Depressione e suicidio tra anarchic@ e attivist@

hugsSM

Originale qui, traduzione di feminoska

“Prima di autodiagnosticarti depressione o bassa autostima, accertati di non essere, in realtà, semplicemente circondat@ da stronz@.” – William Gibson.

Il problema del suicidio: Non sei sol@

Sopravvissuto ad un problematico tentativo di suicidio, ho cominciato a riflettere su questo argomento un po’ più di quanto si faccia di solito. Nel corso degli anni ho visto amic@, familiari e persone amate togliersi la vita. Ogni volta che sento parlare dell’ennesimo suicidio mi viene in mente non solo il mio tentativo, ma anche quelli di coloro che ho conosciuto. Ad essere onesti… la mia reazione è probabilmente indicativa di una forma di disturbo da stress post-traumatico. Eppure, a più di un decennio dal mio episodio depressivo maggiore, sento di dover affrontare la questione della depressione e del suicidio.

Va subito evidenziato come il suicidio sia, attualmente, una delle principali cause di morte negli Stati Uniti. Tra i giovani adulti si classifica come la seconda o la terza causa di morte (a seconda della fascia di età esaminata). E’ anche una delle cause principali di morte in altre fasce di popolazione, in tutto il mondo. I fattori economici appaiono chiaramente connessi con il suicidio in molte nazioni. Alcune professioni hanno un più alto tasso di suicidi rispetto ad altre. E, per i soldati americani, il suicidio ha dimostrato di essere più letale dei combattimenti. Il suicidio potrebbe essere accuratamente descritto come emergenza di salute pubblica o epidemia.

Anche se tutta una serie di fattori contribuiscono ai singoli casi e al tasso generale di suicidi, sono convinto che progressist@, anarchic@ e attivist@ per la giustizia sociale abbiano l’aggravante di peculiari fattori psicologici. Anche se probabilmente hanno le stesse probabilità  di chiunque altr@ di soffrire di problemi quali isolamento sociale o tossicodipendenza, essendo maggiormente consapevoli delle miriadi di crisi che l’umanità attualmente si trova ad affrontare, hanno ulteriori ragioni per sentirsi sopraffatt@.  In aggiunta a tutti i propri problemi personali, sono anche consapevoli del fatto che il mondo stia davvero andando rapidamente a rotoli. E anche se mi pare una descrizione abbastanza puntuale dello stato delle cose, non ritengo il suicidio una risposta adeguata a questo dato di fatto.

La vita sotto assedio

Penso che, in particolare le/gli attivist@ più giovani così come i giovani in generale, non credano più all’idea che le cose possano improvvisamente e radicalmente cambiare. Dal momento che non hanno vissuto granché della vita, potrebbe non essere loro così evidente che le situazioni possono mutare – e che anzi, succede spesso. Il mondo non è statico e, per quanto terribili le cose possano apparire a livello generale – o personale – sono destinate a cambiare, anche se a volte si tratta, semplicemente, di assumere una diversa prospettiva sulle cose. Siamo tutt@ destinat@ a nuove esperienze, nuove intuizioni e nuovi modi di guardare alle cose. E, nell’ora più buia, bisognerebbe ricordarsi che l’ora successiva potrebbe casualmente essere quella più brillante. La vita senza dubbio può essere – e spesso è – una lotta. Tuttavia, in quanto attivista, in quanto persona che ha una coscienza ed è consapevole, conviene a tutt@ se continui a lottare.

In un apparente paradosso, la vita nei paesi sotto assedio effettivamente vede crollare i tassi di suicidio (la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale ne è un esempio).  Se può essere d’aiuto, bisognerebbe considerare la totalità del mondo di oggi sotto assedio per qualche motivo. Non voglio entrare nei dettagli dei numerosi problemi che l’umanità affronta a livello globale – basti dire che esistono gravissimi problemi a questo mondo, e ognun@ di noi ha la propria opinione su ciò che va cambiato e di come questo possa accadere. La vita, la verità e la bellezza sono costantemente sotto attacco, e queste sono cose per le quali vale la pena combattere – e vivere.

Un@ attivista che si suicida è l’equivalente di  un’altra tacca sul fucile di un fascista. E’ la macchina da guerra che schiaccia sotto ai suoi cingoli un altr@ combattente per la libertà. Questi, spero, sono per molt@ motivi sufficienti ad evitare una morte autoinflitta.

Non lasciare che i bastardi ti annientino

Le/gli attivist@ sono persone spesso soggette  a scherno e derisione. L’esprimere preoccupazione per lo stato delle cose nel mondo, spesso viene apertamente ridicolizzato. Lo scherno e il disprezzo possono provenire da ogni dove – amic@, estrane@, familiari o media. E questo scherno può essere, senza dubbio, deprimente. Ma mentre singoli  individui dovrebbero probabilmente essere ritenuti responsabili della propria insensibilità ignorante, vorrei sottolineare che questo fenomeno dell’ “ignoranza insensibile” è solo un aspetto minimo della guerra psicologica totale sferrata dal sistema – che ha luogo ogni giorno, su tutti i fronti.

La strategia di fondo del sistema è quella di ridurre l’empatia nella popolazione in generale, in modo da produrre più lavoratori e consumatori ignari (e ignavi, ndT.). E’ una strategia sottile, ma è ciò che permette alla società attuale di continuare a percorrere il sentiero di  insostenibilità su cui si trova. Questo è ciò che permette a psicopatici in buona fede di raggiungere le posizioni più importanti tra le più alte cariche del paese –  governative o aziendali. L’atteggiamento indolente di questo post-modernismo contorto si fa beffe delle preoccupazioni sincere riguardo al mondo e anzi rinforza la solita solfa.

E’ preoccupante che, sia pure per via del moltiplicarsi delle cause, vari test psicologici abbiano mostrato che i livelli di empatia negli Stati Uniti sono diminuiti drasticamente. Le/i giovani di oggi, in generale, sono in realtà meno empatic@ di quanto lo fossero una generazione fa. Si possono solo immaginare le difficoltà sociali e psicologiche che un@ giovane  e brillante attivista deve affrontare oggi, quando si trova ad affrontare un numero crescente di coetane@ sociopatic@! Ma quest@ giovani a posto devono essere consapevoli che il problema non è loro. Il problema non è nemmeno dei loro coetanei dal cuore di pietra – il problema è nel sistema che crea e premia sociopatic@. Questo è ciò che deve essere chiaro, e questo è il motivo per cui le persone di buon cuore non devono arrendersi. Persino l’esistenza stessa di persone profonde e intelligenti è un colpo dato al sistema – ed è per questo che dovrebbero persistere nello sforzo di minare questo sistema.

Per le/gli attivist@, però, il problema della persecuzione a livello psicologico va oltre le semplici interazioni quotidiane con coetanei indolenti o freddi. E’ risaputo che persino Martin Luther King ha ricevuto una lettera che lo invitava a suicidarsi. E anche se non so, nello specifico, quanto sia comune questo particolare tipo di tattica… per esperienza personale vi posso dire che queste cose accadono ancora. Quando ero un giovane e schietto attivista (con una coda vistosa) qualcun@ mi ha lasciato dei volantini sull’uscio di casa che caldeggiavano il mio suicidio “per il bene dell’ambiente.” E mentre non posso affermare con certezza se questo abbia avuto un ruolo diretto nel mio tentativo di suicidio… è possibile che io possa non essermi avveduto di altri simili attacchi psicologici diretti contro di me.

Ciò riguarda anche le infiltrazioni governative e la sorveglianza. E’ chiaro che l’infiltrazione nei contesti di attivismo continua ancora oggi (forse più spesso che mai). Ma quale sottile effetto psicologico hanno le infiltrazioni sulle persone? Immagina di cominciare a percepire un certo livello di insincerità tra le/i compagn@. Se si inizia a tollerare tale mancanza di sincerità, o a ignorarla, si può cominciare a considerarla qualcosa di relativo. O, al contrario, è possibile cominciare ad evitare situazioni sociali comuni in cui si dovranno affrontare  persone considerate non sincere. Nell’uno e nell’altro caso, tutto questo potrebbe avere facilmente un effetto negativo su di te. E considera che non sei la/il sol@ a subire tutto questo,  ma anche altre persone sincere subiranno la stessa situazione e magari reagiranno modificando la propria modalità, normalmente bonaria, di comportarsi in mezzo alla gente.

Negli anni ’60 alcune organizzazioni rivoluzionarie hanno visto le loro riunioni popolate per lo più da agenti sotto copertura. Ora, 50 anni dopo, non vedo motivo di dubitare che spesso sia ancora così. In realtà, il problema potrebbe essere ancora più grave. Le infiltrazioni e la sorveglianza funzionano come un attacco psicologico sulle/gli attivist@ progressisti. E’ una forma di guerra psicologica. Sono operazioni psicologiche. Ho preceduto questo articolo con una citazione da Willam Gibson, lo scrittore di fantascienza distopico, e credo che la sua citazione abbia particolare rilevanza per anarchic@ e altr@ sostenitor@ della giustizia sociale. Se si rientra in queste categorie, e se ci si sente depressi o si hanno pensieri suicidi, si deve considerare che potrebbe essere esattamente ciò che è stato pianificato… E perciò, dunque, bisognerebbe riconsiderare la propria posizione.

Se questo genere di cose ti fa sentire paranoic@, bè, meglio, se ti tiene in vita. Inoltre, essere paranoic@ in un mondo come questo può essere spesso l’atteggiamento più sano. Ma è davvero paranoia se ti vogliono mort@? E pensi davvero che il governo e gli interessi delle multinazionali non abbiano mai voluto la morte dei rivoluzionari o che non si siano impegnati a tale scopo?

Vivere e scegliere come vivere è un tuo diritto

Se la tua vita è in malora  e non sembra più degna di essere vissuta… ripensaci. Si può davvero essere parte di qualcosa di più grande e migliore. Puoi cambiare la tua vita personale (abitudini, dieta, “amic@”) e ci si può impegnare per essere più sani e vivere in  un mondo più sano in generale. Anche semplici cambiamenti nella tua vita possono modificare il tuo punto di vista e ti daranno ragioni per vivere. La tua depressione potrebbe persistere … ma non lasciare che domini e controlli la tua vita. Non è mia intenzione che questo scritto suoni come un banale cliché di auto-aiuto, ma se è ciò che serve per mantenere in vita un paio di attivist@ … Non mi importa se suona così. Esistono ovvietà che rimangono vere anche se sono ripetute un milione di volte. Non voglio che nessun altra persona sincera e di buon cuore si tolga la vita. E, alla velocità a cui le stiamo perdendo, e alla velocità  in cui si trovano in inferiorità numerica, il mondo non può permettersi di perderne altre. Se stai pensando di suicidio… usa la tua intelligenza per pensare ad altro. La tua vita, la tua mente e le tue azioni sono TUE – puoi fare la differenza in questo mondo rimanendo in vita. E anche se non le hai mai incontrate… ci sono persone a questo mondo che vogliono che tu sia felice, e vogliono che tu viva.

Depilarsi le gambe non è femminista (ma puoi comunque essere femminista e depilarti)

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ho pubblicato questo disegno (di Natalya Lobanova) sulla mia pagina facebook ieri, e le reazioni sono state molto varie. Alcune persone l’hanno apprezzata. Molte l’hanno condivisa. Ma altre l’hanno trovata insultante e giudicante, e l’hanno considerata una critica rivolta alle donne che si depilano. Si sono sentite offese dalla parola “mutilare”, la quale, sebbene attenuata da quel “leggermente”, sembrava loro comunque troppo forte. Come ogni volta che qualcosa scatena una accesa discussione, mi ha incuriosito molto la reazione delle persone e le loro motivazioni. In verità a me quest’immagine piace molto, e mi ha sorpreso l’offesa che  ha causato ad alcune persone. Ritengo che parlare delle cose assurde che facciamo per sentirci belle sia molto importante, anche se a volte ci fa sentire a disagio.

Per essere chiara, una volta per tutte: io mi depilo le gambe. Mi depilo anche le ascelle, la zona bikini, e la bizzarra scia di peluria scura che parte dall’ombelico e arriva ai peli pubici. A otto anni mi sono fatta bucare le orecchie perché morivo dalla voglia di indossare orecchini veri. Mi trucco quasi sempre prima di uscire di casa. E sappiatelo, mi piace fare tutte queste cose, perchè mi fanno sentire carina e più a mio agio nella mia pelle. Ma sono anche consapevole di essere cresciuta in una cultura che mi ha insegnato, dal primo giorno, ad associare a queste piccole modifiche arbitrarie a cui mi sottopongo il concetto di bellezza.

Ho sentito diverse persone affermare che il femminismo è basato sulla libertà di scelta, e che pertanto l’idea di fondo è che le donne dovrebbero essere messe in condizione di scegliere per le proprie vite. Per la cronaca, sono completamente d’accordo con quest’idea. Ma penso comunque che sia importante parlare del fatto che le scelte non avvengono a caso, e che alcune scelte non sono femministe. Depilarsi, ad esempio, non è un gesto particolarmente femminista. E non sto dicendo che non ci si possa depilare le gambe ed essere comunque femminista, ma penso che sia comunque importante poter parlar di aspetti come questo senza saltare immediatamente alla conclusione “bè, ma il femminismo riguarda la scelta, io la mia scelta l’ho fatta, e questo è quanto”.

Prima di tutto, non sono per niente sicura che la maggior parte delle donne sentano davvero di avere una scelta quando si parla di depilazione. Voglio dire: certo, tecnicamente, possono scegliere cosa fare dei propri corpi, ma è abbastanza difficile sentirsi libere e non influenzate nelle proprie scelte quando le opzioni si riducono a: 1) depilarsi e godere dell’approvazione generale 2) non depilarsi e diventare il bersaglio di scherzi idioti, insulti e persino molestie a causa di questa scelta. E’ decisamente difficile definire questa una “scelta” quando la società approva senza riserve una delle opzioni e punisce sistematicamente l’altra. Dobbiamo essere consapevoli di giocare con dadi truccati.

La verità è che mi adeguo a standard di bellezza patriarcali ogni giorno. Indosso vestitini graziosi e mi spalmo robe appiccicose in faccia per “evidenziare i miei tratti” e rendere il colore della mia pelle “più uniforme”. Indosso scarpe con i tacchi perché mi fanno sembrare più alta e le mie gambe appaiono più snelle. Infilo sottili barrette di metallo attraverso buchi creati nei lobi delle mie orecchie perché penso che mettermi orecchini mi renda più gradevole. Rimuovo con cura dal mio corpo ogni pelo potenzialmente visibile quando indosso solo l’intimo.  Ed è tutto accettabile, e non mi rende meno femminista ma allo stesso tempo queste sono tutte scelte anti-femministe. Perché sono scelte che non avvengono a caso. Non avvengono perché un giorno mi sono svegliata e ho pensato “mmmh, ho davvero voglia di prendere un rasoio e depilare tutte le parti più sensibili del mio corpo e sopportare l’irritazione da rasoio nei prossimi giorni, mi pare una roba proprio divertente!” Non avvengono perché mi sono trovata a sperimentare vari colori sulle mie labbra, e ho deciso che rosso e rosa erano i miei colori preferiti. Avvengono perchè sono cresciuta in una cultura tossica che mi ha insegnato che per essere bella devo modificare il mio corpo, e ogni volta che mi adeguo a quell’idea di bellezza, sto rinforzando e avallando quella cultura tossica. Ogni volta che indosso i tacchi e una bella minigonna, sto rendendo le cose molto più dure per tutte le donne che vorrebbero lasciarsi alle spalle questo fottuto ideale nel quale siamo costrette. E anche se non vorrei, devo essere consapevole della mia responsabilità.

E’ uno schifo che le donne debbano modificare il proprio aspetto per essere considerate belle, o persino solamente accettabili. Abbiamo i peli – durante la pubertà ci crescono naturalmente. Ce li abbiamo tutt@. Dunque perché devono essere qualcosa di disgustoso?  Perché in generale l’intimo e i costumi da bagno sui manichini sono normali, ma questi di American Apparel sono considerati spassosamente osceni?

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Voglio dire, questo è letteralmente il mio aspetto quando non mi depilo. Forse sono ancora più pelosa di così. Questo è l’aspetto del mio corpo. Perché è così disgustoso per così tante persone?

Noi tutte facciamo delle scelte circa il nostro aspetto, e nessuna di queste scelte ci faranno requisire la tessera di femministe dalla polizia femminista. Ma a volte queste scelte rafforzano lo status quo e contribuiscono quindi alla difficoltà che altre donne sperimentano quando il loro aspetto non si adegua alle rigide norme dettate dalla società. E questo non significa che non dovremmo mai indossare vestiti o trucco o gioielli, ma piuttosto che dobbiamo parlare del perché facciamo queste cose. E abbiamo bisogno di smetterla di fingere che questo e quello sia una scelta femminista, perché il femminismo è libertà di scelta e se io sono femminista, allora tutto quello che faccio è automaticamente femminista. No. Non è così che funziona. Indossa vestitini se ti va. Indossa belle scarpe e orecchini e rossetto rosso brillante. Depila tutti i peli del tuo corpo, se questo è ciò che ti fa stare bene. Ma per favore, ammetti che non fai nessuna di queste cose perché casualmente ti piace farle. Per favore, ammetti che la tua scelta è stata fortemente influenzata dalla fottuta cultura misogina in cui viviamo. Accetta il fatto che a volte le tue scelte sono anti-femministe, non perché sei una cattiva femminista, ma perché questo è il mondo in cui viviamo oggi. E una volta che hai fatto tutto questo, cerca di trovare un modo per cambiare le cose, di modo che le ragazze giovani non debbano più essere convinte che i loro corpi non vanno bene così come sono.

Perché non mi interessa il discorso femminista di Emma Watson

(Articolo originale di Mia McKenzie qui, traduzione di feminoska)

L’attrice Emma Watson, nota per la saga di Harry Potter, è una delle nuove Ambasciatrici di buona volontà di UN Women, e sabato scorso ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite per lanciare la campagna HeForShe, che mira a mobilitare gli uomini per cancellare in qualche modo la disuguaglianza di genere (la campagna non sembra suggerire nello specifico agli uomini azione definite di nessun tipo). La campagna chiede agli uomini di rendere la parità di genere un proprio problema, e Watson ha esteso “un invito formale” a tutti gli uomini di esserne parte. Molti dei più noti siti femministi (bianchi) sono in fermento, uniti nell’affermare che si sia trattato di un discorso impressionante e davvero di livello superiore, o cose del genere. Sì, alcune parti del discorso sono state notevoli. Watson ha spiegato il percorso che l’ha portata al femminismo, ad esempio l’aver vissuto l’esperienza di venire sessualizzata a 14 anni dai media. Il discorso è davvero degno di nota nei primi minuti.

http://www.youtube.com/watch?v=Hyg_QIYKv_g

Poi, intorno al sesto minuto, diventa… un pò meno notevole.
Mi definirei una fan di Emma Watson. Mi piace. Mi è sempre piaciuta. Sono una fan di Harry Potter (nonostante i suoi aspetti problematici in merito alla disuguaglianza di genere), e l’ho apprezzata molto anche in altre interpretazioni. E mi piace ancora. Sono anche sicura che abbia ottime intenzioni per quanto riguarda il suo impegno femminista, e lo stesso vale per l’impegno profuso alle Nazioni Unite. Fantastico. Eccellente. Non è questo il problema. Il problema è che il messaggio contenuto nel discorso di Watson è problematico in molti aspetti.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Watson afferma:
“Come possiamo influenzare il cambiamento nel mondo quando solo la metà di esso è invitato o si sente accolto a partecipare alla discussione? Uomini – vorrei cogliere quest’occasione per estendervi un invito formale. L’uguaglianza di genere è anche un vostro problema.”
In questo passaggio sembra suggerire che la ragione per cui gli uomini non sono coinvolti nella lotta per l’uguaglianza di genere è che le donne semplicemente non li hanno invitati e, a dirla tutta, sono state poco accoglienti. Le donne non hanno fatto pervenire agli uomini un invito formale, e per questo motivo gli uomini non vi hanno aderito. Non è perché, invece, gli uomini beneficiano enormemente (socialmente, economicamente, politicamente, ecc. infinitamente) della disuguaglianza di genere e quindi si sentono meno incentivati a sostenerne lo smantellamento. Non è a causa della prevalenza della misoginia in tutto il mondo. E’ solo che nessuno lo ha chiesto! Oh, mio Dio, come mai nessuna di noi ha pensato di chiederlo?!

E’ assurdo suggerire una cosa del genere. Le donne hanno cercato di portare gli uomini ad interessarsi dell’oppressione delle donne da… sempre. Ma agli uomini non è mai interessato molto combattere questa lotta, perché chiede loro di rinunciare al proprio potere e tutti gli indizi suggeriscono che non sia proprio una delle cose che preferiscono fare. “Condividi un link sulla parità di genere? Certo! Contaci! Rinunci al potere in modo concreto? No, non proprio.” Watson ha continuato:
“Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un’idea distorta di ciò che costituirebbe il successo maschile. Nemmeno gli uomini beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza. Non parliamo spesso degli uomini e del loro essere imprigionati dagli stereotipi di genere, ma io mi rendo conto che lo sono e che quando sono liberi, le cose cambiano per le donne come conseguenza naturale.”
Anche questo messaggio è viziato e sbagliato. Raccontare agli uomini che dovrebbero preoccuparsi della disuguaglianza di genere per via di quanto nuoce loro, mette al centro del discorso gli uomini e il loro benessere in un movimento costruito dalle donne per la nostra sopravvivenza, in un mondo che ci degrada e ci disumanizza quotidianamente. Questo concetto è problematico per la stessa ragione per cui lo è dire ai bianchi che dovrebbero porre fine al razzismo perché il razzismo “nuoce a tutti in quanto società, perciò sradicarlo aiuterà tutti”.

In primo luogo perché, anche se fosse vero, non fa nulla per creare solidarietà. Non ho mai incontrato una persona bianca che abbia deciso di sobbarcarsi un impegno anti-razzista per via degli effetti negativi del razzismo sui bianchi. Letteralmente, mai. E non credo di aver mai incontrato un uomo che sostenga realmente gli ideali femministi per via dei benefici che ne deriverebbero agli uomini. Se avessi conosciuto persone simili, non mi sarebbero affatto piaciute. Domanderei loro perché la spesso brutale oppressione delle persone di colore e delle donne, e in particolare delle donne di colore, non sia stata sufficiente a destare il loro interesse, mentre l’epifania causata loro dai modi in cui uomini e/o bianchi sono in qualche modo colpiti in certa misura da questi costrutti, perché “è qualcosa di cui la società e anche gli uomini dovrebbero essere in grado di piangere” li ha fatti saltare così prontamente a bordo. In secondo luogo, perché ignora quanti uomini beneficino della disuguaglianza di genere. (E’ proprio così, Emma!)

Mi permetto di offrire giusto un paio di statistiche da questo lato della barricata: 1 donna americana su 5 ha denunciato di aver subito uno stupro nel corso della sua vita. Per gli uomini americani, la proporzione è di 1 a 71.
Le donne bianche americane (cis-gender) guadagnano il 78% di quello che guadagnano i loro colleghi maschi bianchi. Le donne nere americane (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi neri guadagnano e il 64% dei loro colleghi maschi bianchi. Le donne ispaniche (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi ispanici guadagnano e il 53% dei loro colleghi maschi bianchi. Solo il 4,8% degli amministratori delegati sulla lista stilata da Fortune 500 sono donne.

Naturalmente, il divario retributivo di genere esiste in tutto il mondo, compreso il Regno Unito. E così lo stupro.

Dire che gli uomini non beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza crea una falsa narrazione secondo la quale siamo tutt@ colpit@ allo stesso modo e con la stessa gravità dai mali della disuguaglianza di genere, e che nessuno ne ricava alcun beneficio, il che semplicemente non è vero. Emma Watson sessualizzata dai media a 14 anni non equivale ai suoi amici maschi che vivono in maniera non sempre agevole l’espressione dei propri sentimenti. E’ una falsa equivalenza. I modi in cui la disuguaglianza di genere nuoce agli uomini e ai ragazzi sono molto, molto diversi dai modi in cui nuoce alle donne e le ragazze. Ovvero, la disuguaglianza di genere opprime e abusa donne e ragazze in quasi ogni aspetto della propria vita.

Inoltre, le persone con il maggior privilegio vengono in questo modo costantemente riportate al centro delle conversazioni sull’oppressione e questa cosa deve finire. Questo è il motivo per cui “il diritto al matrimonio” è il tema principale delle più note e influenti realtà LGBTQ, piuttosto che le problematiche dei giovani queer senzatetto o anziani in difficoltà, o l’invisibilizzazione e la cancellazione dei queer e delle persone trans di colore. Il volto del movimento per il “diritto al matrimonio” è per lo più bianco, maschio e benestante. Le persone con i maggiori privilegi restano al centro della discussione, mentre le persone maggiormente oppresse sono un corollario, nella migliore delle ipotesi. De-centralizzare le donne nelle discussioni sulla disuguaglianza di genere non è una buona strategia. Watson ha anche detto: “Voglio che gli uomini si prendano questa responsabilità. Così che le loro figlie, sorelle e madri possano vivere libere dal pregiudizio”.
Il messaggio implicito, qui, è che le donne meritino equità ed eguaglianza a causa delle nostre relazioni con gli uomini. Continuare a rinforzare l’idea che gli uomini dovrebbero rispettare le donne e la lotta per l’uguaglianza delle donne perché madri / sorelle / figlie / qualunque altra cosa, perpetua l’idea che le donne non meritino già queste cose in quanto esseri umani (quando si estenderà il discorso anche ai non umani? N.d.T.). Essa incoraggia gli uomini a pensare alle donne sempre e solo in relazione a sé stessi, come se la nostra pseudo-umanità fosse solo un corollario alla vera umanità degli uomini. La verità è che le donne sono persone intere e complete, a prescindere dal nostro status nella vita degli uomini. Questo è ciò che gli uomini dovrebbero sentirsi dire, ancora ed ancora. Questo è ciò che tutti dovrebbero sentire, ogni giorno.

Credo che uno degli aspetti a cui Watson si èavvicinata, ma a cui non è propriamente arrivata, è l’idea che la femminilità, sia essa espressa da donne o uomini (o persone Genderqueer, credo, ma chissà perché queste ultime non esistono in questo discorso alle Nazioni Unite o nella campagna “HeForShe”), è quella che ha la peggio nel mondo. La femminilità è vista come debolezza e viene odiata e maltrattata. Questo è un concetto valido e molto, molto importante, ma in realtà Watson non ha detto nulla di tutto ciò, non sembra avere fatto una solida analisi di questo aspetto ancora, ed è sensato supporre che lo stesso messaggio distorto arriverà alla maggior parte delle persone che ascoltano il suo discorso.

Quindi, possiamo per favore smettere di cercare di rendere Emma Watson la nuova icona femminista dell’universo? A quel punto non è ancora arrivata. Sta ancora imparando, credo, proprio come Beyoncé, che, tra l’altro, raramente ottiene anche solo il beneficio del dubbio dalle femministe bianche, per non dire osannata come “Regina femminista di qualsiasi cosa”, quando le sue esternazioni femministe sono meno che perfette. (Immaginate se Beyoncé si fosse alzata alle Nazioni Unite e avesse tenuto un discorso incentrato sugli uomini nella lotta per la parità di genere. I bianchi cieli femministi più influenti avrebbero fatto piovere fuoco infernale su tutt@ noi. Beh, su alcun@ di noi, in ogni caso).

Mi auguro che, nell’evolversi del proprio femminismo, Emma Watson cancelli questi primi sfortunati approcci. Ma, francamente, dovrà dimostrare molto di più per essere considerata la “femminista che cambia le regole del gioco”, come è stata definita. Dov’è la sua analisi della giustizia razziale e della necessità di quest’ultima nel porre fine alla disuguaglianza di genere? Che cosa ne sa lei della misogynoir (misoginia nei confronti delle donne di colore)? Fino a che punto comprende che le donne bianche benestanti come lei sono spesso coloro che opprimono donne di colore e/o donne povere nel mondo? Dov’e la sua comprensione del transfemminismo? Può spiegare alle Nazioni Unite, o a chiunque altro, perché la violenza contro le donne trans deve essere al centro del nostro lavoro contro la misoginia? Sa e può spiegare che la discriminazione a favore di persone non disabili è interconnessa non solo con la disuguaglianza di genere, ma con ogni forma di oppressione esistente? E, soprattutto, comprende che in quanto donna bianca le viene concesso di accedere ed essere presa sul serio dal femminismo tradizionale, in modi che una donna di colore non potrebbe mai e perché, allora, è necessario per lei di farsi da parte e fare spazio alle donne di colore per essere ascoltate, se la disuguaglianza di genere è da eradicare definitivamente? Perché qualsiasi vera “femminista che cambia le regole del gioco” dovrebbe farlo.

Io personalmente sono convinta che sarebbe davvero incredibile se la donna un tempo conosciuta come Hermione si rivelasse una femminista davvero tosta e rivoluzionaria. Per me, un tale cambiamento richiederebbe un approccio ed un analisi davvero tosta e rivoluzionaria, cose che Watson ancora non padroneggia.

 

L’istinto materno non esiste

Childfree
«C’è ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres.

Essere donna non implica essere madre, ciononostante le donne subiscono ancora una forte pressione sociale rispetto alla maternità, un’idea che si perpetua attraverso il celebre “istinto materno”. Tuttavia, il desiderio di essere madre (o no) non ha alcuna causa fisiologica provata.

«No, non avrò figli», risponde Alicia Menéndez alle impertinenti domande delle vicine, delle zie, e anche delle amiche. Queste, sorprese, contrattaccano con un  «Ma è perché non ti piacciono i bambini?» o «fra qualche anno cambierai opinione e sentirai la chiamata». Alicia, che ha appena compiuto trent’anni e lavora come assistente amministrativa, assicura che “non voglio avere figli” è il nuovo “non voglio sposarmi”, anche se sostiene che la seconda affermazione non produce lo stesso ‘disordine pubblico’ della prima.

«Ho avuto un compagno per quattro anni ma da poco più di un anno abbiamo deciso di rompere. Lui sapeva di volere dei figli, io sapevo di non volerne. Rispetto, ma a volte mi sorprende – e mi spaventa – la capacità di alcune persone di provare più amore per qualcosa che in ogni caso è un progetto a lungo termine nella propria vita, che per qualcosa che già hanno, qualcosa di reale». Alicia ricorda che giunse un momento in cui l’arrivo di un bambino avrebbe rappresentato una catarsi, il sollievo dopo mesi di discussione. «Capirei se non potessi avere figli, se fossi sterile, ma non accetto che tu non voglia averne potendoli avere», le ripeteva lui.

‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’], di Jenn Díaz

«Esiste ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres. C’è un’idea tacita che giace nelle profondità della nostra mente. Secondo Torres, «si associano la bontà e la generosità a quelle donne che vogliono essere madri, e l’egoismo a quelle che rifiutano la maternità in modo netto, come se queste ultime fossero individualiste che si preoccupano solamente di loro stesse. Nonostante ciò, non restiamo a bocca aperta quando un uomo dice che non vuole essere padre».

Ma cosa accadrebbe se la pressione sociale di cui parla lo psicologo diventasse in una imposizione? Cosa accadrebbe se per legge le donne fossero obbligate a procreare? Questo è ciò che propone Jenn Díaz nel suo ultimo libro, ‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’] (Jot Down Book). La scrittrice prospetta la seguente distopia: un paese nel quale il governo crea un Piano di Ripopolazione Nazionale dopo una grande guerra, secondo il quale le donne devono avere figli. Uno scenario nel quale c’è chi si rifiuta di vedere il proprio utero usato come ‘terreno di coltura’. «La maternità è un tema che mi interessa, per non dire che mi ossessiona. Avevo molta voglia di tornare a creare un mondo immaginario, come feci nel mio primo romanzo (‘Belfondo’). Non so né quando né come iniziò, ma da subito mi sono vista scrivere su una donna che non voleva avere figli, e l’ho voluta mettere in difficoltà», dice l’autrice.

E questo personaggio che Díaz spreme e racchiude tra le sue pagine per metterla di fronte a sé stessa è Rita Albero, sposata con Samuel, un uomo che brama una discendenza. “Se non potessi avere figli, probabilmente mio marito mi abbandonerebbe”, ripete a sé stessa all’inizio del libro. L’identità di donna si può sostituire con quella di madre? «Molte volte si antepone il fatto di essere madre a quello di essere donne. Ma questo avviene in funzione di come la madre vuole affrontare la cosa: lottare per cambiare o assumere il ruolo. Il figlio ti cancella nella misura in cui tu lasci che ti cancelli: la maternità in sé stessa non è cattiva, lo è come la concepiamo da secoli», puntualizza la scrittrice.

Ideologia della madre perfetta

L’argomento che espone Jenn Díaz è simile a la tesi che sostiene Elisabeth Badinter nel suo saggio ‘Le conflit. La femme et la mère’ [‘Mamme cattivissime? La madre perfetta non esiste’, Corbaccio]. La filosofa francese critica la sacralizzazione della maternità, la figura della madre perfetta. “Così com’è concepita la maternità attualmente nella nostra società, presuppone una nuova schiavitù per le donne, perché antepone il bambino a tutto”, scrive Badinter. La figura della madre perfetta (abnegata, che allatta al seno, che ha partorito con dolore ma senza lamentarsi) secondo la saggista, provoca solamente frustrazioni ad entrambe le parti: per il non essere una buona madre e per il non essere una donna realizzata. “L’ideologia della buona madre confina la donna in casa, converte la maternità in una professione a tempo pieno”, critica.

È il cosiddetto ‘istinto materno’ o ‘ruolo biologico della maternità’ ciò che conferisce un ‘carattere scientifico’ al fatto che molte donne desiderano essere madri. «La donna nasce con un numero approssimativo di ovuli, circa 400.000 (nell’età fetale ne ha un milione, ma durante lo sviluppo ne perde più della metà). Poi, dopo la nascita, la donna ne  perde poco a poco, e c’è un’età, attorno ai 40 più o meno, in cui avviene una perdita importante. Quando si raggiunge la menopausa significa che si resta senza ovuli, per cui non si può più essere madre. Questo è l’orologio biologico, che non ha alcuna relazione con il fatto che una donna desideri o no essere madre» spiega il dottor doctor Manuel Fernández, direttore dell’ IVI di Siviglia.

«Prima sì, si metteva in relazione il periodo di ovulazione con il fatto che la donna fosse più ricettiva per la riproduzione, ma lo sviluppo culturale ha modificato tutto questo completamente, da cui ne deriva che il desiderio di essere madre (o no) non ha una causa fisiologica conosciuta», aggiunge il dottor Fernández. Affermando che vanno a consulto coppie in cui  «se la donna non può avere figli, questa si sente molto in colpa, e lo ritiene un problema per il marito». «In culture come quelle gitane o arabe, per ciò che ho potuto vedere, vi sono ancora molti uomini che associano la donna ad una funzione eminentemente riproduttiva» sottolinea.

Il dottor José María Lailla, presidente della Società Spagnola di Ginecologia e Ostetricia (SEGO), spiega che gli ormoni considerati femminili (estrogeni e ossitocina) potrebbero avere una relazione con questo preconcetto. «Se ci basiamo sugli animali, tutte le femmine desiderano essere madri. Tuttavia, quando le si castra, questo desiderio di solito scompare. Nella donna questo non avviene, giacché molte continuano a desiderare di avere dei figli anche quando sono state sterilizzate per motivi medici». Per questo, il dottor Lailla stabilisce che «non ci siano cause fisiologiche dimostrabili», anche se nota che «il desiderio di avere dei figli nelle donne continua a essere maggioritario».

Essere donne non significa essere madri

La sociologa britannica Catherine Hakim, autrice dello studio ‘Childless in Europa’ [Senza figli in Europa], sostiene che «l’istinto materno non esiste, è un mito utile a perpetuare l’obbligo morale di avere figli nelle donne», aggiunge. Perché come sarebbe un mondo in cui le donne rifiutano di avere una discendenza? «Non vogliamo arrivare a quel punto, così diciamo che si tratta di ‘istinto materno’ affinché sembri un desiderio intrinseco al fatto di essere donne. Dunque, le donne che non vogliono avere figli sono anormali?», si domanda la sociologa.

Ángeles Caballero, di trentasette anni, è giornalista e ha una figlia di sei anni e un figlio di tre. Afferma che «la società a volte è crudele con le donne»: «Se non abbiamo figli siamo incomplete, se non ci sposiamo anche. Se decidiamo di non essere madri e persino se siamo biologicamente impossibilitate ad averne ci trasformiamo in bestie rare. Questo agli uomini non succede, o non così tanto», racconta. «Mia sorella non ha figli e mai mi è sembrato un atto di egoismo. Può essere che un giorno si penta, ma conosco donne e uomini che si pentono di essere diventati madri e padri senza valutarne le conseguenze. E questo è irreversibile. Mi riferisco a quella maternità che riflettono molti mezzi di comunicazione, la maledetta ‘superdonna’ che tanto danno continua a farci».

Nel suo romanzo ‘Mujer sin hijo’, la scrittrice parla attraverso la protagonista: «Rita chiarisce che ciò che rifiuta è la maternità imposta e non la maternità in sé stessa. Quando una donna che vuole avere un figlio fa un figlio, ha vinto. Quando una donna che non vuole avere un figlio non lo fa, ha vinto».

Testo originale di Noemí López Trujillo, MUJERES SIN HIJOS. «El instinto maternal no existe», pubblicato su gonzoo.com. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

Perchè non esiste il “razzismo al contrario”

racismTim Wise ha da poco scritto un bellissimo post sul razzismo di destra. Come sempre succede, però, alcun@ hanno affermato nei commenti che anche le/i bianch@ possono essere vittime di “razzismo”. Anche se ritenevo fosse chiaro, dall’articolo di Tim, che ciò non è possibile, è un argomento che è molto difficile far comprendere.

Per puro caso, una mia ex-studente mi ha scritto qualche sera fa e mi ha chiesto di ricordarle la mia spiegazione dell’impossibilità del “razzismo al contrario” –  è iscritta ad un corso di specializzazione post-laurea e si è trovata n mezzo ad un’accesa discussione con alcun@ compagn@. Così ho buttato giù qualcosa e gliel’ho mandato. Ho pensato tuttavia che fosse un testo utile da pubblicare su DailyKos, pertanto eccolo qui…

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In qualsiasi discussione sul razzismo e il suo supposto “contrario”, è fondamentale prendere le mosse dalle definizioni di pregiudizio e discriminazione, in modo da porre le basi per una comprensione contestualizzata del razzismo. C’è una buona ragione dietro all’esistenza di questi termini, e un’ottima ragione per non mescolarli, come dimostrerò più avanti.

Il Pregiudizio è un sentimento irrazionale di avversione per una persona o gruppo di persone, di solito basato su stereotipi. Praticamente chiunque sperimenta una qualche forma di pregiudizio, rivolto ad un gruppo etnico o religioso o una tipologia di persone, come quelle bionde, o grasse o alte. Ciò che conta è che semplicemente quelle persone non le/gli piacciono – per farla breve, il pregiudizio è un sentimento, una convinzione. Puoi avere dei pregiudizi, ma comportarti comunque in modo etico se fai attenzione a non comportarti seguendo le tue idiosincrasie irrazionali.

La Discriminazione ha luogo nel momento in cui una persona mette in atto il proprio pregiudizio. Questa parola descrive quei momenti nei quali una persona decide, per esempio, di non dare il lavoro ad un’altra persona per via della razza o dell’orientamento religioso di quest’ultima. O per il suo aspetto (esiste una forte discriminazione ad esempio, quando si tratta di assumere donne non attraenti fisicamente).  Puoi discriminare, a livello individuale, una persona o un gruppo, se ti trovi in una posizione di potere rispetto alla persona oggetto della discriminazione. Le persone bianche possono discriminare le persone nere, e le persone nere possono discriminare quelle bianche quando, ad esempio, una delle due persone è l’intervistator@  e l’altr@ è l’intervistat@ in un colloquio di lavoro.

La parola Razzismo, tuttavia, descrive modalità di discriminazione istituzionalizzate e rese “normali” all’interno di una intera cultura. E’ basato sulla convinzione ideologica che una “razza” sia in qualche modo migliore di un’altra “razza”. Non è più una singola persona che discrimina a questo punto, ma un’intera popolazione che opera in una struttura sociale che rende davvero molto difficile ad una persona non discriminare.

Un esempio lampante è quello delle culture schiavistiche, nelle quali le persone nascono in società in cui una tipologia di individuo è “naturalmente” padrona, e un’altra tipologia è “naturalmente” schiava (e a volte nemmeno considerata una persona, ma una bestia da soma). In una cultura simile, la discriminazione informa il tessuto sociale, economico e politico, e le/gli individu@ – anche quell@ “liber@” – non hanno realmente scelta rispetto alla possibilità o meno di discriminare, poiché anche se non credono nella schiavitù, interagiscono ogni giorno con le/gli schiav@, e le leggi e consuetudini esistenti che tengono le/gli schiavi in soggezione.

In una società razzista, è necessaria una grande dose di coraggio e volontà di sottoporsi a scandali o persino pericoli per uscire dal Sistema e diventare abolizionist@. Non è “colpa” di ciascun singolo membro della classe dominante se esiste la schiavitù, e alcun@potrebbero persino desiderare che essa scompaia. Ma la realtà è che ogni singolo membro della classe dominante ottiene benefici dal lavoro gratuito degli schiavi a tutti i livelli della società, per il semplice fatto di non poter evitare di consumare prodotti derivanti dalla schiavitù, o di beneficiare dello sfruttamento del lavoro schiavistico. Così, a meno che i membri della classe dominante non reagiscano opponendosi al sistema cercando di rovesciarlo (ad esempio, le/gli abolizionist@ della schiavitù), saranno complici nel Sistema schiavistico: anche le/gli abolizionisti avranno dei vantaggi – contro la propria volontà – dal sistema schiavistico, indossando abiti o utilizzando oggetti prodotti da tale sistema.

Quello summenzionato è un esempio estremo, ma chiaro, che utilizzo per rendere più semplice la comprensione delle situazioni molto più ingarbugliate e complesse nelle quali ci muoviamo oggi. Nonostante il fatto che le/gli schiav@ furono liberat@ dal Proclama di Emancipazione, e che il quattordicesimo emendamento ha dato alle/gli Afroamerican@ il diritto di voto, le strutture istituzionali del razzismo non sono state rovesciate. Anche dopo l’approvazione del quattordicesimo emendamento, le persone bianche avevano ancora il potere di togliere a quelle nere il diritto al voto attraverso l’istituzione della tassa di voto (poll tax), la Clausola del Nonno (Grandfather clause) e la clausola di “comprensione” che richiedeva che le/i ner@ dovessero recitare qualsiasi passo della Costituzione che venisse loro richiesto. Negli anni ’60, vennero votati gli atti di tutela dei diritti civili di voto, che abbatterono questi ostacoli al voto. Ma le/i ner@ americani non hanno ancora potere politico in proporzione alla propria presenza numerica all’interno della popolazione (nonostante vi sia un Presidente nero).

Se si prendono in considerazione istituzioni importanti quali Senato e Congresso Federali e Statali, o le corti supreme Federali e Statali, o la lista dei CEO delle società più importanti, o qualsiasi altro ente che detenga un potere reale negli Stati Uniti, pochissimi sono le/i ner@ che ne fanno parte (e in alcuni casi, proprio nessun@).  E delle/dei pochi ner@ che ne fanno parte, la maggior parte non rappresenta il punto di vista della maggioranza delle persone nere del paese, ma quelle della maggioranza bianca. D’altro canto, se si prendono in considerazione le persone nere povere, o in prigione, o disoccupate, o prive del diritto all’assistenza sanitaria, il loro numero in queste categorie è di gran lunga maggiore in proporzione a quello nella società nel suo complesso.

A meno che non si voglia sostenere che le persone nere siano “naturalmente” inferiori alle bianche (il che rappresenta una posizione apertamente razzista), bisogna ammettere che esiste un qualche meccanismo che limita le opportunità a queste persone. Questo meccanismo è ciò che chiamiamo “razzismo” – i sistemi di leggi e regolamenti economici, sociali e politici che nel loro complesso discriminano, apertamente (attraverso per esempio la profilazione razziale) o in maniera subdola (ad esempio quando maggioranze di governo bianche definiscono i distretti di voto, in modo che la maggioranza nera sia divisa e non possa avere il potere elettorale di votare candidat@ ner@; o banche gestite da bianchi che utilizzano i codici di avviamento postali come criterio per escludere richiedenti di mutui o prestiti, e “casualmente” si trovano ad escludere tutta la maggioranza nera di un quartiere cittadino, pratica conosciuta come red-lining). Sarebbe possibile andare avanti per ore enumerando tutti questi svariati meccanismi, e sicuramente potete immaginarne anche voi nella vostra esperienza, funzionali a discriminare ner@, ispanic@, arab@, nativ@ american@, ecc.ecc.

In merito al “razzismo al contrario”.

E’ cruciale conservare la distinzione tra i tre termini enunciati più sopra, perché altrimenti le persone bianche tendono a ridefinire la “discriminazione” come “razzismo”. Il loro argomento principale è che poiché sia le persone bianche che quelle nere possono discriminarsi a vicenda, il “razzismo al contrario” è possibile. Ma la verità sta nel fatto che le persone nere: 1) hanno molte meno occasioni di discriminare le persone bianche rispetto al caso contrario 2) le persone nere non hanno un sistema di supporto istituzionalizzato che le protegga nel caso decidano di discriminare le persone bianche.

C’è voluto lo sforzo congiunto di persone nere e bianche – durato un centinaio d’anni – per realizzare programmi come Affirmative Action negli Stati Uniti, ma è bastato un solo uomo bianco (Alan Bakke) e un solo caso giunto alla suprema corte per smantellare quei programmi sulla base dell’idea di costui di non essere stato ammesso alla scuola di medicina per via del suo essere bianco.

Il “Razzismo al contrario” dovrebbe pertanto descrivere una società in cui le leggi e i ruoli fossero rovesciati. Questo non è mai successo negli Stati Uniti, nonostante molt@ ideolog@ di destra lamentino di essere vittime dei pochi punti di uguaglianza che le minoranze e le donne sono riuscite ad ottenere. Le persone bianche che si lamentano del “razzismo al contrario” si lamentano in realtà del vedersi negati i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti. Si sentono in diritto di essere assunte, ad esempio, e non vedersi discriminate, anche se la norma è che siano le/ bianch@ a discriminare le persone nere. Se, in un caso isolato, un datore di lavoro nero discriminasse un/@ bianc@, non si tratterebbe del “contrario” di qualsiasi cosa, ma di discriminazione. Significherebbe essere condannat@ a prescindere, ma non rappresenterebbe la prova di qualche piano sistematico volto alla spoliazione dei diritti dei bianchi.

La destra ha reso popolare il termine “razzismo al contrario” perchè è furiosa di vedere messo in discussione il proprio privilegio bianco. Chiunque utilizzi quel termine, sia di destra o meno, sostiene la causa della destra. Questo è quanto affermo di fronte a quei Democratici e Progressisti che utilizzano tale termine – non solo stanno usando un termine sbagliato, ma stanno aiutando i propri avversari politici.

Queste argomentazioni si possono estendere a qualsiasi struttura di oppressione istituzionalizzata che riguardi la razza, l’etnia o il gruppo religioso di appartenenza, e può essere utilizzata anche nei confronti del cosiddetto “sessismo al contrario”.

Spero che questo post vi abbia chiarito un po’ le idee.

Traduzione di questo post a cura di feminoska.

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

santabarbara

Traduzione dell’articolo An open letter to privileged people who play devil’s advocate di Juliana Britto dal sito feministing.com. La traduzione è della mia amica Floriana, che ringrazio. Come dico sempre, se qualcuno lo dice meglio di me, è il caso di citarlo.

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

Lo sai chi sei. Sei il tizio bianco nel corso di Studi Etnici che sta esplorando il concetto che i poveri possano fare bambini per continuare ad avere i sussidi. O, sei quello che argomenta sorseggiando un drink che forse un sacco di donne in effetti simulano uno stupro per ricevere attenzione. O, più di recente, sei quello che insiste che io debba considerare la possibilità che Elliot Rodger [perpetratore della strage di Isla Vista, ndt] possa essere stato un pazzo, e un’anomalia, e non il prodotto della supremazia bianca e della società misogina.
Molto spesso è chiaro che tu in effetti credi a quello che sostieni pensare giusto per. Tuttavia, lo sai che queste cose che pensi non sono popolari, se non altro perché ti fanno sembrare egoista e privilegiato, e quindi ecco che dai la colpa al “diavolo”. Ti svelo un segreto: il diavolo non ha bisogno di altri avvocati. Ha già un sacco di potere senza che lo aiuti tu.
Queste discussioni possono sembrare un gioco per te, ma per molte persone intorno a te, sono le loro vite quello con cui stai giocando. Il motivo per cui sembra un gioco per te è perché queste questioni molto probabilmente non ti toccano. Se sei un uomo, non importa che la maggior parte delle sparatorie di massa siano dirette a donne che hanno rifiutato il killer – anche se dovrebbe importarti, visto che misoginia uccide anche gli uomini. Se sei bianco, non importa che le persone di colore siano stereotipate o meno. Puoi attaccare fili da burattino ai tuoi dialoghi sulle questioni reali, perché alla fine della fiera, tu puoi semplicemente alzarti e andartene da questo caos intricato che hai esacerbato.
Ad onor del vero, ci sono molti avvocati del diavolo privilegiati che davvero tentano di capire le cose. Conosco persone che pensano meglio se ad alta voce, che mi gettano addosso le loro idee per capire quelle che più si addicono alla “amica femminista”. Il tuo tipo ama aggirare un concetto da ogni angolo prima di decidere cosa pensa. Tu chiedi a quelli informati di noi di spiegarti la cosa più e più volte, perché in questo mondo è più difficile per te credere che forse la mano di carte ti è favorevole, piuttosto che pensare che noi siamo pigre, lagnose, o bugiarde.
E’ estenuante, fisicamente ed emozionalmente, essere costantemente chiamata a dimostrare che questi sistemi di potere esistono. Per molte di noi, semplicemente lottare contro di essi è abbastanza – e tu vuoi anche che te li spieghiamo? Immagina di avere dei pesi legati ai piedi e un bavaglio alla bocca, e di dover spiegare perché pensi che questa cosa ti sia svantaggiosa. Immagina di guardare un video in cui un ragazzo promette di uccidere tutte le donne che non vanno a letto con lui e poi essere costretto a elaborare sul fatto che forse tu non sei una femminista isterica che vede misoginia dappertutto. E’ incredibilmente doloroso rendersi conto che, per far si che tu abbia a cuore la mia sicurezza, io debba continuare a vincere questa competizione oratoria che tu hai messo su “per gioco”.
A quegli avvocati del diavolo che stanno cercando di imparare, io suggerisco di provare nuove strade. Considerate che non state pagando i vostri amici per spiegarvi certi concetti che sono per loro spesso dolorosamente vissuti, e siate consapevoli del loro tempo e delle loro energie. Siate grati (e dimostratelo) e ascoltate attentamente e con considerazione quando sono così generosi da parlare delle loro esperienze con voi.
Alcuni possono sostenere che io mi stia zittendo da sola, e censurando importanti momenti di scambio e crescita. Ma queste idee che mi state forzando a “considerare” non sono affatto nuove. Provengono da secoli di diseguaglianza, e il vostro disperato tentativo di mantenerle rilevanti si basa sul fatto che in effetti a voi fa comodo che esistano. Lasciate perdere. Queste teorie razziste e misogine NON le avete inventate voi, noi le abbiamo sentite già, e siamo stanche, cazzo, che ci chiediate di provare a considerarle. Ancora. Una. Volta.
Quindi, cari avvocati del diavolo, parlate per voi, non per il “diavolo”. Educatevi. Imparate. Considerate che la vostra parte in causa è stata già ascoltata per secoli, quindi sedetevi. Ora tocca a noi parlare.

Maternità e identità Trans

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di Frieda Frida Freddy, transfemminista (e lesboterrorista) in cammino. Traduzione e revisione di Serbilla, Elena Zucchini e feminoska.

Il giorno in cui mi dichiarai Trans fu il giorno nel quale vidi e compresi chiaramente che non mi era necessario, né vitale, essere donna o uomo per esistere. Ancora di più, capii perfettamente che non desideravo in alcun modo esserlo per ancorarmi in una delle due categorie sociali, poiché mai mi ero sentit@ felice o a posto in nessuna delle due. Mi rinominai Frieda perché sono più femminile che mascolina, e perché comprendo che mascolinità e femminilità sono solo due poli di indottrinamento che non determinano nulla, e tanto meno definiscono questo “essere uomo” o “donna” che si conoscono nel nostro mondo sociale. Inventai pertanto questo nome, per il potente dittongo che per me rappresenta il ponte sulla dicotomia dei generi, il mio transitare tra Frida e/o Freddy che sono il passato al quale sono stat@condannat@: ragazzo o ragazza. E dal quale sono fuggit@…

E dunque ora sono liber@, sono Trans. Non transgenere né transessuale. Vedete: c’è una percezione diffusa secondo la quale essere trans significhi, diciamo, nascere A e trasformarsi in B, o nascere B e desiderare di essere A. Come dire, nascere biologicamente “uomo” (per via del pene, che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come una donna. O viceversa. Nascere biologicamente “donna” (per via della vulva che definisce il sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come un uomo. Senza dubbio questo avviene spesso, ma non rappresenta tutte le esperienze.

Quanto detto significa trasgredire, oltrepassare una categoria di genere perché non c’è mai stata appartenenza né identità con i ruoli che sono stati assegnati; significa respingere una costruzione sociale che è stata imposta da una divisione caratterizzata da un tratto genitale, e sicuramente questo è trasgressivo, ma questa pratica continua ad inserirsi in un codice binario. E con questa affermazione non intendo screditare né attaccare chiunque abbia fatto tutto il possibile per modificare completamente il proprio corpo o le proprie apparenze tramite gli ormoni o la chirurgia e che ora si sente a proprio agio con ciò che è o sembra, poiché il solo fatto di sfidare il genere e transitare completamente da A a B, o viceversa, mi pare degno di tutto il rispetto e l’ammirazione di chi si ribella.

Ma io non desidero questo per me. Io più che trasgredire o oltrepassare (e non restare quello che ero), desidero far esplodere i generi. La mia lotta quotidiana è contro la dicotomia di genere, contro la sudditanza. Per questo mi dedico al transfemminismo. Non voglio imprigionarmi nel genere, o nei ruoli, né rafforzarne gli stereotipi. Voglio andare avanti e indietro, fluire, fluid@ come la mia stessa sessualità (nel senso più ampio, non riducendola a mero atto sessuale); la mia sessualità che è viva, e vive con me. Perché voglio imbrigliarla? Perché ho ​​intenzione di soggiogarmi? Non devo farlo. Non sono tenut@ a farlo.

Non mi imprigionerò nella dicotomia di genere, o in qualsivoglia orientamento sessuale. Io vado e vengo. Per questo mi dichiaro Trans come trasformazione dell’idea egemonica, Trans come attraversare l’eteronormatività, Trans come trasgressione al genere e tutto ciò che comporta. Trans che trasgredisce l’obbligo, che annulla l’ordine. Nat@ A e non sarò mai B, ma che la A si fotta. Possiamo essere X o Z, H o T, o un po’ di tutto questo, o qualsiasi cosa ci passi per la testa. A volte essere anche un pò’ B, e poi basta, per esempio. O essere mostr@. O essere non essendo.

E per coloro che a questo punto del testo, stanno già pensando che sono confus@ e in realtà sono queer, ripeto, io sono Trans e per la decostruzione – distruzione della dicotomia di genere metto oltre al mio discorso, il mio corpo. Ho deciso di impiantarmi delle protesi al seno, sto risparmiando per questo. Seni per una decisione politica, come atto performativo. Non quei grandi seni rotondi, “con i quali non ho avuto la fortuna di essere nato”, per diventare femminile al cento per cento, e quindi “la donna” (come logicamente si pensa), ma piuttosto desidero quei seni per confondere, per abitare lo spazio pubblico così profondamente normato e trasgredirlo, terrorizzare. Non sono neanche interessat@ a dimagrire o comprare abiti alla moda, o camicie scollate; il mio atto sarà anche di post-travestitismo.

Con l’operazione ai seni il mio corpo diventerà un luogo espropriato al sistema (che per primo me lo ha rubato con i suoi obblighi), un’arma di distruzione simbolica. Quindi quello che voglio raggiungere attraverso la chirurgia non è un modello di bellezza patriarcale, ma una performance vivente che si muove nel mondo e porta il terrore Trans in tutti gli spazi, le strade, le città. Questo rappresenta la mia autodeterminazione e la mia scelta, come nel caso della donna dal sesso e genere coincidenti ed eteronormati quando decide di essere “madre”. Ma cosa succede dunque a queste decisioni riguardanti il proprio corpo e prese liberamente, nella stessa società, nel medesimo mondo sociale?

Succede che quando io affermo di essere Trans e racconto della mia decisione di modificare il mio corpo, il mondo mi vede come un appestat@, come un@ folle, mentre la donna incinta è vista come trionfatrice, come se si trattasse del più grande successo nella vita. A lei si assegna un riconoscimento sociale e a me il pubblico ludibrio. Alle donne incinte costruiscono un piedestallo sociale e cominciano a vederle così fragili come se si dovessero rompere, mentre la maggior parte dei transessual@, trans e transgender vede crollare la stima e i legami sociali, buttati fuori dalle proprie case in una società che chiude loro le porte in faccia in quasi tutti gli spazi pubblici. Quando una donna decide liberamente di restare incinta, partorire e crescere dei bambin@, il mondo diventa un luogo pieno di elogi, auguri, benedizioni, dolcezza, complimenti, tutt@ non si stancano mai di lodarla, mentre per le persone trans che hanno deciso e scelto liberamente di fare qualcosa con il proprio corpo e con un progetto di vita, le prese in giro non cessano mai, né gli insulti, l’invisibilizzazione, le battute, gli sguardi di disapprovazione, gli abusi verbali e anche fisici.

Nel caso della donna incinta, la famiglia e gli amici – e la società in generale – si prendono il compito di supportarla e prendersene cura, la mandano dal medico e lo Stato la riceve gratuitamente attraverso i controlli prenatali e gli attivisti la sostengono di fronte alla violenza ostetrica (ma dei tassi di natalità elevati e violenti nessuno dice niente).

Allo stesso modo, quando la persona trans comincia ad assumere ormoni o sta per sottoporsi ad un intervento chirurgico, le famiglie, gli amici e la società in generale si fanno meno presenti, la accusano, e lo Stato la riceve con lo psichiatra, che dovrà riuscire a convincere della propria decisione di transitare. Il settore sanitario la accoglie, anche se il più delle volte con disprezzo e abusi, trattandol@ come deficiente e senza dare ascolto ai suoi sentimenti, solamente somministrando iniezioni di ormoni o farmaci (quando ce ne sono), della serie: se non desideri essere un uomo, tieni, diventa donna! O viceversa. Tutto in fretta e furia, senza chiarire quali siano gli effetti collaterali dell’abbassare o alzare i livelli di testosterone o estrogeni in maniera repentina. E questo nelle poche città dove esistono leggi che lo consentono. Se non ce ne sono, le/i trans dovranno pagare tutto di tasca propria, come possono. Dovranno permettersi trattamenti e interventi chirurgici completi, e se non hanno i soldi, l’olio da cucina o l’antigelo per auto aiuterà a far crescere un po’ le natiche o i seni. Qui tutti se la cavano da sol@ e cercano di sopravvivere, nonostante le relazioni annuali, in cui gli attivisti esprimono la loro preoccupazione per i diritti sessuali di ogni singola persona nel mondo e predicano “progresso”.

Quando decido e scelgo di essere Trans, tutt@ mi diagnosticano, senza essere medic@: soffro di “disforia di genere”, sono malat@ di mente e pazz@. Lo dice la scienza e l’OMS l’ha pubblicato nella sua lista delle malattie mentali. Nessun@ parla di violenza culturale, né di cultura della violenza contro di me e la mia libera scelta, perché quello che faccio è “anormale “, naturalmente, mentre quello che fa la donna incinta non è solo “normale” ma anche “la cosa più naturale del mondo”. Questo il quadro a grandi linee. E io non mi sto vittimizzando nel fare queste analogie. Più avanti chiarirò questo punto.

Ciò che la donna incinta sta davvero facendo (per libera e consapevole che sia la sua decisione), è rafforzare ulteriormente la riproduzione di un sistema eteronormativo, un regime eterosessuale che non è orientamento come ci viene detto, ma un sistema di irregimentazione del mondo sociale, controllore dei corpi e delle vite; quello che sta facendo è seguire rigide regole apprese che stigmatizzano e spesso condannano altre biodonne come lei come “mezze donne, donne incomplete o sbagliate”, perché “non si realizzano attraverso la maternità.”

La scelta libera della donna incinta trascende il personale e si ripercuote negativamente anche a livello politico. Rafforza un mondo sociale che sta massacrando me come molte altre persone dissidenti sessuali, compresa lei stessa, ci sta uccidendo letteralmente (femminicidio, transfemminicidio). Allo stesso modo, quello che faccio con la mia decisione libera è fottermene dell’eterosessualità e delle altre finzioni politiche, delle imposizioni sociali, del regime eterosessuale, distruggerlo, decostruirlo, perché questo sistema semplicemente non è ‘normale’ o ‘naturale’.

Perché in tutto il mondo lo Stato sostiene economicamente la gravidanza, anche nel caso di donne non lavoratrici? Perché gli conviene. Si tratta di un investimento a breve termine in questo modello globale di produzione e consumo. Gli conviene continuare a riprodurre il modello di famiglia e, quindi, ottenerne manodopera a buon mercato e produzione di massa; serve anche a mantenere le persone educate, normate, tranquille, passive e apatiche, immerse nella telenovela dell’amore romantico e del “e vissero felici e contenti”. Dopodiché famiglia e Stato, insieme, manterranno più facilmente controllat@/oppress@ le/i dissidenti sessuali, pianificando di catturarli per normarli, smontarli o sterminarli.

Nel modello di produzione-consumo si costruisce anche la Famiglia, che non è l’unico agente di socializzazione, ma il più significativo. Questo modello sostiene la moralità, la buona coscienza, la coercizione, il dominio, la repressione, la violazione dei diritti umani fondamentali e delle garanzie individuali, è un modello di ricatto emotivo-sentimentale ed economico. La famiglia, oggigiorno riprodotta ugualmente dagli omosessuali misogini e maschilisti e dalle lesbiche patriarcali, è un modello oppressivo che funziona in modo molto visibile attraverso botte, insulti e abusi, o forme delicate e sottili come: “figli@ mio, devi raccontarmi tutto e dirmi ogni passo che fai perché siamo la tua famiglia e tra noi c’è fiducia, vero?”. Oppure: “io ti controllo e ti dico come fare le cose solamente perché ti amo e mi preoccupo per te, faccio tutto per il tuo bene, ti rispetto.”

La chiamano ” educazione”. E con essa violano pesantemente la privacy di ogni membro della famiglia: un legame di sangue non rende un oggetto di proprietà. Ma sì, queste forme saranno sempre camuffate da tanto amore, devozione, buone intenzioni e preoccupazione, perché è per questo che esiste “l’amore familiare”.

Esiste una negazione consapevole del fatto che la famiglia (e lo Stato) diano ordini e puniscano chi non li rispetta; il loro irrazionale potere autoconcepito gli fa credere di avere l’autorità che serve per poterlo fare. Le famiglie controllano, soffocano, a volte lentamente, a volte in poche, rapide mosse. È chiaro che lo Stato non smetterà di produrre famiglie, ma le persone possono smettere di farne parte, scegliendo di non esserlo, non semplicemente cambiando loro nome: famiglie diverse, nuove famiglie, altre famiglie, due mamme, due papà, una madre single. Non vedo nessuna lesbica mettere vestitini ai propri figli. Vedo invece molte donne incinte chiamare principessa il feto “donna”, o “mio re”, guardando l’ecografia, per esempio.

Questa stessa negazione consapevole fa sì che si arrivi a dire che lo Stato “ha firmato e riconosciuto” i diritti sessuali e riproduttivi per dare, a tutta questa diversità sessuale eterosessuata (ma non dissente), ciò che stava chiedendo e quindi tenerla buona, di modo che la smettesse di dare fastidio. Bisogna essere consapevoli di quanto possa essere manipolatore un apparato di governo, come lo Stato, che ha dato prove più che sufficienti di quanto meschino, invadente, corrotto, ricattatore, dispotico e infido sia.

Smettere di creare famiglie, però, è qualcosa di semplicemente impensabile per la maggior parte delle persone. Cos’altro potrebbero fare, se non quello che hanno interiorizzato alla perfezione sin da quando sono nat@? Ma allora che ne è di tutte quelle persone che si dicono femministe, e parlano in continuazione delle proprie preoccupazioni sulla violenza di genere e sulla violenza contro le donne? Coloro che citano tanto Foucault e la storia della sessualità volume uno, due, tre, e non si levano dalla bocca il biopotere e la biopolitica, arrivando a dormire con la foto di Simone de Beauvoir sopra la testata del loro letto a due piazze? Il loro eterocentrismo si vede fin dalla luna. I loro discorsi contraddittori dimostrano la loro incapacità di smettere di fare ciò che alla fine dei conti aggredisce e stigmatizza le stesse persone che dicono di sostenere. Staremo mica battendo l’eteropatriarcato capitalista?

Fare del femminismo istituzionale, metter su famiglia e fare richieste a uno Stato che incarna la figura paterna (maschio protettore, padre benefattore) è semplicemente la prima di questa grandi contraddizioni. Eppure si piccano di essere totalmente consapevoli e deseteropatriarcatizzate, parlano di parità di genere, fossilizzandosi, tanto per cambiare, in una dicotomia carceraria.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.

Per cui, come avrete inteso, quello che sto scrivendo non è un tentativo di vittimizzarmi per chiedere allo Stato di smetterla di trattarmi come una cittadina di serie B: io non voglio niente da lui a livello personale, né sto chiedendo alle femministe attiviste istituzionali di prendersi “maternamente” cura di me durante la mia rinascita Trans. Il mio transfemminismo è anarchico, radicale e autogestito. In ogni caso il fatto che stia suggerendo che lo Stato non dovrebbe sostenere economicamente le gravidanze e ciò che implicano è solo un piccolo contributo che voglio dare, una sorta di omaggio. Chi vuole un figlio che se lo paghi e se lo mantenga a partire da una pianificazione della propria libera scelta. Che sia un suo lusso. Che la si smetta di usare le tasse di tant@ trans per cose di questo tipo, sarebbe anche l’ora di finirla di farci pagare persino la transfobia che subiamo sulla nostra pelle. O per lo meno che, chi vuole diventare “madre”, passi attraverso i colloqui psichiatrici per spiegare il perché di questa sua decisione, in modo da convincere la scienza e l’OMS del perché è sicura di poter partorire, allevare ed educare una nuova persona. L’unico argomento della totale dedizione, della protezione e della premura, radicato in un ruolo di genere inventato, non dovrebbe essere sufficiente. Si tratta meramente di un mito romantico, basato sul regime eterosessuale: pensare che molto amore e molte cure renderanno tutto possibile è solo quello che le è stato fatto credere.

In conclusione, per chiudere qui la mia dissertazione, voglio chiarire alcune cose, visto che una delle lacune del sistema educativo scolastico riguarda proprio la comprensione scritta, e io sono molto stanca del fatto che si dica che io ho detto questo o quello. Per cui questo testo, come avete letto, è totalmente antimaternità, certo, ma non ho scritto da nessuna parte che dovreste smettere di restare incinte e partorire. Quella che sto facendo, qui, è una feroce critica per segnalare qualcosa che pare nessuno voglia dire per paura di suonare politicamente scorrett@, compromettere il proprio curriculum o essere tacciat@ di violenza, di non essere solidale o di aver smesso di esserlo e perdere di conseguenza il sostegno, l’alleanza, essere espuls@ dal collettivo, dalla ONG, fare brutta impressione, o non ricevere più il saluto “fraterno e sorridente” di altr@ compagn@.

Ciò che voglio dire con questo scritto, parlando di quelle che decidono, scelgono e desiderano la maternità e di formare una famiglia, è che si smetta di diffondere nel mondo la chiacchiera per cui una gravidanza, la maternità e il formare una famiglia rappresentano il top, il massimo del massimo, perché anche con i discorsi, il linguaggio e le proprie sciape sensazioni si continua ad alimentare e ricostruire all’ infinito i ruoli di genere nella società.

Ciò che affermo è che bisogna smetterla di raccontarsi fiabe rose e sdolcinate e di comprare happy meal Mcdonalds, e ci si assuma con onestà le atroci responsabilità sociali che implicano la gravidanza, il parto e l’allevamento dei figli@, in un contesto così fortemente capitalista ed eteropatriarcale come quello descritto, e che ci si renda conto, una volta per tutte, che la “libera scelta” di alcun@ non ha luogo nella coppia, né tra le quattro pareti del proprio nido d’amore, né è appannaggio della donna sola, o accompagnata, che decide di farlo: una gravidanza oltrepassa tutto questo e collabora direttamente con il sistema che ci fotte tutt@.

desde el mismo nacimiento la intersexualidad, y después en la socialización del género a la transexualidad, bajo el yugo heterosexual, ¡ahí te encargo!

Io Frieda affermo che la dovete piantare di rispettarmi seguendo la logica del “io non ho alcun problema con le persone trans”, dalla vostra schiacciante posizione di normalità. E di quell@ che, sotto il giogo eterosessuale, tirano su solamente uomini e donne, omettendo dalla stessa nascita l’intersessualità, e successivamente dalla socializzazione di genere il transessualismo: io vi sfido!

Perché siamo le/i trans che la dicotomia di genere non ha potuto normare. E siamo qui, e non staremo zitt@, né ci nasconderemo in un qualche luogo oscuro di modo che le/i vostr@ piccolin@ non si spaventino o “contagino” in qualche modo.

La maternità nella società capitalistica è lo schiavismo del 21° secolo

snowwhiteIl titolo del post è uscito un po’ allarmista, ma mi spiegherò meglio e mi capirete alla perfezione. Ho appena visto un video realizzato da un’azienda che produce biglietti d’auguri. Nel filmato un uomo d’affari offre un lavoro. I colloqui con le/i potenziali candidat@ si svolgono via skype. L’uomo comincia a descrivere il lavoro: bisogna essere reperibili 365 giorni l’anno, notti incluse. Disponibilità assoluta e altre amenità. La situazione si mette male quando spiega che non è prevista alcuna paga, la gente protesta e pensa si tratti di uno scherzo.

Allora il nostro amico ci comunica che il posto è già occupato da migliaia di persone in tutto il mondo: si tratta delle madri.

http://www.youtube.com/watch?v=ZD8yfyaeaxM

Mi sono messa a piangere quando alla fine il gruppo di persone ringrazia la propria mamma e vengono presentati alcuni di questi biglietti di auguri del tipo “per la migliore mamma del mondo.” Problema risolto ragazzi, eh? Tua madre ha lavorato come una schiava per anni senza ricevere nessuno stipendio, e la soluzione del problema è acquistare un merdoso biglietto per la festa della mamma.

Nelle società matriarcali come i Moso in Cina, o matrifocali, come i Minangkabau in Indonesia, le madri hanno una serie di privilegi che almeno non le lasciano completamente indifese, come avviene nel sistema patriarcale capitalista nel quale viviamo. Ad esempio, tra i Minangkabau le donne sono quelle che posseggono la terra, le madri e le/i figli@ sono quelli che hanno case e terreni fertili, di modo che una donna non si troverà mai sola, senza casa e senza un soldo con due bambin@ a carico come avviene qui, nel nostro popolo in-civile, giorno dopo giorno. Che ad ascoltare i telegiornali viene voglia di urlare.

I Moso semplicemente non hanno un’istituzione matrimoniale e si risparmiano i relativi sacrifici. I rapporti sessuali sono liberi e le/i figli@ fanno parte della famiglia della madre. Gli uomini assumono il ruolo di padri delle/i bambin@ delle sorelle. Se vi interessa l’argomento, potete visitare il mio archivio, dove ho pubblicato alcuni testi al riguardo e vi sono state più di due discussioni sulla questione. L’ultima di queste a Vienna, tra l’altro, in un discorso sul matriarcato queer che evidentemente non ho saputo affrontare, visto che mi sono saltat@ alla giugulare. La prossima settimana torno in Austria per un workshop e spero di risolvere il pasticcio.

La mia amata Alicia Murillo dice che la gente nelle proprie discussioni non ha problemi ad esigere un salario per i lavori domestici, ma far pagare le prestazioni sessuali è più complicato. Penso che il problema risieda nell’enorme tabù che la società ha con la prostituzione, e la questione ha a che fare con tutto quello di cui stiamo parlando. Mi spiego:

La ‘signora’ si sveglia alle 7 del mattino (al più tardi) dopo una notte intensa, i bambini si sono svegliati 5 volte, tanto che, tra biberon e latte, questa persona ha a malapena chiuso occhio. Fa un pompino al suo ‘signor’ marito, perché vada al lavoro contento, poi prepara la colazione per tutta la famiglia e le attività che seguono già le sappiamo: pulizie, spesa, medico, figli@, cucinare, lavare. Siamo tutt@ d’accordo che questa ‘signora’ lavora come una schiava e non è giusto che l’unico a lavorare “legalmente” qui sia l’uomo, che lavora otto ore scarse e poi corre a casa sul divano.

Va ancora peggio quando lei lavora anche fuori casa, perché allora fa un doppio lavoro e la situazione è già disperata. Questa è la realtà di milioni di donne da queste parti, in questa rabbiosa e frustrante attualità.

E siamo ancora lontan@, o forse non così tanto, dalla possibilità che questa persona ottenga uno stipendio per il lavoro che fa, e che si prenda in considerazione che tutto questo lavoro fisico eccessivo possa ottenere una compensazione economica in un mondo capitalistico. Questo o cambiamo mondo. E quel pompino o aprire le gambe senza desiderio alla fine di una giornata interminabile, anche questo è lavoro. Sono cure, così come sono cure le attenzioni dedicate ai bambini, cucinare, fare lavatrici, pulire la casa, alzarsi alle due, alle tre e alle cinque del mattino per rispondere al pianto di un bambino malato.

Basta perdio! Con tutto quello che si è detto del crowdfunding su Verkami del libro Maternidades Subversivas, l’attenzione si è concentrata sui parti e sugli allattamenti orgasmici, credo perché sono temi vistosi e mediatici. Ecco, una puttana che gode a partorire, se non è vero che il vizio non conosce limiti… Le donne in questa società non si comportano così, partoriscono, puliscono e crescono le/i figli@ col dolore e il sudore della fronte. Ovviamente, senza stipendio. Si chiama schiavitù. Spero che il libro venga pubblicato e che si dicano un paio di cose ben dette, con l’aiuto di un sacco di persone potenti e di tutti voi.

PS: Vi regalo il link a un bell’articolo sull’origine della festa della mamma e le parole sagge in merito a questo articolo di Rosario Hernández Catalán:
“Il figlicidio e il matricidio informano, purtroppo, la storia. Sicché la femminista Julia Ward convocò un’alleanza di madri contro la guerra, perché la guerra è il più grande figlicidio (uccisione delle/i giovani, delle/i figli@) e il più grande matricidio (sterminio dell’opera materna). La guerra è progettata dal Patrix, la gerontocrazia (il governo dei vecchi) patriarcale. E pensate a come è significativo che la fanteria,il corpo ammortizzatore di un esercito, si chiami così, dal termine infanti (giovani, ragazzi). La grande Victoria Sau nel suo Dizionario Ideologico Femminista, alla voce “guerra” vi illuminerà su questo tema.”

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente e Elena Zucchini (grazie!)

Una donna registra il proprio aborto per mostrare alle altre che la procedura è sicura

http://www.youtube.com/watch?v=OxPUKV-WlKw

Emily Letts è una 25enne, ex attrice professionista e attualmente consulente presso la New Jersey Women’s Clinic. Dopo aver scoperto la propria gravidanza indesiderata, ha deciso di registrare il suo aborto per mostrare alle altre donne che la procedura è sicura. Letts lavorava al Cherry Hill Women’s Center da un anno, al momento della scoperta. Ha raccontato la sua storia in un articolo di Cosmopolitan, spiegando di non sentirsi pronta a diventare genitore e di non essere impegnata in una relazione seria:
“Sentivo di non essere pronta a prendermi cura di un bambino”.

Letts ha dunque deciso di interrompere la gravidanza presso la clinica Cherry Hill, dove è consulente. Incinta da sole due o tre settimane, aveva cercato un video per rendersi conto di come avvenisse un aborto, senza trovarne nessuno. Perciò ha preso la decisione di filmare il proprio, allo scopo di aiutare tutte le altre donne che si trovino ad affrontare gravidanze indesiderate e che temono l’aborto.

Scrive Letts: “un’interruzione di gravidanza al primo trimestre dura dai tre ai cinque minuti. E’ più sicura del parto, non vengono praticati tagli operatori e il rischio di infertilità si attesta sotto all’1%. Ciononostante molte donne arrivano in clinica terrorizzate e convinte di venire macellate, e che non potranno più avere figli@ dopo l’aborto. La pessima informazione circolante è incredibile”.

Ha scelto l’aborto chirurgico in anestesia locale e non totale, proprio perché voleva sperimentare il tipo di procedura che più spaventa le donne che si rivolgono a lei per consigli. Voleva in tal modo capire meglio le donne angosciate che si trova di fronte e che deve aiutare, non far sentire le donne in colpa nello scegliere l’aborto ed anzi, essere loro d’esempio a non sentirsi in colpa riguardo alla decisione di interrompere la gravidanza.

“La nostra società alimenta questo senso di colpa, lo respiriamo dappertutto. Anche le donne che arrivano in clinica assolutamente convinte di volere l’aborto, si sentono in colpa per il fatto di non sentirsi in colpa! “Io non mi sono sentita in colpa…  e ringrazio di poter condividere la mia storia e ispirare altre donne per smontare quel senso di colpa.”

Su YouTube, Letts scrive:

Questa è la mia storia. SOLO la mia storia. Non immagino sia più o meno di questo. Non parlo per tutt@ in merito a questa questione delicata, e rispetto le opinioni di tutt@ fintantoché non vengono imposte per altr@.

La mia più grande speranza è che qualcun@, in qualche parte del mondo, veda il video e vi trovi guida, forza, supporto, o qualsiasi cosa quella persona stia cercando in quel momento. Voglio dire a quella persona “non sei sola”. Abortire non ti rende un mostro, una donna  per male, una cattiva madre.  Abortire non ti rende una colpevole. E’ soltanto un avvenimento della tua vita riproduttiva. Non sei sola. Sono qui per te. Siamo tutt@ qui per te.

Condividete questo video, PER FAVORE.  Aiutatemi a farlo girare in tutti gli angoli remoti della rete. Una donna ogni tre ha scelto, o sceglierà un ‘interruzione di gravidanza nel corso della propria vita riproduttiva. Questo video è per tutte noi.

Inutile sottolineare come i commenti negativi al video dei ‘difensori della vita’ si sprechino in parole di tolleranza quali, puttana, cagna, demone, speriamo che tu muoia/ti leghino le tube/ ti penta per tutta la vita/non abbia mai figli@, ecc.ecc.

Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Donne e violenza

Leggendo questo titolo, molte persone avranno pensato alla violenza contro le donne, che è tanta. Tuttavia voglio riferirmi alla violenza che  queste esercitano o, meglio, a quella che potrebbero esercitare in propria difesa, una violenza quasi inesistente, sia organizzata in gruppi, sia esercitata in modo individuale. La domanda che mi faccio sempre è: Perché le donne raramente usano la violenza contro un sistema patriarcale che è così violento contro di loro?

autodefensa

Assistiamo continuamente a scene di violenza contro le donne: reale e romanzata. Abbiamo visto video o immagini di fustigazione, lapidazione, abusi fisici e abbiamo visto le donne camminare per le strade di alcuni paesi sotto un burka. Ogni pochi giorni, in questo paese, una donna viene uccisa da un uomo, e spesso vediamo donne reali con ematomi reali. Vediamo anche molte immagini romanzate di stupro, pestaggi e omicidi, in film o telefilm. Nella nostra cultura globale il maltrattamento delle donne è molto comune ed è assolutamente diffuso. La violenza contro le donne non è sorprendente, conviviamo con essa, è un’immagine quotidiana e reale; ci accompagna costantemente. E nonostante ciò, questa campagna mi ha colpito, mi ha scosso, mi ha fatto male:

E mi ha fatto pensare, ancora una volta, a una domanda che mi sono fatta molto spesso: Perché le donne non si sono mai organizzate con la violenza per difendersi dalla violenza perpetrata continuamente contro di loro? E perché non si difendono con la violenza da coloro che le maltrattano? Perché ci sono così pochi omicidi per legittima difesa? Sì, sappiamo che noi donne siamo educate a non esercitare la violenza fisica e che, storicamente, non siamo state parte di eserciti o istituzioni che fanno uso della forza; che da bambine non giochiamo giochi che implicano violenza, che siamo educate per curare e sopportare, per non rispondere alla violenza con la violenza, ma con lacrime e preghiere. Tutto questo implica un grande freno fisico e psicologico alla possibilità di usare la violenza in alcune circostanze ma, tuttavia, sono numerose le occasioni in cui le donne hanno superato questa barriera.

Le donne imbracciano spesso le armi; le donne partecipano e hanno sempre partecipato a sommosse, guerre o rivoluzioni. Le donne oggi sono militari, terroriste o guerrigliere; mettono bombe, dirottano aerei, fanno parte con naturalezza dell’esercito. Meno degli uomini, certo, perché i ruoli di genere  mettono loro dalla parte della guerra e non noi, ma anche così, questa barriera non è mai stata impenetrabile. Le donne hanno preso le armi per difendere le proprie famiglie, i propri paesi, le proprie divinità o le proprie idee. Le donne muoiono e uccidono lottando contro il capitalismo, contro un’invasione, contro il colonialismo, il razzismo, la povertà, contro il comunismo o contro l’influenza straniera. E tuttavia, non hanno mai preso le armi per difendere sé stesse dal patriarcato. Le donne muoiono e uccidono, ma mai per sé stesse; e nel caso, contro il patriarcato, uccidono sé stesse, si suicidano. Perché? Perché questa idea suona completamente folle? Mi riferisco ai patriarcati più barbari, mi riferisco all’obbligo di nascondersi sotto un burka, al divieto di uscire di casa, ai matrimoni forzati, alle lapidazioni, agli stupri, al divieto di studiare … E mi riferisco in particolare a quando queste circostanze sono “nuove”, cioè quando si verificano dopo periodi di patriarcati “normalizzati”; il caso dell’Afghanistan è il più noto, ma non è l’unico. La domanda che mi faccio sempre è: perché donne che hanno studiato all’università, che hanno sposato qualcuno per amore, che sono state imprenditore o lavoratore, che hanno viaggiato e camminato per la strada normalmente, non si sono organizzate in gruppo armato prima dell’arrivo dei talebani? Perché per noi è molto più facile optare per il suicidio, che per l’aggressione ad altri, anche in circostanze come quelle menzionate? E anche conoscendo le risposte che spesso vengono date a questa domanda, a me non basta; riconosco le barriere, i freni psicologici, ma… Mai? Nemmeno in questi casi?

Se ci riferiamo alla possibilità di esercitare la violenza individuale per rispondere alla violenza individuale, mi assalgono gli stessi dubbi. Recentemente ho discusso con qualcun@ sul fatto che il patriarcato si sia instaurato a causa della maggiore forza fisica degli uomini. Sebbene qualsiasi sistema di dominio usi la forza come strumento, questa non è indispensabile. Il nucleo del potere consolidato è sempre simbolico e infiltra la costruzione personale; altrimenti la resistenza si manifesterebbe immediatamente. Per esempio, esistono – e sono esistiti già in passato – gruppi umani in cui il potere è detenuto dagli anziani, che sono fisicamente i più deboli. Inoltre l’intelligenza, l’organizzazione o le armi possono ben sostituire la forza fisica. La forza fisica non è fondamentale quando si può afferrare un’arma, e vi sono paesi in cui le armi sono a disposizione di uomini e donne.

La forza deriva sempre da un potere simbolico, e questo stesso potere  serve anche per privare altr@ del potere. Nel caso del patriarcato, la  forza fisica fa riferimento al potere simbolico di genere che dipinge  tutti gli uomini come assai più forti fisicamente di tutte le donne,  anche se questo non corrisponde al vero in molti casi specifici o non  deve essere sempre così. E questo potere simbolico dà loro una forza  reale, del potere, mentre allo stesso tempo indebolisce le donne e le  lascia immerse in un’impotenza fisica e psicologica assoluta.

Per  combattere la violenza maschile, come femministe, intendiamo usare la  forza, simbolica e reale, della legge. E’ vero che se la legge  condannasse e perseguitasse questa violenza, se si utilizzassero le  risorse per l’educazione contro di essa, se la condanna sociale fosse  totale, lentamente faremmo passi avanti. Tuttavia, nel caso del dominio  patriarcale, la legge è solo uno strumento, ma non è l’unico, perché per  quanto si condanni e punisca la violenza contro le donne, se lasciamo  intatto il sistema di dominazione simbolica, la violenza esisterà sempre, anche  se punita e condannata. Questo sistema è perversamente perfetto e  mentre punisce da un lato, incoraggia la violenza simbolica dall’altro.  Mentre legifera a favore della parità, si approvano o  semplicemente si incoraggiano comportamenti, abitudini,  rappresentazioni, leggi o istituzioni chiaramente ineguali.

Quindi la lotta contro la violenza di genere passa attraverso le leggi, passa attraverso l’educazione alla parità, ma passa anche attraverso qualcosa di molto più complicato, quale è l’aspetto simbolico, culturale. Nell’ambito culturale, il potere di autodeterminazione delle donne deve esprimersi anche sul piano fisico, perché le ragazze sono educate alla convinzione che tutti gli uomini sono più forti di loro e che, di fronte ad un’aggressione, possono ricoprire esclusivamente il ruolo di vittime. Tutti i giochi femminili, l’esercizio fisico che (non) fanno, l’abbigliamento, le scarpe, i movimenti, il linguaggio del corpo e persino il vocabolario che usiamo, tutto va nella direzione di togliere forza fisica alle donne. I ragazzi, però, non vengono educati nel timore dei ragazzi forti, ma nella coscienza dell’uguaglianza. Anche le donne possono anche essere forti, ma soprattutto, possono essere, sentirsi, fisicamente alla pari. Il punto non è promuovere l’uso della forza, ma non sentire barriere, blocchi, paure o sentimenti di impotenza di fronte ad altr@ presenze corporee e anche riguardo al proprio stesso corpo.

In questo senso vorrei raccontarvi qualcosa del mio rapporto speciale con la forza fisica. Siccome ho sofferto di poliomielite alle gambe, la mia famiglia decise che sarebbe stato molto importante rafforzare il resto del mio corpo per compensare. Mi hanno fatto fare ginnastica da quando avevo tre o quattro anni. Ho fatto ginnastica per rafforzare il corpo in generale, in particolare i muscoli delle braccia, tutti i giorni della mia infanzia e adolescenza. Ogni pomeriggio dopo la scuola ho trascorso due ore con un’allenatora facendo le parallele, l’arrampicata con la corda, gli addominali e il sollevamento pesi. A causa di ciò, ero una bambina molto forte, insolitamente forte rispetto a come sono le bambine di solito, e anche i bambini. In realtà, ero la personcina più forte nella mia classe, cosa che mi ha fatto avere un diverso rapporto con il corpo rispetto rispetto a quello che di solito hanno le bambine.

Se si doveva salire su di un albero, scalare una parete o trasportare qualcosa chiamavano me.

Se giocavamo a qualche gioco in cui la forza era importante, tutti mi volevano in squadra. I bambini a volte si picchiano, spingono, hanno relazioni mediate dal contatto fisico senza che ciò debba finire in combattimento. Queste relazioni sono state per me una forma di espressione naturale e tutto ciò ha avuto conseguenze, ha determinato il mio inserimento nel gruppo dei bambini, e non delle bambine. Non si faceva nel mio caso il confronto per capire se ero più forte o più debole degli altri, di pochi, o della media. Ero una in più. La cosa importante non era la forza concretamente misurabile, ma l’uso che facevo del mio corpo, della mia forza fisica, quella che fosse; la sensazione era di essere uguale agli altri bambini.

Gli uomini che picchiano le donne non lo fanno perché sono più forti e sicuri di vincere la lotta. Le picchiano perché sanno che in ogni caso la vittima non si ribellerà. Ricordiamo che la violenza del partner maschile in una coppia è un’escalation in cui tutto comincia con un insulto o uno schiaffo a cui lei non risponde mai. Che sia chiaro che non intendo affatto banalizzare il problema della violenza maschile, e non sto suggerendo che la risposta ad essa sia di restituire i colpi. Ma credo che molti degli uomini che picchiano le proprie mogli non siano particolarmente forti, né coraggiosi, e non colpirebbero nessuna se immaginassero che questa qualcuna è capace di resistere. Picchiano una donna perché sanno di poterlo fare, perché è completamente impotente, anche fisicamente.

Conosco bene i meccanismi psicologici che portano molte di queste donne a non lasciare i propri aguzzini, a non denunciarli, a non combatterli; so quello che ci fa ‘l’amore romantico’, la dipendenza affettiva e materiale, ecc. Comprendo che parliamo di un sistema naturalizzato che si rende invisibile, che si manifesta nel simbolico, nello psicologico, nell’autocostruzione personale, che spesso non percepiamo in quanto sistema di oppressione; si manifesta in tanti piccoli atti quotidiani contro cui è difficile ribellarsi, che coinvolgono la famiglia, le persone care, i figli e le figlie. Comprendo che la repressione che viene agita contro le donne che rispondono agli attacchi è stata storicamente terribile, e ancora oggi è orrenda in molte parti del mondo. E il femminismo fa molto per combattere tutto questo. Voglio solo dire che, come parte della nostra lotta femminista, dobbiamo imparare a posizionarci nel mondo con una corporeità autodeterminata, forte, coraggiosa e consapevole; che ciò contribuirà – contribuirà solamente – a cambiare alcune cose. E comunque, torno alla domanda iniziale.

Al di là della violenza machista in particolare, per quale ragione le donne mai, mai si sono organizzate e hanno preso le armi per difendersi, almeno in situazioni straordinarie? Questa domanda mi passa continuamente per la testa senza che io riesca a trovare una risposta – Mai?

(Articolo originale qui. Traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente.)