Il piacere politico di venire a spruzzi

dianaLo scorso 14 febbraio abbiamo festeggiato San Valentino al Tramallol, parlando di eiaculazione femminile. Diana Pornoterrorista ce lo ha spiegato attraverso un seminario teorico e una performance  che ha realizzato insieme alla Deny.

Da quando ho partecipato al seminario di Diana Pornoterrorista sull’eiaculazione femminile lo scorso 14 febbraio, ho passato la settimana seguente in “modalità Messia”, annunciando la buona novella: noi donne abbiamo la prostata e molte sono in grado di fare uno spruzzo, naturalmente o tramite qualche tecnica e un po’ di pratica. Beh, saperlo lo sapevo. Alcune amiche me lo avevano detto, e avevo sbirciato “squirting” qua e là in qualche pagina. Ma pensavo che fosse un fiasco dare tutto per perso e, conoscendomi, ‘dormire in una pozzanghera’ per pigrizia.

Quel pomeriggio minacciava di piovere un sacco a Siviglia. Ovunque e in tutte le direzioni. La piccola stanza adiacente al Tramallol si riempì fino a traboccare, e Diana ci spiegò pazientemente una parte della sua storia. Lei viene a fiumi da tutta la vita. Pensava, come molte altre, di pisciare ogni volta che lo faceva. Ma alcune lenzuola nere la fecero dubitare: ciò che lasciava un alone bianco non era pipì. Dopo molte ricerche, e aver notato che tutto ciò che non serviva per procreare era catalogato dalla fisiologia come organi “secondari ” o ” accessori”, trovò le ghiandole di Skene.

Che già il nome e la storia del suo scopritore sanguinario sono un’altra questione. Queste ghiandole sono responsabili della produzione di quel liquido che, se non viene espulso naturalmente, viene retroeiaculato ed eliminato attraverso l’uretra. Ma poche persone lo sanno. Nemmeno le donne che eiaculano regolarmente. Si tratta di un silenzio imbarazzante che la scienza perpetua, in cui molte donne si perdono, pensando di avere un problema dalla soluzione chirurgica. La sessualità femminile è sempre discreta, non dà molto fastidio. Se ti tocchi la clitoride mentre scopi cazzi, fai male, che importuna! Se spruzzi sei pessima, non puoi competere con la sborra maschile. L’eiaculazione femminile viene a dirci di permetterci questo piacere di infastidire un po’, di renderci visibili, e di capire i nostri corpi così come sono, non come dovrebbero essere.

Esco dalla stanza felicissima, mi piace l’idea. E mi fa incazzare essere io stessa quella che non fa casino, per paura che… Un’ora e due birre più tardi, la navata del Tramallol assiste alla performance. Eiaculerà selvaggiamente, scoperà con La Deny dal vivo e in diretta… c’è attesa. Inizia a pulire un tavolo scusandosi per l'”attacco da casalinga” che le è venuto e ci chiede di sederci. La mia miopia mi lascia intuire che si è conficcata degli aghi nelle sopracciglia e sul petto, e sta sanguinando. Qualcuno fa una faccia strana, Diana chiarisce che lo fa perché le piace. Sniffa una striscia di sale e piange lacrime e muco mentre parla dei corpi che attraversano la frontiera e vengono puniti per questo in Messico. Inevitabile non pensare a Ceuta, così vicina. Rimuove gli spilli e imprime la propria sacra Sindone col sangue del volto. Ma le si rompe la base del microfono, la musica salta da sola a metà di una poesia… è una terrorista e “errorista”, come lei stessa si definisce, cosa che personalmente apprezzo.

C’è spazio per le risate, che figata. Ci fa scrivere su un foglio come ci hanno apostrofate a volte, quello che ci ha fatto davvero male, proprio per aver anche oltrepassato certi confini: quello del decoro, della morale… Lei si spilla sul corpo i foglietti con i quali si identifica: puttana, frocia, cagna, malata… e poi ne fa un rogo, che brucia con il sangue della sua coppetta mestruale, mentre lei e la Deny e tutte noialtre osserviamo come tutto brucia e diventa cenere. La vendetta cura. Guariamo. E rimaniamo alcuni secondi tranquille, assimilando. Qualcuno le chiede perché non è venuta. Lei dice che non si sente molto bene, è il primo giorno di mestruazioni, è un po’ dolorante… inutile farlo.

Articolo originale di Tania B. Martinez qui, traduzione e revisione lafra, serbilla e feminoska.

L’intersezionalità in discussione: la depoliticizzazione bianca (prima parte)

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Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza. (bell hooks, Elogio del margine)

Proponiamo la traduzione di un articolo pubblicato in originale qui, sul tema dell’intersezionalità. Le critiche mosse dall’autor@, che mette in guardia sui pericoli insiti nell’appropriazione del termine da parte di soggett@ bianch@ e anche da parte di certo ambito accademico ci ha dato notevoli spunti di riflessione, che abbiamo deciso di condividere qui.

Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Buona lettura!

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L’uso del termine intersezionalità in riferimento all’inclusione in un’ottica di lotta militante di razzismo, sessismo e lotta di classe è stato proposto da Kimberle Crenshaw all’interno di un articolo scientifico, disponibile qui in lingua francese. Se l’articolo è stato pubblicato nel 1991, possiamo dire che l’intersezionalità esisteva da quando le donne schiave, poi i/le colonizzat* e gli/le sfruttat*, hanno resistito contro il dominio di razza, classe e genere che le colpiva, indipendentemente dal fatto che la cosa fosse o meno teorizzata. Si è comunque avuta una forte scossa militante nell’attivismo degli anni 1970: le lotte delle donne nere hanno acquisito status politico. Nacquero così il Black feminism, e più tardi il Womanism. Le donne di colore erano ormai al centro, non ai margini.

Purtroppo, l’intersezionalità ha subito sempre più un processo di depoliticizzazione da parte di accademic* bianch*. In un articolo intitolato “Lost in translation? Femminismo nero, Giustizia sociale, e Intersezionalità” Patricia Hill Collins, figura di spicco del femminismo nero, si interroga su quello che è andato perso nel passaggio dall’intersezionalità della pratica militante femminista nera alle università. Sirma Bilge parla anche di “sbiancamento dell’intersezionalità”. Oltre alle/gli accademic* bianch*, sono coinvolt* nella sua depoliticizzazione le/gli attivist* bianch*, anche slegat* dal mondo accademico.

Sono dunque tre, al momento, i problemi principali che riguardano l’intersezionalità, o meglio ciò che ne viene fatto:
1) Trasmissione elitaria del concetto
Se l’intersezionalità nasce dalla lotta degli oppressi negli Stati Uniti, mi sembra che l’avvento dell’intersezionalità in Francia sia stato reso possibile dall’università. Quando un concetto viaggia e arriva dall’università, o viene reso visibile dall’università (che non è lo stesso), o dalla parvenza di attivismo all’interno delle pratiche che discendono da quello stesso elitarismo accademico e che mobilitano reti accademiche, esiste necessariamente un pregiudizio di razza e classe su chi se ne approprierà, anche se alcune delle cose offerte dal mondo accademico in materia sono piuttosto interessanti.
2) Intersezionalità come sinonimo di “convergenza delle lotte”
Penso che questo sia il punto che più m’infastidisce. L’intersezionalità non è stata costruita per creare alleanze militanti tra bianch* e non bianch*, soprattutto perchè le alleanze miste sono quasi sempre a vantaggio de* dominant* che impongono la propria visione. L’intersezionalità è stata, e per alcun* è ancora, e deve restare, un modo per le/gli oppress* non bianch* su diversi piani di essere AL CENTRO e non AL MARGINE. Noi non dobbiamo far convergere le lotte, perché questa espressione dimostra che le lotte continuano ad essere pensate da posizioni che non sono le nostre, e che si tratta semplicemente di evocare ciò su cui queste lotte si uniscono (e vedremo chi è che evoca…).
Noi SIAMO la convergenza. Noi non abbiamo nulla su cui convergere. Noi siamo l’intersezionalità, punto. E qui, noi significa donne, trans, queer, intersessuali, omosessuali, disabili non bianch*. Ponetevi la domanda: perché sono sempre bianch* di sinistra a parlare di “convergenza delle lotte”? Dal nostro punto di vista esiste una confusione terribile tra il nostro interrogarci sui punti deboli della nostra politica (legittimo) e il fatto che le/i bianch* impongono la “convergenza delle lotte ” (illegittimo), che spesso equivale a dire “seguite la nostra agenda politica”.
L’intersezionalità è sempre più sradicata, e la sua storia cancellata. Piuttosto che essere uno strumento delle comunità nere e non bianche, diventa uno strumento “femminista”, uno strumento di lotta “globale” contro il sistema. No, no e no. L’intersezionalità non è femminista, è femminista-nera o womanist negli Stati Uniti, è afro-femminista in Francia, come viene chiamata sui social network, e potrebbe servire alle/i trans e gay non bianch* se comprendono il valore di questa parola (perché in realtà, a parte la parola, il processo al quale rimanda l’intersezione è già esistente). Ma non è certo un giocattolo per le/i bianch* per dire alle/i non bianch* di seguire la loro agenda o le loro modalità di lotta, con il pretesto della “convergenza delle lotte!”
3) Intersezionalità come un modo per non mettere più in discussione le questioni razziali
Ecco, questo è l’aspetto “vetrina” dell’intersezionalità. Io sono bianc*, mi proclamo “intersezionale”. Ok, va bene, guadagno punti. Definirsi intersezionale non significa nulla se si è bianc*. Nulla.
Usare il termine in questo modo è una cosa oscena, e le/i bianch* sapranno leggere molto bene lo scopo nelle mie critiche, vale a dire una presunta immunità che si guadagnerebbe  sulla base di una rimessa in discussione dei discorsi e delle pratiche, solo perché si dichiarano “intersezionali”. Basta essere dalla parte giusta su alcune questioni, come, guarda caso, essere contro la violenza della polizia nel suo aspetto razzista, essere contro l’islamofobia e il divieto di indossare il velo, e alcun* bianch* credono di avere il diritto di fare o dire di tutto e soprattutto di venire a spiegare come va  la vita alle/i post – colonizzat*, rimproverare le/gli  antirazzist* di non essere abbastanza “intersezionali”, ecc .
Chi siete voi per credere di avere il diritto di chiedere una qualunque cosa alle/i antirazzist* non bianch*? Credete che solo perché vi accorgete che Valls è razzista potete avere il diritto di interferire e comportarvi con paternalismo? Ma davvero, vaffanculo! Che sia chiaro (diciamo così) alleat* bianch*: le/gli antirazzist* non- bianch* non vi devono niente, neanche uno stuzzicadenti.
Le femministe afro, le femministe decoloniali, le persone gay, trans e queer non- bianch* stanno facendo il nostro lavoro, e non abbiamo aspettato voi per conoscere le nostre convergenze e i nostri limiti tra di noi, politicizzat* o meno. Il nostro lavoro sarebbe anche meno difficile, se voi vi faceste i cavoli vostri, e penso qui alle questioni che riguardano la (omo)sessualità. L’intersezionalità non è mai stata, non è e non dovrà mai essere un modo per le/i bianch* di sottrarsi all’autocritica sui propri comportamenti militanti, prima di tutto le loro interferenze e il loro paternalismo.
Le etichette (intersezionali, anti coloniali, ecc) sono inutili. Solo le azioni contano. E tra le azioni escludo la realizzazione di tweet o post su FB in cui ci si dimostri “alleat*” delle/i colonizzat*.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

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(Aiko. Detail. Collage on canvas. Photo © Jaime Rojo).

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad. Traduzione di Serbilla Serpente revisione di feminoska, articolo originale qui.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

L’antropologa Dolores Juliano sostiene che, siccome “il modello di sposa e madre devota è davvero poco attraente, l’unico modo per ottenere che le donne vi si adeguino è assicurarsi che l’altra possibilità sia peggiore”.

Dolores Juliano (Necochea, Argentina, 1932) ha studiato a fondo le strategie culturali e di dominazione di genere contemporanee, così come i saperi e le pratiche delle collettività oppresse che le fronteggiano. El juego de las astucias. Mujer y construcción de mensajes sociales alternativos (1992); La prostitución: el espejo oscuro (2002); o Excluidas y marginales: una aproximación antropológica (2004) ce lo raccontano bene. Questa dottora in Antropologia e professora dell’Università di Barcellona ha fatto parte, fino al suo pensionamento, del progetto ‘Mujeres bajo sospecha. Memoria y sexualidad (1930-1980)’ condotto da Raquel Osborne. In esso, Juliano analizza i modelli di sessualità vigenti durante il franchismo e come l’omosessualità femminile fosse condannata al silenzio e all’invisibilizzazione.

I modelli di sessualità femminile sono cambiati rispetto a quelli dell’epoca della dittatura, oppure è cambiata la forma ma la sostanza è la stessa?

E’ cambiata la società. La chiesa cattolica mantiene i modelli sessuali tradizionali. L’idea di peccato o di devianza è molto presente in essa e nelle religioni monoteiste. Nel protestantesimo ci sono modelli puritani assolutamente fondamentalisti. Il dettato delle leggi religiose sembra ugualitario, ma nella pratica non è mai stato così.

Queste religioni sono più permissive con la sessualità maschile?

Sì, e ciò ha a che vedere con i modelli religiosi e l’organizzazione sociale. Le società patrilineari e patrilocali sono molto restrittive rispetto alla sessualità femminile.

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Sesso dell’orrore – Intervista a Diana Pornoterrorista

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“Là fuori c’è una guerra”, dichiara il manifesto Pornoterrorista sottoscritto da Diana J. Torres: una guerra contro l’ordine sessuale e l’imposizione di genere, nella quale si vince solamente combattendo il nemico con la stessa violenza. La performer spagnola, oltre a dire questo e molto altro nel suo libro Pornoterrorismo, ci mette il corpo, per chi desidera vederlo e anche per chi non vuole.

di Laura Milano e Nico Hache, (traduzione di feminoska, revisione di Lafra e Serbilla. Articolo originale qui).

La donna nuda con il passamontagna in testa e la granata-dildo in mano non esita ad affermare che “quando dall’altra parte non hai nessuno con cui dialogare, ciò che resta è il terrorismo. Il pornoterrorismo attacca la violenza contro ciò che è fuori dalla norma. Cioè, mette in scena – come tutta la postpornografia – sessualità sovversive. Questo è terrorista”. Lei è Diana Pornoterrorista, un mostro sessuale meraviglioso e inquietante dalla testa ai piedi (o, per meglio dire, dagli anfibi alla cresta). Il suo lavoro come artista di performance iniziò dieci anni fa nella nativa Madrid, con il gruppo di cabaret gore-porno-trash Shock Value e oggi è uno dei punti di riferimento del postporno in Spagna. Attualmente risiede nella città di Barcellona, ​​da dove gestisce la sua centrale operativa postporno e di attivismo queer con un collettivo di artisti locali.

Diana è una guerriera esperta ai margini del genere, una donna che ama pensarsi come costruita alla periferia di quello che è il prototipo di donna (e anche di uomo). E’ un’esibizionista dichiarata, che sale sul palco per recitare le proprie poesie al ritmo di orgasmi terrificanti. Un corpo e una voce determinata a combattere per la liberazione dei corpi, la riappropriazione e il riscatto dei loro desideri più profondi.

Che ruolo ha il corpo nel pornoterrorismo?
-Ne è l’anima. Non si può ignorare il corpo nel pornoterrorismo. Questa è politica del corpo e perciò non considero nessun altro modo di fare politica. I nostri corpi non normativi dimostrano che esistono altre opzioni e stanno anche terrorizzando un pochino. Per questo preoccupano.

Perché hai scelto di lavorare attraverso la performance e la poesia?
-Sul palco mi sento al sicuro, non ho paura di nulla. E mi sembra assai preziosa la possibilità di metterci la faccia. Mi sento più insicura nello scrivere un post sul mio blog, dietro allo schermo. La stessa cosa è successa quando ho scritto il libro, Pornoterrorismo; mi è piaciuto molto farlo, ma mi sento decisamente più a mio agio quando vedo le reazioni delle persone contemporaneamente a quello che sto facendo.

Nelle tue performance sono sempre presenti elementi di S/M, fist-fucking, squirting. Perché queste pratiche sessuali sono terroriste secondo te?
-Non considero il fist-fucking sovversivo perché non è doloroso. Per quanto sia visivamente forte, non fa male. Il BDSM, invece, è terrorista, sovversivo, perché mette in gioco il dolore come piacere.

Il dolore però non è necessariamente presente nelle pratiche BDSM.
-Questo è vero, però c’è sempre una situazione di dominazione. E metterla in discussione è sovversivo. Non sono importanti in quel contesto le questioni economiche, etniche, culturali o altro. Chiunque può dominare chiunque, i rapporti di potere consolidati si trasformano. Il dolore è di solito una punizione; trasformarlo in un premio, in piacere, è sovversivo. Allo stesso modo lo squirting è terrorista, e lo uso per mostrare l’orgasmo femminile, negato dalla medicina e anche dal porno. Quello che non si vede non esiste.

IL CORPO E’ IL MESSAGGIO
Sale sul palco una persona ingessata dalla testa ai piedi, a passo molto lento. Sul suo corpo possono leggersi gli insulti che il pubblico ha scritto su richiesta della performer. Il silenzio carico di tensione che avvolge la sala è bruscamente interrotto dal suono delle furiose sculacciate ricevute da questo corpo ingessato. Grida, dà voce agli insulti stampati sul corpo, si lascia cadere a terra mentre rompe le fasce e invita il pubblico a spogliarsi. Dopo aver recitato le sue poesie, si rimuove gli aghi infilati in fronte, leccandosi il sangue che cade dalle ferite, si fa penetrare dal pugno di una collaboratora. Diana usa il proprio corpo come arma da guerra in ogni performance, non solo come mezzo ma come fine in sé.

Hai affermato di usare il piacere come cavallo di Troia per trasmettere il messaggio. Qual’è questo messaggio? Il piacere è solamente uno strumento?
-Non è solo uno strumento, il piacere è parte di quel messaggio. Quando le persone sono sedute di fronte a un palco a guardare uno spettacolo che sanno chiamarsi Pornoterrorismo, alcune sono già aperte alla proposta. Ma altre vengono solo per la parola “porno”, non per la parola “terrorismo”, capisci? E alcune persone vengono perché sanno che ci saranno tette, culo e sesso dal vivo. Quindi penso che il piacere sia come un amo di modo che, quando il pesciolino abbocca per bene, lì nel teatro può liberarsi di tutto il resto.

E che cosa è che vuoi liberare nello spettatore?
-Questa è la violenza di cui ci nutriamo ogni giorno col telegiornale, che ci circonda. Durante l’ultima performance ci sono stati alcuni momenti molto violenti, come il numero dei peccati della Chiesa, dove faccio un elenco dei suoi peccati, che potrebbero anche essere definiti crimini. E sono argomenti che la gente non manda giù facilmente. Quindi penso che arrivare con una predisposizione per l’eccitazione sessuale ti metta in uno stato di vulnerabilità. Questo l’ho capito una volta che stavamo guardando il telegiornale allo scoppiare della guerra in Iraq: era un vero massacro. E ho cominciato a pensare che non è un caso che i telegiornali vengano trasmessi proprio all’ora dei pasti, li trasmettono proprio in quel momento nel quale inghiotti tutto. Così ho pensato, “perché non utilizzare queste strategie – che sono manipolatorie – per il mio stesso messaggio?

Che impatto credi abbiano le tue performance sul pubblico?
-Spero di aiutare le persone che assistono al mio lavoro a scoprire le diverse forme della propria sessualità. Ho scelto di non lavorare otto ore al giorno per dedicare tutto il mio tempo a studiare questo. Leggo molto, penso e poi lo restituisco masticato e facile da capire. Ci sono intellettuali che lavorano in questo campo da un altro punto di vista, leggono Judith Butler e poi spiegano la teoria di genere, ma davvero poch* l* capiscono. Io cerco invece di renderla accessibile a tutti, e qui, naturalmente, ha luogo a volte una certa discriminazione intellettuale, dove il discorso accademico cerca di legittimarsi sugli altri modi di affrontare la sessualità.

Nel tuo libro affermi che “scoprire la propria sessualità è anche scoprire come il nostro sesso non ci appartiene affatto.” Chi ci ha derubato della nostra sessualità? Come possiamo riprendere il controllo dei nostri corpi e dei piaceri?
-In primo luogo, il patriarcato. Poi la Chiesa. Poi la scienza, con la medicina come strumento. E infine il capitalismo. Questa è la catena di istituzioni che hanno tentato di applicare il controllo su corpo e sessualità. E dobbiamo uscirne, dobbiamo poter scopare con il culo senza avere il prete nella stanza a dirci che è peccato. Non è facile, perché è qualcosa che abbiamo dentro di noi da quando siamo molto piccol*, dal momento che ci assegnano un genere biologico. Ma si realizza con l’attivismo, con una vita attiva basata sul lavoro sul corpo.

Nell’ambito di questo attivismo, vedi nel femminismo il percorso corretto per la liberazione del corpo e della sessualità?
-No, perché in molti casi il femminismo è reazionario ed escludente; io stessa mi sento esclusa dal femminismo, nelle sue categorie non c’è posto per me. Il femminismo è per la liberazione delle donne, ma respinge la prostituzione, il porno, il sado, considerandoli forme di violenza contro le donne. Io sono a favore della prostituzione e del sado e faccio porno. Respingo il femminismo perché lascia fuori uomini e trans. Di fronte al rifiuto del maschile, per esempio, propongo l’appropriazione del fallo, ossia di appropriarsi in maniera autodeterminata dei simboli del patriarcato piuttosto che distruggerli.

Perché ti identifichi con il transfemminismo ? Quali sfide implica l’etica transfemminista contro l’ordine sessuale normativo?
-La sessualità, il genere, le rappresentazioni del corpo, non possono essere isolate dal contesto economico globale, politico e istituzionale in cui si svolgono. E questo contesto è il capitalismo. Il transfemminismo implica coerenza con la lotta anti-capitalista. Io mi schiero contro il femminismo che proclama la liberazione delle donne, ma allo stesso tempo utilizza Windows invece di un software libero. Le lotte che si instaurano nel campo della sessualità non possono essere separate dalla lotta contro il capitalismo, la coerenza è necessaria a questo proposito. Lo stesso accade al contrario, quando l’attivismo anti- capitalista non include il lavoro sul corpo. Questo è ciò che accade con il movimento 15 -M qui in Spagna, le/gli indignat* che vogliono la rivoluzione, ma poi tornano a casa e non sanno scopare se non nella posizione del missionario. Senza una politica del corpo e del genere nessuna rivoluzione è possibile, né ha senso la sovversione sessuale staccata dalla lotta contro il capitalismo.

Quali azioni specifiche possono essere adottate per attuare una politica del corpo e di genere?
-Attraverso il transfemminismo, ad esempio, portiamo avanti la campagna STOP Transpatologización, con la quale reclamiamo la necessità di rimuovere il transessualismo dal DSM IV e dagli altri manuali internazionali di diagnosi mediche. Il transessualismo è definito come un disturbo della personalità. Recentemente abbiamo esaminato il nuovo progetto e non appare più, è stato rimosso, ma invece la sindrome premestruale è stata inclusa in quanto condizione temporanea. Pensa! Una volta al mese tutte le donne sono pazze.

In Argentina è ora in corso un dibattito sulla legge sull’identità di genere, che permetterà alle persone trans di cambiare ufficialmente il proprio nome e sesso senza spiegazioni.
-Beh, sono più avanti di noi. Qui si deve ancora passare attraverso un processo medico-psichiatrico di due anni, dopo di che l’istituzione medica decide se sì è o meno in grado di prendere questa decisione.

LA RETE POSTPORNO
Se il postporno funziona principalmente a partire dai collettivi e dall’autogestione nella produzione, il lavoro di Diana è come un filo in questa rete di volontà interessat* a creare nuove e sovversive rappresentazioni della sessualità. In questo senso la proposta Pornoterrorista trova nel postporno il proprio inquadramento e la propria rete di alleanze a partire dalla quale scagliarsi in modo transfemminista, creativo e al di fuori della logica commerciale contro il porno mainstream. Una di queste linee di azione e di lavoro collettivo trova la propria sintesi nella Muestra Marrana, un festival porno non convenzionale autogestito e organizzato da Diana, Claudia Ossandón e Lucia Egaña che ha luogo ogni estate nella città di Barcellona. Il festival è un’occasione non solo per presentare le produzioni audiovisive legate al postporno, ma anche per creare uno spazio di scambio e di dibattito sulle molteplicità sessuali sovversive e sulle pratiche che stanno ai margini del sistema eteronormativo. “La pornografia è fatta per vendere certe pratiche e certi corpi. La differenza fondamentale è che nel postporno possono comprendersi tutte le pratiche. Se ti eccita metterti una fragola nel culo o se mangiando una banana hai un orgasmo, così sia. Per la pornografia sarebbe un’aberrazione o una di quelle pratiche che si inseriscono nel genere ‘crazy and funny’. E la cosa più importante del postporno è che include le donne come produttore, registe, attore”, dice Diana. Pensando a queste ultime, la questione degli assenti è inevitabile.

Dove sono gli uomini nel postporno?
-Davvero non lo so. Li aspettiamo. Non ho alcun problema a fare dei laboratori con i ragazzi, fare postporno o qualsiasi altra cosa. Ma non vengono. C’è molta più paura nei ragazzi in generale, e il fattore problematico è dato dal fatto che le donne e gli uomini con i quali si relazionerebbero non gli piacciono, perché siamo corpi poco normativi. Sto aspettando questo momento, adesso mi piacerebbe giocare con più uomini, ma è molto difficile. L’ultima volta che ho giocato con gli uomini erano completamente impenetrabili, esseri pieni di paure e frustrazioni. In questo senso penso che la pornografia abbia fatto molto male agli uomini, danni soprattutto interiori. Molte donne non hanno mai visto porno nella loro vita, al contrario è quasi un insegnamento culturale che i ragazzi vedano i porno. E questo ti rimane dentro. Poi improvvisamente scoprono le pratiche postporno che sono diverse da ciò che vedono nel porno, che non confermano quello che era apparentemente così importante e chiaro, si sentono come nudi.

In questo senso, gli uomini hanno molto più lavoro da fare. Non che tra noi non si parli di sesso, ma lo facciamo in modo diverso.
-È vero, la pornografia e le modalità di acculturazione della sessualità maschile sono frustranti perché non sono reali. Né il tuo corpo è così, né le tue pratiche sono così, né ciò che ti piace è così. Questo dovrebbe indurre gli uomini a fare postporno, ma non succede. Temono che arrivi una tipa punk con la cresta a scoparli nel culo.

Sembra che ogni contatto con il culo dell’uomo, qualsiasi tipo di penetrazione si riferisca ad una identità omosessuale.
-Certo, si parte dal presupposto che le donne non penetrano e gli uomini non sono penetrati. Quindi, se ti penetrano e soprattutto se lo fa una donna, smetti di essere un uomo e diventi un finocchio. E’ come una regola matematica di base alla quale tutt@ hanno creduto e che è come un fantasma che informa gli ani di mezzo mondo. C’è un testo molto interessante di Beatriz Preciado chiamato Terrore Anale, che parla di queste paure dell’analità e della penetrazione.

Cosa credi manchi al postporno?
-Il postporno è considerato una forma di rappresentazione artistica della sessualità, ma non commerciale. In sintesi, è considerato come un movimento. Perché alla fine siamo come topolini che lavorano sempre ai margini. Sarebbe bello se ci fosse un riconoscimento per la gente che ha lavorato per anni su questo. Sono dieci anni che lavoro come artista e finora non ho visto alcun frutto a livello istituzionale, artistico e nemmeno di pubblico.

Questo riconoscimento di cui parli significherebbe entrare nel circuito dell’arte istituzionale. Pensi che un ampliamento del territorio di influenza del postporno significherebbe una perdita del proprio potere sovversivo?
-Mi piacerebbe vendere la mia arte ai musei, ma non credo sia possibile. Sempre che questo non implichi auto-censura, non vedo nulla di male nel raggiungere più persone e ottenere soldi dallo Stato. L’anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato nel Museo Reina Sofia di Madrid un evento chiamato La Internacional Cuir, dove abbiamo fatto le nostre performance. Ma è un’eccezione, perché di solito non viene comprato. Il postporno e il pornoterrorismo sono periferici, marginali.

Dunque che cosa si è raggiunto finora con il postporno?
-Si è ottenuto che il femminismo sia più divertente e arrapato rispetto a prima, che sia anche più inclusivo e meno discriminatorio. Penso che sia uno dei migliori risultati del postporno: trasformare il femminismo in una cosa sexy. Anche a livello artistico è molto importante, infatti il postporno sta rimodellando il mondo dell’arte. In sintesi, i risultati sono sessualizzare il femminismo e sessualizzare il mondo dell’arte. E farlo in modo politico, etico.

Scopri il sito di Diana qui.

Finalmente anche in Italia, l’artista e performer Diana J. Torres presenterà ad Aprile, nel corso di un indimenticabile tour, il suo libro Pornoterrorismo.
Il tour di presentazione si terrà tra il 9 e il 21 di aprile 2014.
Le città che ospiteranno l’evento saranno:

9 aprile: PALERMO
10 aprile: NAPOLI
11, 12, 13 aprile: ROMA
14 aprile: BOLOGNA
15 aprile: GENOVA
16 e 17 aprile: MILANO/RHO
18 e 19 aprile: TORINO

ADOTTA UNA PORNOTERRORISTA!
Sul sito di crowdfunding Verkami puoi acquistare Pornoterrorismo in prevendita, e sostenere così il tour di Diana in Italia.
Aderisci, diffondi e PARTECIPA!
Evento Facebook qui.

Di alcune forme di stronzaggine

1964957_10202740464326669_1264403541_n Tra le cose che produciamo come collettivo politico ci sono le “traduzioni militanti”. Fuori dell’Italia si producono cose ottime, e in grande quantità, riguardo questioni di genere e temi che in questo paese sono ancora tabù. Ci è sempre sembrato un lavoro di per sé quasi rivoluzionario prendere qualche testo e farlo conoscere nella nostra lingua, rendendone possibile l’accesso a un pubblico che altrimenti non ha e non avrà la minima speranza di leggerlo mai.

Si tratta quindi di un’operazione strettamente politica, per molti versi considerabile come sovversiva. Cerchiamo di suscitare interesse, coltivare dibattiti, aumentare la diffusione di linguaggi che trovano grandi difficoltà di circolazione a causa dei limiti culturali della nostra opinione pubblica.

Le nostre traduzioni sono “militanti”, realizzate cioé nell’urgenza della trasmissione politica, i contenuti del testo, di norma, prevalgono sugli aspetti di stile. Ciò non significa che evitiamo di porci questioni di questo genere, solo che le risolviamo più velocemente di quanto faremmo se la nostra traduzione avesse un tempo di elaborazione simile a quello che si dedica a un testo pagato.
Siamo comunque molto orgoglios@ di ciò che facciamo che resta, nel confine del suo scopo, accurato. D’altra parte ci capita di ricevere anche qualche complimento, ma soprattutto i ringraziamenti di chi a quel testo, in lingua originale, non avrebbe mai avuto accesso.

Sarebbe scontato poi puntualizzare che le nostre traduzioni non sono un testo sacro, come non lo è nessuna traduzione, e chi le legge può farci quello che vuole, tra cui anche dire e dimostrare che sono imprecise, o sicuramente perfettibili. Ma se evidentemente siamo stati lo spunto per farvi fare qualcosa – pensare, scrivere, ritradurre, interessare – quello era il nostro scopo, ed è appunto uno degli scopi politici della traduzione militante. Noi mettiamo sempre il link alla fonte originale, così che le nostre scelte di traduzione siano sempre confrontabili e affinché ciascuno/a, se vuole, possa tradurre per conto suo.

Siamo ben felici se qualcuno/a prende spunto dalla nostra traduzione per farne una sua; è prassi corretta e civile, se questa traduzione diversa è riportata in qualche sito, linkare anche noi, in modo che lo scopo principale della traduzione militante – allargare la base della discussione politica su un certo testo – sia raggiunto.

Ritradurre significa entrare in relazione con le traduzioni già esistenti e, sopratutto, non significa copiare una traduzione già fatta – che rappresenta la risposta di quel traduttore ai problemi linguistici e di mediazione culturale del testo – cambiando qualche parola per non farsi sgamare.

Se quindi, dopo averlo letto qui, tu prendi il nostro link, le nostre parole, fai una tua traduzione e non dici una parola su chi ti ha dato l’idea o dove l’hai presa, sei semplicemente ed evidentemente un/a stronzo/a.

Ovviamente non c’entrano nulla questioni di “diritti d’autore”, plagio, o cose del genere. Comportarsi in quel modo significa stroncare la possibilità di un dibattito politico, perché noi non sapremo mai cos’hai fatto né avremo la possibilità di confrontarci sul testo. Quindi lo scopo politico di tutta l’operazione sparisce nel tuo (finto) originale tentativo, per il quale raccogli complimenti magari meritati – per la traduzione tua –  ma rubati – per l’idea del testo, che hai preso da noi. Proprio un modo di fare da stronzo/a, che è un attributo personale e non politico.

Se togli lo scopo politico a tutta l’operazione, rimane solo una vanagloria raccolta per mero narcisismo personale. Dovrebbe essere eticamente conseguente accennare a chi ti ha fatto venire in mente l’argomento, il testo da tradurre, le critiche a noi che pubblichi da te; invece la tua etica non ti ha suggerito nulla del genere. E non l’ha fatto perché è l’etica di uno/a stronzo/a.

Lorenzo Gasparrini per il collettivo Intersezioni.

Cerchiamo di capirci: sex worker e vittime di tratta non sono la stessa cosa

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Nel giorno precedente il Super Bowl di quest’anno, articoli circolati sulla Rete segnalavano il massiccio aumento di traffico sessuale che si verifica in occasione dei grandi eventi sportivi. Che questa tendenza sia o meno reale, la tratta è un problema serio. Quarantacinque persone sono state arrestate a New York durante il Super Bowl per aver costretto più di una dozzina di ragazze alla schiavitù sessuale. Seppure queste ragazze sono state vittime di sfruttamento sessuale, alcune agenzie di stampa hanno distorto la realtà riferendosi a loro come “sex worker” e “prostitute minorenni”. In un altro recente articolo su di una vittima di tratta di circa 15 anni, l’emittente CBC Canada ha definito la ragazza “una sex worker adolescente.”
Queste scelte lessicali sono fuorvianti, e sebbene sia convinta che spesso le persone danno troppa importanza alle etichette, la distinzione tra una persona adulta che sceglie di vendere sesso per denaro e un’altra il cui corpo è sfruttato contro la propria volontà è fondamentale quando si discute di prostituzione, schiavitù, e libertà. La capacità di fare scelte e decidere del proprio destino è sempre più accettata, e i media distorcono il valore della scelta quando usano “sex worker” in modo intercambiabile con “vittima di tratta”.
Pertanto è ovvio che la tratta sia una pratica spaventosa. I trafficanti infliggono danni terribili alle proprie vittime – molte delle quali sono incredibilmente giovani e già patiscono la mancanza di sostegno familiare – nei loro anni di formazione e le sottopongono ad abusi, costringendole a correre rischi gravi per la propria salute, e derubandole di qualsiasi autostima al di fuori del valore monetario che hanno per i propri “padroni”.
E’ giusto provare repulsione per i pericoli e le brutalità del traffico di esseri umani. Ma è la rinuncia forzata al proprio libero arbitrio di persone ad essere forse l’aspetto più ripugnante della schiavitù sessuale – anzi, di ogni schiavitù.
Anche alcuni gruppi anti-prostituzione confondono o ignorano la distinzione tra lavoratrici volontarie e vittime di coercizione. Considerano il lavoro sessuale come intrinsecamente foriero di sfruttamento, poiché lo reputano una professione degradante che richiede alle persone di mercificare il proprio corpo e che le sottopone a maggiori rischi per la salute. La decisione di vendere sesso non sarebbe mai, quindi, una scelta informata per queste persone, ma imposta loro da circostanze finanziarie restrittive o come reazione auto-distruttiva a seguito di trauma infantili.
Prima di tutto, se davvero le donne decidono di diventare sex worker per l’assenza di altre opzioni, togliere loro quell’unica opzione come potrebbe essere un beneficio? Se le/gli attivist* anti-prostituzione fossero davvero preoccupat* delle scelte limitate che si offrono alle sex worker, dovrebbero a quel punto combattere le leggi oppressive che impediscono alle persone di perseguire altri percorsi imprenditoriali.
A quel punto, se nuove opzioni divenissero disponibili e alcune persone scegliessero ancora di lavorare nell’industria del sesso, non si potrebbe più affermare che il lavoro sessuale è una professione illegittima scelta per disperazione. E, a proposito, dovremmo davvero dubitare di qualsiasi gruppo che affermi di promuovere l’indipendenza delle donne e contemporaneamente sostenga che alcune donne sono incapaci di fare scelte informate.
 
Sì; molte delle decisioni che prendiamo sono influenzate dal nostro passato e a volte vanno a nostro discapito, ma non siamo vittime delle nostre scelte. Ed è una contraddizione affermare che una persona che vende sesso non è un agente morale perché sta reagendo ad un trauma emotivo, mentre una persona che compra sesso è un agente morale e la sua è intrinsecamente una scelta di sfruttamento, sia che derivi da un trauma emotivo o meno.
Il lavoro sessuale richiede la mercificazione del proprio corpo e l’accettare un aumento delle possibilità di rischi fisici, ma lo stesso avviene ad un giocatore di football professionista. A differenza delle sex worker, non trattiamo i giocatori di football come vittime, anche quando la scelta di diventare un atleta è stata la conseguenza dell’avere poche altre competenze spendibili sul mercato.
La distinzione tra la scelta di vendere sesso e la scelta di vendere abbonamenti stagionali si basa su una visione puritana del sesso come qualcosa di sporco. Anche se le/i lavorator* di entrambe le professioni mercificano il proprio corpo per il divertimento altrui, la società approva la decisione di vendersi in campo sportivo, ma denuncia la decisione di vendersi per sesso e chiama questa scelta degradante, francamente una definizione davvero offensiva. Nessuna scelta fatta da una persona per sostenere se stess* o la propria famiglia, senza danneggiare altr*, è degradante.
Le vittime di tratta, a differenza delle sex worker o dei giocatori di football, non hanno scelto di mercificare il proprio corpo e correre perciò gli eventuali rischi; i loro aguzzini hanno scelto per loro. La mancanza di scelta da parte della vittima, non la natura dell’industria del sesso, è ciò che le rende vittime e necessita di intervento. Queste persone non sono “sex worker” perché il sesso senza il consenso è stupro e il lavoro senza consenso è schiavitù. Chiamare le vittime di tratta sex worker o prostitute mina la gravità della violazione nei loro confronti, così come mina l’autodeterminazione delle persone, uomini e donne, che lavorano volontariamente nell’industria del sesso.
(Articolo originale di tradotto da feminoska)

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.

Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.

La leggenda è reale: sono una puttana (e il motivo per cui non lo dirò mai alla mia famiglia)

4La mia famiglia sospetta da tempo che io sia una puttana.

Tutto è cominciato con il mio ex. Da abusante manipolatore quale è, ha divulgato questa informazione ad amici comuni (che l’hanno usata poi contro di me quando ci siamo lasciati), alla mia famiglia e, probabilmente, alla sua. Mia madre mi ha preso da parte, più volte, chiedendomi: “E’ vero? Sai che puoi dirmelo, puoi dirmi tutto e io ti vorrò sempre bene”.

La verità è che mi piacerebbe parlarne con la mia famiglia. Attualmente mi sto dedicando alla scrittura utilizzando uno pseudonimo, perché non voglio che la mia famiglia scopra il mio lavoro… Il che è un vero peccato, perché sono davvero molto orgogliosa di quello che ho realizzato finora e spero di avere un certo successo attraverso il self-publishing. Allora perché non ho ancora fatto outing? Perché non lo facciamo tutte?

In una parola: puttanofobia.

La puttanofobia è la forma specifica di discriminazione che i/le sex worker sperimentano. E’ fortemente intrisa di misoginia e disprezzo (slut shaming), spesso mischiata a transmisoginia, razzismo, classismo e altre forme di emarginazione. Quella del/la sex worker è in sé un’identità marginalizzata e, come nella maggior parte dei casi, modulabile lungo uno spettro. Nel nostro settore la chiamiamo la ‘gerarchia’, però di solito questa parola si riferisce alle idee interiorizzate su quale sia possibile considerare un comportamento legittimo, e dunque lavoro, e ciò che non lo è. Tuttavia, definire una persona ‘ballerina di burlesque’ (se lo si considera lavoro sessuale, alcun* non lo fanno, ed esiste una grande varietà di tipi di burlesque artistico) è molto diverso rispetto a confidare che sei una prostituta di strada. La maggior parte delle forme di lavoro sessuale portano con sé uno stigma fortissimo, che ha un impatto duraturo sulle nostre eventuali altre carriere professionali non sessuali e sulle relazioni interpersonali, e il lavoro sessuale completo (cioè avere rapporti sessuali con i clienti) è il punto più basso ed estremo dello spettro. Questo è il tipo di lavoro sessuale al quale mi sono dedicata.

Distante dagli standard normativi, non avrei avuto molte altre opzioni; mentre le prostitute esistono in ogni forma e dimensione, le spogliarelliste sono – in generale – più rispondenti a determinati standard di bellezza. Questo in parte spiega, a mio avviso, la ragione per la quale la prostituzione in strada è considerata il gradino più basso; è vista da alcun* come l”ultima risorsa’, dentro e fuori l’industria del sesso. Anche se tutti i tipi di lavoro sessuale sono considerati indissolubilmente legati al consumo di droga e ad altri problemi sociali, sul lavoro sessuale completo anche questa volta ricade il fardello più pesante. Esiste un preconcetto, sia nelle persone in generale che nei professionisti medico-sanitari, psicologi, assistenti sociali, forze dell’ordine e protezione dell’infanzia che la prostituzione sia inevitabilmente legata al disagio. Preconcetto opinabile.

In procinto di lasciare il mio ex-partner abusante, confidai alla mia assistente sociale (dopo averle chiesto a lungo rassicurazioni in merito alla propria politica di riservatezza, che lei mi assicurava essere totale) che avevo precedentemente lavorato come sex worker in un bordello. Accettò di lasciare questa informazione fuori dal mio dossier, ma mi informò che, se fossi stata ancora in attività in quel momento, avrebbe allertato i servizi di protezione dei minori. Quando le chiesi perché, dal momento che praticavo la mia attività lontano da casa e i miei figli erano seguiti dalla mia famiglia mentre ero al lavoro, rispose che “la prostituzione è di solito indicativa di altre problematiche”. Più tardi, un’amica e collega con la quale ne parlai al bordello, mi raccontava di come suo figlio fosse stato allontanato da lei, perché il suo ex compagno, nel corso di un’udienza per la custodia, aveva menzionato la cosa agli assistenti sociali. Non c’era stato bisogno di sollevare ‘altri problemi’; la presunzione di ‘altri problemi’ e l’ignoranza in merito alla realtà del sex work, erano bastate per perdere la custodia del proprio figlio.

Un’altra mia amica, dello stesso bordello, venne minacciata (da quello che sarebbe presto diventato il suo ex-marito) di essere denunciata – in quanto sex worker – se avesse richiesto supporto legale nel corso della separazione. Piuttosto che correre il rischio di perdere i propri figli e la propria famiglia, ha preferito perdere la casa, la stabilità finanziaria, tutti i risparmi e tutto quello per cui aveva lavorato fino a quel giorno. L’ex-marito si è preso tutto.

Il preconcetto secondo il quale il lavoro sessuale si accompagna al disagio fa acqua da tutte le parti, ma è anche risultato di un’inversione di causa ed effetto; è proprio l’esperienza di essere parte di un gruppo che viene abitualmente discriminato che allontana dal resto della società, negandoti servizi quali assistenza medica, assistenza abitativa, assistenza all’infanzia, ecc. e contribuendo a esacerbare questioni gravi quali le molestie della polizia e la patologizzazione. Questi sono gli aspetti che portano a quegli “altri problemi” come la violenza domestica (o, più precisamente, la mancanza di opzioni per sfuggirvi), la povertà, i problemi di salute mentale, l’uso di droghe e l’abuso/indifferenza per i figli. Questo schema si verifica nella maggior parte dei gruppi più emarginati. Il rovescio della medaglia però, è che il sex work offre anche una via d’uscita da queste situazioni, quando sono causate da altri fattori; il lavoro sessuale è relativamente ben pagato in Occidente, e non richiede istruzione formale o formazione, rendendolo accessibile a persone in difficoltà. Non c’è però un legame intrinseco tra sex work volontario e disagio. La correlazione non implica causalità, e il rapporto esistente è in gran parte circostanziale. Se non fosse per la puttanofobia e la relativa marginalizzazione, questa discriminazione non esisterebbe e l’aumento dei casi di problemi familiari e sociali tra i/le sex worker potrebbe anche diminuire. Purtroppo, l’esistenza di questi problemi viene usata come prova per giustificare l’atteggiamento bigotto nei nostri confronti. Si tratta, in sostanza, di colpevolizzazione delle vittime.

Sono stata trattata come merda dal personale medico nel richiedere il mio esame di routine per le malattie sessualmente trasmissibili, e poi messa in imbarazzo per il fatto di aver riscontrato dei batteri – naturalmente presenti – nella mia vagina, cosa che si verifica in circa l’80% degli adulti sessualmente attivi e la cui presenza di solito non è nemmeno testata perché innocua. Ho visto medici scuotere la testa e chiedermi perché mi dedicavo ad un’attività così pericolosa in giovane età, quando in realtà il bordello era il mio rifugio sicuro dal mio partner violento.
Ad oggi, il mio ex mi manda minacce poco velate e si riferisce a me con nonchalance come ‘una di quelle’ nella migliore delle ipotesi, o ‘stupida puttana’ se si sente particolarmente crudele. Sono anche certa che la disumanizzazione delle/i sex worker è stato uno dei motivi per cui un conoscente si è sentito libero di violentarmi, dopo tutto le puttane sono di proprietà pubblica e siamo felici di scopare chiunque in qualsiasi momento, no?

Avevo confidato ad un altro partner importante che ero una sex worker e mi ero sentita profondamente toccata dalla sua comprensione. In un primo momento, il fatto che si trattasse del passato significava che per lui non era più importante, ma poi, quando ho ripreso a lavorare, capì che la sua gelosia era fuori luogo dato che lo facevo solo perché avevamo bisogno di soldi. “E’ solo un lavoro, no?”, diceva. Scoprii poi una serie di messaggi che aveva inviato dal mio telefono ad un’amica – anche lei sex worker, una spogliarellista – in cui si riferiva a me come una ‘prostituta tossica’ per rivaleggiare con i racconti estremi della propria amica riguardo al suo lavoro.

Mi chiedo, ogni giorno, se parlare del sex work sia davvero una buona idea, perché sono dolorosamente consapevole che mi potrebbe costare la custodia dei miei figli.

Quando con la mia famiglia si parla della mia mancanza di lavoro, e io affermo di aver recentemente avuto un lavoro (la mia copertura è il tipico cliché della receptionist, in quanto questo spiega i miei strani orari e rende più semplice coprire le tracce) la risposta è in genere “veramente abbiamo sentito tutt’altro”. L’implicazione qui è che il lavoro del sesso non è realmente lavoro. Il mio tempo, la mia fatica e abilità non contano nulla, perché il mio lavoro è visto come illegittimo, pur essendo praticamente legale nella mia situazione particolare e nonostante il fatto che, grazie ad esso, provvedo finanziariamente ad un certo numero di persone, tra cui la mia famiglia allargata in diverse occasioni. Non posso sapere quello che i miei genitori immaginano in merito al lavoro sessuale, anche se nel discutere del mio lavoro di ‘receptionist’, mia madre diceva “non posso credere che le donne possano vendere i loro corpi così” e dichiarazioni simili che abbiamo tutt* sentito migliaia di volte. Non mi sono messa a discutere, però avrei voluto dire “una massaggiatrice offre relax fisico con il proprio corpo, sta vendendo il proprio corpo o sta vendendo un servizio?”

Vorrei poterle raccontare dei miei clienti, in generale uomini gradevoli, normali, come quelli che incontriamo ogni giorno. Vorrei poterle dire che nessun cliente mi ha mai fatto del male fisicamente o che ho subito un solo abuso verbale da parte di un cliente, mentre ho subito qualche forma di abuso fisico o sessuale da quasi tutti gli uomini incontrati nella mia vita personale, il che dimostra chiaramente come il problema non sia il lavoro sessuale. Vorrei raccontarle la sorellanza che ho sentito e sento con altre sex worker, che hanno rappresentato alcuni dei rapporti più significativi della mia vita. Vorrei dirle di come abbiamo discusso regolarmente delle nostre famiglie, di come ci siamo mostrate a vicenda le foto dei nostri figli, fornito consigli e sostegno emotivo, trucchi e profumi e, in generale, di come ci siamo reciprocamente prese cura l’una dell’altra. Vorrei che sapesse come, in quanto madre e femminista, non deve demonizzare il sex work, perché non solo i clienti si sono dimostrati più rispettosi degli uomini che pensano di avere gratuitamente diritto al tuo tempo, ma la Sorellanza è viva e vegeta nel bordello locale. E siamo tutte diverse, come accade in ogni gruppo eterogeneo unito da un’esperienza condivisa, e ci prendiamo cura l’una dell’altra.

Se dovessi raccontare adesso alla mia famiglia del mio lavoro, lo considererebbero senza dubbio un terribile tradimento della loro fiducia, non solo perché ho ​​mentito quando me lo hanno esplicitamente chiesto, ma perché non sono stata schietta dall’inizio. Ma in realtà, come avrei potuto esserlo? Per quanto mi riguarda, fare coming out in quanto sex worker offriva molto poco in confronto a quello che avrei potuto perdere, come il rispetto della mia famiglia, la custodia dei miei figli, per non parlare del pubblico disprezzo e delle possibili conseguenze legali. Ho intenzione di parlargliene un giorno, ma immagino non prima di molti anni.

Traduzione di questo post da parte di feminoska.

Hackeriamo i fondamentalisti misogini contro la maternità obbligatoria

ph eldiario.es

Ieri, attorno alle 19.30, un hacker parte del movimento #Anonymous, ha avuto l’idea di hackerare il sito dell’Arcivescovo di Granada, inserendo nel sito il video dell’artista e attivista colombiana Nadia Granados, in arte La Fulminante Roja, nella performance Maternidad Obligatoria [Maternità obbligatoria], accompagnandolo all’hashtag #NiDevotaNiSumisa.
Nel video, realizzato nel 2011 e recentemente rimosso da youtube, La Fulminante interpreta un monologo sulla libertà sessuale e di aborto, giocando con un preservativo pieno di sperma.

L’azione di #Anonimous è una risposta diretta alle posizioni antiabortiste e misogine dell’arcivescovo Martínez, diventato famoso, in novembre, per aver promosso la pubblicazione in Spagna del libro di Costanza Miriano “Sposati e sii sottomessa” (in spagnolo “Casate y sé sumisa”) e noto per le sue dichiarazioni su aborto e stupro. Secondo l’arcivescovo Martínez quando abortisci non puoi lamentarti se qualcuno ti stupra: “no podían quejarse si abusaban de ellas”. L’azione è diretta anche al PP di Gallardón, il Partito Popolare spagnolo che ha modificato la legge sull’aborto, rendendola molto più restrittiva e riportando il paese alla condizione degli anni Settanta, cancellando il diritto all’autodeterminazione delle donne. L’anonim@ hacker mette in relazione le alte sfere del PP con la setta cattolica dell’ Opus Dei.

MATERNIDAD OBLIGATORIA di LaFulminanteRoja

http://www.dailymotion.com/video/xl1bm0_maternidad-obligatoria_webcam

Maternità Obbligatoria di La Fulminante Roja, traduzione di Serbilla.

La copula ci permette di trascendere i limiti del nostro corpo fisico. Necessario incontro orgasmico e libertario!! Fonte illimitata di forza emancipata!! Ci sono milioni di ragioni per voler copulare, sono personali e intime e tanto diverse per quante persone sono sulla terra. Di solito godiamo senza fine riproduttivo, piacere fine a sé stesso.

Prendere una gravidanza accidentale e trasformarla in maternità è un diritto e non un obbligo, come dovrebbe esserlo interromperla nel caso in cui non la si possa accettare. Quando i moralisti affermano che “La vita inizia con il concepimento” stanno mettendo sullo stesso piano l’ovulo fecondato e una persona con diritti e libertà. Agli spermatozoi con cinque ore di vita dentro questo preservativo non è stato permesso di fecondare ma, se questo cappuccio si fosse rotto, tutto questo seme sarebbe dentro il mio grembo fertile e potrebbe essere un piccolo zigote “Figlio di Dio” e, nel caso volessi tirarlo fuori dal mio corpo, si direbbe che questo è un delitto, perché è mio obbligo trasformarlo in bambino.

La “voce” di questi anziani cattolici e misogini, che mai correranno il rischio di restare incinti senza desiderarlo, incide maggiormente sulle leggi della voce di milioni di donne in età riproduttiva molte volte obbligate a procreare, soprattutto le più povere, le più indifese. Perché, nonostante si dica che è “illegale”, se una donna lo può pagare, può procurarsi un aborto, può prendere del Cytotec. E se vuole abortire ma non ha soldi? Se non ha nemmeno di che mangiare? Allora questa donna, che non ha alcuna garanzia di vita degna, come la si può obbligare a essere madre? A essere madre?

La maternità non può essere considerata un dovere, è una decisione personale.
Mai più crocifissi nei nostri uteri!!
Vogliamo il diritto a decidere sul corso delle nostre vite!!