Diritto delle donne al lavoro…sessuale.

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Traduzione a cura di feminoska di questo articolo di Beatriz Preciado.

Produzione e vendita di armi: lavoro. Uccisione di una persona applicando la pena capitale: lavoro. Tortura di un animale in un laboratorio: lavoro. Fare una sega ad un pene con la mano fino a provocare eiaculazione: crimine! Da cosa si può capire che le nostre società democratiche e neoliberali rifiutano di considerare il sesso come un lavoro? La risposta non va ricercata nella filosofia morale o politica, ma piuttosto nella storia del lavoro femminile nella modernità. Esclusi dal campo di applicazione del sistema produttivo in nome di una definizione che li rendeva beni naturali inalienabili e non negoziabili, i fluidi, gli organi e le pratiche corporee delle donne sono state oggetto di un processo di privatizzazione, cattura ed espropriazione che si confermano al giorno d’oggi attraverso la criminalizzazione della prostituzione.

Facciamo un esempio per comprendere questo processo: fino al XVIII secolo, molte donne appartenenti alle classi lavoratrici guadagnavano da vivere vendendo i propri servizi come balie professionali. Nelle principali città europee, oltre due terzi dei bambini delle famiglie aristocratiche e dei cittadini urbani sono stati allattati da balie.

Nel 1752, lo scienziato Carlo Linneo pubblicò il pamphlet ‘la balia matrigna’ in cui esortava ogni donna ad allattare al seno i propri figli per “evitare la contaminazione di razze e classi” attraverso il latte e invitava i governi a vietare, a vantaggio dell’igiene e dell’ordine sociale, la pratica dell’allattamento al seno per le/i figli* altrui. Il trattato di Linneo condurrà alla svalutazione del lavoro delle donne nel XVIII secolo e alla criminalizzazione delle balie. La svalutazione del latte nel mercato del lavoro venne accompagnata da una nuova retorica del valore simbolico del latte materno. Il latte, rappresentato come materiale fluido attraverso il quale la madre passa al/la figli* il legame sociale e nazionale, doveva essere consumato nella sfera domestica e non essere più oggetto di scambio economico.

Forza lavoro che le donne proletarie potevano mettere in vendita, il latte diventa un prezioso liquido biopolitico attraverso il quale scorre l’identità razziale e nazionale. Il latte cessa di appartenere alle donne per appartenere allo Stato. Un triplo processo è compiuto: la svalutazione del lavoro delle donne, la privatizzazione dei fluidi, l’imprigionamento delle madri nello spazio domestico.

Un processo simile è all’opera con l’espulsione delle pratiche sessuali femminili dalla sfera economica. La forza di produzione del piacere delle donne non è loro: appartiene allo Stato – è per questo che lo Stato si riserva il diritto di multare i clienti che fanno uso di questa forza, il cui prodotto deve spettare unicamente alla produzione o riproduzione nazionale. Come nel caso del latte, le questioni dell’immigrazione e dell’identità nazionale sono al centro delle nuove leggi contro la prostituzione.

La prostituta (migrante, precaria, le cui risorse affettive, linguistiche e somatiche sono gli unici mezzi di produzione) è la figura paradigmatica del/la lavorator* biopolitico del ventunesimo secolo. La questione marxista della proprietà dei mezzi di produzione trova, nella figura della sex worker, una modalità esemplare di sfruttamento. La prima ragione d’alienazione nella prostituta non è l’estrazione di plusvalore del lavoro individuale, ma dipende principalmente dal mancato riconoscimento della sua soggettività e del suo corpo come fonte di verità e di valore: e si afferma nel dire che le puttane non sanno, non possono, non sono soggetti economici o politici a pieno titolo.

Il lavoro sessuale consiste nel creare un dispositivo masturbatorio (attraverso il tatto, il linguaggio e la messa in scena) suscettibile di innescare meccanismi muscolari, neurologici e biochimici che regolano la produzione del piacere nel cliente. Il/la sex worker non vende il suo corpo, ma trasforma, come fanno osteopat*, attor* o pubblicitari*, le proprie risorse somatiche e cognitive in forze vive di produzione. Come l’osteopata usa i suoi muscoli, il/la sex worker fa un pompino con la sua bocca, con la stessa precisione con la quale l’osteopata manipola il sistema muscolo-scheletrico del cliente. Come la/il attor*, la sua capacità sta nel mettere in scena il desiderio. Come un* pubblicitari*, il suo lavoro è quello di creare specifiche forme di piacere attraverso la comunicazione e la relazione sociale. Come qualsiasi lavoro, il lavoro sessuale è il risultato della cooperazione tra soggetti viventi basata sulla produzione di simboli, linguaggio ed emozioni.

Le prostitute sono la carne produttiva subalterna del capitalismo globale. Che un governo socialista faccia del divieto alle donne di trasformare la propria forza produttiva in lavoro una priorità nazionale la dice lunga sulla crisi della sinistra in Europa.

Beatriz Preciado è filosof* , direttor* del programma di studio indipendente presso il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona (MACBA) .

Perché le femministe dovrebbero ascoltare le/i sex worker

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“I/Le sex worker si trovano spesso di fronte a preconcetti radicati, per via dei quali se non divulghiamo le nostre storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut* da molte persone appartenenti al movimento femminista. E’ ora di finirla, perché non vogliamo mettere in scena il nostro ‘porno tragico’ a vostro beneficio”, scrive Elena Jeffreys.

Discorso tenuto da Elena Jeffreys, Presidente Nazionale di Scarlet Alliance, alla conferenza Feminist Future organizzata a Melbourne, Australia, il 28-29 maggio 2011, nell’ambito della discussione “L’importanza del femminismo”.

Scarlet Alliance è un’associazione di rilevanza nazionale formata da sex worker e organizzazioni di sex worker australian*, aperta alla partecipazione di tutt* i/le sex worker, passat* e presenti. Scarlet Alliance incarna oltre due decenni di storia di organizzazione formale tra pari in Australia, ed è formata da diversi collettivi di sex worker in tutto il paese.

Questi collettivi sono attivi nel campo della sensibilizzazione, sviluppo di comunità, promozione della salute, prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e HIV, sostegno alle persone colpite dalle politiche anti-traffico , sostegno per quanto riguarda rapporti di lavoro, giustizia economica e finanziaria, diritto alla casa, assistenza sociale, rinvii giudiziari e di polizia, salute e politica dei diritti umani – oltre 20.000 occasioni di erogazione di servizi diretti a sex worker in Australia ogni anno – e sono parte dell’associazione al fine di garantire che tutte queste informazioni si trasformino in potenti messaggi di rappresentanza a livello nazionale. In occasioni come questa.

Prendiamo molto seriamente la nostra attività di informazione, organizzazione, attivismo e politica da/per sex worker. Non è per noi uno scherzo. Non è indulgenza accademica. L’attivismo delle/i sex worker non è un percorso volto alla carriera. E’ volontariato: nessuno ci paga per essere qui. Non siamo qui per promuovere le nostre carriere e non stiamo cercando di riabilitare lo stigma che sopportiamo nella nostra vita di sex worker o di professionalizzare il nostro curriculum facendo attivismo.

L’attivismo non è una scusa per evadere dalla discriminazione che affrontiamo giorno dopo giorno in quanto sex worker. Il nostro attivismo per i/le sex worker potrebbe anche essere chiamato organizzazione del lavoro, perché senza di esso non avremmo alcun diritto. Tutto quanto le/i sex worker hanno ottenuto in termini di condizioni di lavoro, dignità, salute e accesso ai servizi, lo abbiamo ottenuto perché abbiamo lottato per noi stess*.

Credete a ciò che dico?

Ho la responsabilità, in quanto Presidente Nazionale della Australian Sex Workers Association, di comunicarvi il messaggio politico delle/dei sex worker.

Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.

Non date per scontato nulla delle/i sex worker che incontrerete alla conferenza di Scarlet Alliance questo fine settimana. Non date per scontato nulla sulle/i sex worker incontrat* su Facebook , nei media, e che si dedicano all’attivismo. Non date per scontato che non siamo stat* vittime di violenza, discriminazione, allontanamento dalla famiglia, abuso, violenza, pessime condizioni di lavoro, violenza domestica, povertà, corruzione della polizia o criminalità. Siamo persone, come voi, che hanno affrontato tutto ciò che nel corso di una vita affronta qualsiasi individuo. Ma, in quanto sex worker, affrontiamo anche preconcetti radicati, il che significa che se non condividiamo con voi le storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut*.

Questo è ciò che noi chiamiamo il “porno tragico”: un desiderio, nel movimento femminista, di ascoltare storie tragiche di disagio delle/i sex worker, e quando non lo accontentiamo, ci troviamo ad affrontare l’accusa di nascondere la “verità” sul sex work. Ad esempio, quando parliamo dell’assenza di incidenti relativi alla questione del traffico nell’industria del sesso, siamo accusat* di non riconoscere le condizioni di vita delle/i sex worker migranti. O quando presentiamo statistiche reali sul consumo di droga nell’industria del sesso, ci viene detto che stiamo ignorando o mentendo sul consumo di droga nel lavoro sessuale. Ci si aspetta che ‘mettiamo in scena’ una pornotragedia stereotipata per il pubblico delle femministe, e quando non ci stiamo, non veniamo prese sul serio.

Beh, sto per dirvi qualcosa che potreste non aver preso in considerazione. Non vogliamo recitare per voi.
Non dovremmo usare occasioni come questa come forma pubblica di counselling, o momento di sfogo per le difficoltà della nostra vita, allo scopo di convincervi quando diciamo che esigiamo i nostri diritti umani.

E non vogliamo che la comunità femminista si aspetti, ricompensi, o applauda una persona quando si lascia andare a descrivere tutte le esperienze negative che ha sopportato nella propria vita. Le persone che hanno realmente bisogno di counselling e sostegno per elaborare i propri traumi esistenziali non sono tenute a mostrarveli al fine di accedere ai diritti umani di base, assistenza o giustizia.

Se non credete a ciò che vi diciamo solo perché non vi mostriamo le nostre tragedie, allora siete parte di un circo malato, nel quale le/i sex worker rappresentano una forma di intrattenimento non consensuale.

Le/i sex worker non sono qui per questo. Siamo qui per sostenere la nostra battaglia, e chi non riesce a capirlo si è spostato qui accanto, perché non vogliono vederci vivere la nostra vita traboccanti di forza. [NB: la conferenza Feminist Futures si era divisa sull’argomento: Sheila Jeffreys e altre femministe radicali avevano affittato uno spazio per proseguire con quella che chiamavano la “vera” conferenza femminista, in segno di protesta contro le/gli attivist* pro sex work /pro trans invitat* all’ultimo momento].

Dunque, perché un gruppo di femministe si sente minacciato a tal punto dalle/i sex worker che affrontano energicamente le proprie vite? Beh, la risposta più semplice è che i/le ‘salvator*’ aumentano il proprio prestigio rendendo noi vittime e loro stess* salvator*. Non è una novità, è un fenomeno noto a partire dalla metà del XIX secolo, ai tempi rappresentò la via attraverso la quale molte donne di classe media sfuggirono dalla casa per entrare a far parte della vita pubblica nelle democrazie occidentali, tra cui anche l’Australia. Senza le Puttane Maledette non vi era alcuna necessità della Polizia Divina – le femministe che affermavano di essere la salvezza delle/i sex worker trovarono la fama, vennero celebrate, influenzarono le politiche ed ebbero voce in capitolo in Australia nel corso degli ultimi due secoli. A nostre spese.

Quell* tra voi impegnat* nelle organizzazioni della ‘salvezza’ , devono ammettere che a ‘salvare’ si ottiene privilegio. Posizionandosi nel ruolo di chi aiuta le/gli altr* si ottiene un ruolo nella società, che senza ‘vittime’ semplicemente non esisterebbe.

Questo è il motivo per il quale Scarlet Alliance sostiene una forma di educazione tra pari nel campo del sex work. Un approccio critico che vede le/ i sex worker sostenersi reciprocamente e autonomamente. Questo è il motivo per il quale sosteniamo le organizzazioni delle/i sex worker. Organizzandoci in maniera critica per noi stess*.

Questo è il motivo per cui non reciteremo la ‘nostra tragedia’ per voi. Perché per vivere la nostra vita con forza, è necessario che ci accettiate al nostro meglio. Vogliamo che il movimento femminista la smetta di punirci per la nostra forza, gratificarci per il nostro dolore, guadagnare privilegio alle spalle delle nostre esigenze, e vogliamo che ci ascolti quando parliamo. Noi continueremo ad alzare la voce per i nostri diritti e voi dovrete ascoltarci.

Perché chi nega la nostra esperienza , nega la nostra esistenza. Combattiamo già pessime leggi, non abbiamo anche bisogno di combattere metà della comunità femminista australiana.

Elena Jeffreys è Presidente di Scarlet Alliance. Articolo originale qui.

I’ll show you mine, ovvero chi ha paura della vulva?

I’ll Show You Mine è un libro realizzato da Wrenna Robertson – attivista, accademica e stripper – e dalla fotografa Katie Huisman, insieme a tutte le donne rappresentate nel libro.

Il libro è una risorsa educativa creata allo scopo di decostruire le norme artificiali e irrealistiche della società riguardo alla normalità e bellezza della vulva, aiutare le persone ad avere un’idea realistica dei diversi aspetti di una vulva, e soprattutto delle diverse percezioni che le donne stesse ne hanno. Wrenna ha deciso di realizzare questo libro provocatorio, originale e toccante allo scopo di celebrare la bellezza insita nelle diverse vulve, dopo aver notato che sempre più donne prendono in considerazione la chirurgia estetica o la labioplastica allo scopo di correggere quelle che considerano vulve ‘anormali’ o poco attraenti.

Nel libro vengono quindi rappresentate 60 donne, di etnie ed età diverse, ognuna attraverso due foto della propria vulva accompagnate dal racconto, fatto dalle stesse protagoniste, delle proprie esperienze – tragiche o celebrative, rabbiose o sensuali – in merito alla propria sessualità. Le donne rappresentate appartengono ai percorsi esistenziali più disparati, sono studentesse, dottore, artiste, accademiche, sex worker, madri, nonne, casalinghe, imprenditrici, ecc.

Nelle prossime settimane, proporremo le immagini di alcune delle protagoniste del libro, insieme alla loro storia: cominciamo oggi con Diana. Buona lettura!

Mi chiamo Diana.

Quando ero molto piccola, amavo così tanto la mia vagina. Il suo odore e il suo aspetto mi facevano sentire così bene e a mio agio, ed esprimevo in maniera molto esplicita l’orgoglio che provavo nell’essere una bambina.

Quando ero ancora abbastanza piccola e carina da essere percepita, da occhi adulti, come innocente e innocua, mi vantavo lungamente dei miei genitali, descrivendone nel dettaglio la struttura – considerandoli addirittura di molto migliori rispetto a quelli dei ragazzini che conoscevo.

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Non ricordo esattamente quando, come, o chi mi ha contagiato con la paura e la vergogna che ho sviluppato in merito alla mia vagina, ma dai 6 o 7 anni ho cominciato ad augurarmi che non esistesse. Intorno ai 10 anni, ero praticamente riuscita a nasconderla completamente, anche a me stessa. Le perdite occasionali di fluidi e il terrore mestruale erano le sole cose capaci di ricordarmi di quello spazio che avevo tra le gambe. L’arrivo delle mestruazioni mi fece sentire solamente sporca e consapevole, e cominciai a impacchettare la mia vergogna nella carta igienica e nel cotone, avvolgendo gli assorbenti usati in strati su strati di carta igienica, sperando che la mia famiglia non avrebbe mai scoperto il mio sanguinare.

Non sono cresciuta in un ambiente nel quale alle donne fosse consentito di essere orgogliose di essere donne.

Quando iniziai ad avere rapporti sessuali, avevo già collezionato oltre un decennio di vergogna sessuale. Mi ci è voluto quasi un anno per imparare a sentire, a respirare attraverso il disagio, l’imbarazzo e la colpa, ad accorgermi del fatto che potevo, davvero, sperimentare il piacere.

Ci vuole ancora un sacco di fatica e di incoraggiamento, personale e da parte di altr*, per sentirmi a mio agio nell’esprimere la gioia e la felicità che un tempo provavo per la mia vagina. Partecipare a questo progetto mi ha consentito di provare un nuovo sentimento di amore nei confronti di questa parte del mio corpo – sentire che la mia vulva è desiderata, e può essere amata, e che questo amore è meritato.

 

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

di Carol J. Adams.

Tratto da: C. Adams, «Ecofeminism and the Eating of Animals», Hypathia, No. 6, Spring 1991, pp. 134-137.

Traduzione di Marco Reggio, originariamente pubblicata su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 44-46.

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Una rappresentazione pubblicitaria che promuove l’alimentazione carnivora giocando sull’alleanza tra «natura» e «cultura»: «Il reparto surgelati: il nuovo terreno di caccia dei carnivori», locandina della ditta francese Charal.

Siamo o no predatori? Nel tentativo di considerare noi stessi come esseri naturali, alcuni sostengono che gli esseri umani sono semplicemente predatori, come alcuni altri animali. Il vegetarismo, pertanto, è considerato innaturale, mentre il carnivorismo di altri animali viene reso paradigmatico. I sostenitori dei diritti animali sono criticati «perché non capiscono che il fatto che una specie dia o riceva sostentamento da un’altra rappresenta la modalità con cui la natura mantiene la vita» (Ahlers 1990, p. 433). Le profonde differenze rispetto agli animali carnivori vengono ignorate poiché la nozione dell’umano come predatore è conforme all’idea secondo cui noi abbiamo bisogno di mangiare carne. In realtà, il carnivorismo è un dato di fatto solo per il 20% circa degli animali non umani. Possiamo davvero generalizzare a partire da questo dato e sostenere di conoscere precisamente che cosa sia la «modalità naturale», e possiamo estrapolare il ruolo degli umani conformemente a questo paradigma?

Alcune femministe hanno sostenuto che mangiare animali sia naturale perché noi non possediamo il doppio stomaco o i molari piatti tipici degli erbivori ed inoltre gli scimpanzé mangiano carne e lo considerano un cibo speciale (Kevles 1990). Questo argomento tratto dall’anatomia implica un’operazione di filtraggio selettivo. Infatti, tutti i primati sono principalmente erbivori. Sebbene alcuni scimpanzé siano stati osservati mentre mangiavano cadaveri – al massimo sei volte al mese – alcuni di essi non ne mangiano mai. La carne di cadavere costituisce meno del 4% della dieta degli scimpanzé; molti mangiano insetti, e non mangiano latticini (Barnard 1990). Vi sembra paragonabile alla dieta degli umani?

Gli scimpanzé, come la maggior parte degli animali carnivori, sono apparentemente molto più adatti a catturare animali rispetto agli umani. Noi siamo molto più lenti. Loro possiedono canini molto sporgenti per strappare la pelle; tutti gli ominidi hanno perso i lunghi canini 3,5 milioni di anni fa, apparentemente per facilitare la frantumazione necessaria ad una dieta a base di frutta, foglie, semi oleosi, germogli e legumi. Se anche noi riusciamo ad afferrare le prede, non possiamo lacerarne la pelle. È vero che gli scimpanzé si comportano come se la carne fosse un cibo speciale. Quando gli umani vivevano come raccoglitori e quando il petrolio era raro, la carne degli animali morti era una buona fonte di calorie. Può darsi che la connotazione di «cibo speciale» abbia a che fare con una capacità di riconoscere fonti di calorie concentrate. Comunque, non abbiamo più bisogno di fonti di calorie concentrate come il grasso animale, dal momento che il nostro problema non è la scarsità di grasso ma piuttosto l’eccesso di grasso.

Quando viene presentato l’argomento per cui mangiare carne sarebbe naturale, si presume che si debba continuare a consumare animali perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: per sopravvivere conformemente ad una vita libera dai vincoli artificiali e culturali che ci privano della possibilità di esperire la nostra reale essenza. Il paradigma degli animali carnivori fornisce la rassicurazione che mangiare animali sia naturale. Ma come facciamo a sapere che cosa è naturale quando si tratta di alimentazione, sia per via della costruzione sociale della realtà, sia per via del fatto che la nostra storia indica un messaggio molto ambivalente riguardo il cibarsi di animali? Alcuni li mangiavano, ma la maggior parte no, o almeno non in grande quantità.

L’argomento riguardante che cosa sia naturale – ovvero, secondo un significato di tale termine, non culturalmente costruito, non artificiale, ma qualcosa che riporta alla nostra vera essenza – si ritrova in un contesto diverso che desta sempre dei sospetti da parte delle femministe. Viene spesso sostenuto che la subordinazione della donna all’uomo è naturale. Questo argomento cerca di negare la realtà sociale facendo appello a quella «naturale». L’argomento del predatore «naturale», analogamente, ignora la costruzione sociale. Dato che mangiamo cadaveri in modo molto diverso da qualsiasi altro animale – smembrati, non appena uccisi, non crudi, e accompagnati da altri cibi – che cosa rende naturale tale abitudine?

La carne è un costrutto culturale fatto per sembrare naturale e inevitabile. Nel momento in cui viene elaborato l’argomento dell’analogia con gli animali carnivori, l’individuo che lo elabora ha probabilmente consumato animali da prima ancora di aver imparato a parlare. Le razionalizzazioni del consumo di animali sono state probabilmente suggerite quando questo individuo, all’età di quattro o cinque anni, è rimasto sconcertato nello scoprire che la carne proviene da animali morti. Il sapore dei corpi morti viene prima delle giustificazioni razionali, ed offre una forte base per credere che tali razionalizzazioni siano vere; inoltre, i figli del boom economico hanno dovuto fare i conti con un ulteriore problema, e cioè con il fatto che durante la loro crescita carne e latticini sono stati consacrati come due dei quattro gruppi di cibi fondamentali. (Questo è accaduto negli anni Cinquanta come conseguenza di un’azione lobbystica dell’industria della carne e del latte. All’alba del nuovo secolo, ci sono invece dodici gruppi di cibi fondamentali.) Quindi gli individui non hanno semplicemente sperimentato una gratificazione a livello di gusto nel mangiare animali, ma forse credono davvero a quanto è stato loro detto incessantemente fin dall’infanzia, ossia che gli animali morti sono necessari per la sopravvivenza umana. L’idea che mangiare carne sia naturale si sviluppa in tale contesto. L’ideologia fa sembrare naturale, predestinato ciò che è artificiale. In realtà, l’ideologia stessa scompare dietro la facciata per cui si tratterebbe di una questione di «cibo».

Noi interagiamo con singoli animali quotidianamente nel momento in cui li mangiamo. Ciò nonostante, questa relazione e le sue implicazioni sono ricollocate in modo che gli animali scompaiano e che si possa dire che stiamo interagendo con una forma di cibo che è stata chiamata «carne». In The Sexual Politics of Meat, ho chiamato questo processo concettuale in cui l’animale scompare la struttura del referente assente. Gli animali di nome e di fatto vengono resi assenti in quanto animali affinché esista la carne. Se gli animali sono vivi non possono essere carne. Dunque, un corpo morto sostituisce l’animale vivo e gli animali diventano referenti assenti. Senza gli animali non ci sarebbe alcun carnivorismo, eppure sono assenti dall’atto di mangiare carne poiché sono stati trasformati in cibo.

Gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio che rinomina i corpi morti prima che i consumatori condividano il fatto di cibarsene. Il referente assente ci permette di dimenticarci dell’animale in quanto entità a sé stante. L’arrosto nel piatto è smembrato a partire dal maiale o dalla scrofa che una volta era. Il referente assente ci permette inoltre di resistere ai tentativi di rendere presenti gli animali, perpetuando una gerarchia fra mezzi e fini.

Il referente assente deriva dalla prigionia ideologica e la rinforza: l’ideologia patriarcale stabilisce la posizione culturale di uomo e animale; crea dei criteri che presuppongano l’importanza della differenza di specie quando si considera chi può essere un mezzo e chi può essere un fine, e poi ci indottrina a credere che abbiamo bisogno di mangiare animali. Contemporaneamente, la struttura del referente assente mantiene gli animali assenti dalla nostra comprensione dell’ideologia patriarcale e ci rende restii a considerare gli animali come presenti.

Ciò significa che dobbiamo continuare ad interpretare gli animali dal punto di vista dei bisogni e degli interessi umani: li vediamo come utilizzabili e consumabili. Molti discorsi femministi sono partecipi di questa struttura nel momento in cui non riescono a rendere visibili gli animali.

L’ontologia riassume l’ideologia. In altri termini, l’ideologia crea ciò che appare come ontologico: se le donne sono ontologizzate come oggetti sessuali (o stuprabili, come sostengono alcune femministe), gli animali sono ontologizzati come fonti di carne. Ontologizzando donne e animali come oggetti, il nostro linguaggio elimina contemporaneamente il fatto che qualcun altro agisca come soggetto / agente / esecutore di violenza.

Sarah Lucia Hoagland dimostra come funziona tale meccanismo: «John ha picchiato Mary» diventa «Mary è stata picchiata da John», poi «Mary è stata picchiata», infine «donne picchiate», e quindi «donne maltrattate». Hoagland fa notare che «ora qualcosa che gli uomini fanno alle donne è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura delle donne. E perdiamo completamente di vista John».

La nozione del corpo animale come commestibile si presenta in modo analogo e rimuove l’azione degli umani che comprano animali morti per consumarli: «Qualcuno uccide gli animali in modo che io possa mangiarne i corpi sotto forma di carne» diventa «gli animali vengono uccisi per essere mangiati come carne», poi «gli animali sono carne», infine «animali da carne», e quindi «carne». Qualcosa che facciamo agli animali è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura degli animali, e perdiamo completamente di vista il nostro ruolo.

Bibliografia

Julia Ahlers, «Thinking like a mountain: Toward a sensible land ethic», Christian Century, April 25, pp. 433-34.

Neal Barnard, «The evolution of the human diet», in The power of your plate, TN: Book Publishing Co, 1990 Summertown.

Sarah Lucia Hoagland, Lesbian ethics: Toward new values, CA: Institute for Lesbian Studies, 1988 Palo Alto.

Bettyann Kevles, «Meat, morality and masculinity», The Women’s Review of Books, May 1990, pp. 11-12.

Paura dei sentimenti: trauma e guarigione nel movimento di liberazione animale

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di Pattrice Jones, traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Anche nel caso di questa traduzione sottolineiamo che nel testo viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Sola su di un palco alla Syracuse University, Sarahjane Blum trema dall’emozione mentre racconta ciò che ha visto all’interno di una fabbrica di foie gras. Ascoltando ma anche vivendo le sue parole, il pubblico assiste alla sofferenza delle anatre attraverso gli occhi di Sarahjane. Quando le parole vengono a mancare, Sarahjane mostra alcune scene del video ‘Delicatezza della Disperazione’. Seduti nella sala buia, studiosi e attivisti vorrebbero sottrarsi, ma si sforzano di assistere alla sofferenza visibile sullo schermo.

Su un banchetto informativo appena fuori dall’auditorium, uno schermo trasmette in loop video di maltrattamenti animali filmati sotto copertura all’interno dei laboratori dell’Huntingdon Life Sciences. Ripetutamente, un uomo urlante in camice bianco da laboratorio compie abusi su cuccioli di beagle. Si possono solo immaginare le elucubrazioni mentali necessarie alle/agli attivisti seduti al banchetto per tollerare la raffica incessante di rabbia umana e sofferenza animale. E che dire dell’attivista che è entrata all’HLS sotto copertura, come dipendente, per far emergere la realtà di tali abusi? Come ha potuto gestire le proprie emozioni in quel momento? Che cosa sente ora?

In un bel pomeriggio di fine settembre, Karen Davis, Presidente di United Poultry Concerns si ferma al rifugio Eastern Shore. È sconvolta, ha appena assistito all’eutanasia di una gallina malata e incurabile dal veterinario. Come sempre, Karen è rimasta con la gallina fino alla fine. Le persone le chiedono di continuo: “Come puoi andare avanti senza sentirti turbata?” Quello che non capiscono, dice, e il tono di voce si fa più alto, è che “io sono sempre turbata!” Tutto quello che può fare, sostiene Karen, è andare avanti, incanalando i propri sentimenti in qualcosa – qualche documento, qualche discorso, qualche parola – in grado forse di fare la differenza.

Il disastro ha colpito un’altra fabbrica di uova. I soccorritori convergono sul posto, cercando di salvare il maggior numero possibile di galline. Migliaia sono già morte. Essendo rimasti senza cibo né acqua per molti giorni, gli uccelli sopravvissuti – intrappolati nelle gabbie con i loro compagni morti – sono ancora più sconvolti delle solite galline in batteria. Qualcuno sbatte le ali freneticamente, altri stanno immobili, i dorsi ricurvi esprimono i loro sentimenti di impotenza. Uno dei soccorritori nota alcune galline intrappolate nelle fosse degli escrementi sotto le gabbie e guada il letame nel tentativo di salvarle, ma deve tornare indietro quando, ormai immerso fino alla cintola, rischia di essere risucchiato. Nelle settimane successive, soffrirà di insonnia, sogni ricorrenti di essere impotente in mezzo ad animali non umani che hanno bisogno di aiuto e ricordi intrusivi degli uccelli che non ha potuto salvare.

Le nostre emozioni animali

Le persone sono animali. Gli animali hanno sentimenti. Gli animali hanno corpi che sperimentano ed esprimono i loro sentimenti. Come tutti gli altri processi fisiologici, i sentimenti persistono anche quando vengono ignorati o negati.

Uno dei miti della superiorità umana è che siamo in grado di trascendere le nostre percezioni, mentre gli altri animali ne sono vincolati. Questo va di pari passo con l’idea che possiamo e dobbiamo superare la nostra corporeità, mentre gli animali non umani vi coincidono sempre. Questa idea è così profondamente radicata in molte culture occidentali ed orientali che anche le/gli attivist* per la liberazione animale possono implicitamente abbracciarla.

Quando ci rifiutiamo di riconoscere i nostri limiti fisici o ci aspettiamo di essere immuni dal fattore emotivo che influenza gli altri animali, siamo pericolosamente vicin* alla mentalità “mente (umana) contro corporeità (animale)” che porta alla biotecnologia e agli altri sforzi per rimodellare il mondo naturale secondo le nostre fantasie di onnipotenza e di controllo.

In realtà la vita segue le proprie regole, non le nostre. Non abbiamo più controllo sulle nostre emozioni animali di qualsiasi altro vertebrato. Possiamo scegliere quello che facciamo dei nostri sentimenti e anche, in certa misura, se sperimentarli pienamente. Ma non possiamo scegliere di non arrabbiarci per le ingiustizie o di sentirci tristi di una perdita, più di quanto un pollo possa scegliere di non avere paura di un falco o di sentirsi frustrato da una gabbia.

I sentimenti possono essere sia spaventosi che seducenti poiché rimangono selvatici, indipendentemente da quanto invece siamo diventati addomesticati noi. Tuttavia, l’unica cosa da temere dei sentimenti è la paura di quei sentimenti. Come fiumi, i sentimenti sono più pericolosi quando arginati o impropriamente incanalati. Come fiumi, fluiranno in ogni caso e possono diventare imprevedibilmente distruttivi, se non gli si permette di seguire i propri percorsi naturali.

Spesso, le/gli attivist* esitano a parlare dei propri sentimenti – o anche a pensarci – perché la sofferenza degli altri animali è, a confronto, molto più grande. I motivi di questa auto-repressione sono altruistici, ma i risultati possono essere controproducenti. Ovviamente, il disagio causato dall’assistere alla violenza non è paragonabile al terrore e al dolore vissuto dalla vittima della violenza. Ma l’angoscia del testimone è reale e non può essere cancellata dai paragoni. Recenti ricerche hanno dimostrato che gli eventi traumatici possono avere un impatto emotivo ugualmente potente sui testimoni e sulle vittime. Sia i testimoni sia le vittime di stupro e violenza domestica, per esempio, possono sviluppare sintomi di stress post-traumatico (PTSD). Secondo la PTSD Alliance, segni di stress post-traumatico possono svilupparsi dopo ogni esperienza che porti a sentimenti di “paura intensa, orrore e senso di impotenza.” L’impotenza di fronte al pericolo per sé o altr* è un enigma per il corpo. I sensi gridano “Questa è un’emergenza!” e il sistema nervoso risponde bloccando la digestione, pompando sangue extra per i muscoli di braccia e gambe, liberando adrenalina nel sangue, rendendo la visione più acuta, e in ogni modo preparando l’organismo a combattere o fuggire. Ma il corpo non ha nulla da fare! Il sistema nervoso mantiene su di giri i motori interni e i sensi continuano a gridare “Emergenza!”, ma non c’è nessun posto per tutta quell’energia ed emozione. Se questa situazione persiste abbastanza a lungo o si ripete abbastanza spesso, l’organismo può venirne danneggiato permanentemente. Era facile notare atteggiamenti come questi durante la prima guerra mondiale, quando i soldati bloccati nelle trincee sopportarono bombardamenti apparentemente senza fine senza poter fare nulla per combattere o difendersi. Molti finirono colpiti da psicosi traumatica, seduti immobili in letti d’ospedale mentre i loro cuori battevano come se fossero ancora sotto il fuoco.

Stress traumatico

Gli americani hanno scoperto lo stress traumatico – come lo intendiamo oggi – sulla scia della guerra in Vietnam. Incubi, flashback e sentimenti debilitanti di paura o rabbia – scoprimmo – erano le conseguenze più comuni dell’esposizione agli orrori della guerra. Come Judith Herman ha ampiamente dimostrato nel suo libro ‘Trauma e guarigione’, è una lezione che abbiamo dimenticato prima ancora di impararla. Ogni generazione cerca di dimenticare i traumi che ha subito e, così facendo, diventa più probabile infliggere un trauma alla generazione successiva.

Un trauma è una lesione o uno shock. Lo stress dovuto all’aver vissuto un evento traumatico, di avervi assistito, o persino di esserne venut* a conoscenza può scatenare reazioni cognitive, emotive o fisiche. Recenti studi sulle persone con PTSD hanno mostrato che episodi traumatici, in particolare quando sono subiti o ripetuti, possono portare a cambiamenti nella chimica del cervello, nel flusso del sangue e nel metabolismo. I liberatori, le persone che compiono investigazioni nei luoghi dove si commettono crudeltà sugli animali non umani, il personale dei rifugi e le/gli attivisti per i diritti animali affrontano e spesso testimoniano direttamente e ripetutamente sofferenze estreme, sperimentando continuamente la combinazione di emergenza e di impotenza che è il segno distintivo di ogni evento traumatico. Come risultato di ciò, spesso lottiamo con disturbi del sonno, ricordi intrusivi ed emozioni troppo acute o al contrario assenza di emozioni.

Se hai livelli elevati di noradrenalina, livelli più bassi di serotonina e un flusso anormale di sangue al cervello, raccontarti che gli animali non umani hanno la peggio non cancellerà i problemi. Se questi problemi ti impediscono di riposare a sufficienza, interferiscono con la tua capacità di concentrazione, o compromettono la tua capacità di mantenere rapporti di lavoro produttivi con le altre persone, allora è probabile che anche l’efficacia del tuo attivismo per gli animali non umani peggiori. Le quattro caratteristiche dello stress post-traumatico sono:
• Tendenza a rivivere l’esperienza traumatica. Incubi, ricordi intrusivi, flashback e forti risposte emotive nel richiamare l’esperienza sono tutti i modi in cui una persona rivive le esperienze traumatiche.
• Intorpidimento emotivo. Può assumere la forma di sentimenti di distacco o estraneità, perdita di interesse per attività solitamente piacevoli, mancanza di sentimenti positivi, o mancanza di qualsivoglia sentimento.
• Tendenza ad evitare ricordi legati all’esperienza. Le persone spesso evitano o addirittura sviluppano reazioni fobiche a persone, luoghi, cose o attività che ricordino in qualche modo l’esperienza traumatica. A volte, cambiamenti di comportamento che sembrano non avere alcun senso risultano essere sforzi per evitare di ricordare il trauma.
• Maggiore eccitazione. Può assumere la forma di una reazione amplificata a rumori forti o altri stimoli, ma anche di una maggiore soglia di vigilanza nei confronti tutto ciò che riguarda il trauma vissuto.

Se subisci un trauma, devi essere pront* ad una reazione di stress. Fai il possibile per prenderti cura di te stess* o permetti ad altr* di farlo, ricordando che – se ci si prende il tempo di farlo immediatamente – puoi così prevenire o attenuare l’emergere di sintomi di PTSD più persistenti e debilitanti. Trova il modo di vivere e di esprimere i tuoi sentimenti, soprattutto parlando con persone che si immedesimino facilmente, ma anche attraverso il movimento, la musica, l’arte, o altre modalità sicure di espressione. Presta particolare attenzione al riposo e all’alimentazione, in modo che il corpo abbia le risorse per far fronte agli aspetti fisiologici del trauma. Se noti che tu o altr* state sviluppando sintomi riconducibili allo stress post-traumatico da un mese o più e che queste reazioni sono causa di disturbo o disagio significativo, è il momento di agire. I gruppi di lavoro – che si tratti di una terapia di gruppo con un terapista o una serie di discussioni tra pari con regole di base in uno spazio sicuro e moderato da un mediatore esperto – possono essere modalità d’elezione per gli attivisti che hanno a che fare con lo stress legato al proprio lavoro con gli animali. La terapia individuale si è dimostrata efficace contro i casi di PTSD legata a un’ampia gamma di traumi. Conosco divers* attivist* animalist* che hanno cercato una buona dose di psicoterapia con psicolog*, assistenti sociali, o altri consulenti professionisti.

Diversi farmaci hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento di sintomi fisici come nervosismo e insonnia. Coloro che evitano i prodotti farmaceutici commerciali a causa della sperimentazione animale, dovrebbero sapere che esistono una serie di rimedi a base di erbe che, in studi clinici con volontari umani, hanno dimostrato un’efficacia pari o superiore a quella dei farmaci sintetici. Consulta un medico qualificato, allopatico o olistico, può aiutarti a decidere se e come trattare i sintomi. Qualunque cosa decidi di fare, non vergognarti di essere un animale. Qualunque cosa senti è la risposta naturale del tuo corpo a ciò che hai vissuto. Nascondere o negare i tuoi sentimenti non li farà svanire, ma potrebbe anzi farti sentire peggio. Al contrario, portare i tuoi sentimenti allo scoperto spesso aiuta ad indirizzarli. Prima li affronti, prima ti senti meglio e sei in grado di fare ciò che desideri.

Depressione.

La depressione è un’altra conseguenza comune dell’esposizione prolungata o ripetuta a ingiustizie e sofferenze. Come nel caso del disturbo da stress post traumatico, la depressione può compromettere in modo significativo la capacità di agire dell’attivista ed è spesso accompagnata da cambiamenti nel sistema nervoso e nel metabolismo. La depressione è una condizione debilitante spesso associata allo stress post-traumatico, ma può anche essere causata da fattori che vanno da una carenza vitaminica temporanea a conflitti intra-psichici persistenti. Chiunque passa attraverso brevi periodi di tristezza che si possono definire “depressione”. Ma si tratta di una depressione diversa dalla depressione clinica, che è una condizione grave che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera una minaccia a livello mondiale. Se non trattata, la depressione clinica può durare per anni senza sollievo. Con un trattamento adeguato, la depressione può sparire completamente o diventare molto più gestibile.

I sintomi della depressione clinica includono:
• Tristezza prolungata o pianto inspiegabile.
• Cambiamenti significativi nelle abitudini alimentari o di riposo.
• Irritabilità persistente, rabbia, preoccupazione, agitazione o ansia.
• Pessimismo o indifferenza.
• Perdita di energia, letargia persistente o stanchezza inspiegabile.
• Sentimenti persistenti di vergogna, senso di colpa, o inutilità.
• Difficoltà di concentrazione o incapacità di prendere decisioni.
• Isolamento sociale o mancanza di interesse per attività precedentemente piacevoli.
• Dolori inspiegabili.
• Pensieri ricorrenti di morte o suicidio.

Se hai cinque o più di questi sintomi per più di due settimane, o se uno qualsiasi di questi sintomi provoca grave sofferenza o disagio, è il momento di chiedere aiuto a un medico. Poiché molti dei sintomi della depressione possono anche essere causati da patologie gravi, è fondamentale parlare con qualcuno che sia qualificato per determinare se la depressione sia il problema primario e, in caso affermativo, decidere quali misure adottare per trovare un po’ di sollievo, mentre si cercano la causa o le cause.
Esistono persino più modalità di trattamento per la depressione rispetto al PTSD. Le terapie cognitive, comportamentali e psicodinamiche hanno dimostrato di aiutare alcune persone che soffrono di depressione. Se un tipo di terapia non funziona, prova una terapia o un trattamento del tutto diversi. Come nel caso del PTSD, esistono rimedi a base di erbe con efficacia dimostrata pari o superiore a quella dei farmaci sintetici, così non devi scendere a compromessi con i tuoi principi per ottenere un sollievo sintomatico. Come nel caso del PTSD, la mente e il corpo influenzano e sono influenzate dalla depressione. Oltre al riposo e alla nutrizione, l’esercizio fisico è molto importante per le persone che convivono con la depressione.

Se qualcuno che conosci sta parlando di morte o di suicidio, non esitare: chiama l’1-800-SUICIDE per avere consigli su cosa fare. Dimentica quello che pensi di sapere su omicidio e suicidio. Parla con persone competenti in materia e ascolta i loro consigli.
Se sei tu che stai pensando al suicidio, ricordati che il suicidio è una decisione irreversibile che non dovrebbe essere presa alla leggera. La maggior parte delle persone che si suicidano lo fanno perché non si rendono conto che possono liberarsi della propria depressione. Puoi sentirti meglio, e succederà, una volta che avrai avuto il tipo di aiuto giusto per te. Allora, avrai a disposizione molti altri anni per lavorare per gli animali non umani. Anche se non credi che riuscirai a fermare lo sfruttamento animale, devi sapere che l’essere salvato è la cosa più importante per ogni singolo animale che viene salvato. Se stai pensando al suicidio, chiama senza indugi l’1-800-SUICIDE, un numero verde locale, il tuo ex insegnante preferito, il tuo migliore amico, o la persona più simpatica del tuo gruppo per i diritti degli animali non umani.
Prima di proseguire, vorrei offrire un pensiero a qualsiasi attivista che stia lottando contro la depressione: puoi non avere alcuna speranza in questo momento, ma io ne ho tanta e te la posso prestare finché non recuperi la tua. Poi potrai passarla a qualcun altr* e saremo pari, perché anche io ho dovuto prenderla in prestito da altre persone in passato. Dico sul serio. Pensaci un minuto e la percepirai. E quando arriverà il momento di trasmetterla, saprai cosa fare.
Ciò che ognun* di noi può fare.
Che ne siano o meno consapevoli, tutt* coloro che si occupano di rifugi per animali, indagini o salvataggi devono gestire le conseguenze naturali di un lavoro emotivamente pericoloso.

Tutt* abbiamo visto cose che nessuno dovrebbe vedere perché tale sofferenza non dovrebbe esistere. Tutt* abbiamo affrontato il peggio che le persone sono in grado di fare e siamo consapevoli che nessuno è veramente sicuro nel mondo perversamente violento dell’attività umana. Siamo tutt* traumatizzati dalla nostra incapacità di fermare la violenza e perseguitat* dai ricordi di animali che non siamo stati in grado di salvare. Sappiamo tutt* che il nostro è un trauma secondario, che il trauma primario è subito dagli animali. Ma sappiamo anche che dobbiamo prenderci cura di noi stess* e delle/gli altr*, anche solo allo scopo di agire in modo più efficace per gli animali.

Stando così le cose, ci sono una serie di cose che gli individui, i gruppi, e il movimento come entità possono fare per aiutarci a essere più in salute possibile nel contesto profondamente malsano del mondo sociale che le persone hanno creato.
Il primo passo è quello di ricordare che sei un animale e che gli animali hanno dei sentimenti. I sentimenti associati con PTSD e depressione sono le reazioni normali di un organismo sottoposto a stress innaturale. Prima impariamo a riconoscere e rispondere ai sintomi di depressione e stress post-traumatico in noi stess* e nelle altre persone, più forte diventerà il nostro movimento.

Strategie personali

Riposati. Stress e depressione sono sia cause che conseguenze dell’insonnia. Da sola, la privazione del sonno può trasformare persone altrimenti felici in persone ansiose, arrabbiate, o abbattute. Se sei già alle prese con sentimenti difficili, la mancanza di riposo adeguato può rendere la lotta più difficile. Riposa il corpo anche se hai difficoltà a dormire. Puoi provare un rimedio di erbe per la mancanza di sonno che non crei dipendenza, come la camomilla, o prendere in considerazione altre strategie per favorire il sonno. Prendi delle vitamine. I corpi sani sono più in grado di sopportare forti emozioni senza crollare. Inoltre, una carenza di alcune vitamine può a sua volta causare depressione. Parla dei tuoi sentimenti. Ascolta quelli degli altri. Esprimi empatia quando si può.
Ascolta il tuo corpo. Dove ti fa male? Che cosa ti aiuta? Che cosa sta cercando di dirti? Ricorda che il tuo corpo ha i propri diritti animali. Non fargli del male. Dagli aria fresca, molto esercizio fisico, e qualsiasi piacere sicuro e consensuale che desideri. Non peggiorare le cose. Le persone a volte cercano di “curare” il loro stress o la loro depressione con alcol o droghe. Se bere in compagnia va bene, bere regolarmente o in maniera compulsiva crea più problemi di quanti ne risolva. Dal momento che l’alcol ha effetti depressivi, le persone alle prese con la depressione dovrebbero evitarlo del tutto.

Strategie collettive

Il tuo gruppo è impegnato in un lavoro che potrebbe portare a stress post-traumatico? Se è così, cosa fa il gruppo per aiutare i propri membri a prendersi cura di se stessi e degli altri? Un gruppo non è altro che un insieme di relazioni. Se queste relazioni sono forti e nutrienti, il gruppo durerà più a lungo e svolgerà più lavoro utile. Il tempo investito nel rendere il gruppo più sano e più solidale sarà restituito con un aumento di produttività e una diminuzione dei tassi di abbandono.

Strategie di movimento

Se potessi, vieterei l’espressione “(x) è niente in confronto a (y)” da tutte le riunioni di movimento e conferenze. Le persone la usano per rimproverarsi le une le altre ed evitare i propri sentimenti di stress e depressione.
I polli “da carne” vivono in capannoni affollati e sono trasportati dai camion verso una morte dolorosa e terrificante a circa sei settimane di età. Le galline ovaiole nelle fabbriche di uova sopportano fino a due anni di tortura nelle gabbie prima di essere trasportate, magari con un viaggio lunghissimo, verso le proprie morti dolorose e terrificanti. Non diremmo mai che ciò che i polli da carne sopportano “non è niente” rispetto a quello che sopportano le galline ovaiole. Anche se è relativamente minore, la sofferenza dei giovani polli da carne è reale e significativa. È particolarmente reale e significativa per loro.

No, il trauma della persona che per svolgere indagini sotto copertura osserva scimmie torturate non è così grave come la sofferenza delle scimmie stesse. Ma non è “niente”. Tutta la sofferenza è reale e significativa, in particolare per chi la subisce. Dobbiamo cambiare l’atteggiamento del nostro movimento verso un’empatia per tutt*, inclus* noi stess*.

Dobbiamo anche iniziare a costruire un’infrastruttura di movimento che aiuti a far fronte in modo più efficace al trauma insito in molte forme di attivismo animale. Perché non abbiamo gruppi di sostegno con moderatori addestrati a tutte le nostre conferenze? Perché non esiste una rete di psicologi per i diritti degli animali che offrano trattamenti gratuiti o a basso costo per gli animalisti che hanno subito traumi? Perché si parla – quando lo si fa – dei nostri sentimenti solo in conversazioni frettolose tra una riunione e l’altra?

Io e la mia compagna gestiamo un rifugio per polli nel bel mezzo di una regione dominata dall’industria avicola. Camion per il trasporto dei polli rombano proprio di fronte alla nostra porta di casa. Non posso dire quanti uccelli siano morti tra le mie braccia. Questo mese sarà il nostro quinto anniversario. Dubito che avrei superato il dolore del primo anno se non fosse per la vicinanza e il sostegno di altre persone che salvano polli. Ci capiamo allo stesso modo – ne sono certa – delle persone che devono affrontare le sfide estreme ed uniche del lavoro sotto copertura. Cerchiamo di trovare modi di sostenerci l’un l’altr* in modo che nessuno di noi si senta sol* nella lotta!

Prima di co-fondare l’Eastern Shore Sanctuary and Education Center, Pattrice Jones ha studiato e lavorato nella psicologia clinica, specializzandosi in terapia individuale e di gruppo per i sopravvissuti ai traumi.

Nu Project: la vera bellezza

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Traduzione di questo articolo a cura di Serbilla – Enjoy!

“La nudità femminile non è difficile da trovare nei mezzi di comunicazione di questi tempi: ma i corpi che vediamo normalmente rappresentano una gamma abbastanza limitata di forme e dimensioni.”

Corpi senza un grammo di grasso, proporzionati, atletici e la maggior parte dei quali ritoccati magicamente con Photoshop. Nu Project è una collezione di foto di nudo scattate dal fotografo Matt Blum, di Minneapolis, con il quale si vorrebbe aggiungere un po’ di varietà e perché no, il riconoscimento alla bellezza autentica al di là degli stereotipi e delle etichette.

AtHome049-2B7K0748 Blum ha dato vita al progetto nel 2005 lavorando assieme a sua moglie, Katy Kessler.

“Quando cominciai a fotografare nudi, non avevo in progetto questo. I lavori che ho visto usano modelli con misure ideali o standard che sembrano estremamente perfetti o imponenti. Pensai che doveva esserci un modo per catturare la bellezza di una donna reale (di qualsiasi forma e corporatura), che funzionasse da modello e fotografarle belle e rispettosamente.”

Le modelle di questo progetto sono tutte volontarie, nel sito web dello stesso si possono apprezzare gallerie di donne nordamericane così come sudamericane; sebbene il tipo di donna che ha fotografato è l’unione di distinti corpi ed etnie, Blum assicura che gli piacerebbe che più donne avessero il coraggio di partecipare e si spogliassero delle loro insicurezze.

Il fotografo spera che queste immagini ispirino le donne a sentirsi meglio con il loro corpo.
“E’ stato molto emozionante ascoltare le reazioni della gente di fronte alle immagini (…) Abbiamo ricevuto molti commenti di donne (soprattutto) che hanno lottato per vedersi come le bellezze che sono e questo progetto le ha aiutate in questo cammino”.

 

Perché il femminismo fa male agli uomini

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Pubblichiamo la traduzione di questo articolo, “How feminism hurts men”, di Micah J. Murray. La traduzione è di Luciana Franchini, che ringraziamo: la responsabilità di tutto è mia, ovviamente.

 

Ieri qualcuno su Facebook mi ha detto che il femminismo glorifica le donne a scapito degli uomini, che il suo obiettivo di validare le donne castra noi maschi.

Ha ragione.

L’ascesa del femminismo ci ha relegati a uno status di second’ordine. L’ineguaglianza e la discriminazione sono diventate parte della nostra vita quotidiana.

A causa del femminismo gli uomini non possono più camminare per strada senza la paura di essere fischiati, molestati, addirittura aggrediti sessualmente dalle donne. Se viene aggredito, l’uomo viene anche incolpato: per com’era vestito, “se l’è cercata”.

A causa del femminismo non ci sono più conferenze cristiane importanti su come comportarsi da uomini, e dove migliaia di uomini possano celebrare la propria virilità e Gesù (e magari farsi qualche risata con gli stereotipi sulle donne).

A causa del femminismo le convention religiose sono spesso dominate da donne. Gli uomini vengono incoraggiati a limitarsi a badare ai bambini o alla cucina. A volte agli uomini viene persino detto di stare zitti in chiesa.

A causa del femminismo le donne guadagnano più degli uomini a parità di lavoro.

A causa del femminismo è ormai difficile trovare un film con un eroe maschile. La maggior parte dei film da cassetta parla di una donna coraggiosa che salva il mondo e ottiene un uomo oggetto come trofeo per le sue vittorie.

A causa del femminismo gli sport femminili sono un business enormemente fruttifero in cui esse vengono idolatrate su scala mondiale. Gli uomini compaiono solo di sfuggita, di solito prima degli stacchi pubblicitari in cui vengono oggettificati per il loro corpo.

A causa del femminismo tutti i contraccettivi sono gratuiti per le donne senza che debbano aprire bocca, mentre gli uomini devono lottare affinché le loro compagnie assicurative paghino per le ricette del Viagra. E se gli uomini tentano di ribellarsi, i leader della destra “vicina ai valori familiari” li chiamano porci o puttani.

A causa del femminismo il corpo maschile è costantemente sotto esame. Se un uomo appare in topless in TV, scoppia un caso nazionale che finisce con multe enormi e boicottaggi. Le blogger scrivono regolarmente di come si debba essere più attenti alle nostre scelte nell’abbigliamento, poiché potrebbero indurre le donne a peccare. La satira afferma che i pantaloncini “non sono veri pantaloni” e che gli uomini dovrebbero coprirsi, perché “nessuno vuole vedere una cosa del genere”.

A causa del femminismo gli uomini non sono rappresentati alla Casa Bianca, e le donne hanno oltre l’80% dei seggi al Congresso. Quando un uomo si candida per una carica, il suo aspetto fisico e il suo abbigliamento sono oggetto di discussione quasi quanto le sue idee politiche.

A causa del femminismo gli uomini devono combattere per avere voce nella sfera pubblica. Nelle questioni di teologia, politica, scienza e filosofia la prospettiva femminile è spesso considerata quella di default, normale e oggettiva. Le prospettive maschili vengono scartate perché troppo soggettive o emotive. Se ci ribelliamo, spesso veniamo bollati come arrabbiati, ribelli, sovversivi o pericolosi.

Ma siate forti, fratelli.

Un giorno saremo tutti uguali.

Qualsiasi cosa facciate, non leggete Jesus Feminist. È pieno di idee che continueranno a opprimere e danneggiare gli uomini – idee come “anche le donne sono persone” e “la dignità e i diritti delle donne sono importanti quanto quelli degli uomini”.

 

 

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

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Traduzione di questo articolo uscito sull’Huffington Post di Marco Reggio e feminoska, revisione di Eleonora.

N.B.: Nel testo in questione viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, sia nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Qualche giorno fa, ventiquattro intellettuali scuotevano l’opinione pubblica per far emergere finalmente una riflessione collettiva sullo status giuridico degli animali, considerati finora come delle “cose” dal Codice Civile francese.
In risposta a tale appello, Guy Birenbaum ha pubblicato una nota indignata: com’è possibile emozionarsi per la sorte degli animali mentre il paese versa in una così grave situazione? – ha spiegato Birenbaum in sostanza (sostanza che il “bilancio” da lui aggiunto in fondo alla nota, in fin dei conti, non riesce a mitigare). Non analizzerò qui il ricorso – probabilmente considerato spiritoso dall’autore – a prese in giro nei confronti delle/gli intellettuali e a metafore sessuali, per non dire sessiste (“anche se non sono un intellettuale, voglio che vengano protette le cagne a pelo lungo, i maiali e le pecorine “). Ciascun* potrà apprezzare o no… Io vorrei analizzare la sostanza.
La sostanza è la seguente: la sofferenza animale dovrebbe, pare, restare assolutamente inespressa. Ciò che sconvolge il signor Birenbaum, – e non è un caso isolato – non è il dolore che viene inflitto, ma il fatto che qualcuno abbia l’impudenza – o il cattivo gusto? – di evocarlo. Straordinario. Puo darsi che sia questo, d’altronde, il senso di quella legge americana approvata recentemente, che mira non a prevenire le torture nei confronti degli animali (quasi sistematicamente impunite nei fatti), ma a vietarne la… diffusione (e dunque la denuncia)! Straordinario. I social network sono la dimostrazione di questa impossibilità di evocare la questione: citare il dolore animale porta in modo quasi sistematico e istantaneo a una deviazione del dibattito verso esplicite prese in giro, verso la denigrazione dell’umanità del messaggio o la derisione in riferimento all’uso alimentare dell’animale in questione. Non è questa la sede per analizzare questo malessere le cui radici sono molto profonde. Che nessun carnivoro, o quasi, sia capace di guardare in faccia – e dunque di accettare – ciò che accade realmente ed effettivamente in un mattatoio è problematico in relazione alla coerenza delle nostre scelte di vita. Senza dubbio. Ma si tratta di un’altra questione.
Atteniamoci ai fatti: non è ragionevole sostenere che il nostro spazio mediatico sia invaso da manifesti riguardanti gli animali. Innegabilmente, la questione del loro status giuridico – di cui sarà facile mostrare la centralità dal punto di vista filosofico, etico e scientifico – non occupa affatto il dibattito! Ma i pochi secondi di eco mediatica che questo appello ha suscitato sono già troppi per Guy Birenbaum.
Tutte le sue argomentazioni, se così le vogliamo chiamare, poggiano sull’idea implicita che lo status giuridico attuale degli animali sia un’ovvietà. Un’ovvietà come potrebbero probabilmente esserlo anche le rappresentazioni della terra come piatta o dei neri come inferiori. Che potrebbero e che, senza dubbio, dovrebbero. Ma non voglio arrischiarmi a andare oltre, per rispetto di Guy Birenbaum. Il problema deriva interamente dal fatto che questa “ovvietà” è un errore scientifico. Lo studio dei comportamenti, così come quello dei neurotrasmettitori e della struttura cerebrale, mostra esattamente l’opposto. Questo non implica, in sé, che sia necessario cambiare comportamento nei confronti degli animali. Ma mostra, quantomeno, che se si continua a considerarli come delle “cose” o dei “beni”, bisogna farlo tenendo in grande considerazione le conseguenze logiche ed etiche di tale decisione.
Anche supponendo che la questione animale sia effettivamente secondaria, qual è il senso dell’avvertimento di Guy Birenbaum? Oggi ogni sei secondi un bambino muore di fame. Si tratta incontestabilmente di un abominio insopportabile. Ma dovremmo quindi dedurne che evocare ogni altra questione (poichè ognuna delle altre questioni può effettivamente essere considerata secondaria in rapporto a questa) sia indegno?
La reificazione di cui gli animali sono oggi vittime è di una violenza senza precedenti. Qual è dunque la logica – quella cui fa riferimento implicitamente ed energicamente la nota di Guy Birenbaum quando insiste sul tempismo disastroso – che permette di affermare che finché persiste il dolore umano, ogni altra preoccupazione che non lo riguardi direttamente non è accettabile? Un doppio errore sottende l’argomentazione: da un lato lascia intendere che prendersi cura degli uni (o, potremmo dire, massacrarli con meno violenza) implicherebbe trascurare le/gli altr*; dall’altro, presuppone che verrà un tempo in cui questa questione potrà finalmente essere affrontata, poiché i guai degli esseri umani saranno scomparsi. Queste due ipotesi sono inesatte. Se avessimo dovuto attendere che tutti i nostri mali fossero svaniti per preoccuparci d’arte, di sport o di fisica di base, non avremmo mai iniziato ed evidentemente non inizieremmo mai!
È straordinario come, quand’anche il destino degli animali risultasse perfettamente indifferente a Guy Birenbaum, costui non consideri l’idea che l’empatia verso gli uni si accompagni quasi strutturalmente a empatia verso le/gli altr*. Naturalmente alcuni contro-esempi vengono in mente (no, non Hitler, che come ormai sappiamo probabilmente non era nemmeno vegetariano) ma la questione dello status giuridico degli animali e il riconoscimento giuridico della loro capacità di soffrire – che la scienza ha oggi confermato senza lasciar spazio a dubbi – non può non riecheggiare la nostra indifferenza verso altre sofferenze umane. Queste questioni non sono opposte, anzi. Se la parola “comunità” ha ancora un significato oggi, è certamente quello di “comunità dei viventi”.
Così poco, pochi secondi alla radio, tra i risultati di calcio e il meteo, per accennare l’articolata questione dello status giuridico degli animali che oggi subiscono un trattamento che mai ha avuto precedenti nella storia, è quindi già troppo…
Guy Birenbaum non ci ha risparmiato nulla. Né la presa in giro nei confronti delle/gli intellettuali (di second’ordine, suppongo…), né i luoghi comuni più triti riguardo alla questione animale (fino alla scelta della fotografia e della didascalia), né l’eterno ritornello trito e ritrito: gli esseri umani soffrono, è dunque indegno (o meglio indecente) preoccuparsi – fosse anche solo per qualche istante – degli animali. La più ridicola delle preoccupazioni o informazioni umane (e ne abbiamo già in abbondanza!) sarebbe dunque più degna e decente di una discussione, così breve, sullo status giuridico degli animali. Straordinario. Questo anche se i progressi dell’etologia e della biologia – l’unica cosa che Guy Birenbaum non contesta, perché non può farlo – hanno dimostrato che le loro sofferenze e i loro dolori sono, nella maggior parte dei casi, del tutto paragonabili ai nostri. E lascio peraltro in sospeso una questione fondamentale: anche se fossero diversi dai nostri, questo cambierebbe la loro realtà, perdendone quindi in legittimità? Fino a che punto possiamo spingerci con questo criterio pericoloso della somiglianza come criterio di dignità?
Io ho alcune riserve, che ho esplicitato in altri contesti, su alcune delle opere filosofiche di alcuni delle/dei firmatari* di questo appello. Ma, data la reazione di Guy Birenbaum, è chiaro che passano più che in secondo piano. La sua reazione non è nemmeno insolita visto che molti dei media più importanti hanno ritenuto di dover trasmettere l’informazione come se si trattasse quasi di una… burla.
Il manifesto pubblicato – come ci si poteva aspettare e probabilmente come era necessario – era più che prudente. Non abbatteva alcun tabù. Chiedeva il minimo indispensabile: la presa in carico dell’evidenza dei fatti, vale a dire lo status giuridico degli animali come “esseri senzienti”. Ma era già troppo per Guy Birenbaum. Così “troppo” da mostrarsi visibilmente offeso e decidere di rendere pubblica la sua rabbia.
No! Questo “niente”, questo appello che sarà probabilmente dimenticato nel giro di pochi giorni, questa aspirazione a cominciare a considerare possibile porre un freno all’infinito, incondizionato e inalienabile diritto di infliggere agli animali una sofferenza illimitata e deregolamentata , io non trovo affatto che fosse troppo. E anzi quell’impegno – siatene certo, signor Birenbaum – non mi impedirà di continuare a sostenere i diritti dei rom e degli irregolari, per citare solo alcuni dei “temi caldi” attuali e nazionali. Conoscere la sofferenza degli animali non mi fa amare meno gli umani. È anzi l’esatto contrario. Queste lotte non sono in contrasto tra loro. Non avrebbe alcuna ragion d’essere, se non quella di decidere – arbitrariamente – di renderle reciprocamente esclusive.
Lascio a Kundera il compito di concludere: “La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità (quella più radicale, che si situa ad un livello così profondo da sfuggire al nostro sguardo) è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. Ed è qui che giace il fallimento fondamentale dell’umanità, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.”

Ma forse già si trattava di un intellettuale folle? Uno in più, uno… di troppo?

Femminismo: la prospettiva di un anarchico

Di seguito potete leggere un articolo di Pendleton Vandiver, “Feminism: a male anarchist’s perspective“, presente su The Anarchist Library e tradotto in lingua italiana da Su Macumeresu. Buona lettura!

 

“Io stessa non ho mai capito cosa sia il femminismo: so solo che mi chiamano femminista quando esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino”

Rebecca West, The Clarion 1913

Lawrence Textile Strike

La maggior parte delle persone nel mondo anarchico attuale – femmine o maschi – non condividerebbero, almeno in principio, molte delle seguenti affermazioni: ci sono due categorie immutabili e naturali sotto le quali gli umani sono classificati: maschio e femmina. Un umano maschio è un uomo, e un umana femmina è una donna. Le donne sono intrinsecamente inferiori agli uomini. Gli uomini sono più intelligenti e forti delle donne; le donne sono più emozionali e delicate. Le donne esistono per il beneficio dell’uomo. Se un uomo chiede del sesso a sua moglie, è suo dovere obbedire, volente o nolente. Un uomo può costringere una donna a fare sesso con lui, se ha una buona ragione per richiederlo. Gli umani devono essere concepiti, in senso universale, come maschi (“uomini”), e solo parlando di particolari individui come femmine. Le donne sono una forma di proprietà. Chiedere diritti per le donne è come chiedere diritti per gli animali ed è altrettanto assurdo.

Per quanto ridicole possano sembrare queste affermazioni, ognuna di loro è stata ovvia e naturale per buona parte dell’occidente in diversi momenti storici, e molte al giorno d’oggi sono più una regola che un’eccezione. Se molte di queste sembrano un po’ strane, stridenti o semplicemente sbagliate, non è perché contraddicano qualche vaga nozione di giustizia o senso comune con la quale siamo nati. Al contrario, il cambiamento di atteggiamento, che ci permette di affermare un punto di vista più illuminato e apparentemente naturale, è il risultato concreto di una continua lotta che ha visto sacrificarsi onorabilità e relazioni personali e vite umane negli ultimi 200 anni e che, come tutte le lotte di liberazione, è stata screditata, calunniata, e marginalizzata fin dal suo concepimento. Sebbene questa lotta sia stata, e ancora sia, strategicamente varia e concettualmente molteplice, e per questo difficile da definire, non è altrettanto difficile chiamarla col suo nome: mi riferisco, naturalmente, al femminismo.

Il femminismo ha cambiato la nostra cultura, se non altro rendendo di senso comune l’idea che le donne sono propriamente degli esseri umani. Se la maggior parte della gente condivide questa idea, non è perché la società sia diventata più buona, o stia evolvendo naturalmente verso una situazione più egalitaria. Chi ha il potere non decide semplicemente di concedere l’uguaglianza a quelli che non ce l’hanno; semmai, cede il potere solo quando vi è costretto. Le donne, come ogni altro gruppo oppresso, hanno dovuto prendere tutto ciò che hanno ottenuto, attraverso un duro percorso di lotta. Negare questa lotta è perpetuare un mito simile a quello dello schiavo felice. Ed è precisamente ciò che facciamo quando parliamo di femminismo come di un qualcosa che perpetua il divario di genere, o che ostacola il nostro progressivo abbandono delle politica identitaria. Il femminismo non ha creato il conflitto tra i generi; la società patriarcale lo ha creato. Ed è importante non dimenticare che l’idea che le donne siano esseri umani non è senso comune, ma in tutto e per tutto un concetto femminista. Appoggiare formalmente la liberazione delle donne, mentre si nega la loro lotta storica per ottenerla per sé stesse è paternalista e insultante.

Non solo la società occidentale ha apertamente relegato le donne a un ruolo subumano, ma, fino a poco tempo fa, molti movimenti di liberazione hanno fatto lo stesso. Spesso, è stato fatto in parte senza saperlo, come riflesso automatico dei costumi della cultura dominante. Altrettanto spesso, però, è stato in modo consapevole e intenzionale (come la famosa affermazione di Stokely Carmichael [leader studentesco statunitense e in seguito Black Panther, ndt], per cui l’unica posizione per le donne nel Comitato Coordinamento Studenti Nonviolenti fosse “in ginocchio”). Comunque sia, molti tra quelli che dicevano di lavorare per l’emancipazione di tutti gli umani stavano in realtà lavorando per l’emancipazione dell’uomo, e fino a poco tempo fa la definizione era proprio questa. Alle donne che si lamentavano di questo veniva (e viene tuttora) detto in modo accondiscendente di aspettare finché la battaglia più importante venga vinta, prima di chiedere la loro propria liberazione. Questo è stato per l’abolizionismo [della schiavitù], i diritti civili, il movimento contro la guerra, la Nuova Sinistra [americana], il movimento contro il nucleare, l’ambientalismo radicale e, ovviamente, l’anarchismo. Le donne sono state criticate per aver perseguito obiettivi femministi come se fossero nella direzione sbagliata, controrivoluzionari, o non importanti. Gli anarchici non si sono semplicemente svegliati una mattina con una visione più illuminata delle donne, e il patriarcato non si è rivelato improvvisamente come “un’altra forma di dominazione”. Sono state la teoria e la pratica femminista a portare alla luce l’oppressione delle donne, che l’hanno spesso manifestata in ambiti rivoluzionari differenti.

Questo non vuol dire che tutte le femministe fossero e siano anarchiche, o che tutti gli anarchici non fossero e non siano femministi. Ma il femminismo è spesso criticato nell’ambiente anarchico, da diversi punti di vista. Proverò a discutere le più comuni critiche che ho sentito fare, pubblicamente e privatamente, nei circoli anarchici. E’ stato detto che il femminismo è essenzialista. E’ stato anche detto che il femminismo, mantenendo le sue visioni essenzialiste, è una filosofia che afferma la superiorità, in un modo o nell’altro, delle donne sugli uomini. Infine, si accusa il femminismo di perpetuare le categorie di genere, mentre l’obiettivo rivoluzionario sarebbe andare oltre il genere. In altre parole, il femminismo è accusato di essere un’ideologia identitaria, di perpetuare ruoli sociali dolorosi ed escludenti che in ultima analisi opprimono tutti.

Ciò che queste accuse hanno in comune è che stabiliscono un’entità singola e più o meno univoca chiamata “femminismo”, mentre chiunque studia il femminismo impara subito che c’è sempre stata molta varietà nella teoria femminista, e che questo è vero soprattutto adesso. Nessun singolo insieme di idee sul sesso e sul genere rappresenta il femminismo; anzi, il femminismo è una categoria aperta, che comprende praticamente tutte le forme di pensiero e azione che riguardano esplicitamente la liberazione delle donne.

Sebbene il femminismo sia stato spesso accusato di essenzialismo, quest’ultimo è fortemente criticato all’interno del movimento femminista. L’essenzialismo è l’idea che ci sia una sostanza o essenza immutabile che costituisce la vera identità delle persone e delle cose. In questa visione, una donna sarebbe in qualche modo obiettivamente, profondamente identificabile come donna; essere una donna non sarebbe semplicemente il risultato di differenti attributi e comportamenti. Questa è spesso letta come un’affermazione politicamente arretrata, perché implicherebbe che le persone siano limitate da certe capacità e comportamenti dettati dalla natura.

Quando esaminiamo il campo delle idee emerse dalla seconda ondata del femminismo (più o meno post-1963), invece, viene fuori un’immagine diversa. La citazione forse più famosa del ‘Secondo sesso’, l’opera seminale di Simone de Beauvoir del 1940, è: “donne non si nasce, lo si diventa”. Il libro prosegue argomentando che il genere è una categoria sociale, che gli individui possono rifiutare. L’influenza del ‘Secondo sesso’ è stata enorme, e Beauvoir non fu l’unica femminista a mettere in dubbio la naturalità della categoria di genere. Molte scrittrici femministe iniziarono a tracciare una distinzione tra il sesso e il genere, asserendo che il primo descrive il corpo fisico, mentre il secondo è una categoria culturale. Per esempio, avere un pene appartiene al sesso, il modo in cui uno si veste, e il ruolo sociale che sceglie, appartiene al genere.

E’ una distinzione che alcune femministe ancora fanno, ma altre hanno messo direttamente in dubbio l’uso di categorie apparentemente pre-culturali come il sesso. Colette Guillamin ha suggerito che il sesso (come la razza) è un sistema arbitrario di “marchi” che non ha alcun fondamento in natura, ma serve semplicemente gli interessi di chi ha il potere. Sebbene varie differenze fisiche esistano tra le persone, è politicamente che si decide quali siano importanti per ‘definire’ una persona. Per quanto gli individui siano divisi in categorie ‘naturali’ sulla base di questi marchi, non c’è nulla di naturale nelle categorie: sono puramente concettuali.

Basandosi sul lavoro di de Beauvoir e Guillamin, tra le altre, Monique Wittig ha affermato che l’obiettivo del femminismo è eliminare il sesso e il genere come categorie. Come il proletariato nella filosofia marxista, le donne devono costituirsi in classe per rovesciare il sistema che permette l’esistenza delle classi. Non si nasce donna, se non nello stesso senso in cui si nasce proletari: essere donna denota una posizione sociale, e certe pratiche sociali, più che un essenza o un’identità ‘vera’. Il fine politico ultimo di una donna, per Wittig, è non esserlo. Più di recente, Judith Butler ha elaborato un’intera teoria di genere basata sulla radicale espulsione dell’essenza.

Naturalmente, ci sono state femministe che, disturbate da quella che vedevano come tendenza assimilazionista nel femminismo, hanno asserito una nozione di femminilità più positiva che è stata, a volte, indubbiamente essenzialista. Susan Brownmiller, nel suo importante libro ‘Contro le nostre volontà’, ha scritto che gli uomini possano essere geneticamente predisposti allo stupro, una nozione che è stata ripresa da Andrea Dworkin. Femministe marxiste come Shulamite Firestone cercarono la base materiale dell’oppressione di genere nel ruolo riproduttivo femminile, e molte teoriche femministe – Nancy Chodorow, Sherry Ortner, Juliet Mitchell tra le altre – hanno esaminato il ruolo della maternità nel creare ruoli di genere oppressivi. Femministe radicali come Mary Daly hanno abbracciato certe nozioni tradizionali di femminilità e hanno cercato di dar loro un senso positivo. Sebbene le radicali abbiano, a volte, preso posizioni essenzialiste, questo tipo di femminismo ha compensato alcuni degli squilibri di questo ambito del pensiero femminista che rifiutava la femminilità tout court come identità da schiava. La dicotomia che ha arrovellato le pensatrici femministe è sempre stata questa: asserire una forte identità femminile, e rischiare di legittimare i ruoli tradizionali e alimentare chi impiega l’idea di una differenza naturale per opprimere le donne, o rifiutare il ruolo e l’identità data alle donne, e rischiare di eliminare la base propria della critica femminista? L’obiettivo del femminismo contemporaneo è trovare un equilibrio tra punti di vista che rischiano, da una parte, l’essenzialismo, e dall’altra l’eliminazione delle donne come soggetto della lotta politica.

L’obiettivo del femminismo, quindi, è la liberazione della donna, ma cosa questo significhi esattamente è aperto a ogni discussione. Per alcune, questo significa che le donne e gli uomini debbano coesistere equamente; per altre, che non ci saranno più persone viste come donne e uomini. Il femminismo fornisce un ricco panorama di vedute sul problema di genere. Una cosa su cui possono accordarsi, comunque, è che i problemi di genere esistono. Sia come risultato di differenze naturali o di costruzioni culturali, le persone sono oppresse per motivi di genere. Per andare oltre al genere, questa situazione deve essere risolta; il genere non può semplicemente essere battezzato come sorpassato. Il femminismo può forse essere meglio definito come il tentativo di andare oltre la situazione in cui le persone sono oppresse in base al genere. Quindi, non è possibile andare oltre il genere senza il femminismo; l’accusa che il femminismo perpetui le categoria di genere è palesemente assurda.

Poiché l’anarchismo si oppone a tutte le forme di dominazione, l’anarchismo senza femminismo non è anarchismo. Poiché l’anarchismo si dichiara opposto a tutte le ‘archie’, tutti i governi, il vero anarchismo è per definizione opposto al patriarcato, quindi è, per definizione, femminista. Ma non è abbastanza dichiararsi contro tutte le dominazioni; si deve cercare di conoscere la dominazione per opporsi ad essa. Le autrici femministe dovrebbero essere lette da tutti gli anarchici che si considerano contro il patriarcato. Le critiche femministe sono sicuramente rilevanti quanto i libri contro l’oppressione governativa. L’eccellente ‘Agenti di repressione’ di Ward Churchill è considerato una lettura essenziale da molti anarchici, anche se Churchill anarchico non è. Molti lavori femministi, d’altra parte, sono snobbati anche da chi appoggia formalmente il femminismo. Se la repressione della polizia è una vera minaccia per gli anarchici, il modo in cui interpretiamo i nostri ruoli di genere deve essere considerato ogni giorno della nostra vita. Quindi, la letteratura femminista è più importante per la lotta quotidiana contro l’oppressione di molta della letteratura che gli anarchici leggono regolarmente.

Se l’anarchismo ha bisogno del femminismo, il femminismo ha sicuramente bisogno dell’anarchismo. Il fallimento di alcune teoriche femministe nel combattere il dominio oltre il ristretto frame delle donne vittimizzate dagli uomini ha impedito loro di sviluppare un’adeguata critica dell’oppressione. Come ha scritto un importante scrittore anarchico, un’agenda politica basata sul chiedere agli uomini di rinunciare ai loro privilegi (come se fosse davvero possibile) è assurdo. Femministe come Irigaray, MacKinnon e Dworkin sostengono riforme legislative, senza criticare la natura oppressiva dello Stato. Il separatismo femminista (specie quello di Marilyn Frye) è una strategia pratica, e forse necessaria, ma solo nella cornice di una società ampia che si assume stratificata sulla base del genere. Il femminismo è davvero radicale quando cerca di eliminare le condizioni che rendono inevitabile l’oppressione di genere.

Anarchismo e femminismo chiaramente hanno bisogno l’una dell’altro. E’ tanto bello dire che una volta che la fonte primaria di oppressione (qualunque essa sia) sarà eliminata, tutte le altre oppressioni saranno spazzate vie, ma che prove abbiamo che sia davvero così? E in che modo questo dovrebbe impedirci di opprimerci l’uno con l’altro, mentre aspettiamo questa grande rivoluzione? Allo stesso modo, è importante riconoscere che l’oppressione della donna non è l’unica oppressione. Discutere di quale sia quella più importante è sciocco e senza uscita. Il valore e la pericolosità dell’anarchismo sta proprio nel fatto che cerca di eliminare tutte le forme di dominazione. L’obiettivo ha valore perché non si distrae con battaglie riformiste dimenticando la sua traiettoria verso la liberazione totale. Ma, in un altro senso, è ‘pericoloso’ perché corre sempre il rischio di ignorare le situazioni concrete, sottovalutando o escludendo movimenti che lottano per obiettivi specifici.

Farla finita con l’idea di umanità – parte seconda

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Poter imporre il proprio dominio non significa essere nel giusto.

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Bisogna anche liberarsi dell’idea dominante di naturalità.

Per noi è scontato essere parte della specie umana, e questo è un concetto importante, poiché rappresenta  un criterio morale: siamo nat* in quest’evidenza, ce l’hanno insegnata. Ci riconosciamo l’un l’altr* come esseri umani e sappiamo che ci sono diritti e doveri impliciti in questa nozione. Ci percepiamo come uman*, piuttosto che come animali, esseri senzienti o individui.  Ci percepiamo come individui attraverso il nostro percepirci come uman*. Siamo individui, persone, perché siamo umani. Mentre gli animali sono reificati dall’appartenenza alla loro specie, spersonalizzati, l’appartenenza alla specie umana è qualcosa che ci rende persone, individui, esseri unici. Dobbiamo sbarazzarci dell’idea della naturalità della nostra appartenenza all’umanità.

La situazione non è sempre stata questa. Ho già fatto l’esempio del Medioevo in Occidente, quando il senso di appartenenza che superava tutti gli altri era la cristianità; tra gli antichi greci, l’appartenenza fondamentale che permetteva di riconoscersi come eguali, pari, era la cittadinanza: chi non faceva parte della polis poteva essere ridott* in schiavitù. In altre culture, il gruppo di appartenenza fondamentale non è l’umanità ma il gruppo tribale, l’etnia, o un gruppo più ampio – comunque non la specie. È un processo storico e politico quello che ha portato alla situazione attuale, in cui è la specie a costituire la nostra appartenenza fondamentale.

Questo processo è sempre presentato come un fenomeno positivo. In un certo senso lo è stato, in quanto ha incluso sempre più persone nel gruppo di eguali che hanno diritto ad essere rispettat*. Allo stesso tempo, però, ha rafforzato la distinzione con i non-umani e, man mano che si allargava il gruppo dell’appartenenza fondamentale, sono aumentate le strategie per escludere alcuni gruppi dall’ avere accesso pieno all’insieme principale: le donne, i neri, non erano considerat* pienamente uman* perché erano relegat* al polo opposto all’umanità, quello della natura e dell’animalità.

Oggi quest’umanesimo fonda l’etica della nostra società su scala mondiale (perché l’umanesimo è un’ideologia praticamente universale) e non solo l’etica: anche la politica. La politica di tutti i paesi del mondo fa esplicito riferimento a quest’idea di eguaglianza, anche se certi casi sono abbastanza ambigui: penso per esempio a certi stati teocratici, nonostante anche in essi ci si rifaccia a un’idea di umanità…

Voglio dire che oggi viviamo in un mondo in cui quest’idea è centrale, imprescindibile a priori, praticamente un tabù. In Francia, per esempio, c’è una legge che punisce penalmente qualsiasi attentato alla dignità umana. Ma cos’è la dignità umana? Siamo noi che l’abbiamo creata – per punire atti razzisti e simili – ma siamo sempre noi che rischiamo di diventare estremamente repressivi se accresciamo le sue applicazioni. Infatti, la nozione di dignità umana è una nozione estendibile all’infinito ed è oggetto di dibattiti appassionati e contradditori – come quello tra cattolici e atei, o tra chi è favorevole all’aborto e chi non lo è, eccetera. In effetti avrei anche potuto intitolare il mio intervento “Farla finita con l’idea di dignità umana”, perché l’idea di umanità è l’idea di un gruppo biologico al quale spetta una dignità specifica – e dire “dignità” è in qualche modo come dire “onore”: questa parola era un sinonimo di “onore” nell’antichità, risulta perciò la versione democratica di un concetto aristocratico.

Fondamentalmente, la critica antispecista dell’idea di umanità è la critica del fatto che la nostra comune umanità, anche se include delle caratteristiche che possono essere straordinarie o eccezionali, non ci assegna una dignità speciale che sia possibile negare ad altri esseri senzienti. Quando parliamo di umanità, parliamo in realtà delle caratteristiche che le sono abitualmente associate, come il fatto di riconoscerci in  esseri pensanti, razionali, sociali, capaci di libertà, di linguaggio, di astrazione, di fare progetti per il futuro. Le caratteristiche dell’essere umano sono infinite. E anche se non chiamiamo in causa l’idea di umanità – ma delle idee più precise, come le caratteristiche che ho appena elencato – tuttavia non c’è ragione per cui si debba pensare che l’essere umano debba godere di una dignità particolare. Non c’è ragione, per esempio, di ritenere che il fatto di essere ‘pensante’ invece di non esserlo debba avere una dignità particolare.

Inoltre, non si tratta di mettere da una parte gli esseri ‘pensanti’ come gli esseri umani e dall’altra quelli definiti come ‘non pensanti’ (!) ovvero gli animali: sappiamo piuttosto che esistono gradazioni costanti dagli uni agli altri e sappiamo anche che è un espediente antropocentrico parlare di classificazione, di progressione, da animale a umano. In verità esistono tipologie differenti d’intelligenza: per esempio, situarsi nello spazio è un’intelligenza molto più forte negli animali, o altri esempi di intelligenze sono la facoltà di ricordare, quella di riconoscere… Il problema è che, parlando di intelligenza, si parte sempre con un’idea già precisa di che cosa sia ciò che chiamiamo intelligenza, ossia qualcosa legato alle nostre facoltà.

Al contrario, vi è un continuum tra le facoltà intellettive degli esseri appartenenti al mondo animale e quelli appartenenti alla specie umana. Inoltre, anche all’interno della specie umana molte persone non corrispondono all’idea consueta di intelligenza su cui è costruita la libertà umana: è il classico argomento degli emarginati, ma anche dei bambini, degli anziani, dei disabili, delle vittime di incidenti cerebrali – che si vedono comunque riconoscere una qualche umanità e dignità umana specifica, pur senza possedere gli attributi che dovrebbero essere essenziali. Ovviamente, non vedo perché si dovrebbe negare loro la garanzia dei diritti fondamentali col pretesto che non possono, per esempio, fare calcoli alla stessa maniera, o non possono reagire in modo adeguato a delle situazioni complesse, eccetera.

Fondamentalmente quest’idea di umanità, da un punto di vista etico, è un’idea che non intrattiene legami logici con le conseguenze che se ne traggono: non è chiaro quale significato particolare dovrebbe avere il fatto di essere uman* o non uman*, così come l’essere nero o bianco o donna o altro. Quindi il fatto di definirla come il valore più alto non ha altra funzione se non quella di evitare di prendere in considerazione la nozione di eguaglianza, che è la nozione etica fondamentale, e di evitare di prendere in considerazione la senzienza (cioè la capacità di provare sensazioni) come criterio fondamentale a partire dal quale possiamo dire di trovarci di fronte a degli esseri che hanno degli interessi da difendere – di cui bisogna tenere conto. Questa nozione di umanità gioca un ruolo anti-etico, come l’idea di natura, perché ci impedisce di ragionare in termini etici, in termini di presa in carico degli interessi delle/gli altr*. Di fatto, la morale umanista sostiene la necessità di prendere in considerazione non i vostri o i miei personali interessi, ma la nostra umanità – che è definita indipendentemente da voi e da me.

Spesso diventa la “parola sociale” del momento. Per esempio, attualmente, prendere in considerazione l’umanità che c’è in me significa nella pratica vietarmi di suicidarmi, proibirmi l’eutanasia anche se soffro enormemente, per il solo motivo che la vita umana è ‘sacra’. Ecco, allora, un altro caso in cui l’idea di umanità si ritorce contro gli stessi esseri umani. Può trattarsi del considerare gli embrioni – che non sono che cellule, che non sentono ancora nulla – come degli esseri umani, e riconoscere loro una dignità umana e dunque dei diritti umani fondamentali. Ne consegue che quest’idea di umanità va ad accordare una sorta di diritto sacro di vita a degli ammassi di cellule che non sentono alcunché, anche a spese della donna incinta – che ha degli interessi, quelli sì, reali e concreti e presenti. Questa è un’altra delle critiche che possiamo fare a quest’idea di umanità, ovvero l’entrare in conflitto con la riflessione etica.

[…] Quest’idea di umanità si definisce attraverso l’incontro/scontro con l’idea di natura e quella di animalità: sono tutte nozioni che è facile mettere in discussione, mentre sono difficili da difendere con concetti precisi e pretese scientifiche: l’idea di umanità e l’idea di natura da un punto di vista scientifico non esistono, l’idea di animalità da un punto di vista scientifico non significa nulla. Per esempio, dal punto di vista scientifico l’umanità si definisce attraverso quali caratteristiche? Comportamentali – in termini di capacità cognitive, mentali? Al contrario, per un certo tipo di genoma? Ma, in che senso, genoma?

Siamo tutt* divers*, tutt* dotat* di genomi diversi, e trovare dei criteri che ci permettano di distinguere chiaramente il genoma umano da uno non umano è arbitrario, e non si tratta mai di un’operazione definibile come necessaria.

E ancora: dovremmo dichiarare umani gli spermatozoi o gli ovuli perché sono portatori di genoma umano? Appare chiaro che la nozione di umanità è lontana dall’essere immediata. Gli umani che hanno delle anomalie genomiche sono degli umani – è dato per scontato che si debba avere un certo numero di coppie di cromosomi, eppure si sa anche che esistono persone – che noi continuiamo a considerare essere umani – che non possiedono lo stesso numero di coppie cromosomiche, per esempio le persone con un cromosoma in più.

Vediamo dunque che anche le definizioni di umanità che si vorrebbero scientifiche, fondate su nozioni scientifiche – come il genoma, eccetera – sono definizioni per partito preso: delle definizioni a tutti gli effetti, e non delle descrizioni del reale che si sono imposte autonomamente.

Criticare la nozione di umanità in questo modo è puramente aneddotico, ma serve per rendersi conto che si tratta di una nozione costruita, risultato di scelte sociali, politiche e storiche: non si tratta affatto di qualcosa di innato, come ci hanno insegnato. Il punto è che fino a quando il valore fondamentale di una società in termini etici e politici resterà l’idea di umanità, cioè un’idea fondamentalmente specista, è ovvio che gli animali continueranno a farne le spese.

E’ possibile immaginare uno specismo – o un umanesimo – ‘soft’, che riconosca negli animali una sorta di ‘fratelli inferiori’? Si resterebbe comunque all’interno di una visione gerarchizzata, con un disprezzo di fondo, in cui il problema non è nemmeno tanto il disprezzo, ma il fatto che persiste comunque una classifica, un ‘più’ e un ‘meno’. Fondamentalmente, quest’idea di umanità – da collegare a quella di eguaglianza – è un’idea che pone la questione in termini di superiorità o inferiorità. Si è più oppure meno umani. È la stessa idea che ha dato vita a concetti che oggi non sono più molto in voga, ma che comunque hanno fatto la loro comparsa nel corso della storia: quelli di sovrumanità e subumanità, che ritengo essere legati alla nozione di umanità.

Non sono concetti accidentali, in quanto rivelano la realtà dell’idea dell’umanità. Rivelano come essa si costruisca per opposizione e distinzione rispetto all’idea di animalità. Questa idea di umanità si basa sulla necessità di distinguersi, di differenziarsi e allo stesso tempo di “valorizzarsi”, nel senso di assegnarsi un valore.

È nel nostro pieno interesse, in quanto attivisti per la questione animale, cercare di attaccare l’idea di umanità, di indebolirla (anche se è difficile) e sovvertirla, per privarla del suo carattere di evidenza naturale e per farla apparire per ciò che è: un costrutto politico che non è neutro, che non è positivo come tentano di descrivercelo, ma collegato a degli istinti di dominazione mostruosi e sanguinari, senza i quali questa stessa idea non avrebbe senso. Se non vivessimo in un mondo in cui gli animali sono sfruttati in modo assolutamente mostruoso, senza scrupoli, senza il minimo rispetto nemmeno dei loro diritti basilari… Se non vivessimo in un tale mondo, ci potremmo allora anche domandare a cosa potrebbe mai servire quest’idea di umanità, che volto potrebbe avere, per cosa si è fatta reale. Ma quest’idea di umanità è legata al sistema di dominio specista e svanirà con esso, e viceversa, per lottare contro il sistema di dominio specista è fondamentale minare quest’idea.