Farla finita con l’idea di umanità – prima parte

 

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Gli sfruttatori distorcono sempre la realtà, camuffandola in una bella confezione che inganna la maggioranza delle persone.

Uno degli aspetti che sicuramente impedisce a molt* attivist* (e alla generalità delle persone, ovviamente) di vedere le connessioni tra antispecismo e antisessismo/razzismo/fascismo, deriva da quell’idea – tutta specista, ma oramai peculiare al nostro modo di stare al mondo – che ci viene inculcata fin da piccol*, che quella che chiamiamo la nostra umanità porti con sé in ‘dote’ un valore di merito intrinseco alla nostra specie e solo ad essa. Un valore a ben vedere molto ambiguo, dal momento che, se ad un livello teorico viene associato con caratteristiche assolutamente positive (umanità, gentilezza, generosità, ecc…), nella pratica diventa la giustificazione incontestabile per brutalità e violenze efferate e continue su altri animali, umani e non.

La conferenza che abbiamo qui tradotto, di Yves Bonnardel, smaschera questo meccanismo perverso e mette in luce come l’umanità non sia assolutamente una caratteristica ‘naturale’ e connaturata all’essere umano, bensì un costrutto politico volto alla dominazione e alla giustificazione della violenza.

Essendo il testo abbastanza lungo, si è scelto di dividerlo in due parti per renderne più agevole la lettura.

Farla finita con l’idea di umanità

Conferenza tenuta da Yves Bonnardel in occasione de Les Estivales de la Question Animale

Traduzione di feminoska ed Eleonora.

Il titolo che ho proposto è “Farla finita con l’idea di umanità” perché a mio avviso [questo] è un tema cruciale in rapporto alla questione animale. È proprio l’idea di umanità il vero ostacolo che impedisce di prendere in considerazione gli interessi degli [altri] animali.

È una questione che sembra difficile affrontare direttamente: una questione che ritorna ciclicamente negli scritti animalisti, ma sempre all’interno di una frase, in un capoverso, mai secondo me con l’importanza che dovrebbe avere. Forse perché, molto semplicemente, è una questione davvero enorme. È un’impresa quella che andiamo ad affrontare.

Avrei potuto intitolare la presentazione in maniera diversa, magari un po’ meno polemica, per esempio con formule quali “Farla finita con l’idea di umanità e di animalità”, oppure “Farla finita con l’umanesimo”, o anche “Farla finita con lo specismo”… Ma qui parleremo di quell’incarnazione particolare dell’ideologia specista che mette l’accento, per l’appunto, sulla nostra umanità: è la nostra umanità che ci assegna un valore, abbiamo un valore in quanto esseri umani; ed è il fatto che questa umanità è assente negli altri animali che invece li priva di ogni valore, di ogni diritto.

Quest’idea di umanità è lo zoccolo duro della nostra civiltà. E’ un’idea fondamentale per la nostra civiltà almeno a partire dal Rinascimento, dalla crisi (potremmo definirla la laicizzazione) del Cristianesimo. Prima di allora, nel Medio Evo, era il fatto di essere cristiani ad essere fondamentale, a stabilire la nostra identità e fondare il nostro gruppo d’appartenenza. Era così che si definivano le persone: cristiane.

Progressivamente, a partire dal Rinascimento, inizia a delinearsi un movimento – che si affermerà poi verso la fine del secolo – e che oggi è veramente al suo apogeo. Da un lato, si tratta di un movimento che vede le persone definirsi sempre di più esseri umani, facenti parte di una specie biologica; dall’altro vi è una sorta di processo antropologico di civilizzazione, di libertà, che vede la nozione di umanità – in termini di identità – affermarsi sempre di più come un concetto positivo, un concetto che accresce i significati che può rivestire, che racchiude sempre più contenuti.

Se prima era dunque la cristianità il gruppo d’appartenenza fondamentale, ora l’umanità in generale è diventata la specie biologica a cui si deve di appartenere. Eppure, all’inizio, con molte limitazioni: per esempio l’umanità del diciassettesimo secolo è essenzialmente un’umanità maschile, bianca, adulta e ricca; è un’umanità occidentale, un’umanità civilizzata. Questa nozione di umanità fa chiaramente riferimento al concetto di specie, ma l’appartenenza alla specie [umana] non è sufficiente per fare pienamente parte dell’umanità. Bisogna possedere alcune caratteristiche: essere uomo e non donna, adulto e non bambino, ricco (aristocratico o borghese, ma mai di un ceto basso) e non povero.

Appare chiaro, dunque, come questo concetto di umanità non sia mai stato un concetto puro. Come tutte le identità, è sempre stato un concetto basato su una sorta di descrizione che si dà ad un gruppo: per cui l’umanità è il fatto di appartenere al gruppo dell’umanità… il che si rivela quasi una definizione descrittiva.

Alla fine, in pratica, ‘umano’ è chi soddisfa alcuni criteri che vanno oltre la semplice appartenenza ad un gruppo biologico: per essere umani non si deve essere inumani, non si deve essere mostruosi o troppo animali, bestiali… Ci sono delle caselle da barrare per rientrare a pieno diritto nella categoria. Ed esistono alcune categorie che, di fatto, si vedono negato l’accesso al gruppo principale. Per esempio, le donne sono state a lungo considerate non pienamente umane e ricondotte al polo opposto all’umanità, il polo della natura. Le donne sono state ridotte a rappresentare la parte naturale dell’umanità, per via del fatto che sono rivestite di una sorta di ‘missione procreativa’ dall’ideologia patriarcale. Allo stesso modo i popoli colonizzati e schiavizzati non sono stati considerati come facenti parte dell’umanità: la loro umanità era considerata incompleta, in divenire… Non avevano accesso alla ragione, alla libertà, alla civiltà, come accade alle/i bambin*.

Tornando sul concetto di umanità: esso si è creato in opposizione all’animalità e alla natura, e ritengo sia stato creato fondamentalmente per separare, per opporre un “noi ” a degli “altri”. È ciò che ha sottolineato Françoise Armengaud, universitaria, femminista (partecipò alla stesura della rivista “Nouvelles quéstions féministes”) nell’Enciclopedia Universalis nel 1984:

http://www.universalis.fr/auteurs/francoise-armengaud/

Se ci si domanda dove risiede la pertinenza di queste categorie antinomiche che sono l’animalità e l’umanità – e se si tiene a mente che l’essere umano è un animale – la sola risposta è che, evidentemente, prima viene il “noi” e poi vengono gli “altri”, e che l’atto di classificare innalza una barriera che imprigiona tutti gli altri, confusamente, all’interno della stessa barbarie.

Armengaud sostiene dunque che la pertinenza delle categorie di animalità e umanità è funzionale allo scopo di realizzare una divisione, una classificazione, necessaria a tracciare un confine tra un “noi” e degli “altri”, e a rinchiudere questi “altri” in una sorta di estraneità, di barbarie, da cui il “noi” è dispensato. Il testo in questione è datato, è del 1984, ma troviamo analisi simili anche da parte di chi, ai giorni nostri, ha analizzato la questione animale pure quando questa non rappresentava il punto centrale della trattazione: Levi Strauss, Derrida, Burgat…

Questo concetto di umanità è un concetto talmente centrale nella nostra civiltà da renderlo estremamente difficile da attaccare direttamente. Eppure non possiamo fare a meno di questo attacco, non possiamo astenerci dal rompere il tabù che è legato a quest’idea di umanità. È un’idea criminale, non solo per la questione animale, ma anche per altre questioni umane. È un’idea anti-etica. Pensare in termini di morale, di umanità, significa evitare di ragionare in maniera davvero etica, esattamente come avviene quando si pensa in termini di natura: ci si pone il problema di definire cosa è umano e cosa non lo è, cosa è naturale e cosa non lo è… e non ci si chiede invece cosa è giusto e cosa non lo è. È una questione che non possiamo non porci e che non possiamo non porci nella maniera corretta.

La critica che sto muovendo parte da un punto di vista preciso che è un punto di vista animalista e antispecista, di opposizione allo specismo – discriminazione basata su criteri di specie di cui sono vittime alcuni individui, così come accade alle vittime di razzismo e di sessismo (per via di discriminazioni basate su criteri di razza e sesso).

È anche un punto di vista egualitario. Io sono egualitario, sono convinto che tutti gli esseri senzienti[1], proprio perché hanno delle sensazioni, reputino la propria vita importante, abbiano degli interessi ugualmente importanti da difendere: ad esempio evitare sofferenze e dolore, vivere il più a lungo possibile la miglior vita possibile… E penso che non vi sia alcuna buona ragione per non prendere in considerazione gli interessi di tutti quegli esseri che hanno dei propri interessi da difendere, né per non prenderli in considerazione esattamente quanto i miei – che, peraltro, sono molto simili: bisogna prendere in considerazione, in maniera equa, anche gli interessi di chi non fa parte della propria specie.

La critica allo specismo è quindi una critica al criterio di specie: un criterio che non è moralmente pertinente, un criterio che non ha alcun senso logico, esattamente come i criteri di razza, sesso, età… La sola cosa rilevante è l’importanza degli interessi in gioco, che è poi ciò che dà peso agli avvenimenti.

Sono egualitario nel senso che – indipendentemente dai concetti di specie, razza, sesso – penso che vadano presi in considerazione gli interessi di tutti gli esseri in egual misura. È quindi in nome dell’idea di eguaglianza che critico l’idea di umanità, in quanto idea che entra in conflitto con quella di eguaglianza.

Viviamo in una società in cui, a seconda che si sia umani o non umani, ci si vede riconoscere o meno diritti –  da quelli accessori ai diritti fondamentali (diritto alla vita, alla libertà, a non essere torturat*, alla libertà di coscienza…) – che rappresentano il minimo necessario per vivere una vita soddisfacente in questo mondo. Questi diritti sono negati a tutti quegli esseri di cui si nega l’umanità, in cui non si riconosce un’umanità… fondamentalmente, all’insieme dei non-umani per definizione.

Abbiamo negato l’umanità anche ai disabili: ai disabili mentali, per esempio, sterminati dal regime di Vichy durante la seconda guerra mondiale in quello che è stato definito “sterminio dolce” – che non è stato dolce per niente, visto che si è trattato di negare le razioni di cibo minime per sopravvivere a più di quarantamila disabili mentali, lasciandoli così morire di fame e malattie – semplicemente perché erano considerati dei subumani.

Esistono anche altre categorie di umani a cui viene negata l’appartenenza piena all’umanità. [Ad esempio] coloro che vengono giudicati colpevoli di qualche reato, considerati non all’altezza della loro umanità, a cui vengono revocati quei privilegi e i vantaggi legati al concetto di umanità poiché considerati criminali, mostri, non-umani… Rinchiusi nelle prigioni, vittime di trattamenti disumani e degradanti, non vengono loro garantiti quei diritti di cui godono tutti gli altri esseri umani. La situazione nelle carceri, peraltro, è molto simile a livello mondiale, e penso che ciò risponda ad una logica profonda – che non si tratti di un caso o di una sorta di malfunzionamento – ma esista veramente una volontà generalizzata di far andare le cose così, anche da parte della popolazione: si vuole che le persone che hanno commesso un crimine soffrano, paghino… Lo si sente nelle discussioni di tutti i giorni: la maggior parte delle persone desidera che i “colpevoli” non godano più degli stessi diritti di cui godono gli altri esseri umani. Questi sono solo alcuni esempi: le principali vittime di questa idea di umanità rimangono comunque i non-umani.

Quest’idea di umanità che oggi si propone come un’idea estremamente positiva (non si fa mai riferimento alle implicazioni negative che può avere), si presenta come collegata alle idee di gentilezza, di bontà, di moderazione… Infatti, si sente parlare di “azioni umanitarie“. Nella nostra mente, essa è legata all’idea di eguaglianza e a quella di universalità. Le grandi dichiarazioni dei diritti fondamentali degli esseri umani aspirano ad essere egualitarie e si pongono come dichiarazioni universali.

Stando così le cose, come antispecista devo sottolineare che l’idea di eguaglianza [tra esseri umani] ha invece consentito la creazione di un gruppo specifico che ha certi privilegi e che è investito di certi diritti, compresi quelli fondamentali – come il diritto di vita e di morte, il diritto a non essere torturati/e, il diritto alla libertà. Non si tratta allora di universalità, di universalismo, ma piuttosto di un particolarismo.

Potremmo paragonare questa idea di “eguaglianza” a un nazionalismo o a uno sciovinismo. Infatti, abbiamo preso un gruppo, lo abbiamo reso il “gruppo di preferenza” e abbiamo definito un criterio morale fondamentale, un’identità morale fondamentale, come in un qualsiasi nazionalismo. Abbiamo quindi sviluppato uno sciovinismo. Nella nostra società si tessono elogi dell’umanità ad ogni livello. Come nell’ambito di un nazionalismo qualsiasi, la difesa di quest’idea di umanità è la difesa di un particolarismo proposto come universalismo. In realtà si tratta di un particolarismo. Il vero universalismo sarebbe invece l’eguaglianza: il farsi carico degli interessi di qualsiasi essere abbia degli interessi da difendere, di ogni essere senziente.

Sì vuol dire sì

220px-Margaret_Cho2Grazie a Margaret Cho, a “Yes means yes” e a Drew Falconeer per la sua traduzione.

Mi sorprendo sempre quando penso a quanto sesso ho fatto in vita mia che avrei preferito non fare. Non lo considero propriamente stupro, e nemmeno “date rape”, quanto semmai una specie di stupro dello spirito – una rappresentazione disonesta del mio desiderio per compiacere un’altra persona.

Ho detto di si’ perche’ sentivo troppo complicato dire di no. Ho detto di si’ perche’ non volevo dover difendere il mio “no”, qualificarlo, giustificarlo – meritarlo. Ho detto di si’ perche’ pensavo di essere cosi’ brutta e grassa che dovevo fare sesso ogni volta che me ne offrivano la possibilita’, perche’ chissa’ quando me l’avrebbero offerta di nuovo. Ho detto di si’ a partner che non avevo mai desiderato, perche’ dire di no dopo aver detto di si’ dopo cosi’ tanto tempo avrebbe reso la nostra intera relazione una bugia, cosi’ ho dovuto continuare a dire “si’” per poter conservare il mio “no” come un segreto. E’ un modo veramente incasinato di vivere, e un modo orrendo di amare.

Cosi’ oggi dico di si’ solo quando voglio dire si’. Questo richiede vigilanza da parte mia, per essere sicura che non mi scatti il pilota automatico e le persone facciano quello che vogliono, e mi costringe a essere veramente onesta con me stessa e gli/le altr*. Mi fa ricordare che amare me stessa significa anche proteggermi e difendere i miei confini. Dico di si’ a me stessa.

Margaret Cho, “Sì vuol dire sì”

9781580052573“I am surprised by how much sex I have had in my life that I didn’t want to have. Not exactly what’s considered “real” rape, or “date” rape, although it is a kind of rape of the spirit – a dishonest portrayal or distortion of my own desire in order to appease another person.
I said yes because I felt it was too much trouble to say no. I said yes because I didn’t want to have to defend my “no,” qualify it, justify it – deserve it. I said yes because I thought I was so ugly and fat that I should just take sex every time it was offered, because who knew when it would be offered again. I said yes to partners I never wanted in the first place, because to say no at any point after saying yes for so long would make our entire relationship a lie, so I had to keep saying yes in order to keep the “no” I felt a secret. That is such a messed-up way to live, such an awful way to love.

So these days, I say yes only when I mean yes. It does require some vigilance on my part to make sure I don’t just go on sexual automatic pilot and let people do whatever. It forces me to be really honest with myself and others. It makes me remember that loving myself is also about protecting myself and defending my own borders. I say yes to me.”

Margaret Cho, “Yes means yes”

Intervista: Silvia Federici e la caccia alle streghe

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Proponiamo qui di seguito la traduzione di un’intervista pubblicata su Numeros Rojos a Silvia Federici sul tema della caccia alle streghe. (Testo di Maite Garrido Courel, traduzione di feminoska, revisione di Pantafika).

Qualche secolo fa, l’avrebbero bruciata sul rogo. Femminista instancabile, la storica e autrice di uno dei libri più scaricati della rete, “Calibano e la Strega. Donne, corpo e accumulazione primitiva”, parla con Numeros Rojos ed espone con rigore le ragioni politiche ed economiche occultate dalla caccia alle streghe. Il suo ultimo libro, “Il punto zero della rivoluzione”, è una collezione di articoli imprescindibili per conoscere la sua traiettoria intellettuale.

Lo sguardo attento, l’italiana Silvia Federici studia da più di 30 anni le vicende storiche che hanno portato allo sfruttamento sociale ed economico delle donne. Nel suo libro “Calibano e la Strega. Donne, corpo e accumulazione primitiva” (Traficantes de sueños, 2010), l’attenzione si concentra sulla transizione violenta dal feudalesimo al capitalismo, nella quale la divisione sessuale del lavoro venne forgiata col fuoco e dove le ceneri dei roghi coprirono di ignoranza e menzogne un capitolo essenziale della storia. Federici parla con Numeros Rojos di streghe, sessualità e capitalismo dal proprio ufficio presso il Dipartimento di Storia della Hofstra University di New York, e auspica di “stimolare nelle generazioni più giovani la memoria di una lunga storia di resistenza che attualmente corre il pericolo di essere cancellata”.

Come è possibile che l’uccisione sistematica delle donne sia stata affrontata come un capitolo aneddotico nei libri di storia? Non ricordo nemmeno di averne sentito parlare a scuola…
Questo è un buon esempio di come la storia venga scritta dai vincitori. A metà del XVIII secolo, quando il potere della classe capitalista si consolidò e la resistenza venne in larga parte sconfitta, gli storici cominciarono a studiare la caccia alle streghe come un semplice esempio di superstizioni rurali e religiose. Di conseguenza, fino a poco tempo fa, pochi furono coloro che indagarono seriamente le ragioni che si celano dietro la persecuzione delle “streghe” e la loro correlazione con la creazione di un nuovo modello economico. Come spiego in ” Calibano e la Strega … ” due secoli di esecuzioni e torture di migliaia di donne, condannate a una morte atroce, sono stati liquidati dalla Storia come il prodotto di ignoranza o relativo al folklore. Una indifferenza che sfiora la complicità, dal momento che la soppressione delle streghe dalle pagine della storia ha contribuito a banalizzare la loro eliminazione fisica sul rogo. Questo fino a quando il Movimento di liberazione delle donne degli anni ’70 espresse un rinnovato interesse per la caccia alle streghe. Le femministe si resero conto di trovarsi di fronte a un fenomeno molto importante che aveva plasmato la posizione delle donne nei secoli successivi, e si identificarono con il destino delle ‘ streghe’, in quanto donne che furono perseguitate in virtù della propria resistenza al potere della Chiesa e dello Stato. Speriamo che alle nuove generazioni di studenti si insegni l’importanza di questa persecuzione.
C’è qualcos’altro che turba profondamente, ed è il fatto che, ad eccezione dei pescatori baschi di Lapurdi, i parenti delle presunte streghe non si armarono in loro difesa, dopo aver combattuto insieme durante le rivolte contadine.
Purtroppo, la maggior parte dei documenti che abbiamo sulla caccia alle streghe sono stati scritti da coloro che detenevano il potere: gli inquisitori , i giudici, i demonologi. Questo significa che ci possono essere stati esempi di solidarietà che non sono stati registrati. Ma bisogna considerare che era molto pericoloso, per le famiglie delle donne accusate di stregoneria, venire loro associati e difenderle. In realtà, la maggior parte degli uomini che sono stati accusati e condannati per stregoneria erano parenti di donne sospettate. Questo, naturalmente, non minimizza le conseguenze della paura e della misoginia, conseguenza diretta della caccia alle streghe che divulgava un immagine della donna orribile, quale assassina di bambini, serva del diavolo, distruttrice di uomini, sedotti e resi simultaneamente impotenti.
Hai individuato due conseguenze evidenti della caccia alle streghe: che è un elemento fondamentale del capitalismo e che segna la nascita della donna sottomessa e addomesticata.
La caccia alle streghe, così come la tratta degli schiavi e la conquista dell’America, fu un elemento fondamentale all’instaurazione del sistema capitalistico moderno, poiché mutò in maniera decisiva le relazioni sociali ed i fondamenti della riproduzione sociale, a partire dalle relazioni tra donne e uomini e donne e Stato. In primo luogo, la caccia alle streghe ha indebolito la resistenza della popolazione ai cambiamenti che hanno accompagnato la nascita del capitalismo in Europa: la distruzione del comune possesso della terra, l’impoverimento di massa, la fame e la nascita, nella popolazione, di un proletariato senza terra, a partire dalle donne più anziane che, non possedendo terra da coltivare, dipendevano dagli aiuti dello Stato per sopravvivere. Ha inoltre ampliato il controllo dello Stato sui corpi delle donne, criminalizzando il controllo da queste esercitato sulla propria capacità riproduttiva e sessualità (ostetriche e donne anziane furono le prime sospettate). Il risultato della caccia alle streghe in Europa fu la nascita di un nuovo modello di femminilità e di una nuova concezione della posizione sociale delle donne, che svalutava il loro lavoro in quanto attività economica indipendente (un processo che era già gradualmente cominciato) e le poneva in una posizione subordinata rispetto agli uomini. Questo è il requisito principale per la riorganizzazione del lavoro riproduttivo necessario al sistema capitalista.
Parli del controllo dei corpi: se nel Medioevo le donne esercitavano il controllo indiscusso sul parto, nella transizione al capitalismo “gli uteri diventano territorio politico controllato dagli uomini e dallo Stato”.
Non vi è dubbio che con l’avvento del capitalismo si comincia ad assistere ad un controllo dello Stato molto più forte sui corpi delle donne, realizzato non solo attraverso la caccia alle streghe, ma anche attraverso l’introduzione di nuove forme di controllo su gravidanza e maternità, e l’istituzione della pena di morte contro l’infanticidio (quando il bambino nasceva morto, o moriva durante il parto, la madre veniva accusata e giustiziata). Nel mio lavoro sostengo che queste nuove politiche, e in generale la distruzione del controllo che le donne, nel Medioevo, avevano esercitato sulla riproduzione, sono indissolubilmente legate alla nuova concezione del lavoro promossa dal capitalismo. Quando il lavoro diventa la principale fonte di ricchezza, il controllo sui corpi delle donne assume un nuovo significato; gli stessi corpi vengono quindi visti come macchine per la produzione di forza lavoro. Penso che questo tipo di politica sia ancora molto importante oggi, perché il lavoro, la forza lavoro, restano fondamentali all’accumulazione del capitale. Questo non significa che i datori di lavoro di tutto il mondo vogliano più lavoratori, ma certamente vogliono controllare la produzione della forza lavoro, quanta ne deve essere prodotta e in quali condizioni.
In Spagna, il ministro della Giustizia vuole riformare la legge sull’aborto, escludendo i casi di malformazione del feto, proprio quando gli aiuti stanziati dalla Ley de Dependencia (legge che regolamenta e sostiene la non-autosufficienza) sono stati cancellati.
Anche gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre leggi che penalizzano gravemente le donne e limitano la loro capacità di scegliere se avere o meno figli. Ad esempio, molti stati stanno introducendo leggi che rendono le donne responsabili di ciò che accade al feto durante la gravidanza. C’è stato il caso controverso di una donna accusata di omicidio, perché suo figlio era nato morto e poi venne scoperto che aveva fatto uso di alcune droghe. I medici esclusero che la cocaina fosse la causa della morte del feto, ma invano, l’accusa è rimasta in piedi. Il controllo della capacità riproduttiva delle donne è anche un mezzo per controllare la sessualità e il comportamento in generale delle donne.
Lo dici tu stessa: “perché Marx non ha messo in discussione la procreazione come attività sociale determinata da interessi politici?”
Questa non è una domanda facile a cui rispondere, perché oggi sembra ovvio che la procreazione e la nascita dei figli siano momenti cruciali nella produzione della forza-lavoro, e non a caso sono stati oggetto di una regolamentazione molto dura da parte dello Stato. Credo, tuttavia, che Marx non potesse permettersi il lusso di vedere la procreazione come un momento della produzione capitalistica, perché si identificava con l’industrializzazione, le macchine e l’industria su larga scala, e la procreazione, come il lavoro domestico, sembrava essere l’opposto dell’ attività industriale. La trasformazione del corpo femminile in una macchina per la produzione di lavoro è qualcosa che Marx non poteva riconoscere. Oggi – in America, almeno – anche il parto è diventato un fatto meccanico. In alcuni ospedali, ovviamente non in quelli per persone abbienti, le donne partoriscono in catena di montaggio, con un tempo definito a disposizione per il parto, superato il quale viene chiesto un cesareo.
La sessualità è un altro argomento che tieni in considerazione da un punto di vista ideologico, dal momento che la Chiesa ha promosso con grande violenza un controllo ferreo e la criminalizzazione. Era così forte il potere che conferiva alle donne, da far sì che questo tentativo di controllo permanga tutt’ora?
Penso che la Chiesa si sia opposta alla sessualità (anche se sempre l’hanno praticata in segreto), perché ha paura del potere che esercita nella vita delle persone. E ‘ importante ricordare che, per tutto il Medioevo, la Chiesa è stata coinvolta nella lotta per sradicare la pratica del matrimonio dei preti, che era vista come minaccia alla conservazione del suo patrimonio. In ogni caso, l’attacco della Chiesa alla sessualità è sempre stato un attacco alle donne. La Chiesa ha paura delle donne, e ha cercato di umiliarci in ogni modo possibile, reputandoci la causa del peccato originale e della perversione negli uomini, costringendoci a nascondere i nostri corpi come se fossero contaminati. Nel frattempo, si è cercato di usurpare il potere delle donne, presentando il clero come elargitore di vita e indossando la gonna come indumento.
In un’intervista hai detto che è tuttora in atto una caccia alle streghe. Chi sono gli eretici oggi?
La caccia alle streghe ha avuto luogo per diversi anni in vari paesi africani e in India, Nepal, Papua Nuova Guinea. Migliaia di donne sono state uccise in questo modo, accusate di stregoneria. Ed è chiaro che, proprio come nei secoli XVI e XVII, questa nuova caccia alle streghe è collegata con l’estensione dei rapporti capitalistici in tutto il mondo. Fa molto comodo aizzare i contadini l’uno contro l’altro, mentre in tante parti del mondo stiamo assistendo ad un nuovo processo di privatizzazione delle terre e un enorme saccheggio dei mezzi fondamentali di sussistenza. Esistono anche prove del fatto che la responsabilità di questa nuova caccia alle streghe, che a sua volta si rivolge in particolare a donne anziane, deve essere attribuita allo sforzo delle sette cristiane fondamentaliste, come il movimento pentecostale, che ha riportato nuovamente nel discorso religioso il tema del diavolo, aumentando il clima di sospetto e di paura generato dal deterioramento drammatico delle condizioni economiche.
“Omnia sunt COMMUNIA” , “Tutto è comune”, è stato il grido degli anabattisti la cui lotta e sconfitta, come racconti nel libro, è stata spazzata via dalla storia. E ‘ancora altrettanto sovversivo quel grido?
Lo è certamente, dal momento che viviamo in un tempo in cui ‘Omnia sunt Privata’. Se le tendenze attuali continueranno, presto non ci saranno più marciapiedi, spiagge o mari o acque costiere, o terreni o boschi che possano essere accessibili, senza dover pagare un prezzo. In Italia, alcuni comuni stanno cercando di approvare leggi che vietano alle persone di mettere i propri asciugamani sulle poche spiagge libere rimaste, e questo è solo un piccolo esempio. In Africa, stiamo assistendo al più grande accaparramento di terre nella storia del continente da parte dell’industria mineraria, agro-industriale, agro-combustibile… Il paese africano è in via di privatizzazione e le persone vengono espropriate ad un ritmo che corrisponde a quello dell’epoca coloniale. La conoscenza e l’educazione sono sempre più materie prime a disposizione solo di chi può pagare e anche i nostri corpi sono in corso di brevetto. Per questo ‘omnia sunt communia’ resta un’idea radicale , ma dobbiamo stare attent* a non accettare il modo in cui viene distorto questo ideale, per esempio da parte di organizzazioni come la Banca Mondiale, che con la scusa di ‘preservare la comunità globale’ privatizza terre e foreste dalle quali dipende il sostentamento di intere popolazioni.
Come affrontare la questione dei beni comuni oggi?
Il tema dei beni comuni riguarda il modo di creare un mondo senza sfruttamento, egualitario, dove milioni di persone non muoiano di fame mentre pochi consumano a ritmi osceni, e nel quale l’ambiente non venga distrutto: un mondo nel quale le macchine non aumentino il nostro sfruttamento piuttosto che ridurlo.
Questo credo sia il nostro problema comune e il nostro progetto comune: creare un nuovo mondo.

(n.d.T: egualitario anche per quanto riguarda la presa in carico dello sfruttamento degli animali non umani, come sostiene Yves Bonnardel nel testo a breve in via di pubblicazione “Per farla finita con l’idea di umanità”)

Se la mia fica fosse un’arma

heim2Pubblichiamo la traduzione della poesia di Katie Heim “If My Vagina was A Gun“, composta ai tempi delle proteste del Giugno scorso verso il Senato del Texas – ricordate Wendy Davis?

Tradurre una poesia è un compito arduo… ma nell’attesa di una versione più puntuale, oggi lo facciamo noi: Feminoska, Pantafika e Lorenzo Gasparrini.

Perchè a volte una poesia fa riflettere meglio di tanti discorsi.

Leggi tutto “Se la mia fica fosse un’arma”

Su depressione, sperma e sesso orale – la ricerca

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ph spiderspaw (farsela leccare non cura la depressione, ma fa comunque piacere)

Avrei voluto intitolare questo post: “Donne, la depressione si può curare facendo sesso orale: fatevela leccare!”, sarebbe stato di impatto, ma dato che la depressione è un disturbo serio nessun@ è autorizzat@ a scrivere stupidaggini in merito.

Solo un@ specialista (medic@ di medicina generale, psicolog@ o psichiatra) può diagnosticare il disturbo depressivo e aiutarvi a guarire con il metodo a voi più congeniale, metodo che nulla ha a che vedere con l’ingestione di sperma. Non solo fare pompini non fa guarire dalla depressione, ma farli senza protezione ci espone al rischio di contrarre ogni tipo di malattia sessualmente trasmissibile. Oltre a continuare ad essere depresse rischiamo seriamente di contrarre AIDS, HpV, Erpes, epatiti e altre malattie non mortali, ma che ci costringono a lunghe cure mediche (le quali, piuttosto, favoriscono il calo d’umore).
Comunque farvela leccare non vi deprimerà, se vi dovesse deprimere provate a spiegare come vi piace, se proprio non funziona potete sempre cambiare lingua. Un post divertente e intelligente sulle proprietà rallegranti del cunnilinguo è già stato scritto qui.

Questo post nasce per fare chiarezza sulle tesi riguardanti le  proprietà antidepressive del pompino con ingoio – di questo si tratta – portate avanti da questo articolo (opportunisticamente linkato e fatto rimblazare da quanti non riescono ad ottenere questa pratica da mogli e compagne). Il pezzo blatera di depressione e sperma, ossia di me, voi, noi che guariamo dalla depressione spremendo cazzi con la bocca, pura disinformazione medica di stampo goliardo-maschilista.

L’articolo che rimbalza qui e lì, ma vedremo nel prossimo post che si tratta solo dell’ultimo di una lunga serie di articoli che hanno funzionato da telefono senza fili, fa riferimento a una ricerca condotta nell’aprile del 2001 da una ricercatrice e due ricercatori della State University di New York, sita in Albany, N.Y., intitolata “Lo sperma ha proprietà antidepressive?”, recuperabile in pdf qui, pubblicata sulla rivista di sessuologia Archives of Sexual Behavior nel 2002. Ad esso sono giunta tramite questa chiave di ricerca su google: “State university New York+sperm and depressive disorder”, di non difficile combinazione.

La questione della reperibilità è molto importante, perché ci permette di vedere con chiarezza dove finisce la ricerca e dove iniziano maschilismo e disinformazione.
Le parti dall’inglese che seguono sono state tradotte da me.

Un po’ di luce sulla ricerca.

Dall’introduzione ricaviamo l’informazione che quando si tratta di disturbi depressivi la differenza tra maschi e femmine diventa consistente, perché “Le donne sono più inclini a sviluppare disturbi depressivi rispetto agli uomini”, che “L’incidenza della depressione clinica nelle donne supera quella indicata nei maschi di un fattore pari a tre su cinque volte” e “nelle donne, la depressione è spesso associata a differenti  esiti riproduttivi come la morte di un bambino, un aborto spontaneo e la menopausa.” Ney[1] nel 1986, “ipotizzò che lo sperma potesse avere un effetto sull’umore delle donne.” Questo effetto sarebbe dovuto agli ormoni nel plasma seminale, tra i quali “testosterone, gli estrogeni, l’ormone follicolo-stimolante e l’ormone luteinizzante, la prolattina, e un certo numero di differenti prostaglandine.” Questo perché “testosterone ed estrogeni sono assorbiti attraverso l’epitelio vaginale”, come gli altri ormoni, ma si sottolinea che “il testosterone viene assorbito più rapidamente attraverso la vagina che attraverso la pelle”.
La ricerca, per testare l’ipotesi di Ney, ha “misurato i sintomi depressivi nelle donne del college in funzione dell’attività sessuale e dell’uso del preservativo. La coerenza di uso del preservativo è stata utilizzata per indicizzare la presenza di sperma nel tratto riproduttivo femminile.”

Dunque al sesso orale non si fa alcun riferimento, perché l’ipotesi è che ad avere effetto sul comportamento delle donne siano gli ormoni contenuti nello sperma assorbiti attraverso l’epitelio vaginale.

Le donne che hanno partecipato alla ricerca sono 293, tutte volontarie anonime, che frequentavano lo stesso college in cui la ricerca è stata effettuata. Esse hanno accettato di compilare “un anonimo questionario progettato per misurare i vari aspetti del loro comportamento sessuale, inclusa la frequenza dei rapporti sessuali, il numero di giorni dopo il loro ultimo incontro sessuale, e tipi di contraccettivi usati.
Tra le donne sessualmente attive nel campione l’uso dei preservativi è stato presa come misura indiretta della presenza di sperma nel tratto riproduttivo. La frequenza dei rapporti sessuali è stata recepita nel numero di atti coitali all’anno. Ad ogni intervistata è stato anche chiesto di completare il Beck Depression Inventory, una misurazione di uso frequente per individuare le differenze individuali nei sintomi depressivi“.

L’87% delle donne campionate era sessualmente attiva, secondo i dati raccolti i sintomi della depressione variano rispetto all’utilizzo del preservativo, in pratica è emerso che la maggior parte delle donne che usavano i preservativi accusavano sintomi depressivi, di contro le donne che il preservativo non lo usavano presentavano minori sintomi depressivi, anche rispetto a quelle che si astenevano dal sesso.  E’ stata individuata una correlazione tra sintomi depressivi e distanza temporale dall’ultima relazione sessuale.

Rendiamoci però conto che: gli ipotetici benefici sull’umore, dell’assorbimento attraverso la vagina degli ormoni contenuti nello sperma, sono niente rispetto alla paura di una gravidanza o di contrarre malattie a trasmissione sessuale, entrambi eventi altamente probabili se non si usano i preservativi. Più giù è specificato che molte delle donne che non facevano uso di preservativi, assumevano comunque un contraccettivo orale (“oltre 7 su 10 delle donne sessualmente attive in questo campione che non ha mai usato i preservativi usavano contraccettivi orali”).

Leggi tutto “Su depressione, sperma e sesso orale – la ricerca”

La sexy parodia di Blurred Lines realizzata da Mod Carousel: il rovesciamento dei generi che invita alla riflessione.

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Del video originale avevamo parlato qui.

Oggi leggiamo sull’Huffington Post:

Considerata la massiccia polemica – per non parlare del successo clamoroso – della hit dell’estate ‘Blurred Lines’ di Robin Thicke, non è sorprendente che alla fine qualcun* abbia deciso di realizzare una versione del video a ‘ruoli invertiti’. La recente parodia realizzata da Mod Carousel, è intelligente, stimolante e molto sexy!

Mod Carousel, una troupe boylesque con sede a Seattle, ha ricreato il video con Caela Bailey, Sydni Devereux e Dalisha Phillips alla voce – che assumono i ruoli che, nel video originale, erano rispettivamente di Thicke, Pharrell e TI – mentre Trojan Original, Paris Original e Luminous Pariah dei Carousel assumono qui il ruolo delle semi-vestite (o per lo più nude, a seconda della versione) modelle presenti nel video di Thicke.

Anche i testi sono un pò cambiati. “Vado a prendermi un bravo ragazzo,” Bailey canta e continua, “Sei così virile …. Tu sei il c…o più caldo qui.” […]

In proposito, i Mod Carousel affermano: “E ‘nostra opinione che la maggior parte dei tentativi di mostrare l’oggettivazione femminile nei media scambiando i ruoli di genere servano più a ridicolizzare il corpo maschile che ad evidenziare la misura in cui le donne vengono reificate, e ciò rende a tutt* un cattivo servizio. Abbiamo perciò realizzato questo video proprio per mostrare l’ampio spettro della sessualità, e presentare sia le donne che gli uomini in una luce positiva, in cui gli uomini possono essere resi oggetto e dove le donne possono essere forti e sexy, senza ripercussioni negative per entrambi.”

Ed ecco il video: che ne pensate?

 

 

Intervista a Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione femminile in Bolivia.

La femminista radicale boliviana Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione nell’universo femminile.

di Sheryl Green e Peter Lackowski

Articolo pubblicato da upsidedownworld Tradotto in italiano da TheHighPeak, revisionato da Feminoska, H2o e Alice89

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La Ekeka verso la libertà. Creazione di Danitza Luna

Mujeres Creando è un’organizzazione femminista radicale che  affronta la struttura patriarcale della società boliviana dagli anni ’80. Abbiamo parlato con una delle sue fondatrici, Maria Galindo, nel ristorante del loro piccolo hotel e centro culturale nella Capitale La Paz, mentre la stazione radio di Mujeres Creando, che trasmette/in onda dalla stanza a fianco, risuonava dagli altoparlanti in sottofondo.Quando Maria ci ha raggiunto era in compagnia di un altro nordamericano, Phillip Berryman, un insegnante e traduttore professionista e ci ha spiegato che poiché anche lui le aveva richiesto un’intervista avrebbe risposto alle nostre domande insieme.

Sheryl Green: La prima grande domanda è sull’amministrazione di Evo Morales: come sono state gestite le questioni specificatamente femminili? Sono stati fatti progressi? Il giornale di oggi dice che l’11% dei punti della Costituzione approvata tre anni fa è stato convertito in legge – che impatto ha questo sulle questioni femminili? Certo, l’obiezione è che tutte le questioni sono questioni femminili. Ma l’aborto ad esempio, e le altre cose che per te riguardano direttamente il benessere delle donne.

Maria Galindo: Allora, in generale il discorso su Evo Morales è molto complesso; in lui c’è stata una sorta di evoluzione. L’Evo Morales di oggi non è l’Evo Morales degli inizi. All’inizio c’erano molta speranza, molta aspettativa sociale e la relazione tra MAS [Movimiento Socialista] e il governo era davvero molto forte. In questo sesto anno invece di svilupparsi in modo positivo ha preso una brutta piega. Per esempio, Evo Morales, intendo il suo governo, dice “dobbiamo avere un grande controllo sulle organizzazioni sociali per rimanere al potere. Per sviluppare questo controllo dobbiamo comprare i capi di queste organizzazioni sociali.” E allora  adesso i/le dirigenti delle organizzazioni sociali sono controllat* dal governo. Ma non le basi. Significa che i/le dirigenti delle organizzazioni sociali hanno preso soldi dal governo e sono stati incaricati dei progetti, ma non significa che vi sia una reale aderenza delle organizzazioni sociali con le loro richieste. È una sorta di teatrino. Qui abbiamo con noi la gente, ma solo gli amici di Evo Morales e amici che ci sono perché ne traggono dei vantaggi. Il che impedisce una trasformazione sociale reale, perché non stanno lavorando sui problemi concreti di ogni parte della società, ma stanno lavorando solo per far pensare e sentire a tutti che Evo Morales sia l’unica soluzione per chiunque in Bolivia. E così abbiamo un processo di “caudillizacion.” Lui è il cambiamento, il cambiamento è lui, lui è tutto, è il difensore, e provoca un degrado nel processo politico e sociale.

SG: Quindi c’è una gerarchia…

MG: Non solo una gerarchia, ma lo dico in spagnolo: è un processo di “caudillizacion” [la creazione di un “caudillo” o leader carismatico]. La figura di Evo Morales è al centro di tutto. Ed è veramente un grosso errore. Per le donne è molto contraddittorio ed è ben mascherato. Perché? La prima legge, che era la più importante, è stato lo stanziamento di una somma di denaro, la “bono Juana Asurdo” (chiamata come un’eroina della rivoluzione contro la Spagna del diciannovesimo secolo.) È un pagamento che viene fatto a ogni donna che fa un figli* – come è stato fatto da ogni governo fascista. Non è molto: mille ottocento boliviani (261 dollari statunitensi). Non ci si fa nulla. Ma d’altra parte, “donne” significa “bambini.” Le donne più povere in Bolivia – magari loro potrebbero aver bisogno di quei soldi. Ma per ottenerli devono andare dal dottore, che ti dà un foglio che dice che avrai un bambino, e poi devi andare in banca per prendere il sussidio dallo stato. Ma le donne boliviane più povere non hanno la carta d’identità da presentare in banca. Quindi è davvero assurdo. Ed è una specie di ritratto del modo di pensare di questo governo.

Dall’altro lato, a partire dagli anni novanta, per una politica delle Nazioni Unite, c’è una sorta di quota di donne in ogni partito politico. È una politica liberale, non socialista, questa politica della “parità.” Quindi ogni partito ha una percentuale di donne, che vengono in certa parte elette come deputate e senatrici. È un processo iniziato negli anni novanta, ed è copiato ovunque in America Latina, non è originariamente boliviano. Il movimento sociale delle donne qui non ha mai chiesto di avere una rappresentazione parlamentare. È venuto dall’ONU. Dagli anni novanta, i partiti, anche di destra, hanno detto “OK, siamo gentiluomini, approveremo questa legge.”

E quindi dagli anni novanta c’è una bassa percentuale di donne in parlamento, donne che vengono elette per rappresentare il partito. Non per rappresentare la società o le donne nella società. E questa percentuale di donne non costituisce mai una voce per le donne. Loro rappresentano una voce femminile per il partito, che fa una bella differenza. È un fenomeno consueto della politica in tutta l’America Latina. Evo Morales ha preso la stessa idea dominante e l’ha messa nella sua politica. Ora c’è una percentuale più alta di donne, credo che sia intorno al 40%, non sono sicura, in realtà non ci faccio molto caso. E la stessa politica si applica ai ministri di governo e ai giudici. Ma con le stesse regole: le donne del nostro partito faranno quello che vogliamo noi. Le donne che hanno responsabilità per la sanità, per molti aspetti non fanno in realtà nulla per le donne. Perché è sufficiente essere lì e dire, “Sono qui, sono una voce per le donne.”

E quindi fanno una selezione accurata delle donne per tenere fuori quelle che sono pericolose, che alzano la voce, che pensano con la loro testa. C’è un sacco di ostilità nei confronti delle donne ribelli nei movimenti sociali oggi in Bolivia. Non è responsabilità di Evo Morales, è semplicemente come stanno le cose in questo momento.

Perciò, quello che dicevi sull’aborto – è come andare con un autobus sulla luna. Siamo molto lontan* da quel punto. Ho intervistato tutte le donne del governo [Maria conduce un programma alla radio, trasmesso da Mujeres Creando], tutte le dirigenti di movimenti per le donne che sono con Evo Morales, Bartolina Sisa (un movimento chiamato come un’eroina Aymara del 1700 che combattè contro gli spagnoli) ho intervistato tutt* quell* che fanno parte di questi movimenti. Ho chiesto loro dell’aborto. Perché l’aborto è un problema di povertà. Le giovani donne bianche, se hanno 400 dollari possono ottenere un aborto. Le indigene, giovani povere che non hanno i soldi, abortiscono con grossi rischi, e muoiono. E sono molto spaventate.

SG: Ci sono dottori nel paese che praticano un aborto sicuro per 400 dollari?

MG: È tutta una questione d’ipocrisia. Prova ad andare al grande cimitero di La Paz – mentre cammini vedrai su entrambi i lati della strada piccole cliniche. E lo sai, una stanza non può essere una clinica. E tu vedi clinica, clinica, clinica, clinica… “Se hai una domanda, vieni qua, clinica femminile”. Tutti quei posti sono per gli aborti. Lo sanno tutti, non è un segreto.

SG: E il governo non interferisce?

MG: No no, non fanno nulla. Ma per esempio, lo scorso dicembre una giovane donna a Santa Cruz ha ucciso il suo bambino – il bambino è nato e lei l’ha ucciso. È finita in prigione per omicidio. E lei ha detto, “Sono stata violentata. Questo bambino non lo volevo.” La polizia non fa nulla. I dottori fanno soldi, non tanti, ma li fanno. Ma quando una donna è così sola, così vulnerabile, come quella ragazza, allora finisce in prigione. È un caso d’ipocrisia. Ma nessuna donna di questi movimenti sociali locali è favorevole a parlare positivamente del diritto – non il mio diritto, di femminista – ma del diritto di scelta di quelle ragazze della campagna. Non sono pronte – ho chiesto a ognuna delle donne presenti in parlamento dell’aborto. Sono tutte contro. Tutte. Non ce n’è una che dica, “OK, hanno il diritto di scegliere.” Dobbiamo combattere per questo diritto, che è molto concreto.

SG: E probabilmente la maggior parte di loro ha qualcuna nella famiglia allargata o conosce qualcuna…

MG: Oh certo, certo, certo… Perché l’aborto in Bolivia è un problema di massa, non è il problema individuale di una ragazza in particolare. Perché non c’è educazione sessuale nella legge e nelle scuole. C’è una sorta di cultura maschilista nella sessualità, che significa che ogni ragazzo vuole mostrare il suo potere su una ragazza. Quindi è davvero un enorme problema di massa. E si vedono molte donne giovanissime con figli, e nessun padre. Alla nostra radio facciamo una lista di padri che non pagano per i propri figli, ed è un grande successo. Trasmettiamo il loro nome, la loro età e dove lavorano. Cinque volte il giorno, e nessuna donna deve pagare per questo [servizio]. Ed è molto interessante perché non è diretto solo a quelli che vengono nominati, ma è un messaggio per l’intera società.

SG: Mujeres Creando – legame con il governo, influenza. Hai due ruoli qui – magari correlati – sei una giornalista e sei parte di questa comunità. Qual è il legame, la relazione, il riconoscimento dell’amministrazione verso Mujeres Creando?

MG: Riconoscimento assolutamente no. Ma penso che noi, Mujeres Creando, abbiamo influito profondamente sulla società, perché alziamo molto la voce. E non ci limitiamo a parlare, facciamo anche le cose. Esercitiamo una forte influenza, lo sento ovunque, costantemente. Questo governo di Evo Morales agisce come se noi non esistessimo, come se non ci fossimo, come se non facessimo nulla. Ma non significa nulla perché non siamo fissate sull’idea che la sola politica che ha successo è la relazione con lo stato. Lo abbiamo analizzato per molti, molti anni: cosa vogliamo dallo stato? Non vogliamo nulla dallo stato. Non solo le leggi – le leggi non cambiano nulla. Molti movimenti in Bolivia hanno in mente la formula, “Otteniamo la legge, otteniamo un cambiamento della situazione.” Ma noi non chiediamo una legge, non chiediamo di essere in parlamento, non chiediamo di avere soldi dal governo, ma prendiamo posizione su ogni politica di governo.

Noi non viviamo sull’Isola che non c’è, ma non pensiamo che ci debba essere un riconoscimento da parte dello stato. Per esempio, quando il processo costituzionale era in corso quattro o cinque anni fa in Bolivia, abbiamo sviluppato un’interessante teoria sociale. Abbiamo detto, “Non vogliamo la parità tra uomini e donne, questa non è la nostra prospettiva. Vogliamo una ‘despatriarcalizacion’ della società.” Non posso tradurlo perché è una parola che abbiamo inventato noi (de-patriarcalizzazione). E ora qualsiasi documento governativo che riguardi le donne contiene la “despatriarcalizacion.” Hanno preso da noi la parola. È la prova della nostra grande influenza sul loro pensiero, ma non è una realtà perché, ad esempio, non ci chiedono mai di discutere che cosa questa “despatriarcalizacion” significhi. È una relazione complicata.

SG: È un grosso dibattito anche negli Stati Uniti in questo periodo. C’è forte movimento esterno al governo, il cui obiettivo non è lavorare per il partito, per far eleggere le persone. È un periodo eccitante: vuoi lavorare dall’esterno, o vuoi provare a inserire qualcuno all’interno? E quindi le persone stanno facendo scelte davvero interessanti. Sembra che la tua scelta sia quella di lavorare all’esterno e di influire profondamente non solo sulle donne ma sulla società nel suo complesso, stimolando idee più chiare e analisi più approfondite e aiutando le persone a considerare i loro stessi modelli sotto una luce diversa.

MG: Esatto, non è che pensiamo di dire alle persone quale sia la verità, questo è molto importante. Sei andata dritta al punto. Per noi, le donne sono “soggetti politici”, protagoniste. Quindi lavoriamo in questo senso, considerando le donne soggetti politici, non “beneficiarie,” “oggetto di vulnerabilità, ” “Oh, povere donne!” e roba così. Non ci limitiamo a parlare. Noi agiamo. Per esempio, abbiamo piccoli programmi che hanno una metodologia molto interessante, programmi che funzionano e programmi che sono fatti per le persone. Ce n’è uno davvero interessante sulla violenza contro le donne che è molto pratico, e agiamo in ogni situazione in cui ci è possibile, abbiamo un programma per le madri che riguarda il pensare al ruolo di madre in un altro modo. Entrambi influiscono profondamente sulla società, ma non raggiungiamo molte donne perché lavoriamo su piccola scala. Ma sono esempi – non siamo solo pront* a parlare, siamo pront* ad agire.

Questa è la grande differenza, perché in Bolivia trovi molt* intellettuali, alcun* migliori, altr* che non sono granché — che sono brav* per quel che riguarda il pensiero critico e parlano, anche, ma si limitano a parlare. Noi pensiamo che sia un grosso errore. Ci sono così tanti anni di pensiero politico boliviano in cui puoi trovare i minatori, puoi trovare gli indigeni, puoi trovare i giovani e mai le donne. Tutti i movimenti sociali hanno una sorta di faccia maschile, e alle donne si pensa come a un pezzo vulnerabile di società, dobbiamo proteggere le donne, dobbiamo proteggere le donne in quanto madri e quella è l’idea dello stato. E quell’idea non è cambiata. Siamo allo stesso punto di sempre.

Phillip Berryman: Capisco cosa intendi riguardo alle donne in politica. Vedi donne infrangere i ruoli tradizionali in altre aree come quella degli affari?

MG: Penso che ci sia una grande confusione al riguardo in generale, non solo in Bolivia. Ad esempio qui in Bolivia ci sono donne nell’esercito. E’ una prova di ribellione? E’ una prova di un qualche miglioramento? Possiamo festeggiare? Le donne lavorano, ma in quali condizioni?

SG: Giusto l’altro giorno c’era un sacco di polizia vicino alla capitale, e c’erano delle donne. Per caso ho guardato in basso e una poliziotta indossava stivali a punta con i tacchi alti, e ho pensato, “come può fare quello che potrebbe dover fare con i tacchi alti?” Mi ha colpita, e l’ho trovato molto ironico.

MG: Ironico, ecco la parola. In molti di questi esempi c’è tanta ambiguità. Non è una vittoria  per la società boliviana se le donne entrano nell’esercito. L’esercito ha commesso un sacco di abusi nei confronti delle reclute. Molti sono morti. Ai tempi si pensava che ci fosse la possibilità che rifiutassero il servizio militare. Così il governo ha detto, “OK, per i ragazzi è obbligatorio, non possono scegliere. Ma le donne possono entrare, e possono scegliere.” E le donne stavano in coda dalle 5 del mattino per arruolarsi nell’esercito. Avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di entrare. Perché? C’è una grande contraddizione. Il neoliberalismo e il liberalismo in America Latina dicono che ne hai il diritto. Devi lottare per i tuoi diritti, ma li hai – sei uguale. Abbiamo ora, in tutto il mondo, un sacco di donne con un sacco di potere. Che cosa significa? E’ una grande domanda per noi anche come femministe, perché nessuna donna al potere, in Bolivia, Germania, o dovunque, è lì grazie al pensiero femminista. E’ lì grazie al pensiero patriarcale.

Non m’interessano molto Cristina Kirchner o Merkel, a me interessa la massa. Nella massa delle donne c’è un impulso ad occupare lo spazio degli uomini, e sono pronte a pagare lo scotto di assumere valori maschili – quali competizione, uso della forza, uso della violenza. C’è una massa di donne che la pensa così. E così qui in Bolivia ci sono donne che vogliono entrare nella polizia. Ma la più alta percentuale di violenza sulle donne nella vita privata è fatta proprio da poliziotti. E allora vedi l’ironia di cui parlavi. Loro arrivano lì, ma poi sono… le donne. A che punto siamo? Ma dall’altro lato, per rispondere alla tua domanda  si vede un sacco di ribellione sociale di massa delle donne. Per esempio, molte donne sono pronte a denunciare la violenza, e questo è un atto ribelle. Molte donne vanno all’università. Io ho insegnato all’università pubblica. Il 50% degli studenti in tutti i campi sono donne.  Non c’è un campo in cui gli uomini possano dire, “Questo è il nostro campo.” Ma nei campi delle donne non trovi uomini. Questa rivoluzione non è dal lato dell’essere uomo, dell’essere maschile.

SG: Quindi   ad esempio in educazione della prima infanzia, o in sviluppo umano o in storia delle donne, non ci sono uomini?

MG: Vi devo raccontare una cosa: la storia di Ekeko.  E’ un riflesso di quello che sta succedendo con le donne nella società boliviana ora. Questa statuina è stata creata da una giovane artista del nostro movimento. Ha vent’anni. Io ne ho quarantasette e lavoriamo insieme. Conoscete la storia di Ekeko? Ve la racconto. Ekeko è un dio andino dell’abbondanza. E’ un ometto piccolo e basso che si porta tutto sulla schiena. Cibo, macchine, apparecchiature elettriche, tutto quello che vuoi. Risale a centinaia di anni fa, almeno alla fine del Settecento. Se veneri l’immagine di Ekeko, avrai tutto quello che vuoi nella tua casa. E’ chiaramente la deificazione del padre che porta tutto quello di cui hai bisogno, ed è falso.

La statua di Ekeko si trova in un posto speciale della casa, e ogni venerdì la donna di casa deve dargli una sigaretta. Deve metterla in bocca alla statua e accenderla. Ha anche un simbolismo erotico – trovi molti Ekeko con il pene eretto. Quindi lui ti darà tutto, benessere e piacere. In molte case trovi quest’ometto nel posto migliore.

Quindi abbiamo messo una donna al suo posto. [Ci mostra una statuetta, circa venti centimetri in altezza e in lunghezza. E’ una donna con un fagotto grosso quanto lei sulle spalle, mentre dietro c’è la figura di un uomo stravaccato, che dorme con una bottiglia in mano.] Invece di lui, c’è lei. Nel fagotto che porta sulle spalle c’è il suo cuore, che non è danneggiato. E poi ha tutto il resto: una casa, e musica, cibo – tutto quello che serve. E ha le ali, perché vuole la libertà. Ha libri perché vuole imparare. Se andassi in una scuola serale, vedresti che ci sono molte donne, perché tantissime hanno dovuto lasciare la scuola, ma ora vogliono studiare. Lei ha anche una valigia, perché se ne sta andando. Questo è un altro sentimento ribelle che molte donne hanno: “Sono pronta a lasciarti.” E la valigia ha un’etichetta, lì dentro ci sono sogni, speranze, ribellione, e felicità.  Sta lasciando il piccolo dio Ekeko – ubriacone, pigro, macho. E la lettera che gli lascia dice, “L’Ekeka sono sempre stata io.”

Vendiamo queste [statuine] nel nostro banco al mercato. Venderle è un atto politico. Parliamo alle donne, e loro ridono di gusto. Ogni donna [ne] capisce [il senso]: la donna che vende il pane, la donna che lavora in ufficio, e la donna che è in parlamento.

SG: Vendono bene?

MG: Sì. Non costano poco, perché vogliamo che la ragazza che le fa ci ricavi qualche soldo. La cosa più importante è che vogliamo entrare nell’immaginario popolare, che ha un posto nel cuore delle persone.

SG: E cosa mi dici di quest’altra figura, un uomo con un* bambin* sulla schiena, una borsa della spesa in una mano e una scopa nell’altra?

MG: Quest’uomo è Evo Morales. Sta portando un* bambin* sulla schiena come una donna indigena. Nessun uomo porterebbe un* bambin* in questo modo, sarebbe contro la sua dignità. Ed è pronto per pulire la casa e andare al mercato. Questo è stato l’uomo più importante della rivoluzione boliviana (che in realtà non è stata una rivoluzione.) Queste  le abbiamo davvero vendute come il pane. Ora non più perché lui ormai non è così popolare. Una volta, quando era ancora all’apice del potere, sono andata a un grosso evento politico e gliene ho regalata una . Lui l’ha presa e l’ha lanciata a una delle sue guardie del corpo. Non l’ha presa ridendo, era ostile, disgustato dalla statuina. Quello era un segnale! Mi sono chiesta, “Perché non era disposto a riderne con noi, e dire, ‘Perché no?’ o ‘Interessante!’ o ‘Grazie mille,’ o chessò.”

Questo è lo stato attuale della ribellione delle donne. Senza capire potresti dire, “Ah, queste donne stanno dicendo che ogni uomo è un ubriacone….” Ma è molto più di così, è un simbolo.

SG: Riguarda più le donne…

MG: Sì. Prima di venire qua stavo intervistando una donna. Vuole separarsi dal suo uomo. Quando aveva quattordici anni, un membro della sua famiglia l’ha data in dono a un militare ventottenne, che aveva un figlio di cui qualcuno doveva occuparsi. E così lei è andata con il militare ed è stata con lui, ai miei occhi, come schiava. Ma agli occhi della società come una moglie. Stava piangendo al mercato e una donna le ha chiesto, “Perché piangi?” Quando lei ha spiegato il motivo, la donna le ha detto, “Vai da queste donne.” [Mujeres Creando]

SG: Quanti anni ha ora?

MG: E’ tra i cinquanta e i sessant’anni. Ha avuto quattro figli con il militare, pensando per tutta la sua vita, “Lo lascio.” Non diresti che queste storie possano essere vere ancora oggi, ma in realtà lo sono. Le nostre storie non sono tutte così. Quella non è la mia storia. Ma noi, come donne, siamo nella stessa situazione storica e sociale di quella donna. Se la consideriamo una sorella, lei era, o è, in schiavitù.

Ho lavorato parecchio con la prostituzione, e conosco davvero bene il problema, ho fatto molte cose in quell’universo. In Bolivia, ogni prostituta deve essere legalmente registrata. Significa che deve dare il suo vero nome, il suo indirizzo, il posto in cui lavora come prostituta, e poi le fanno una foto e un documento. Devi avere quel documento dal ministero della sanità per lavorare come prostituta. Inoltre, devi andare dal dottore una volta a settimana, solo per fargli controllare la  vagina. Solo quello. Se hai un problema agli occhi o qualsiasi altra cosa, non importa, ti controllano solo la  vagina. E ottieni un foglio che dice ‘autorizzata.’ Si preoccupano solo per la salute degli uomini. E questo succede ora, non cento o duecento anni fa.

Questa [indicando una foto appesa al muro] è la fotografia di una prostituta dell’inizio del 1900. La polizia faceva queste fotografie a ogni prostituta: due scatti, di fronte e di profilo. In quei giorni una donna doveva indossare un panno nero in testa per mostrare che era una prostituta. La polizia aveva quegli archivi. Dal 2000 la polizia non fa più fotografie, ora è il Ministero della Sanità che fa i controlli vaginali per dire che puoi andare con un cliente.

Ho fatto centinaia di seminari, progetti, lettere, qualsiasi cosa. Abbiamo creato un’organizzazione per lavorare con le donne. Per il nostro punto di vista tutto andrebbe fatto con la donna. Per esempio la donna in condizione di schiavitù: è lei quella a volerne  uscire. Non sono io a dire che deve farlo. E’ molto importante. Ogni donna deve dire che cosa vuole fare. Loro trovano in noi delle amiche, un gruppo politico, quello che volete, ma sono loro che devono scegliere.

PB: Vedi segnali di cambiamento negli atteggiamenti degli uomini?

MG: Non in Bolivia. Non vedo cambiamento nell’universo degli uomini. Vedo molto cambiamento in alcune parti dell’universo delle donne – perché non siamo tutte un pezzo unico, siamo complesse – ma non vedo quasi nessun cambiamento nel mondo degli uomini. L’uomo è in crisi profonda. Le donne stanno cambiando e gli uomini restano lì, non riescono a cambiare. Per esempio, qui c’è un grosso mercato della prostituzione. Chi si rivolge a quel mercato? Potrei mostrarti uomini giovanissimi e uomini vecchissimi che ne usufruiscono. Vedi minatori e professionisti che se ne servono, è solo una questione di prezzo. Puoi trovare una prostituta molto economica e una molto cara. Il mercato della prostituzione sta crescendo. Gli uomini vanno lì per comprare una donna. Non vedo alcun cambiamento in questo.

Che cosa succede agli uomini? Nel mio programma radio ho donne che parlano della violenza sulle donne. Ho aperto uno spazio per gli uomini per parlare della violenza sulle donne, ma nessun uomo vuole venire. Gli uomini vogliono parlare della rivoluzione, del prezzo della benzina o del gasolio, della rappresentanza politica, o della storia, ma non vogliono parlare di se stessi. E’ difficile chiedere loro di parlarne, come se fosse un’offesa, come una mancanza di rispetto.

PB: In Colombia ho visto un po’ di propaganda contro la violenza domestica – un cantante reggaeton o qualcosa del genere.

MG: Puoi vederlo anche in Bolivia, uomini famosi che sono pagati – non significa nulla. Il governo allestisce il suo teatrino con i soldi della cooperazione internazionale – non ci sono soldi dallo stato boliviano. Non è una cosa ben pianificata, solo una messinscena – molto facile a dirsi. Se si osserva l’uso delle donne nei mass media – mi fa schifo. Dovunque, per qualsiasi cosa, e senza limiti.

SG: Le donne in carcere – abbiamo parlato con una donna che lavora con le carcerate e abbiamo saputo che le donne possono tenere i figli con loro in prigione, che possono lavorare per guadagnare, che si autogovernano. Come vedi i programmi per le donne in prigione?

MG: Non ho una grande conoscenza delle prigioni. Ho iniziato una serie di programmi radio ogni quindici giorni da una prigione. Noi andavamo lì e le donne parlavano. Era fantastico, avevamo il permesso per dodici puntate, ma ne abbiamo fatte solo due. E’ vero, le donne possono tenere i bambini con loro in prigione. I bambini vanno a scuola e dopo tornano alla prigione. Dipende dalla loro età. Lavorano in prigione, ma non si tratta di programmi organizzati: il punto è che lo stato non ha soldi per la prigione e non vuole spenderne, vuole una prigione economica. Le donne lavorano perché, se non lo facessero, morirebbero di fame. Non potrebbero sopravvivere là dentro senza lavorare.

Il motivo per cui mi hanno tolto il permesso per fare più programmi è stato che le donne fanno il bucato, prendono nove boliviani ogni dodici pezzi. Da questi nove boliviani, la polizia prende qualcosa. Ma non avrebbe il permesso di farlo. Le donne ne hanno parlato alla radio e così tutti l’hanno saputo. Quindi hanno messo la donna che l’ha detto in isolamento, c’è stato un grosso scandalo, ed io ho perso la mia autorizzazione – basta programmi.

Potresti andarci. Se conoscessi qualcuno, potresti andare senza alcun permesso e dire che hai fissato una visita così e così e vedresti, hanno costruito una piccola società. Ma hanno due docce in centosessanta donne, e pagano per la doccia. Hanno due tipi di spazi. Uno spazio per dormire, per quello non devono pagare. Ma poi escono in un grosso spazio aperto tutto il giorno. In quello spazio hanno costruito posti per passare la giornata. Per averne uno devono pagare. Una donna che non ha un boliviano non ha un posto tutto il giorno. Tutto quello che hanno, è il prodotto della loro lotta.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

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Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

Se una costante della maggiore letteratura medioevale e moderna è stata la misoginia, non mancano testimonianze positive del desiderio femminile (benché etero), riportato in testi che circolavano in Europa tradotti in più lingue.
Uno di questi è l’innovativo “L’escole des filles ou La philosophie des dames : divisée en deux dialogues”, tradotto in inglese con il titolo “La scuola di Venere”. In esso si fa descrizione delle parti anatomiche delle donne, dei benefici di una vita sessuale variegata e della relazione tra libertà sessuale e politica.
L’articolo che segue è una traduzione dallo spagnolo, buona lettura!

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

L’Inghilterra del XVII secolo non era tanto puritana come si potrebbe pensare: manuali di questo tipo circolarono nelle librerie pubbliche e convissero con messali e sermonari, per gli amanti avventurosi.

Un secolo prima che il divin Marchese de Sade publicasse opere che ancora fanno arrossire le signorine, e quesi due secoli prima di Apollinaire e Pierre Lourys, fu pubblicato nel 1680 in Inghilterra la traduzione di un’opera francese chiamata  L’École des filles (“Scuola delle signorine”) con il titolo The School of Venus, or the Ladies Delight Reduced into Rules of Practice (“La scuola di Venere o del piacere delle dame ridotto in regole e pratiche”); si tratta di un’opera letteraria in forma di dialogo e con molte illustrazioni che sorprende per la propria modernità.

Dove si discutono i nomi popolari della vagina e del pene.

Vi sono due personaggi femminili che tengono una divertente chiacchierata sulle proprie abitudini sessuali: Katherine, “una vergine di mirabile bellezza” e sua cugina Frances, che è sposata ma è anche un po’ più liberale. Il suo dialogo ci mostra che la sessualità nel secolo XVII non era tanto puritana come si potrebbe credere in un primo momento, nonché la consapevolezza dell’autore (anonimo, certamente)  della relazione tra sesso e politica.

Dove Katy apprende che ci sono piaceri incomparabili e necessari, così lontani dalla sua immaginazione che sono come comparare acqua e vino.

Le cugine parlano dei benefici derivanti dall’avere più partner sessuali e di come non è necessario sposarsi con qualcuno per godere dei piaceri carnali; congetturano anche su cosa accadrebbe “se le donne governeranno il mondo e la Chiesa, come fanno gli uomini”, mescolando riferimenti all’orgasmo multiplo e all’esistenza della clitoride, alla quale si riferiscono come “la cima della Fica” che “sporge”.

Termini e concetti normali oggigiorno (come “amici con benefici”) vengono insinuati nella ricerca di uno “scopamico” con il quale si può “rompere il ghiaccio”, oltre a essere pieno di idee affinché le coppie del XVII secolo espandessero i propri orizzonti sessuali dunque, a dispetto dei pregiudizi contro il puritanesimo, non tutto era alla missionaria a quel tempo:

certe volte mio marito si mette sopra di me, e a volte io mi metto sopra di lui, a volte lo facciamo di fianco, a volte in ginocchio, a volte di lato, a volte da dietro… con una gamba sulle sue spalle, a volte lo facciamo sui nostri piedi …

A seguire una serie di illustrazioni provenienti dall’ultima sezione del manuale. Il libro si può consultare on line qui.

Traduzione e adattamento di Serbilla.

Articolo originale qui

Cinque motivi per essere un uomo femminista

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Propongo qui di seguito la traduzione di un post apparso in un sito americano, che condivido pienamente. La traduzione – me ne scuso subito – è molto “di pancia” e fatta da me, quindi abbastanza approssimativa; chi vuole commentare per correggerla è il benvenuto. Va anche detto che “femminismo” è una parola che ormai corrisponde a un campo storico e semantico vasto come la letteratura, e quindi nell’adattare un testo americano alla realtà italiana ci sarebbero da fare numerosi distinguo; prima di tutto, riguardo l’uso del termine “femminista” riferito a un uomo, dalle nostre parti. Mi pare comunque che il senso orginale di questi “cinque punti” si sia conservato nella mia versione, e sia ampiamente adattabile al nostro paese. Oltre a ciò che è doveroso, poi, immagino già le bocche storte delle numerose – e numerosi – proprietari del marchio “femminismo” in Italia, quell* che “il femminismo sono io”, punto e basta. Ecco, quest* ultim* li invito con la più cordiale gentilezza a ignorarmi e a continuare pure a coltivare il loro orticello in compagnia di chi è loro più caro.

http://www.bluethenation.com/2013/06/15/five-reasons-to-be-a-feminist-man/

Cinque motivi per essere un uomo femminista

Uno dei più forti pregiudizi riguardo il movimento femminista è l’idea che ogni femminista sia una donna. Anche nei giorni più bui dei rapporti tra razze negli Stati Uniti, nessuno aveva l’impressione che l’intero movimento abolizionista fosse composto da neri, o che tutti gli attivisti per i diritti civili fossero neri. Di fatto i segregazionisti – e i sostenitori della schiavitù prima di loro – erano notoriamente ben consapevoli dell’esistenza dei politici opportunisti e dei provocatori. Ma il femminismo è stato opportunamente ritratto dai suoi oppositori come un’unica landa di lesbiche arrabbiate e misogine che vogliono uccidere i bambini e tagliare il pisello a tutti. Il che è strano, dato che mia madre è una femminista, e non solo ha fatto sesso con un uomo almeno quattro volte – dato che ha avuto quattro figli senza ammazzare nessuno di loro – ma non ha mai, in nessun caso, provato a tagliare il mio o l’altrui pisello.

Lasciatemelo dire chiaramente: sono un maschio. Dico “fratello” spesso, solo circa il 60% delle volte in senso ironico. Ho spalle grosse e la barba. Seguo parecchi sport. Bevo pessima birra e pessimi alcolici, e non so che farmene del vino. Mangio carne rossa più volte di quanto sarebbe salutare farlo. Penso che le pistole possano essere divertenti. Probabilmente ho qualche allergia che ignoro del tutto perché non me ne accorgo. Non lavo i piatti finché non rimango senza piatti puliti. Mi piace giocare a biliardo, a carte, a dadi. Sono un maschio. A volte lo sono in maniera tanto infantile e deliziosa.

Quindi quando dico che sono un femminista, nessuno si deve permettere di considerarmi uno sfigato dicendo “Uff, ecco il solito sgorbio schifoso alternativo, probabilmente legge libri e cose del genere”. E neanche mi si può liquidare come gay, che è un’altra deduzione tipica che fanno i maschi sugli uomini femministi, perché non lo sono. E non si può dire che sia succube della mia donna, perché sono single. E non sono neanche stato “femminizzato” o altre cose del genere, vedi sopra. Diamine, porto un multiuso Leatherman sempre con me nel caso ci sia improvviso bisogno di una pinza o un coltello. Sono un uomo, sono un femminista, e penso che più uomini dovrebbero essere femministi. Ve ne darò cinque buoni motivi, e nessuno di loro sarà “perché alle donne piace troppo, ciccio” oppure “perché pensa alla dua mamma, uomo”. Non dovresti essere femminista per difendere le tue donne, o perché pensi che ti farà scopare di più. Dovresti essere un femminista perché si deve proprio essere un cazzo di femminista, punto. Così ecco qui cinque ragioni per cui dovresti esserlo, ben illustrate [vedi l’originale, ndr] con l’aiuto di Ryan Gosling (comprate il libro femminista di Ryan Gosling, è fantastico!).

1) Non c’è in assoluto un solo argomento morale contro il femminismo. Nessuno.

Questo è, ovviamente, il più importante. Femminismo è la semplice credenza che la gente dovrebbe avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di tutti gli altri, libera da barriere inutili o costruite apposta, senza avere costantemente paura per la propria incolumità, a prescindere dal genere. Se hai qualcosa da opporre a ciò, fottiti. Sei uno stronzo. Se non hai nulla in contrario, congratulazioni. Sei già d’accordo con femministi e femministe su uno dei loro più fondamentali principi ideologici. Ora comportati di conseguenza a quel principio e staremo tutti meglio.

2) Più uomini femministi ci sono, meno donne saranno violentate. Davvero.

Mi spiego. Il ritratto più comune nella nostra cultura di uno stupratore è uno schifoso maschio con baffetti sottili e cappotto, oppure un tizio con la felpa che segue una donna fino a casa, l’agguanta e se la fa tra i cespugli. Può avere o no un furgone chiuso, a seconda di quale episodio di “Law & Order: SVU” ha più influenzato la vostra idea di stupro. Ma non è certo un’idea molto corretta.  La maggior parte degli stupri sono commessi da uomini che sono noti alla vittima. Conoscenti, colleghi, anche familiari o amici. Se vi siete mai chiesti perché alcune donne sono un po’ prudenti prima di stabilire un rapporto amichevole con voi, quella è la causa principale. Quello, e il fatto che loro sanno che il più delle volte volete solo farci sesso.

Questo è il motivo per cui più uomini femministi significa meno donne stuprate. Un buon numero di quegli stupratori che erano conosciuti dalle loro vittime non hanno neanche capito che stavano commettendo un crimine. Sapevate che se una donna è molto più ubriaca o drogata di voi, e ci fate sesso, c’è una buona possibilità che diventiate proprio uno stupratore? Se tu sei come la maggior parte degli uomini di questo paese (e di tutti i paesi, in realtà), non lo sapevi. Sapevi che se una donna dice no la prima volta e quindi dice sì dopo che tu l’hai influenzata in qualche modo, sei appena diventato uno stupratore? Di nuovo, ci sono buone probabilità di no.

Uno degli scopi più importanti del femminismo è educare gli uomini e le donne su ciò che davvero costituisce stupro, aggressione sessuale, etc. Un uomo femminista – seriamente, uno che comprende il femminismo – è molto improbabile che stupri le sue conoscenti, perché la maggior parte delle persone non voglio realmente stuprare nessuno. Ma se non sai in cosa consiste uno stupro – ed è molto facile non saperlo nella nostra cultura – è molto difficile non commetterne.

Un uomo femminista non penserà che dato che la gonna di una donna è corta, allora lei è del tutto disponibile a fare sesso con ogni uomo nel raggio di due miglia. Un uomo femminista non penserà che solo perché ha offerto a una donna qualche drink, ciò significa che ha ottenuto di fare sesso con lei. Un uomo femminista non risponderà mai alla domanda di OKCupid, “Pensi che ci siano alcune circostanze nelle quali una persona è obbligata a fare sesso con te?”, con nient’altro che “No”. Un uomo femminista non proverà a castigare la grocca troppo sbronza in un party, e invece si assicurerà che torni a casa sana e salva – non perché sta cercando di essere “un bravo ragazzo” che poi userà questo episodio come arma per avere sesso “volontariamente”, ma perché sa cos’è uno stupro e vuole comportarsi da essere umano. In breve, un uomo femminista non stuprerà mai nessuno.

3) Quando le donne sono responsabili di qualcosa, fanno davvero un buon lavoro.

Attualmente ci sono più donne nel Congresso di quante ce ne siano mai state. Il 20% del Senato è composto da donne. E a conti fatti, la loro presenza, particolarmente in posizioni di peso nelle commissioni, è stata molto positiva. Sono state capaci di aprire un dialogo attraverso l’una e l’altra parte politica, sia assottigliando i confini ideologici, che separando i democratici più conservatori (Blue Dog) da quelli più progressisti. Un importante traguardo per qualunque progresso, fatto alla faccia di un polo di maggioranza repubblicana ostruzionista, è stato raggiunto grazie agli sforzi delle donne. Per altri esempi dell’efficacia delle donne nelle posizioni di potere, guardate al mondo degli affari, dove le donne in posizioni di comando sono molto apprezzate. Sebbene sia più difficile per una donna raggiungere quelle vette, se lo fa, allora quasi sempre ottiene brillanti riscontri.

4) Quando l’aborto è rigidamente regolato, le persone muoiono.

Ricordate la donna morta di parto in Irlanda perché non le è stato permesso di abortire? Non è insolito in situazioni nelle quali l’aborto è vietato per legge o limitato. Il parto può essere, sfortunatamente, qualcosa di cui morire. E se anche non lo fosse, ci sono altri pericoli insiti nel rendere fuorilegge o molto limitato l’aborto. Il più importante è questo: qualcuno vorrà avere aborti, che siano legali o no. Se sono illegali, avranno i loro aborti con operazioni insicure, fortunose, in luoghi non attrezzati. E certamente, questo può accadere non solo sotto “Roe contro Wade”, ma anche quanto l’aborto è regolato con tutti i crismi della legge, che un medico incapace negli aborti possa essere perseguito. Ecco perché ce ne sono così pochi in giro. Se l’aborto è illegale, non ci sarà scampo. Delle donne moriranno perché un branco di stupidi vecchi bianchi hanno deciso che loro non dovrebbero avere il controllo dei propri corpi.

5) L’oppressione non finisce finché l’oppressore non smette di opprimere.

Lo so, lo so, questa è dura da sentire. Non ti senti come un’oppressore. Ovviamente non ti ci senti. Se ti accadesse, smetteresti di fare cose che opprimono gli altri! Questo è come funziona l’oppressione nel mondo reale. Ci sono molte poche persone là fuori sedute in cerchio a rollarsi i baffi pensando al modo di essere cattivo e far soffrire il prossimo. Nessuno si sente un oppressore. Io non mi sento un oppressore. Ma quasi certamente lo sono, a causa di qualcosa che faccio senza che riesca a comprenderne esattamente tutte le conseguenze.

Ma quando dici a una donna a caso, per la strada, che oggi è bellissima, o che dovrebbe sorridere; quando cerchi di rimorchiare una ragazza al bar senza neanche preoccuparti di tentare di conoscerla prima; quando te ne esci che quello che è successo a Steubenville è stato orribile ma che quella ragazza non avrebbe dovuto ubriacarsi così tanto; quando parli di donne come oggetti sessuali; quando ti dispiace essere colpito dalla “regola dell’amico”; quando tu fai queste e altre migliaia di piccole cose, tu opprimi le donne. Tu contribuisci a una cultura dell’oppressione, a una cultura dello stupro e della violenza sessuale, a una cultura della reificazione delle persone, a una cutura del dominio e della superiorità maschile.

E’ una cultura nella quale le donne possono ancora perdere il lavoro perché rimangono incinte. E’ una cultura protetta da una inquietante moltitudine militarizzata di predatori sessuali e stupratori. E’ una cultura nella quale le donne non hanno ancora gli stessi guadagni degli uomini per lavori analoghi. E’ una cultura che dice alle donne che non dovrebbero “volere tutto” (che significa avere una famiglia e una carriera e una vita sociale) mentre dice agli uomini di essere ambiziosi, andare là fuori e prendere tutto ciò che vogliono. Infine, è una cultura altrettanto dolorosa e frustrante per gli uomini che per le donne. E non è una cultura che tu dovresti aiutare a perpetuare.

Signori, siete già arruolati nella guerra contro le donne. E’ ora di cambiare fronte.