? Scanzi, piantala. Non sono sessiste solo le parolacce, non te l’hanno insegnato a scuola? No. E il fatto che ci sia chi solidarizza con Dambruoso fa schifo come chi attacca Boldrini per la sua voce o il suo aspetto. No?]

3) Cari M5S, non potete mandare in tivù uno come Becchi per difendervi. E’ come chiedere a Mike Tyson di andare in tivù per difendere la salute dei lobi. Di fronte a Becchi, parrebbe credibile persino Boccia. Di fronte a Becchi, ha ragione perfino la Moretti. Becchi è espressione sin troppo nitida del “grillino” caricaturale e sopra le righe, che ha torto anche quando ha ragione e che serve alla tivù per screditare il M5S. Nessuno al mondo, ascoltando Becchi, avverte poi la voglia di votare M5S (ed è per quello che va in tivù). Avete ragazze e ragazzi che sanno usare il piccolo schermo (ci siete arrivati anche voi, alla fine, dopo mesi di autismo mediatico e “noi nei talkshow non andiamo“). Errore dozzinale. Voi in tivù dovete andare: lo dovete a chi vi ha votato e vi vuole conoscere. E vuole che qualcuno difenda le loro idee. Mandateci le Sarti e i Morra, i Di Maio e le Lezzi, i Di Battista e le Taverna. Becchi, al massimo, speditelo nel remake del Drive In al posto di Beruschi. Checché ne dicano Beppe Grillo e Yoko Casaleggio, la tivù è ancora (sin troppo) decisiva nel veicolare notizie e consensi. O la si sa usare, o si sta a casa a coltivare i nidi di rondine tra le pieghe della barba da quasi-filosofo. [E meno male che saccente era Boldrini. E ovviamente Scanzi parla di comunicazione M5S evitando di citare Messora – mica scemo, lui. Di Battista, per dirne uno della lista di Scanzi, è quello che guarda in camera e dice «Fidatevi della rabbia sana che abbiamo in corpo. Chi guarda questi occhi sa che io dico la verità!». Davvero un gran comunicatore, originale soprattutto.]

4) Caro Grillo, post come quello su “cosa faresti se la Boldrini fosse con te in auto”, sono autogol che neanche Niccolai. Servono esattamente per poi poter sostenere castronerie vili tipo che i grillini sono tutti stupratori e insultatori [peccato che nessuno l’ha sostenuto, in primis Boldrini, come avete letto sopra nel link di Mazzetta] (come se in rete i renziani o i berlusconiani fossero tutti dispensatori di versi petrarcheschi [ma sì, se gli altri scrivono merda pure io rispondo merda, per Scanzi questa è democrazia diretta, evidentemente]). Quegli autogol servono a dire che, chi critica la Boldrini, lo fa perché è sessista (yeowwwn) [sbadiglia pure, ma se argomenti con Preside, robot Super Vicky para-leninista, una voce che andrebbe vietata dall’Onu, aver imparato unicamente il veterofemminismo caricaturale, aver letto Erica Jong senza capirci una mazza, c’hai poco da sbadigliare: è sessismo]. Non ci vuole uno scienziato per arrivarci. Grillo ha fatto e farà molto per il Movimento. Il giorno in cui capirà che è molto più convincente quando argomenta che non quando scherza senza avere ispirazione, sarà sempre troppo tardi [ma sì, ma lui scherza, è un comico, ah ah ah].

5) Cari M5S, Daria Bignardi ha tutto il diritto di fare domande critiche a un deputato che non condivide e mai voterebbe. E’ una giornalista, sa fare il suo lavoro, ha simpatie renziane dichiarate e a casa sua può chiedere tanto del padre di Di Battista quanto del suo passato da chierichetto. Non vi piace? Non la guardate. La Bignardi ha dato trenta minuti a Di Battista, che peraltro sa cavarsela benissimo senza che un attimo dopo mezzo web gridi alla lesa maestà. Non tutti la pensano come voi e, anzi, in tivù il 95% è sfacciatamente renziano. Funziona così [allora Scanzi, deciditi: la tivù è il nemico o no? E poi ricordatevi: se le può fare Bignardi le domande antipatiche, le può fare anche Scanzi. Non è chiaro? Mettete la frase “Scanzi in tv” su Google, e buon divertimento].

6) Cari M5S, Corrado Augias ha tutto il diritto di critcare duramente i 5 Stelle. E’ un intellettuale, ha le sue idee e le argomenta. La Bignardi ha fatto bene a chiedergli cosa ne pensasse (ben sapendo cosa ne pensava) e Augias ha detto la sua tanto a Le invasioni barbariche quanto su Repubblica. Fate bene a criticarlo, non a insultarlo o minacciarlo (glisso su chi ne ha bruciato i libri: non so se è realmente grillino o magari infiltrato, ma di sicuro è assai prossimo all’idiozia più vomitevole). Io non condivido nulla di quello che ha detto e scritto Augias sui 5 Stelle, e credo anche che Augias – come molti intellettuali engagé vecchia scuola vicini al Pd – parli di cose che conosce pochissimo e per sentito dire. Ma io, di uno come Augias, avrò sempre rispetto profondo. E’ uno di quelli con cui è bello confrontarsi e scontrarsi, proprio come l’amico Vauro (che avete insultato in maniera troppo spesso belluina). Non confondete gli Augias con i pigibattista: sarebbe come confondere un Barolo con una gazzosa scipita [aspetta, com’era Boldrini? Supponente, sussiegosa coi potenti, per nulla imparziale e drammaticamente respingente. De te fabula narratur, Scanzi caro, e di nuovo dovrebbe bastare saper leggere].

Gli ultimi giorni, per la politica italiana, sono stati tremendi. E’ avvilente l’arroganza del potere. E’ deprimente la pochezza degli Speranza. E’ esilarante la labilità di Matteo Peppo Pig: in quell’incontro che vi siete ottusamente rifiutati di fare al Nazareno, un Nicola Morra se lo sarebbe messo in tasca con facilità siderale. Lo avrebbe demolito, ridicolizzandolo con agio [c’avete fatto caso? E’ pieno di gente capacissima di mettere sotto “i nemici”, ma nessuno ci mette quelli giusti. E chiedetelo a Scanzi, no?]. Renzi è solo chiacchiere e distintivo, vende fumo e neanche del migliore. Basta crivellarlo con due frasi di senso compiuto e già non sa più come controbattere. Avete buttato via un match point a campo aperto: errore infinito. A volte, strategicamente, siete di un bischero che ne basterebbe la metà.

E’ sconfortante vedere come quasi tutti i media usino il napalm coi 5 Stelle e le carezze con chi usa le “tagliole” e ammazza la democrazia parlamentare (non lo dico io: lo diceva il Pd cinque anni fa, per bocca di Alessandro Soro, quando il Parlamento discuteva quello scudo fiscale che poi passò grazie – ooops – alle assenze decisive dei piddini).

I 5 Stelle stanno combattendo, pressoché isolati, battaglie preziose (quella sull’articolo 138 della Costituzione non se la ricorda già più nessuno?). Costituiscono l’unica opposizione reale e per questo verranno osteggiati in ogni modo. Ribadisco: in ogni modo. E’ proprio per questo che non devono sbagliare nulla, ma proprio nulla. Che senso ha vanificare mesi e mesi di (spesso) ottimo lavoro con frasi sbagliate e belinate da asilo?

Avete la fiducia di milioni di italiani, a cui ormai non siete rimasti che voi. Fate tesoro di questa fiducia, continuate la vostra crescita e non disinnescatevi da soli, regalando assist d’oro a chi – pur di mantenere lo status quo – non aspetta altro che farvi passare per fascisti, violenti, dementi, sovversivi e magari prima o poi pure stragisti.

In questa tirata finale – della quale non ho voluto interrompere il lirismo tutto reazionario, pare De Amicis – c’è tutta l’ambiguità del Metodo Scanzi. Chi parla come un sessista – dando agli uomini del ladro o del corrotto, ma alle donne della pompinara o della preside con la vocetta – non è veramente sessista: ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è sessista. Chi parla come un fascista e dice la cosa più fascista di tutte – non esistono più destra e sinistra – non è veramente fascista: ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è fascista. Chi parla da incompetente e ignorante – parlando di sirene, di chip sottocutanei, complotti informatici – non è incompetente e ignorante: ogni tanto sbaglia, dice delle cose senza senso, offre assist ai “nemici”, ma non è incompetente né ignorante.
Insomma, per fare politica basta il pensiero – ve lo dice Scanzi. In fondo, uno vale uno.

Un’idea veramente originale: la fica!

unoFinisce il 2013, inizia il 2014 e si sa: è tempo di calendari. Quello per la violenza sulle donne “va un casino quest’anno” (cit.). Oh, finalmente si spendono tempo, energie e risorse per mettere in casa di tante persone qualcosa che, per tutto l’anno, ricorderà un’emergenza sociale così importante come la violenza di genere. Ma come si fa a ricordare un tema tanto spinoso per tutto un anno? Vediamo qualche esempio, tra i tantissimi.

Bruno Oliviero fotografa Kyra Kole

Antonio Oddi fotografa Giorgia Giannandrea

“Il calendario delle studentesse” di Arakne Communication

Ecco come! Con la fica! D’altronde, si sa: i vecchi metodi sono sempre i migliori.

Divertitevi a cercare altri esempi. Le rappresentazioni, al di là delle parole di circostanza di tutti i professionisti interessati, sono del tutto aderenti ai consueti schemi visivi della fotografia di moda più conformista. Simboli e frasi svuotate di senso, patinature, trucchi ed effetti stancanti, pose e scatti già visti migliaia di volte. In tutti i casi, corpi di donna nelle posizioni e negli abiti preferiti dal machismo pornocommerciale: intimo variopinto, qualche sguardo torvo, strappi e tagli, aderenze, magrezze, frasi a effetto, sorrisi di purezza sotto il fard.

Il motivo di tutto questo è ormai noto, a chi si occupa di questioni di genere: la violenza sulle donne è un brand, e se ne sono accorti tutti, grandi aziende e piccole realtà, fotografi noti e “creativi” in cerca di visibilità. “There is nothing more alluring than a dead girl“, e il risultato lo vedete in quei tre esempi: parole ricopiate e messe in bocca – o sulla foto – senza alcuna cognizione di causa, tanto per decorare la solita posa softpornomainstream che placa la coscienza – e gonfia i corpi cavernosi – del maschio che assiste. A posto così.

A questa meravigliosa convergenza estetica tra softporno commerciale, ipocrisia politica, incoscienza sociale, ignoranza crassa viene dato il nome di “per la violenza sulle donne”; ed è dovuta, ovviamente, al gioco al ribasso tipico del marketing spietato. L’argomento trendy fa abbassare il prezzo e raccoglie i volontari, ed ecco che tutti fanno a gara per intitolare il loro (solito) spaccio di carne umana in lingerie alla “violenza sulle donne”. E’ il prezzo basso a decidere vicinanze ed equivalenze, passando sopra alle più evidenti assurdità.

La tristezza di queste operazioni commerciali è aumentata dal fatto che nessuno dei poteri in gioco viene minimamente messo in questione; in fondo è l’etimologia a ricordarci quel legame originario tra donne, sesso, denaro e potere (il potere di chi l’ha inventato, questo legame) che ormai si esprime nella vita politica, sociale e nel linguaggio di gran parte della nostra bella società. Pensare che la pornografia commerciale sia fatta solo di cazzo, fica, urla finte e grugniti macho è ormai davvero riduttivo, quando non difensivo e forse nostalgico di una felice era dell’incoscienza maschile. E purtroppo oggetti come questi calendari moralizzano ancora di più l’immaginario, evitando, tra le altre cose, di impegnarsi a stravolgere quel porno commerciale che ne avrebbe tanto bisogno.

Invece non c’è alcuna necessità di nascondere questo sfacciato potere maschilista e il suo continuo desiderio di macinare immagini e rappresentazioni di corpi femminili: fa vendere, quindi ben venga. E’ lavoro, occupazione, reddito, visibilità, di che vi lamentate? Zitti tutti e tutte, zerbini e femministe: è il mercato, baby. E il mercato lo sa bene cosa serve per vendere; fatelo il giochino online “Fashion or Porn“, è molto istruttivo. Attenzione, potreste vedere del sesso, mica come nelle immagini dei calendari degli esempi qui sopra. Quelle sono “per la violenza sulle donne”.

Rubo a feminoska:

Questi calendari sono normativi per i corpi, eterodiretti, il ‘mondo donna’ (così viene chiamato da molti addetti ai lavori) fa tendenza, per questo i soliti misogini e misogine lo sfruttano, utilizzando claim che reputano di richiamo, svuotandoli di contenuto, e legandoli al solito bieco sfruttamento dell’immagine femminile eteronormata e machopornizzata. L’operazione è scrivere nuove parole d’ordine sullo stesso vecchio immaginario, ed è fatto in maniera talmente idiota che non ci si chiede nemmeno quali siano le nuove parole d’ordine.

Altre parole, altre immagini e altre fantasie ci sono, eh. Basterebbe informarsi, non farsi prendere in giro e smettere di dare ragione a chi fa soldi speculando sull’immaginario sessista.

Cassazione e comunicazione

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Direttamente dal sito cortedicassazione.it, leggiamo che le funzioni della Corte di Cassazione italiana sono così definite:

In Italia la Corte Suprema di Cassazione è al vertice della giurisdizione ordinaria; tra le principali funzioni che le sono attribuite dalla legge fondamentale sull’ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 (art. 65) vi è quella di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Una delle caratteristiche fondamentali della sua missione essenzialmente nomofilattica ed unificatrice, finalizzata ad assicurare la certezza nell’interpretazione della legge (oltre ad emettere sentenze di terzo grado) è costituita dal fatto che, in linea di principio, le disposizioni in vigore non consentono alla Corte di Cassazione di conoscere dei fatti di una causa salvo quando essi risultino dagli atti già acquisiti nel procedimento nelle fasi che precedono il processo e soltanto nella misura in cui sia necessario conoscerli per valutare i rimedi che la legge permette di utilizzare per motivare un ricorso presso la Corte stessa.

Cosa vuol dire “funzione nomofilattica”? Sostanzialmente due cose, come si dice in questa circolare:
– la Cassazione deve “garantire l’attuazione della legge nel caso concreto”;
– la Cassazione deve “fornire indirizzi interpretativi ‘uniformi’ per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza”.

Alla Corte di Cassazione possono ricorrere tutti i cittadini, contro i provvedimenti di un giudice in appello o in grado unico, secondo vari motivi (violazione di diritti, errori procedurali, mancanze insufficienze o contraddizioni nella motivazione della sentenze, e altri). Quindi

quando la Corte rileva uno dei vizi summenzionati, ha il potere-dovere non soltanto di cassare la decisione del giudice del grado inferiore, ma anche di enunciare il principio di diritto che il provvedimento impugnato dovrà osservare: principio cui anche il giudice del rinvio non potrà fare a meno di conformarsi quando procederà al riesame dei fatti relativi alla causa.

Quindi la Cassazione “è un giudice di legittimità chiamato a verificare che nei processi precedenti le leggi siano state applicate correttamente e che tutto si sia svolto secondo le regole. Per farla ancora più semplice, non deve mettersi a riesaminare le prove e sentire i testimoni; ma solo studiare le carte e ascoltare quanto pubblici ministeri e avvocati della difesa hanno da dire a riguardo. Dopodiché, si decide” (fonte Polisblog).

Fin qui è tutto chiaro. Quando però leggo un titolo come

Islamico tentò di uccidere la figlia 17enne
che faceva sesso col ragazzo: pena ridotta

L’episodio due anni fa a Milano: l’egiziano tentò di soffocare la figlia. La Cassazione: manca l’aggravante dei futili motivi, “non potendosi definire nè lieve nè banale la spinta che ha mosso l’imputato”

è chiaro che il compito della Cassazione ha anche – inevitabilmente – un grosso peso culturale. Quando leggo anche che “comunque non può essere considerato futile un motivo fondato sull’onore della famiglia e sulla violazione del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persona di fede diversa”, mi sembra ovvio che la Cassazione, con le sue decisioni, non fa solo giurisprudenza, ma anche cultura. E come tutti i fenomeni culturali, se non è adeguatamente comunicato e divulgato, è facilissimo strumentalizzarlo. Guardate questa stessa notizia, e queste stesse parole, come sono usate da AGI, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Il Giornale.

Ma la storia della Cassazione sui quotidiani è lunga, soprattutto quando l’argomento delle sue decisioni riguarda questioni di genere – o, come preferisce il medio pensiero italiano, “la morale”. Ecco qualche esempio di come i quotidiani usano comunicare il lavoro della Cassazione:

Lui 60 anni e lei 11: per la Cassazione è amore
Annullata condanna a dipendente Comune Catanzaro

Con i jeans lo stupro diventa “consenziente”

Stupro di gruppo, no all’obbligo del carcere
l’ira delle donne: “Sentenza aberrante”

sembrerebbe così che la Cassazione ce l’abbia proprio con le donne, e sia un covo di maschilisti incalliti e tronfi del loro supremo potere. Però ci sono anche questi titoli, da aggiungere:

Cassazione: «il Viminale paghi per gli stupri del poliziotto»

Cassazione: senza penetrazione
lo stupro non è meno grave

Anche una ‘manata lampo’ sul sedere
per la Cassazione è violenza sessuale

Allora?

Io credo che molto dipenda – e non è l’unico caso, quando si tratta di questioni di genere – da come i mezzi d’informazione decidono di dare le notizie. Perché la Cassazione tutto è tranne una cosa facile da gestire e semplice nelle sue espressioni, quindi è facilissimo sparare titoli sulle sue decisioni (sentenze e motivazioni) che con la volontà di riassumere e sintetizzare quanto a lungo motivato e scritto, finiscono col far dire alla Cassazione quello che non ha detto; e in più, non fanno capire perché lo ha detto.

Riguardo per esempio il caso di Catanzaro – il sessantenne e l’undicenne e il loro “amore” – la Cassazione ha detto che la Corte d’Appello ha scritto male le motivazioni della sua sentenza, cioè ha fatto male il suo lavoro (come spiega un penalista qui). Ci tengo a dirlo esplicitamente: io non difendo la Cassazione (non lo fa neanche il penalista in quel sito), soprattutto perché la cosa da difendere qui non è l’istituzione, ma la mia intelligenza. Nello spiegare in cosa la Corte d’Appello ha sbagliato, la Cassazione afferma che non si è tenuto conto dell’amore esistente tra un 60enne e una 11enne per determinare pene e attenuanti.

Spero di riuscire a spiegarmi bene. Le leggi, le sentenze e le motivazioni delle varie corti giudicanti hanno eccome un impatto sulla “cultura” pubblica e civile, ma non certo nei modi in cui vengono trattate nella maggior parte dei mezzi d’informazione. I quali, quando a loro fa comodo in termini di “choc” sul pubblico, ben si guardano invece dall’essere così sensibili alle decisioni di giudici e legislatori, anche al di là della Cassazione.

Il caso emblematico più noto, e ormai storico, riguarda come è stato ed è trattato dai media il “delitto d’onore“. Con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate; e da allora è fiorita in tutti i mezzi di comunicazione, e poi nel linguaggio comune, l’espressione “delitto passionale”, che ha ripreso in tutto e per tutto lo spazio semantico di quella denominazione uscita dai codici, ma non dalla cultura. E lì non c’è stato alcun intervento della corte suprema; la legge ha sancito la fine (meglio: l’auspicabile inizio della fine) di una cultura sessista, ma la comunicazione pubblica continua a tenerla in vita, con altre espressioni.

La sentenza e le motivazioni della Cassazione a proposito dell’operato della Corte d’Appello sulla vicenda della bambina di Catanzaro (potete rileggerle qui) sono certamente, anche tenendo conto della loro “esattezza” tecnica, quanto meno discutibili nel loro linguaggio; e altrettanto certamente sono condannabili nella loro manifesta irresponsabilità verso il pubblico che le legge, e nei confronti di ciò che indirettamente descrivono come plausibile fatto sociale (l’amore tra un 60enne e una 11enne). Ma queste, oltre a faccende di procedura penale, sono soprattutto questioni culturali e di comunicazione, sulle quali nessuna suprema corte ha giurisdizione. Rimane il fatto, conclamato anche in questo caso, che nessuno di quelli che ne avrebbe il potere e la competenza si è assunto il compito di spiegare che i linguaggi delle sentenze e delle motivazioni sono il riflesso di una cultura dominante e anche lo strumento con il quale la si continua a imporre. E’ la cultura – patriarcale, paternalista, “morale” – che fa dire a un organo supremo dello Stato che sono stati trascurati, nella sentenza d’Appello, “gli ulteriori e attenuativi aspetti della vicenda prospettati dalla difesa, quali il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza“. Non c’è più bisogno di capire se chi parla è o no un supremo organo di giudizio dello Stato, e se si esprime “tecnicamente” o meno: questo è il frutto di una cultura priva delle minime basi che riguardano le questioni di genere. E nessuno lo dice, né lo scrive, su quegli stessi strumenti d’informazione che raccolgono insulti, urli, falsità, calunnie – ma quasi mai critiche fondate. Perché? Quando ci occuperemo – quando mai la maggior parte di giornalisti e giornaliste si occuperanno – per esempio del fatto che il supremo tribunale del nostro paese fa giurisprudenza parlando come un qualunque irresponsabile sessista?

Giustamente, il blog #OgniBambinaSonoIo dice: “in particolare vigileremo affinché la Corte di Appello di Catanzaro, cui oggi spetta il compito di decidere, nomini la violenza e affermi con chiarezza un principio di giustizia per questa bambina, ma anche per tutte le altre“. Nominare la violenza è esattamente quello che ancora i mezzi d’informazione ben si guardano dal fare. Della cultura che in questo modo continuano a costruire e perpetuare, gli effetti si vedono pure nelle parole usate dai più alti gradi di giudizio.

Il corpo nudo

Spogliarsi fa paura. Anche quando lo fai solo per te stessa è difficile scrollarsi di dosso lo sguardo esterno. Ci si sente totalmente derubate del proprio punto di vista, della propria opinione, del proprio occhio amorevole che non sminuzza ma dà forza. Riuscite voi a guardarvi, magari rappresentat* in una foto o in un video, e sentirvi compiaciut* e serenamente distaccat* da qualsiasi altro punto di vista? Quanto è forte il valore e la pressione sociale nel momento di manifestare liberamente il proprio corpo, primo strumento di socialità?

Di che ragioniamo… di relazioni, violenze, disparità se è sulla nostra stessa materia che è costruito il primo recinto di paura e repressione? I nostri corpi nudi non sono solamente reclusi, sono sottratti. La volontà di vedersi e piacersi (o no) liberamente, senza il timore di qualsiasi giudizio, per la maggioranza delle persone è un lusso irraggiungibile. I nostri occhi, all’ora di incontrare la nostra carne, si trasformano in obiettivo svuotato e riprogrammato.

Spesso ci si domanda se sia sessista che alcune femministe prendano il proprio corpo e lo trasformino in veicolo di lotte. Io vorrei che queste stesse persone che si interrogano sul tema si mettessero davanti ad uno specchio, nude, e si facessero una fotografia. Non vale tirare la pancia, abbassare le luci, o stendere meglio il collo di tre quarti. Siete voi, nude.

Di chi è lo sguardo che tiene in mano la foto?

Non ho la pretesa naif che tutte le persone si piacciano. L’autocritica può essere molto utile o necessaria a volte. Non è proprio questo il punto. Mi fa incazzare a morte che la propria imperfezione diventi vergogna, ansia, inadeguatezza o malattia, perché sappiamo solo guardarci con occhi non nostri.

Questa secondo me è una premessa necessaria per affrontare questo tema, interessantissimo tra l’altro e che reputo necessario sviscerare più e meglio di come sento fare e di come posso fare io. Questo è un discorso che merita una riflessione personale e un dibattito pubblico acceso e onesto.

Prima di qualsiasi lotta o messaggio che si voglia lanciare passiamo dalla persona, dall’attivista, dall’individuo che sceglie il proprio strumento di comunicazione. E se questo strumento diventa il corpo nudo stesso, non posso non tenere in considerazione la volontà radicale di ribaltare lo sguardo esterno imponendo il proprio.

Rappresentare e mostrare se stesse è già un prendere in mano la propria soggettività e trasformarla per l’occhio altrui. Perché abbiamo paura a riconoscere la forza che questo comporta, svilendola con l’ennesima solfa della collusione col sessismo?

E’ una forza e potenza comunicativa che riesce, appunto, cavalcando il voyeurismo e l’ipocrisia di chi impone lo sguardo unico, a veicolare messaggi altri, femministi e antiautoritari.

Imporre il corpo nudo come strumento di lotta non sminuisce ne si contrappone alla parola, all’arte, alla protesta, a tutti gli altri mezzi comunicativi o di rivendicazione “onorevolmente” accettati e stimati.

Si somma a questi e si origina proprio nello stesso contesto.

Quello che mi lascia perplessa è che per muovere una critica a questa pratica di lotta ci si appelli al femminismo degli anni Settanta: io, come la stragrande maggioranza di queste nuove femministe “discinte”, negli anni Settanta non ero neanche nata. Il femminismo l’ho scoperto parlando, leggendo, facendomi domande. E quello che io da “autodidatta” del femminismo ho trovato negli anni Settanta sono due cose: la prima è che il personale e politico e la seconda, per me diretta conseguenza, è che il corpo è al centro del nostro discorso. Ah, e l’autodeterminazione ovviamente. Autodeterminazione che, partendo da sé, dalle proprie necessità e dal proprio vissuto, rivendica libertà e diritti che sono nostri e che non devono essere semplicemente richiesti, implorati, contrattati o svenduti. Vanno scelti e conquistati spezzando catene una dopo l’altra.

Il nostro corpo, autodeterminato, corrotto, imperfetto, indecoroso, potente e nudo è una tenaglia che arriva ovunque, perché ora sappiamo come renderci visibili, e per una attivista scegliere questa lotta è già aver tolto il primo anello, quello che ci nega il nostro sguardo.

I’ll show you mine, ovvero chi ha paura della vulva?

I’ll Show You Mine è un libro realizzato da Wrenna Robertson – attivista, accademica e stripper – e dalla fotografa Katie Huisman, insieme a tutte le donne rappresentate nel libro.

Il libro è una risorsa educativa creata allo scopo di decostruire le norme artificiali e irrealistiche della società riguardo alla normalità e bellezza della vulva, aiutare le persone ad avere un’idea realistica dei diversi aspetti di una vulva, e soprattutto delle diverse percezioni che le donne stesse ne hanno. Wrenna ha deciso di realizzare questo libro provocatorio, originale e toccante allo scopo di celebrare la bellezza insita nelle diverse vulve, dopo aver notato che sempre più donne prendono in considerazione la chirurgia estetica o la labioplastica allo scopo di correggere quelle che considerano vulve ‘anormali’ o poco attraenti.

Nel libro vengono quindi rappresentate 60 donne, di etnie ed età diverse, ognuna attraverso due foto della propria vulva accompagnate dal racconto, fatto dalle stesse protagoniste, delle proprie esperienze – tragiche o celebrative, rabbiose o sensuali – in merito alla propria sessualità. Le donne rappresentate appartengono ai percorsi esistenziali più disparati, sono studentesse, dottore, artiste, accademiche, sex worker, madri, nonne, casalinghe, imprenditrici, ecc.

Nelle prossime settimane, proporremo le immagini di alcune delle protagoniste del libro, insieme alla loro storia: cominciamo oggi con Diana. Buona lettura!

Mi chiamo Diana.

Quando ero molto piccola, amavo così tanto la mia vagina. Il suo odore e il suo aspetto mi facevano sentire così bene e a mio agio, ed esprimevo in maniera molto esplicita l’orgoglio che provavo nell’essere una bambina.

Quando ero ancora abbastanza piccola e carina da essere percepita, da occhi adulti, come innocente e innocua, mi vantavo lungamente dei miei genitali, descrivendone nel dettaglio la struttura – considerandoli addirittura di molto migliori rispetto a quelli dei ragazzini che conoscevo.

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Non ricordo esattamente quando, come, o chi mi ha contagiato con la paura e la vergogna che ho sviluppato in merito alla mia vagina, ma dai 6 o 7 anni ho cominciato ad augurarmi che non esistesse. Intorno ai 10 anni, ero praticamente riuscita a nasconderla completamente, anche a me stessa. Le perdite occasionali di fluidi e il terrore mestruale erano le sole cose capaci di ricordarmi di quello spazio che avevo tra le gambe. L’arrivo delle mestruazioni mi fece sentire solamente sporca e consapevole, e cominciai a impacchettare la mia vergogna nella carta igienica e nel cotone, avvolgendo gli assorbenti usati in strati su strati di carta igienica, sperando che la mia famiglia non avrebbe mai scoperto il mio sanguinare.

Non sono cresciuta in un ambiente nel quale alle donne fosse consentito di essere orgogliose di essere donne.

Quando iniziai ad avere rapporti sessuali, avevo già collezionato oltre un decennio di vergogna sessuale. Mi ci è voluto quasi un anno per imparare a sentire, a respirare attraverso il disagio, l’imbarazzo e la colpa, ad accorgermi del fatto che potevo, davvero, sperimentare il piacere.

Ci vuole ancora un sacco di fatica e di incoraggiamento, personale e da parte di altr*, per sentirmi a mio agio nell’esprimere la gioia e la felicità che un tempo provavo per la mia vagina. Partecipare a questo progetto mi ha consentito di provare un nuovo sentimento di amore nei confronti di questa parte del mio corpo – sentire che la mia vulva è desiderata, e può essere amata, e che questo amore è meritato.

 

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

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Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

Una veglia non è abbastanza

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Un po’ di giorni fa, ho deciso di partecipare, assieme ad un amico, al mio primo Transgender Day Of Remembrance.

Nella mia vita mi è capitato diverse volte di partecipare a manifestazioni e commemorazioni per-ricordare, in-onore-di e via discorrendo, e la sensazione è sempre stata, più o meno, di tenere in mano un bel pacchetto regalo di rabbia, infiocchettata con senso di impotenza, con tanto di bigliettino allegato contenente aperto disprezzo per chi, nelle circostanze in questione, avesse osato sfoggiare un sorriso. Con un sottile margine di tolleranza per i sorrisi nervosi, così, per non disprezzare proprio tutti tutti.

Questa volta no, e non ci trovo nulla di particolarmente strano. Per quelle e quelli come noi l’incazzatura è quotidianità, e personalmente mi incazzo così spesso che una volta l’anno credo di essermi preso la licenza di non sentirmi in dovere di farlo: ogni tanto è bene che se ne occupi qualcun altro.

Non intendo certamente dire che di queste persone, morte suicide o morte ammazzate, non mi importa niente. Nient’affatto. La rabbia di cui mi parlo è qualcosa che mi tappa la vena. E questo succede ogni volta che apro un articolo del solito giornalista da due spicci bucati che declina una donna trans al maschile, quando sono sulla metro e sento imbecilli prendere in giro qualcuno dalla presentazione di genere androgina, tutte le volte che c’è chi fa misgendering (ovvero sbaglia i pronomi di una persona trans), e tutte quelle violenze e microaggressioni presenti in una gamma pressoché illimitata di situazioni assortite; in strada, a scuola, al lavoro, nella ricerca di un impiego. Praticamente quasi sempre e quasi ovunque.

Quello che mi piacerebbe dire è questo: con quale ipocrisia sfilze di attivisti partecipano a questa giornata, con che coraggio tanti prendono le distanze dalla transfobia un giorno all’anno, quasi a fare ammenda per i restanti 364 giorni di passività? Non basta. No, non basta assolutamente. A maggior ragione se quegli stessi attivisti in separata sede lamentano la scarsità di partecipazione trans alle loro attività, non rendendosi conto né del maggior stigma presente sulla popolazione trans, né delle maggiori difficoltà di una persona trans a intraprendere un percorso militante per molti motivi, ad esempio un livello di disoccupazione preoccupante (nonché la necessità di mantenere un lavoro quando lo si ha) e la discriminazione transfobica all’interno della stessa comunità LGBTQIA+. In che misura è possibile pensare a collettivizzare i propri sforzi se non ce la si fa a tenere in piedi neanche sé stessi? Me lo chiedo.

La morte di tutte queste persone mi rende furioso. Con tutte le fiammelle del candle light vorrei mettere a ferro e fuoco le città. Quando ci picchiano, ci fanno del male, ci uccidono, ci stuprano, ci minacciano io voglio la lotta, voglio vendetta, voglio urlare fino a rimanere senza voce. Ci tengo troppo a tutte e tutti noi, per reputare lo stare in un silenzio ad una veglia qualcosa di sufficiente. Non voglio ricordare i miei morti col dolore, voglio che il periodo in cui sono stati in vita non sia vano. E voglio lottare affinché i vivi rimangano tali. Troppe e troppi di noi sanno cos’è la depressione, hanno pensato almeno una volta al suicidio o l’hanno tentato, soffrono di transfobia interiorizzata e non considerano la propria come una condizione esistenziale, bensì una malattia. Io voglio promettere a ogni persona transessuale e transgender che l’esistenza piena di miserie che ci è riservata non è né meritata, né ineluttabile e che insieme possiamo distruggerla; che la sofferenza è privata, ma il privato è sociale, e il sociale è privato. Non voglio sottovalutare l’importanza del ricordo. Ma la memoria è qualcosa di più del ricordo: è rendergli giustizia. E non legalità, ma giustizia sociale.

Io voglio che si arrivi ad un giorno in cui non bisognerà più preoccuparci per la sicurezza e in cui non ci servirà mai più abituarci all’idea di dover essere pronti a difenderci da qualcuno ogni volta che usciamo di casa, ma finché quel giorno non arriverà, terrò il coltello fra i denti. Ma non lo desidero, quel giorno: lo pretendo.