Le sconfortanti dichiarazioni delle Malmaritate

prova2Qualche settimana fa mi sono trovata a parlare con l’ennesima donna che si è dichiarata “non femminista”, perché lei è “per tutte le persone”.
Sono sicura che a tant@ è capitato di sentirsi dire dalla propria interlocutrice, spesso una laureata, a volte addirittura una persona “di sinistra”, che lei non è femminista perché …il femminismo è un estremismo/è roba vecchia/non odio gli uomini.
Ho cercato di spiegarle che il femminismo è un movimento a favore di quella parte di persone che subisce una discriminazione (violenza fisica, psicologica, economica) in base al genere.  Che il femminismo, oggi, è per molte persone transfemminismo intersezionale. Non era convinta. Ho cercato di dire che prima del femminismo noi due non avremmo potuto fare tante delle cose che facciamo e diamo per scontate e, spesso, ci vengono ancora negate. Mi ha detto che il femminismo è una cosa del passato e non ha più senso. Ho pensato ai femminicidi, agli abusi sessuali e psicologici, alla femminilizzazione del lavoro, alla disparità economica, allo slutshaming, alla legge 194 distrutta, al mammismo senza diritti dell’Italia, all’impossibilità di dirsi serenamente felici di non essere madri, alla difficoltà che le donne continuano a incontrare in ambiti “tradizionalmente” occupati dagli uomini – rubati da molti di essi (mi ha anche detto che lei è per la meritocrazia). “Capisco – le ho detto – Forse tu non hai mai subito nessun tipo di violenza, forse non sei mai stata discriminata”. Si è colorata e ha risposto: “Certo che sono stata discriminata!”. E allora?

Soprattutto dopo il bailamme creato da Women against feminism, il tentativo di capire dov’è che si è sbagliato nella trasmissione dell’idea di lotta femminista ha condotto a numerosissime riflessioni sui movimenti femministi. In Italia, c’è chi dice che è colpa del femminismo della differenza, c’è chi dice che è colpa di SNOQ, c’è chi dice che è colpa del patriarcato, c’è chi accusa la mancata trasmissione generazionale o la scarsa attenzione istituzionale, anche l’eccessiva attenzione istituzionale che tutto ingloba o strumentalizza. La scuola, i media soprattutto. C’è stato anche il tentativo di accogliere ed ascoltare alcune delle critiche mosse. Personalmente non so di chi sia la responsabilità ultima, probabilmente è frammentata. Di certo c’è stato un fraintendimento colossale, derivante spesso dall’ignoranza o dall’adesione a una visione del femminismo figlia delle politiche di delegittimazione delle lotte sociali, specialmente quelle delle donne. Per alcun@ si tratta del rifiuto globale, più o meno consapevole, del più originale e fruttuoso schema di interpretazione della realtà storica passata e contemporanea, che ha messo in discussione una cultura basata su più forme di discriminazione ed esclusione. E’ complesso, indubbiamente, ma il femminismo ha il pregio di essere una forma di lotta che può generarsi anche dove una libro di storia del femminismo non è mai stato aperto. Anche in quel caso, però, è un atto politico, di messa in discussione radicale.
Molte di quelle persone che si dichiarano “non femministe”, poi si dichiarano contrarie a ogni forma di discriminazione.
Ma può esistere un femminismo non pensato e vissuto come tale? Può esistere antiviolenza senza biasimare la violenza? Può esistere antirazzismo senza il rifiuto del razzismo? Per alcune persone sembrerebbe di sì. Alcune persone riescono addirittura a dirsi dalla parte delle donne, a parlare di violenza contro le donne, dichiarandosi assolutamente “non femministe”. Onestamente non credo che possa esistere una lotta contro la discriminazione che non tenga conto della storia di quella lotta, dei suoi strumenti concettuali, a meno di non essere ingrat@ e di usare le questioni di genere per farsi pubblicità.
Per alcune persone si tratta di scarsa consapevolezza, la quale cosa atteaversa la nostra società, abita soggetti di varia estrazione sociale e formazione culturale e professionale. Questa scarsa consapevolezza è molto comoda per chi non ha nessuna intenzione di accogliere le richieste dei femminismi, richieste di diritti fondamentali, richieste economiche e di legittima libertà personale. E’ per questo motivo che ogni personaggio pubblico portatrice o portatore di questa scarsa consapevolezza danneggia tutta la società e, nello specifico, le persone che della discriminazione di genere sono vittime.
Per altre persone si tratta, invece, di depoliticizzare le questioni di genere, per non urtare la sensibilità di nessuno e poter vendere al meglio il proprio prodotto, con un colpo al cerchio e uno alla botte. Anche qui, quindi, non dobbiamo confondere le ipocrite con le ignoranti.

Questo sembra essere proprio il caso, decisamente grave, delle dichiarazioni di un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non si tratta di femminismo.
Il progetto si chiama “Le Malmaritate” e, nato in seno all’etichetta discografica di Carmen Consoli, ne fanno parte Gabriella Grasso (voce e chitarra), Valentina Ferraiuolo (voce e tamburi), Emilia Belfiore (violino) e Concetta Sapienza (clarinetto). Un progetto che si pone, addirittura, come luogo di ascolto per donne vittime di violenza. Dichiara Valentina Ferraiuolo, indicata come curatrice di progetti sociali:”Non c’è femminismo in questo (…) ma una grande autostima, reale; dei valori che abbiamo il dovere morale di divulgare”.
Vorrei chiedere alla cantante e tamburellista cosa significa “autostima reale”. Esiste un’autostima irreale? come si configurano e differenziano? Vorrei anche sapere quali sono questi valori, dei quali  il femminismo (quale femminismo?) non è portatore, ma che lei sente di dover divulgare, in contrasto con esso.
Ancora, in questo articolo, Gabriella Grasso dichiara che il loro è “Un viaggio nell’universo femminile (…) non uno spettacolo femminista”.
Quando la stessa Grasso fa riferimento ai matrimoni di interesse, ha presente che può mettere in discussione il contratto di matrimonio e il modello di famiglia sul quale si fonda, esclusivamente grazie al femminismo?
Rilasciato il 25 Novembre, la giornata mondiale in cui si celebrano i volti tumefatti e le false soluzioni a problemi purtroppo reali, appare come un’azione di marketing in rosa, in linea con le politiche “femminili” (appunto, non femministe, non radicali, non volte alla soluzione dei problemi) degli ultimi anni.
Il colpo di grazia viene dalla copertina. Una donna velata messa dietro un recinto, una di quelle in nome delle quali si imprigiona, tortura e bombarda secondo politiche di sovradeterminazione proprie della destra e sinistra islamofoba e neocolonialista, politiche che mai e poi mai metteranno in discussione la radice della violenza sulle donne, perché è proprio sulla discriminazione che fondano il proprio potere.
Quando vi dichiarate “non femministe”, delegittimando il movimento politico che ha portato in luce la lotta alla violenza contro le donne, rendetevi conto che danneggiate la società intera, prima di tutto le donne alle quali vi rivolgete.

Grazie a Jinny Dalloway per aver condiviso e discusso l’articolo che tratta del disco sulla propria bacheca Facebook.

Attenzione a non confondere gli ipocriti con gli ignoranti

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Immancabile, come sempre quando un efferato evento di cronaca nera vede coinvolta in qualche modo la rete o i social, spunta il genio della comunicazione virtuale, con il suo curriculum sbalorditivo, a commentare sulla rivista più ganza del momento che bisogna stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio. Vi prego di leggere:

http://www.wired.it/internet/social-network/2014/12/02/caso-pagnani-attenzione-non-confondere-carnefice-gli-imbecilli/

Ahimé al nostro erudito commentatore manca evidentemente la minima competenza in questioni di genere, e si vede. Perché non ci vuole molto a capire che la prima cosa da fare sarebbe, proprio in virtù della competenza in comunicazione, evitare la polarizzazione degli argomenti, puntando al solito scontro bianco/nero, colpevole/innocente, tu/io, di qua/di là, carnefice/imbecille, per cui nel caso di Pagnani che scrive su Facebook “Sei morta, troia”, alludendo alla moglie che ha da poco ammazzato, la questione si ridurrebbe a:

L’hai ammazzata tu? No,

quindi puoi mettere il tuo “mipiace” a quello status, condividerlo allegramente con una bella battuta, o anche esprimere lì sotto il tuo consenso sessista: sarai solo un imbecille, non sarai colpevole di niente.

Come se, tra l’estrema innocenza dell’imbecille e la certa colpevolezza del femminicida in questione, non ci fossero sfumature, possibilità, altre cose da valutare. Dice infatti il nostro pluridecorato dall’enorme curriculum, a proposito della sopracitata frase:

Si può davvero pensare che qualcuno dei trecento, leggendola, magari distrattamente sul proprio smartphone, abbia capito che il carnefice esultava per la mattanza della moglie e che chiedeva approvazione e condivisione del suo orrendo trionfo?
Si può davvero credere che, cliccando su “mi piace” quei trecento, abbiano inteso urlare al loro “amico” qualcosa tipo: “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”?
Personalmente, lo escluderei.

E non me ne stupisco: questo è un commento tipico di chi non ha niente a che spartire con questioni di genere, che invece forse in un femminicidio un pochino c’entrano. Perché chi se ne occupa anche marginalmente, ha in mente questo facile disegnino esplicativo, riguardo i tipi di violenza sulle donne, col quale inquadrare la relazione tra quei commenti e l’assassinio della donna (qui l’originale in spagnolo):

triangolon - Copia

Oh, certo, non è che questo basta a condannare giuridicamente nessuno. Però indica chiaramente che chi commenta in quel modo, o usa quella frase per un proprio ilare commento, fa parte di una stessa cultura, di uno stesso modo di vedere i rapporti tra generi, la violenza sulle donne, e tante altre cosette, in comune con chi l’ha scritta. Certamente quei gesti e quelle parole su un social network non sono né “prove” né “indizi”, a farli e a scriverli non si ha nessuna colpa sanzionabile dalla legge – ma responsabilità di fronte a tutti sì, eccome. E non serve certo a nulla sapere se davvero lei era morta ammazzata o no, quando si è commentato, condiviso o cliccato “mi piace”: in quella piccola frase ci sono abbastanza sessismo e violenza per farmi credere – a me dal curriculum striminzito – che nessuno dovrebbe comunque condividerla, apprezzarla o sottoscriverla. E che chi lo fa non andrebbe premiato certo con l’innocua etichetta di imbecille, deresponsabilizzante come poche.

Perché tutti quelli probabilmente, attraverso un social network, non hanno detto a Pagnani “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”, ma di certo gli hanno detto “ehi Pagnani, anche io sono un po’ come te”. Che indubbiamente non indica alcun reato – ma fa schifo lo stesso, pure sotto la simpatica e innocua etichetta di imbecille.

Ancora complimenti a tutti – anche agli specificatori di colpe pluridecorati e dal curriculum enorme ma, a mio parere, piuttosto lacunoso.

Dice che io normalizzo la pedofilia

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Eh, sì, pare di sì. Lo ha praticamente scritto nel suo blog un tizio che non conosco con il quale ho molte cose in comune, ma decisamente almeno una no; decidete voi quale.

http://testadelserpente.wordpress.com/2014/11/19/gender-nelle-scuole-lo-stato-contro-le-famiglie/

Questo tipo vive nel mio stesso quartiere, ha studiato le stesse cose che ho studiato io, ha più o meno gli stessi titoli di studio che ho io. Io non ho scritto nessun libro su nessuna madonna, però, e ho una decina d’anni di più. E lui sostiene una cosetta tipo questa:

Ciò che sembra un avanzare nel campo dei diritti e delle libertà personali, è invece una campagna tesa ad eliminare ogni differenza tra maschio e femmina (considerati vecchi stereotipi imposti dalla cultura cattolica) e che corre a grandi passi verso la ipersessualizzazione dell’infanzia e – a lungo andare – verso una normalizzazione della pedofilia.

Fa parte di quella intelligencija – hanno studiato, come potete vedere – che produce campagne “d’informazione” come questa, Capire il gender in meno di tre minuti.  Persone che si riuniscono, organizzano, si mobilitano in difesa di quelli che sono i loro “valori”. Qui un prossimo imperdibile appuntamento: notate bene, senza il “contraddittorio” che tante volte viene richiesto da chi s’è inventato una inesistente “teoria del gender”.

Seguite i link in quella pagina. “Valori” che consistono in una lettura distorta e misitificatoria di testi che non vogliono capire – e fin qui niente di male, nessuno li obbliga – che parlano di cose che non gl’interessano – e anche qui nessuno ha nulla da obiettare – ma che li spinge a una sistematica azione di falsificazione di parole altrui; loro che tanto rispettano il verbo solo quando viene da chi pare a loro, tanto da inventarsi qualcosa che non esiste, la “teoria del gender”. Provate a scrivere queste tre parole su Google. Usciranno al 90% testi allarmisti, che gridano ai loro diritti lesi, alla fine dell’umanità, allo stupro di massa dei bambini.

Ai loro diritti lesi. I loro diritti di sedicenti “normali”. Gli altri? All’inferno.

E con lo stesso banale e commercializzato e mainstream strumento quale Google, bastano tre clic per sapere la verità. Tre clic, saper leggere, e avere voglia di conoscere le persone. Perché poi, se chiedi un confronto con questa gente tanto attrezzata intellettualmente, scappano (qui il resoconto di uno dei tanti casi). Chiedetevi perché.

Chiedetevi il perché di un nome che non è mai esistito prima di questi fondamentalisti cattolici che se lo sono inventato. Chiedetevi perché mettono in campo organizzazioni, soldi, testi, campagne informative, pur di sostenere l’insostenibile. Chiedetevi perché tanto accanimento verso un – inventato – allarme sociale, e quasi niente di questo fervore intellettuale e politico quando si tratta di ben più gravi e inquietanti fenomeni (e linko la cosa più facile e ovvia eh, manco tanto approfondita) dei quali, se non direttamente responsabili, molti cattolici sono spesso silenziosi complici d’ipocrisia – fenomeni che continuano, aumentano, si diffondono, crescono, intanto che per i loro “valori” montano su la battaglia civile contro una fantomatica “teoria del gender”.

Cosa sta dicendo questo tizio a me? Mi sta dicendo che io sono un pedofilo. Io che educo i miei figli al rispetto di qualunque diversità – anzi, a smetterla di pensare in termini di normalità e diversità – sono uno che li vuole stuprare, perché andrei «a lungo andare – verso una normalizzazione della pedofilia». Non ho nulla da contestare a chi si costruisce un dio che tanto alla fine ti perdona e al quale fai comunque pena, tanto lui tace; mi fa però un po’ schifo che tu parli d’amore mentre accusi a vanvera di cose orribili chi non la pensa come te – e scappi, invece di parlarci.

Davvero complimenti e grazie per le belle parole.

P.S. Aggiungo il giorno dopo questo link nel quale Antonio Esquivias, cattolico spagnolo, racconta qualcosa a proposito di alcuni “valori”.

A me dà fastidio l’ignoranza (Deconstructing Moretti)

estetistaMoretti2La recente intervista di Alessandra Moretti, e la stragrande maggioranza dei commenti a quella intervista, dimostra come in Italia siamo ben lontani dall’aver capito anche solo cos’è uno stereotipo, e uno stereotipo sessista in particolare. Un’europarlamentare candidata a presiedere una regione straparla di stile, bellezza, piacere come se fossero qualcosa di usabile per smarcarsi da altre posizioni politiche scomode – femminismi, donne dello stesso partito – e come se non fossero argomenti già molto usati da altri movimenti politici opposti al suo per identificarsi, fare fronte comune, creare consenso.

Qui il filmato, per chi non l’avesse ancora visto.

Già spiegare la scelta di una candidatura alle regionali – dopo l’elezione europea – con una similitudine calcistica evoca brutti ricordi retorici. Poi si definisce uno «stile femminile nel fare politica» come «la cura di me stessa, la voglia di essere sempre a posto», «questo è un quid in più». Lo stile maschile quale sarebbe? “L’òmo ha da puzzà”? L’uomo non ce l’ha questo quid? E perché no? «La bellezza fa notizia» – ma non stavamo parlando di politica? Non dovrebbero fare notizia altre cose? Ne dobbiamo dedurre che a Moretti stia bene che «la bellezza fa notizia»? E quale bellezza? «La bellezza non è affatto incompatibile con l’intelligenza» e non si capisce chi l’ha messo in dubbio, o rincorrere i luoghi comuni è uno dei punti del suo programma politico? «Rosy Bindi ha avuto il suo stile, diciamo che il nostro è diverso», sarebbe rispettoso chiederlo a Bindi. Poi, «il nostro» di chi? A nome di chi parla Moretti? Non lo dice. «Uno stile che mortificava la bellezza», abbiamo capito Moretti, ma quale bellezza? Secondo quali standard, semmai ce ne sono? Perché lo dà per scontato? «La capacità di mostrare un volto piacente» – mi sono perso. Stiamo parlando di politica o di comunicazione? E di quale politica e quale comunicazione? E «piacente» a chi? «Ho deciso per esempio di andare dall’estetista ogni settimana», e ce ne rallegriamo per lei Moretti, ma ciò cosa dovrebbe dimostrare? Che il suo stile è diverso, che lei non è Rosy Bindi? Non è necessario l’estetista, glielo assicuro, lo dice esplicitamente la carriera politica di entrambe. «Mi prendo cura di me», e non è una cosa banalmente fatta da chiunque? Rosy Bindi non si prende cura di sé, sta dicendo questo? O forse sta dicendo che esiste un certo modo di prendersi cura di sé che sarebbe migliore di un altro? E qual è? «Vado a correre», come altri milioni. E’ una caratteristica politica importante? C’entra con la comunicazione? Ci sta dicendo che il suo corpo non è quello di Rosy Bindi – e anche qui non serviva molto a notarlo, è tipico degli esseri umani essere diversi l’uno dall’altro. Quindi? «Devo venire con i peli, i capelli bianchi?» Perché, qualcuno glielo ha chiesto, c’è un regolamento? Ma non si accorge, Moretti, che è lei con questi discorsi a ratificare stereotipi ridicoli e penosi, pensando di opporvisi? «Perché io che ho un ruolo pubblico, che rappresento tante persone, tante donne, voglio rappresentarle al meglio». Bene – e questo «al meglio», per una candidata presidente a una regione, consisterebbe nell’andare dall’estetista ogni settimana? Nella tinta, nelle meches? Sta scherzando, vero Moretti?

«Ma che c’hai? Ma che t’ho fatto? Ma perché c’ho gli occhi blu? Perché sono anche bella, oltre che brava, ti dà così fastidio?» No, Moretti, a me dà fastidio l’ignoranza. La crassa ignoranza di chi fa finta di fare politica, comunicazione e di parlare di bellezza a un pubblico supposto nato ieri, evidentemente benedicendo quella mancanza di memoria che è un suo male devastante. Quello che mi da fastidio è vedere una candidata a presidente di regione che non ricorda – e non ha imparato nulla – dall’ultimo ventennio di politica in fatto di comunicazione e donne in politica. Quello che mi dà fastidio è vedere un’europarlamentare che non sa cos’è uno stereotipo sessista, e come lo si combatte. Quello che mi dà fastidio è vedere una persona alla quale si dà un microfono aperto sul paese che parla a vanvera di bellezza, non sapendo che la bellezza non è l’adesione a uno standard convenzionale di misure corporee e abitudini d’abbigliamento. Mi dà fastidio che tutto quello che so e che faccio da attivista antisessista e da dottore di ricerca in Estetica è stato travisato e denigrato da una professionista della politica che non ha il coraggio d’informarsi prima di parlare e non ha imparato nulla sulla comunicazione politica dopo quello che è successo in Italia almeno dal ’94 a oggi.

«La gente mica è scema, capisce», quale gente? Quella raccontata in percentuali clamorose di vittoria elettorale che si traducono in numeri sempre più piccoli di votanti? Il resto dell’intervista continua così, non vale la pena seguirla ancora.

Emanuela Marchiafava ha ragione da vendere, quando parla di donne intimidite da una pratica discriminatoria tipica di una politica maschilista: «se non sei attraente secondo i canoni maschili, ti sfottono dandoti della racchia, se sei bella come una bambola ti trattano come se lo fossi, se sei intelligente ti accusano di arroganza […] Sarebbe quindi assai più interessante concentrarsi ad analizzare i commenti alle parole dell’onorevole Moretti». La cosiddetta legge di Lewis è nota: “I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”.

Purtroppo quello che ha detto Moretti, però, non va affatto nella direzione di non farsi intimidire, ma in quella di aderire al maschilismo. Perché se ti proponi in opposizione all’immagine di Bindi dopo quello che è successo a Bindi e alla sua immagine, se non ti accorgi che parlare di “estetista settimanale” in questo momento suona come classista per molte donne, se non tieni conto nelle tue parole di un numero enorme di donne che fa e ha fatto un’ottima politica contro gli stereotipi, se non ti ricordi che in questo paese i femminismi hanno detto, scritto e lavorato decenni su questi temi (e che i luoghi comuni sulle femministe sono arcinoti), allora quello che stai proponendo col tuo sconclusionato modo di argomentare sono esattamente «i canoni maschili» e maschilisti. E Moretti lo dimostra più volte, di non tener conto di tutto ciò: essere contenta che «Boschi è una delle ministre più fotografate» significa non aver capito nulla di comunicazione, politica e questioni di genere in questo paese. Eppure anche Bindi, allora, la sua ottima risposta l’aveva data: «sono una donna che non è a sua disposizione». Sarebbe bastato capirne bene il senso, di questa risposta.

Perché è la stessa ignoranza di Moretti a spiegare per esempio come sono possibili gli insulti in rete a Samantha Cristoforetti, il primo esempio vicino che viene in mente, e tanti altri tipici atteggiamenti maschilisti – la sua si chiama “emancipazione negativa”. Tanto negativa che sembra quasi sembra che io abbia scritto per difendere Bindi, e non me stesso, dalla sua ignoranza.

Si dice che dall’estetista, mentre lavora, tempo per leggere ce ne sia.

Deconstructing le Birkenstock – MicroMega #5 (Giulia Sissa)

birkenstoksApprodiamo al quinto articolo su Micromega, dopo quello di Banditer “L’istinto materno non esiste”che è certamente discutibile, ma non per impreparazione dell’autrice.  

Si legge nell’introduzione di “Femminismo e godimento” di Giulia Sissa che dopo un primo (quello del “suffragio universale”) e un secondo femminismo (quello degli anni ‘70), ora ce n’è un terzo che

non ha paura del corpo e del piacere, un femminismo che si mostra, che è “osceno”, che rivendica non solo diritti sociali e politici, ma anche il diritto al godimento [SARA: Scusa Lorenzo forse mi sono sognata un famoso slogan che ho imparato fin da ragazzina, “il corpo è mio e lo gestisco io”? Mi pareva che ci fosse una cosa chiamata autocoscienza attraverso cui le donne in massa presero/ripresero il contatto con il loro corpo scoprendone proprio le potenzialità di “godimento”… aspetta mi sovviene anche uno strano opuscolo intitolato: “La donna clitoridea e la donna vaginale” datato 1971. FERMAMI. LORENZO: Sissa era assente. Non si spiega altrimenti questo riassuntino alla Bignami di qualche decennio di femminismi. Vabbè che devi fare un occhiello, come si chiama tecnicamente, ma si poteva anche evitare di tagliare con l’accetta una storia così complessa – e fare figuracce. Mi ricorda gli appunti di filosofia tipo “Talete: quello dell’acqua”.]

Sissa va nello specifico di cosa intende con questa contrapposizione storicista tra i femminismi, iniziando il suo articolo con una frase quantomeno enigmatica:

Il corpo delle donne non è più la stessa cosa [sarebbe carino sapere rispetto a quale cosa, non è più la stessa cosa. Detta così, la frase vale più o meno come “una volta qui era tutta campagna”].

Poi prosegue dicendo che le donne dai 40 in giù che sono nate in un mondo dove le rivendicazioni delle femministe sono diventate normalità (il che è tutto da vedere), elencando parecchi stereotipi così triti che manco i maschilisti li usano più, per poi concludere con un

queste donne non possono poi accontentarsi di acqua, sapone e Birkenstock [forse Alessandra Moretti ha letto Giulia Sissa? Paiono d’accordo sulla linea vincente delle donne che nella sfera pubblica applicano uno stile estetico curato. L’intervista è un lancio elettorale. Si candida in Veneto e parla della cura della sua bellezza, dei suoi gusti musicali e di quanto è brava in cucina – come se le politiche di genere del PD non fossero già tra l’inesistente e l’imbarazzante in quanto sempre più conformi ai dettami del cardinale Angelo Bagnasco].

Subito Dopo Sissa cita per la prima volta le Femen per contrapporle alle femministe baffone e pelose degli anni ‘70, alla fine della perorazione soggiunge:

Non ci sono, insomma, soltanto i diritti. Ci sono anche abitudini e corpi [ma che cosa c’era secondo Sissa alla radice delle battaglie su divorzio, aborto, libertà sessuale, contraccezione, asili nido eccetera? Forse non il bisogno di essere considerate come persone fisicamente esistenti con bisogni e desideri portatori di trasformazioni anche drastiche della società e della cultura? E’ a partire dai corpi, cioè da quello che non si può negare, che le donne hanno affermato il diritto all’esistenza, all’autonomia e all’autodeterminazione. A nostro parere è molto riduttivo vedere il movimento femminista in un modo così storicista senza prendere coscienza del fatto che essendo così plurale afferma nello stesso momento tante istanze diverse e contraddittorie].

Per farvi capire come argomenta Sissa, estrapoliamo una frase delle più significative:

L’esperienza del nodo formato da corpo, abitudine e legge si materializza nel pensare/sentire delle emozioni.
[EH? L’esperienza si materializza nel pensare/sentire? Ma qualcuno rilegge o anche a MicroMega i tagli al personale hanno colpito i correttori di bozze? Cosa è mai possibile materializzare in un pensiero/sensazione? Perché prendere le parole e fargli fare la qualunque, a piacimento? E mi spiegate come si fa un nodo con il corpo (materiale), l’abitudine (comportamento), la legge (principio astratto)? Ma veramente chi scrive così si aspetta di essere comprensibile? O punta all’ammirazione estatica, come di fronte a certa arte contemporanea?]

***

Tralasciando una lunga asserzione su come avverrebbero, secondo Sissa, i cambiamenti culturali, torniamo alla contraddizione tra femminismi. Se ripetiamo concetti alla Simone de Beauvoir oggi rischiamo di parlare solo a noi stesse, dice Sissa,

Ci trattano come oggetti sessuali. Aiuto! Ci riducono a mero corpo. Barbaro fato! Chirurgia estetica: lungi da me s’en vada! Pornografia: occultatemi quel seno… Prostituzione: sposa son disprezzata! [Mi pare che Sissa punti a scollare con forza il concetto di emancipazione e de-moralizzazione della società da quello di consapevolezza (educazione alla sessualità, matrimonio come scelta e non come dogma culturale, accesso ad un’autonomia economica) e coscienza di sè, sarà così che si diventa complici del neoliberalismo? Non è una novità, una persona col CV di Sissa dovrebbe saperlo.]

Il corpo sexy, volutamente e studiatamente erotizzato, insomma, non è più il segno o l’effetto collaterale di frivolezza e incompetenza. Anzi! [No, ma neanche di consapevolezza politica e sociale. Mai sentito parlare, Sissa, per esempio, di “emancipazione negativa”? Se ne parla da molto eh, in tanti libretti che si occupano di questioni di genere. Può cercare nelle biblioteche di UCLA o del CNRS di Parigi, dove lavora, siamo sicuri che qualcosina c’è.]

I diritti si conquistano e si possono sempre perdere [ah, ecco], come vediamo nelle battaglie americane contro l’aborto [ma perchè in quelle italiane no? Sono passati 40 anni e stiamo ancora a difendere la 194 ogni tre per due, ma dove vive Sissa? Ah già, a Los Angeles, ecco.] Stiamo all’erta, quindi su questo terreno [soprattutto tu da laggiù]. La perfettibilità delle relazioni sociali tra i sessi [“perfettibilità”, dice, ci viene solo da citare il rapporto Eures sulle vittime di femminicidio in Italia, nel 2013 sono state 179. Ma continuiamo a parlare di Birkenstock, dai], però, non deve farci dimenticare la plasticità dell’erotismo [SARA: giuro non me la dimentico… mo’ me lo segno, come diceva Troisi. LORENZO: a me frasi del genere farebbero domandare a Sissa: e com’è fatto un erotismo non plastico? Così, tanto per capire con quale ingegno si mettono insieme sostantivi e aggettivi. Sempre di moda la vànvera, eh?]

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Altro affondo sul femminismo degli anni ‘70, quando le donne hanno dovuto operare un rifiuto radicale dell’identità femminea [cos’è esattamente? E perché mai definire i termini problematici, meglio fare finta che tutti sappiamo di che si tratta, è più educato].
Se mi si costringe ad essere tutta corpo, allora io vi dico che ho un corpo. Il corpo è mio e lo gestisco io. [SARA: quindi questo corpo lo hanno negato affermando che ne avevano l’autogoverno? Mi sono persa un’assemblea fondamentale? LORENZO: Scusa ma sono ancora impegnato a capire come si potrebbe costringere qualcuno a non essere tutto corpo]. Oggi, poichè il corpo erotico non si lega più, legalmente e culturalmente all’esclusione [veramente in Italia si sta tornando indietro di qualche centinaio di anni anche su questo fronte…], l’autocensura non ha più senso [SARA: ma davvero non possono esistere donne differenti che si sentono acqua e sapone, ma magari non tutti i giorni – questa è autocensura? LORENZO: sì, ma dopo una riflessione sul termine autocensura. Non le va giù che una donna potrebbe proprio volerle le Birkenstock, eh? Forse c’è dietro una questione di spionaggio industriale che ci sfugge. Che Sissa sia pagata da Manolo Blahnik?].
E poco più in là: Se negli anni Settanta ci dissociavamo dal corpo per gestirlo, queste ragazze stanno nella loro pelle/pagina, in perfetta simbiosi: “il mio corpo è la mia libertà”. [Sissa, ma dove le ha sentite queste storie? Ci si dissocia dal corpo per gestirlo – che è, una specie di diagnosi? E adesso ci sarebbe la simbiosi grazie al tonico torso nudo delle Femen? Ma me li ricordo solo io, i torsi nudi in quegli anni Settanta che lei dice pieni di gente che si dissociava dal corpo? Boh. Giulia Sissa è del ‘54, nei Settanta lei c’era. E dove stava?]

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Le pagine 63 e 64 sono dedicate a parlare bene delle Femen. Nell’estate 2014, eh, quando certe cosette si sono già sapute.

Ci sarebbe molto da dire su questo nuovo femminismo, tagliato su misura per donne giovani e belle [ma tutte le altre? non possono essere femministe?] e che, anche per questo, suscita imbarazzo tra le femministe della mia generazione, o leggermente più giovani, che ancora denunciano la reificazione del corpo [eh, ‘sta cosa vecchia e non più attuale, ormai del tutto superata, vero? Sissa, lei vive a Los Angeles, ma di quale pianeta?] femminile e la mercificazione della desiderabilità. Queste ragazze giocano sul registro del pride. E’ tutta un’altra politica; tutta un’altra estetica [no, è sempre la solita, quella del marketing. E glielo hanno detto già in tante e tanti. Basterebbe informarsi].

Mentre Michela Marzano ripete che la televisione di Berlusconi offende le donne italiane, le Femen [ma perchè, ci chiediamo, insieme alle Femen e alla loro im-mediata prominenza corporea in senso performativo, Sissa non nomina mai le pussy Riot? Indovina un po’] si sono scelte un’altra scena – transculturale e transcontinentale e sul web, per mimare un’ipersessualizzazione e iperfemminizzazione da soft-porn [E con questo? Cos’è la gara a chi ce l’ha più lungo diventa la gara a chi “trasgredisce” di più? Certo, se il confronto è con Marzano, Sissa “ti piace vincere facile, eh?”. Sissa, non è che s’è fatta un po’ troppo impressionare lei da Femen tanto da non accorgersi di nient’altro?]

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La democrazia ha preso una svolta estetica [senza etica, ed è successo più o meno dagli anni ‘50 negli Stati Uniti, da quando sondaggi e tecniche di marketing sono state usate nelle campagne elettorali dopo i clamorosi successi nella gestione della pubblicità commerciale. So’ cose che alla UCLA le sanno, eh, se chiede qualche collega informato lo trova lì]. Questo femminismo ne fa parte [ma siamo sicuri che questo sia una cosa buona per le donne?]. Mette fuori gioco la cosiddetta oggettificazione del corpo [abbiamo vinto su tutta la linea, evvai!]. Non predica l’deale di una soggettività disincarnata da dipartimento di Filosofia vintage, bensì mima in maniera iperbolica e metonimica (la corona di fiori, la calza bianca o nera, il velo virginale) proprio il nostro essere oggetti corporei. Oggetto inteso come sinonimo non di “cosa”, bensì di “causa” [Sissa, non sappiamo più come dirglielo: E’ ROBA VECCHIA, la performance politica nel segno della mimesis metaforica non se la sono inventata le Femen – che adesso secondo lei sarebbero pure filosofe coi fiocchi]. “Io sono la causa del tuo desiderio!”, vediamo un po’ cosa sai fare! “Viol a volontè!”: stupro a piacere! Le Femen osano sfide inaudite [A Sissa, e mo’ te lo diciamo chiaro: se ti sei persa almeno trent’anni di femminismi, e certo che le Femen sono inaudite!]

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E la prova che Sissa non è – a essere generosi – aggiornata, la fornisce proprio lei: tutta pagina 65 è dedicata a fornire la derivazione filosofica dell’auto-oggettivazione da Kant. Embè sì, Sissa, rispetto a Kant indubbiamente le Femen stanno un pochino più avanti – ammetterà che ci vuole poco. Il problema è dove stanno le Femen nella storia dei femminismi, e quello non ci vuole molto a capirlo – il link è in alto – per chi sa anche solo un po’ di quella storia.

Ben venga il femminismo sensuale!

[C’è da un pezzo Sissa, se non se n’è accorta prima il problema è suo, non delle Birkenstock.]

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Il tabù della povertà, l’angoscia e il silenzio che non sopporto più

The-Adventures-of-Unemployed-Man

Ho un problema. Anzi, ne ho molti, che alla fine ritornano tutti alla stessa origine: soldi, o meglio mancanza di. Sono nella stessa situazione (o forse in una peggiore, per certi versi, a causa di alcune mie particolari condizioni, alcune esistenziali ed altre patologiche) di moltissime altre persone che vivono in Italia, in Europa e in ogni altro paese del pianeta Terra: sono affetto da un caso letale di pezze ar culo.

Mio padre faceva l’operaio in un magazzino adibito alla vendita di materiale edile, luogo che a Roma prende il nome di smorzo. Suo principale era un soggetto dotato dei più deleteri tratti dell’umana persona:  piccolo borghese tuttavia privo di qualsivoglia capacità imprenditoriale,  soleva tenere in soggiorno un busto del duce, del quale si prendeva cura con la stessa alacrità che lo stereotipo sessista della casalinga di Voghera riserverebbe al suo servizio da té. Bene: caso – ma soprattutto economia – vuole che lo smorzo dove il mio genitore paterno ha lavorato per un paio di decenni abbia chiuso i battenti esattamente un anno fa. Non prima di averlo costretto per mesi a ricevere buste paga nanoscopiche e assolutamente inadeguate al mantenimento di una famiglia di quattro persone; l’odio di classe è una cosa che va fatta per bene, e nessuno può saperlo meglio di un padrone.

Quest’estate, dopo un anno e mezzo di depressione galoppante, ho avuto modo di incominciare una psicoterapia (che attualmente proseguo, ma non riesco a pagare) che mi ha dato modo di far luce su un po’ di cose di me e del contesto, sia familiare che scolastico, in cui ho avuto modo di far crescere con varie storture di percorso i miei tessuti organici, muscolari-scheletrici e cerebrali. Colto da illuminazione, realizzo che di fare grafica pubblicitaria – scuola che avevo abbandonato senza alcun rimorso – non m’è mai importato più di tanto e che la mia strada è totalmente altrove. Corro dunque ad iscrivermi alle serali di un ITIS dotato, con mia somma gioia, dell’indirizzo elettronica e telecomunicazioni. Faccio piccoli passi per riprendere in mano, nella misura in cui mi è possibile, le redini della mia esistenza. Ma veniamo ad oggi. Fra un mese finiscono i soldi dell’INPS, e sono qui davanti a uno schermo che cerco di non schiattare immantinente, schiacciato dal peso di tutti i bisogni vitali che ho e non sono in grado di soddisfare.

Ad esempio sono affetto da quella che molto probabilmente è la sindrome dell’intestino irritabile, la quale porta con sé vari regali. Il suo dono più recente sono emorroidi prolassate che mi tengo da più di un mese e mezzo, e che noto, tattilmente, essersi ingrossate. Soffro di psoriasi, ansia e attacchi di panico. Molto probabilmente ho l’ovaio policistico, o qualcosa di analogo, viste le mestruazioni totalmente irregolari, nel tempo e nella quantità, e delle carie che non posso rimuovere. Vorrei perdere peso in quanto ampissimamente al di sopra del mio peso forma, ma vallo a trovare un nutrizionista gratis; starei anche cercando di andare in palestra, che continuo a pagare tramite un finanziamento precedentemente stipulato, ma a causa del mio abnorme calo di energie dovuto alla mia situazione psicologica sono di fronte all’impossibilità materiale di farlo ora; in ogni caso, le finanze prestatemi per fare elettrocardiogramma e certificato sono state investite in spese di sopravvivenza relative a cibo di discutibile qualità e basso prezzo, nonché cure veterinarie per uno dei miei gatti, il cui malore ha determinato un’emozione nel sottoscritto che, sempre a Roma, è nota ai più come coccolone. Inoltre, essere un ragazzo transessuale implica, per il mio benessere mentale, l’atto di procurarmi un endocrinologo e un avvocato che faccia gratuito patrocinio, per poter dapprima accedere alla possibilità di operarmi e in seguito ottenere dei documenti senza i quali ogni interazione sociale a sfondo anche lievemente burocratico-formale è l’inferno in terra. Nel caso non fosse già evidente, non ho soldi per fare niente di quello che mi servirebbe; aggiungo che, nonostante sia passato un bel po’ di tempo da quando è venuta a mancare la principale fonte di reddito del mio nucleo familiare, non risultiamo ancora nei database della gente papabile per l’esenzione, il che va a determinare un tragico paradosso dai connotati grossolanamente kafkiani: non posso usufruire né del servizio sanitario nazionale (dai tempi che rimangono in ogni caso eterni, e dalla qualità sempre più bassa) né di quello privato.

Non ho neanche modo di procurarmelo da solo, il reddito. I miei genitori hanno rispettivamente la terza media e la quinta elementare, e in un lasso temporale in cui è difficile farsi assumere anche qualora si avessero nel curriculum vitae due lauree con annessi master, corsi professionalizzanti più ogni altra esperienza formativa concessa in giro per le terre emerse italoparlanti, potete immaginare cosa significa. Le mie forze sono già divise perlopiù tra la mia ansia debilitante e il percorso di studi appena intrapreso, perciò non posso lavorare granché, e anche le volte in cui sono in grado, reperire chi abbisogna le mie prestazioni non è così semplice: specie per qualcuno che non ha mai messo piede nel mondo del lavoro, né subordinato né autonomo. Un livello aggiuntivo di difficoltà è rappresentato dal fatto che essere trans porta inevitabilmente, in questa società, conseguenze di carattere anche relativo all’impiego (non è un caso che la percentuale di disoccupazione sia così elevata tra le persone trans). È ancora più difficile tenendo conto del fatto che mi mancano persino i mezzi con cui offrirle, le prestazioni – sono infatti privo di un computer di mia proprietà che risponda alle caratteristiche necessarie per l’utilizzo in questo senso. Vivo peraltro sotto un tetto che, se venisse attuato il decreto Renzi-Lupi, non avrei più, poiché si tratta di una casa popolare. Tutto ciò mi uccide, nel significato più letterale di questa espressione. Perché condurre un’esistenza priva della più vaga parvenza di dignità è un potentissimo incentivo al desiderio di schiattare; che in realtà non avrei nemmeno, perché voglio vivere. Solo non ho intenzione di farlo in questa maniera.

Per quanto il tono utilizzato possa darne l’idea, non sto scrivendo la lettera di un suicida. Intendevo dire qualcos’altro: mi sono fratturato i coglioni, e non voglio sentirmi dire povero, o essere compatito. Non ne posso più del silenzio tombale collettivo che avvolge l’esistenza delle persone povere, disoccupate, proletarie e sottoproletarie; esperienze delle quali non posseggo certo l’esclusiva. Sono stufo del fatto che certe grida debbano esaurirsi in angosciate chiacchiere tra di noi, dove noi corrisponde al proprio circolo di amicizie, amori e compagneria assortita. È mai possibile che qui si viva una violenza sociale di un’estensione mai vista e che si tratti l’argomento come se fosse un imbarazzante pettegolezzo di condominio? È ridicolmente triste e ingiusto. Può non sembrare così, ma la presente è un’accusa che rivolgo in primis a me stesso. Sono il primo a vergognarsi di chiedere aiuto, in qualsiasi forma: ci ho messo un mese per esprimere il pensiero che sto esprimendo adesso. Mi viene detto che non sono l’unico, ma questo non mi fa stare meglio, mi fa stare peggio: sento il peso della responsabilità militante su di me e mi chiedo cosa facciamo, anzi, cosa non facciamo. In virtù del fatto che una delle poche cose che sono certo di fare bene è usare le parole, racconto di quello che mi è attorno nella speranza che inizi davvero a smettere di essere l’unico, perché se delle esperienze non si parla e non si sa nulla, quelle finiscono per non esistere.

Questa è guerra e nessuno sembra agire di conseguenza, se non il nemico. Servono case, mense, ambulatori, scuole e doposcuola, biblioteche, lavanderie, internet point e ogni forma possibile di spazio sociale e culturale autogestito.  Servono compagne e compagni che si occupino di fornire allacci di acqua, gas ed elettricità a chi non può più permetterseli. Dopo le lacrime per gli imprenditori impiccati bisogna tirarsi su le maniche per chi, acqua al collo, non può concedersi cerebralmente nemmeno per un secondo quell’ipotesi. Dove siamo, dove siete? Io aspetto, qui, una soluzione per me ma non soltanto per me, chiedendomi quando arriverà. Ora provo a dormire, insonnia permettendo.

La libertà trans non ha riferimenti politici?

L'immagine è tratta dal webcomic  roostertailcom
L’immagine è tratta dal webcomic Rooster Tails

 

Repubblica ha scritto, giusto un paio di giorni fa, cose interessanti. Non perché scritte da tale giornale, ma per il modo in sono state scritte.

Vediamo: immaginate di svegliarvi e notare che sul portone d’ingresso della basilica di San Paolo di Milano c’è una frase, vergata con bomboletta spray: 20/11, notte di vendetta trans.  Non sono in molti ad avere cognizione di causa circa l’esperienza di vita transessuale e transgender, costellata di ogni esempio di sovradeterminazione, soprusi psicologici, medici e legali in addizione a molti ostacoli legati all’appartenere, molto spesso, a una classe sociale bassa, ove non bassissima. La pur crescente visibilità di questa realtà è ancora molto limitata: tuttavia, soltanto qualcuno privo di ogni percezione sensoriale e di un qualsiasi modo di esperire la realtà che lo circonda può non essersi accorto di alcuni avvenimenti ed essere in grado di affermare che non c’è alcun tipo di riferimento politico.

In Italia, con molta fatica e con molte difficoltà, si sta costituendo pian piano un movimento trans, per ora poco organizzato ma senz’altro effervescente di idee e passione politica.  Ieri diverse persone hanno costituito la prima vera manifestazione trans, la Trans Freedom March, dopo decenni di assenza in seguito alle lotte che hanno portato all’istituzione della legge 164 nel lontano 1982. Che la comunità trans dopo questo lasso di tempo incominci a farsi vedere per le strade proprio in giorni contigui all’evento internazionale dedito al ricordo delle persone transessuali e transgender uccise, il TDoR, dovrebbe essere un evento degno di nota, che sembra segnare il passaggio dalla retorica della vittimizzazione a quella della rivendicazione.

Nel frattempo al Maurice di Torino, proprio oggi, c’è un convegno in cui si parlerà delle prospettive di modifica della legge che attualmente regola i procedimenti relativi alla rettifica anagrafica del sesso. Ci saranno presidenti di organizzazioni che ormai varie persone trans sospettano servano esclusivamente a fare gli interessi della casta degli psichiatri e degli psicologi, troppo spesso esecutori di psicoterapie obbligatorie quando il presupposto di una psicoterapia davvero funzionale al benessere psicologico è la volontà di perseguirla (notate qualche dissonanza?) e l’assenza di squilibri di potere, squilibri previsti e unanimemente considerati legittimi dal protocollo più usato in Italia, quello elaborato dall’ONIG (in opposizione alle linee guida WPATH internazionali, decisamente più liberali in tal senso). Uno di questi è il potere di veto dello psicologo sulla potenzialità della persona di intraprendere la transizione (atto che, negli ambienti trans anglofoni, viene chiamata gatekeeping), squilibrio che rende la relazione terapeutica impossibile e che spinge la persona a mentire o darsi a pericolosi fai-da-te con conseguenze orribili per la salute. Lo scopo di queste psicoterapie obbligatorie è far ottenere perizie, le quali sono nient’altro che un pezzo di carta che serve a spiegare al giudice i motivi della necessità di intervenire chirurgicamente e anagraficamente su di sé, indispensabili al fine di proseguire legalmente il percorso di transizione. L’elargizione di queste avviene per mezzo di salati pagamenti: si parla, nei casi meno catastrofici, di qualcosa come cinquecento euro a documento; evenienza che si interseca diabolicamente, e sinergicamente, con i disgustosi tagli alla sanità.  Queste stesse figure producono (presunte) verità. Dicono che ci serve la loro figura e che ci servono diagnosi per verificare l’effettiva presenza di disforia di genere, perché la condizione trans sarebbe affine alla schizofrenia, rafforzando pregiudizi stigmatizzanti di fronte a verità macroscopiche, e cioè il fatto che le due cose non si assomigliano da nessun punto di vista: una persona trans reagisce con malessere a una situazione oggettiva. Ammantano sé stessi di un’immagine terapeutica, ma non sono che dei mediatori tra lo stato di cose esistenti e i bisogni individuali della singola persona. Non curano (non c’è nulla da curare), ma creano il discorso della malattia  per sembrare autorevoli e autorità. Non v’è traccia attualmente di psicologi rispettosi dell’altrui determinazione, ma non sono gli unici.

Ci saranno avvocati a caccia di parcelle. Ci saranno persone che scrivono, analizzano, elucubrano, fanno profitto e propaganda su di noi, dal punto di vista legale, sociologico, psicologico, politico e chi più ne ha più ne ha metta. Ci sarà chiunque a parlare di noi, fuorché noi: nessuna delle persone invitate a colloquiare è una persona trans. Ripeto: nessuna di questa persone è una persona transessuale o transgender. Si tratta di una decisione politica altamente discutibile di chi ha organizzato l’evento. E la scritta sulla basilica, checché ne dica la stampa, è l’atto politico di chi vuole chiudere con tutto questo. Mai più vittime, mai più fantocci, mai più oggetti, mai più pazienti. Non ci dispiace.

Matt Taylor, e llevate ‘a cammesella

acammesella1Serbilla e frantic hanno tradotto questo articolo di Phil Plait.

La scorsa settimana, l’Agenzia Spaziale Europea ha fatto atterrare una sonda spaziale su una cometa.  E’ stato un un evento storico di grande importanza. Ma un altro fatto, collegato a questo evento,  ha causato un grande trambusto. Matt Taylor, scienziato impegnato nel progetto della missione Rosetta, si è presentato in pubblico per parlare del successo dell‘atterraggio; tuttavia, ha compiuto una sfortunata scelta di abbigliamento. Indossava una camicia da bowling coperta di pinup poco vestite.
Questo ha sconvolto un sacco di gente. Un sacco. Il fatto è stato aggravato dalla descrizione, estremamente mal ponderata, della difficoltà della missione Rosetta: “E’ sexy, ma non ho mai detto che fosse facile.”
Accidenti. Per essere chiari, io non credo che Taylor sia un  furioso misogino o simili; penso fosse proprio all’oscuro di come le sue parole sarebbero suonate e come la camicia poteva essere interpretata. Viviamo tutti in un’atmosfera intrisa di sessismo, e quasi non ci facciamo caso; un pesce non nota l’acqua in cui nuota. Ho vissuto in questo ambiente per tutta la vita, e ci sono stato anche in età adulta, prima prendere coscienza della sua esistenza e capire come contrastarlo. E sto ancora imparando.

È importante sottolineare che, il giorno dopo, chiaramente sconvolto di aver causato tante storie, Taylor si è scusato pubblicamente con sincerità e gentilezza per le sue azioni. La maggior parte delle persone che erano rimaste sconvolte ha accettato le sue scuse e si è tranquillizzata.

Ma non finisce qui. Come è facile immaginare, quando le persone si sono lamentate per il sessismo casuale della camicia e della descrizione della missione,  il contraccolpo misognino ha travolto i social media come un torrente schiumoso, un altro di una lunga serie di manifestazioni della legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo.”)
Potrei dire molto a questo punto, ma Dr24Hours ha scritto un’eccellente sintesi che si allinea abbastanza bene con il mio pensiero. Vi prego di andare a leggerla in questo momento.
Ma ho anche qualcosa da aggiungere.
Se pensate che solo le donne si lamentino di questo, vi sbagliate. Certamente molte lo hanno fatto, ed è giusto così. Ma il fatto è che anche io [che sono un uomo] ne sto scrivendo. So che molti uomini miei amici, scienziati e divulgatori scientifici,  ne hanno parlato. E’ importante che gli uomini parlino, ed è importante anche che ascoltino.
Se pensate che questo sia solo il lamento degli invidiosi che non possono reggere il confronto con qualcuno che ha appena fatto atterrare una sonda su una cometa, vi sbagliate. Parlate con la mia amica, la cosmologa Katie Mack. O la scienziata planetaria Sarah Horst. Oppure la geologa Mika McKinnon. Oppure l’astrofisico Catherine Q. * O la geologa planetaria Emily Lakdawalla. O la radio astronoma Nicole Gugliucci. O la straordinaria professora e comunicatora scientifica Pamela Gay. Oppure Carolyn Porco, che ha lavorato sulla missione Voyager ed è la leader del team d’imaging di Cassini, la sonda spaziale che orbiterà intorno a Saturno per oltre un decennio.
Se pensate che siano solo un mucchio di bacchettone, vi sbagliate. Non si tratta di pruderie. La questione è l’atmosfera di denigrazione.
Se pensate sia giusto usare una parola connotata dal punto di vista del genere per insultare e umiliare una donna perché lei ha usato un insulto non di genere verso un uomo, allora siete veramente in errore (e questo è un tweet rappresentativo di molti di quelli che ho visto).
Se pensate che questo non sia un grosso problema, beh, di per sé, non è un enorme problema. Ma non si tratta di una cosa “di per sé”, no? Questo evento non è accaduto nel vuoto. Si verifica quando c’è ancora una grossa falla nel percorso che porta le donne a studiare materie scientifiche ad abbracciare la carriera scientifica. Si verifica quando, ancora, un nome femminile su una domanda per fare ricerca presso un’università rende meno probabile che la accettino†, e molto più probabile che la ricerca venga citata meno. Si verifica quando non siamo ancora neanche vicini alla parità nell’assunzione e nella continuità professionale delle donne in ambito scientifico.
Quindi sì, è solo una camicia.
Ed è solo una pubblicità.
E ‘solo un modo di dire.
E ‘solo uno show televisivo.
E’ solo in Internet.
Sì, ma tu sei remunerata quasi quanto un uomo.
E’ solo un fischio.
E’ solo un complimento!
E’ solo che i ragazzi sono ragazzi.
E ‘solo che lei è una puttanella.
E’ solo che il tuo vestito è così corto.
E’ solo che “vogliamo sapere quello che indossava al momento, signora.”
E’ solo che è solo che è solo.
E’ solo una morte dovuta a mille tagli. Nessuno dei tagli uccide. Alla fine, lo fanno tutti.

* Aggiornamento, 18 Novembre 2014 alle 03:00 UTC: Non posso credere di aver dimenticato la mia amica Catherine Q nella lista degli scienziati che hanno parlato di tutto questo. Ora è sulla lista.

† Correzione (19 Novembre 2014): Originariamente ho scritto che avere un nome femminile su una ricerca significa avere meno probabilità di essere pubblicati.

Deconstructing il mignolo alzato (Origgi) – MicroMega #3

mignoloalzatoEntriamo in una nuova sezione del numero 5/2014 i MicroMega. Nell’introduzione ci rendiamo subito conto che invece di avvicinarci di più all’obiettivo di declinare le specifiche dell’avere e del “portare” un corpo di donna, ci allontaniamo inesorabilmente. E’ evidente perché si parla in maniera generica di corpi:

Eppure molto spesso nel corso della storia il corpo è stato considerato il luogo della corruzione dello spirito, una “gabbia” che imprigiona e limita, invece che una “porta” che apre le porte della conoscenza.

[E non si parla della difficoltà che crea ad una donna la rappresentazione mediatica del suo corpo, il tentativo di controllo del suo corpo, con la pressione sociale che grava su di lei per avere dei figli, anche quando non li vuole, per avere come uno obiettivo quello di adeguare le sue fattezze a quelle volute dal maschio perché il nuovo/vecchio grande obiettivo delle vite delle donne è il matrimonio.]

Sempre nell’introduzione si cita il pezzo di Gloria Origgi ingiustamente, secondo noi, inserendolo in un discorso generico sul corpo, perché nello scritto di Origgi si parla di corpo in quanto corpo di donna. Ed è una cosa che riconosciamo all’autrice: il piacere di leggere finalmente un racconto di vita autentica che ci fa affacciare su una prospettiva in cui il corpo è attraversato da e registra emozioni di genere. Poi arriva il pezzo forte di questa introduzione:

Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato [dai che forse ci siamo…] una condanna: considerato alternativamente strumento del peccato o esclusivamente sede del potere procreativo ha per secoli costretto la donna alla secca alternativa prostituta/madre [Sara: cosa non si fa per non mettere il soggetto giusto al posto giusto: NON il corpo ha costretto la donna all’alternativa secca tra prostituta e madre MA il sistema economico/sociale/religioso dominato dal potere maschile, detto anche comunemente patriarcato. Lorenzo: e mica vorrai scrivere su MicroMega che esiste il patriarcato! Oh, questi so’ intellettuali eh, mica pizza e fichi].

La nostra poi continua presentando il testo di Giulia Sissa sui femminismi, parlando de i movimenti delle donne che – se nelle loro prime ondate, per necessità, hanno dovuto in qualche maniera mortificare il corpo [nell’Ottocento parliamo di necessità? Perché, avevano altra scelta per non venir semplicemente arrestate e internate, le femministe di allora? Non pare ci fossero molte alternative], per poter reclamare un cervello – oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico [evidentemente ce ne sono altri: quali? Quali sono i corpi non erotici? E poi anche nell’800 – sempre che le vaghe prime ondate siano quelle – di erotismo ce n’era, visti i dispositivi sociali per imbrigliarlo, no?] come strumento di lotta.

Il pezzo di Origgi, Corpo, dunque sono, (complimenti) comincia con questo cappello, che vi riportiamo senza interromperlo:
Il nostro Ego è il corpo: l’unità della nostra persona, che registra inesorabilmente ogni cambiamento, anche il minimo, della nostra vita. Piaceri e dolori vengono archiviati dal nostro sistema nervoso e si incidono nel nostro corpo, che diventa un libro su cui è scritta la nostra intera vita. L’autobiografia di ciascuno di noi si può leggere sul proprio corpo. Il nostro corpo parla di noi. Il nostro corpo siamo noi: il corpo è l’Ego.

[Ma che è, una preghiera? Perché questo stile iterativo, queste ripetizioni? E perché mettere insieme, in sette righe stampate, termini psicologici, fisiologici, semiotici, letterari, senza uno straccio di spiegazione, approccio? Tutto così, come una preghiera o un mantra: parole da ripetere che si autogiustificano per la loro musicale litania. E, attenzione, di donne – non è dei loro corpi che si deve parlare? – manco l’ombra.]

Poi comincia un racconto autobiografico che seppure coraggioso e che mette a nudo le emozioni e le scosse che hanno attraversato il corpo di Origgi, mette in evidenza anche i limiti dell’esperienza autobiografica utilizzata in un contesto che avrebbe la pretesa di coinvolgere un grande pubblico con intenti divulgativi e di riflessione collettiva.

Ne evidenziamo alcuni momenti salienti. Origgi è del ‘67, dice Wikipedia, e da piccola ha la madre che lavora in un ufficio, una casa a Milano con due bagni, uno per genitore: quello del padre con la moquette per terra, molto funzionale. Quello di mia madre più ampio, pieno di boccette di profumo e di spazzole, con una grande vasca nel quale facevamo il bagno anche noi bambine. Dopo il divorzio, il padre verrà a trovarla a Parigi, quando ero già ventenne. Non sappiamo se e quanto il corpo possa portare i segni del proprio ceto sociale di appartenenza, ma ci permettiamo di supporre che, da questi pochi dati, quei segni non siano tanto comuni a molte donne.

Poi una rivelazione:
il mio corpo è appena uscito da quello di mia madre, ha freddo, la notte i miei neuroni sognano di terremoti che ingoiano intere foreste e di cani rabbiosi che mangiano brandelli di un animale squartato. I sogni di neonata emersero durante una terapia psicoanalitica di molti anni dopo a Parigi, un esercizio orchestrato da Marguerite Derrida che mi permise un avventuroso viaggio nel tempo fino alle origini delle mie esperienze corporee. [Detto che andrebbe almeno circostanziata e spiegata l’utilità dei sogni di neonata, visto che l’esperienza di Origgi è stata presentata come esempio, una domanda: chi di voi può permettersi una terapia psicoanalitica a Parigi con la moglie di Derrida? Vogliamo continuare a pensare che tutte queste circostanze non abbiano condizionato né i famosi segni né il famoso corpo sul quale si sarebbero incisi? Cosa dovrebbe dire tutto ciò a tutte le donne, e agli uomini riguardo le donne?]

E ancora:
Ricordo che un pomeriggio d’estate in campagna, mentre Lina, la governante, leggeva per l’ennesima volta la storia di Alice nel paese delle meraviglie, il cane dei vicini mi morse il naso […] Per me fino a quel momento si era trattato di un dibattito politico di cui si discuteva a cena intorno all’approvazione della legge 194 […] Dovevo rientrare in Italia dopo anni di studi a Parigi, e invece il corpo decise di no, di restare dov’era e non solo: di lasciare il mio fidanzato italiano senza alcun motivo apparente, di dichiarare il mio amore a un uomo sposato che aveva il doppio dei miei anni e di inseguirlo durante un convegno in Inghilterra fino ad acquattarmi nell’armadio della sua camera per cercare di sedurlo! […] Lo seguii dappertutto, mi facevo trovare negli aeroporti all’imbarco dell’aereo, o nel luogo dove si recava per una conferenza […] Dopo molti anni, entusiasmi, dolori e peripezie, Dan e io ci trovammo in Messico sulle tracce del Nino Fidencio e della storia del fidenzismo […] Scrissi la mia autobiografia, ritornando sulle tracce della vita di mia madre e poi, come lei, lasciai il padre di mio figlio e rimasi incinta di un altro uomo. [Il problema non è la vita di Origgi, che è la sua, ha le sue specificità che rispettiamo e siamo ben contenti se lei è felice di essersela vissuta. Il problema è: perché proprio la sua vita – ovviamente diversa da qualunque altra – dovrebbe far capire a tutte le donne che il nostro corpo siamo noi se il racconto è una sfilza di esperienze davvero non comuni? Si può obiettare che, per dimostrare che la vita si registra sul corpo, usare una vita così eccezionale forse non è proprio la strada migliore?]

Anche perché questa che dovrebbe essere una mera piccola autobiografia, è condita da “massime” che lasciano abbastanza interdetti. Qualche esempio:
Il mio corpo parla di me. [E vedi ‘n po’…]
Di lì a poco, grazie alle pillole prescritte dal medico sessista, il mio sangue riapparve, provocandomi un totale stato di ebbrezza ormonale. [E come la mettiamo, allora, col fatto che gli elementi corporei posso essere modificati da azioni esterne? Come conciliamo questa evidenza con i segni che la vita lascia? Sono segni come gli altri, questi “provocati” deliberatamente?]

Perché se c’è una cosa inaccettabile – dal punto di vista della testimonianza – di questo brano di Origgi, è che a lei il corpo non sembra averlo messo in discussione nessuno. L’incontro col medico sessista, pare essere la messa in questione più critica che abbia mai subito. Un po’ pochino, per sperare in una condivisione efficace, per sembrare un minimo comun denominatore per tante e il loro corpo. In più, mentre si legge questa testimonianza, si ha la netta sensazione di essere inutilmente dei voyeur, perchè leggere la storia di una donna che mette a nudo le sue fragilità senza la possibilità di confrontarsi con lei, senza avere un contatto di qualsiasi tipo non ha alcun senso, anzi, è dannoso perchè è come un’esposizione, appunto. Ancora una volta un’operazione non a favore delle donne, delle loro lotte per l’autonomia e l’autodeterminazione del corpo e della persona tutta, ma un’operazione puramente di marketing editoriale, di dubbio gusto, pure.

Sarà l’ultima? Naaa…

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

(Qui le “puntate” #1 e #2)

Il poliamore è il nuovo nero

Jeffrey Alan Love polyamoryTraduzione di questo articolo di feminoska. Revisione di lafra e Serbilla.

Ora che il dibattito sulla monogamia è entrato nelle assemblee, non esiste spazio antagonista, libertario, postmoderno o femminista che non sbandieri la propria poliamorosità. La rottura – formale – dalla monogamia, incarnata in questo concetto sfuggente che è il poliamore, promette di liberarci da tutti i mali, come per magia: ci piace credere che dovunque passi il poliamore non crescano più le malerbe. Invece crescono, e quanto! Non bastano nomi nuovi o gesti grandiosi per far cadere un sistema: partiamo da ciò che siamo per sognare nuovi mondi, ma i nostri sogni si nutrono di sedimenti che ci trasciniamo dietro. Per la materia inevitabile che ci costituisce.

La costruzione di amori non-monogami è fatta di concetti, emozioni e sguardi ereditati dalla monogamia. Le riflessioni di Monique Wittig sull’eterosessualità come sistema di pensiero sono parimenti utili per la costruzione emozionale dell’amore:
“Questi discorsi dell’eterosessualità ci opprimono, nel senso che ci impediscono di parlare a meno che non si parli nei suoi termini. Tutto ciò che la mette in questione viene immediatamente squalificato come elementare. Il nostro rifiuto delle interpretazioni totalizzanti della psicoanalisi fa dire ai suoi teorici che trascuriamo la dimensione simbolica. Questi discorsi ci negano la possibilità di creare le nostre proprie categorie. Ma la sua azione più feroce è la tirannia inflessibile esercitata sul nostro essere mentale e fisico”.

Il sistema monogamico è una tirannia. E non è un’opzione: è un obbligo, ed è la violenza simbolica inscritta in questo obbligo che ci impedisce di scegliere percorsi diversi, anche quando crediamo di sceglierli. A volte vinciamo la lotteria e gli obblighi ci risultano opportuni, comodi, ma questo non li rende opzionali. Come spiega Pierre Bourdieu: “Di tutte le forme di persuasione nascoste, la più spietata è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose.” La monogamia è un sistema di oppressione così ben codificato che ci ritroviamo lacerati di dolore ogni volta che cerchiamo di opporvi resistenza.

Abbiamo vinto la morale, la vergogna e le leggi che ci vogliono docili e cast@. Ma il mal di pancia di fronte alla rottura dalla monogamia non si cura con manifestazioni o striscioni. Lo straordinario apparato di propaganda e infiltrazione del sistema ci insegna fin dalla nascita che l’amore è a due, che la vita senza la coppia è un fallimento, e la vita a più di due è sospetta. Che se sei single, o se hai più di un amante, è perché hai delle mancanze. Ci insegna a sentirci minacciat@ da ciò che ci circonda, a passare da un amore all’altro per la pura incapacità di amare più di una persona, o ad amarne più di una per semplice incapacità di impegnarsi. La monogamia ci vuole limitat@, cup@, spaventat@, egoist@, divisi in coppie, in duetti. E tutti i disastri amorosi che accumuliamo nella maggior parte della nostra vita, tutte le volte che abbiamo sofferto per amore, tutti gli amori che son diventati battaglie, tutte le cicatrici che ci attraversano sono la prova che il sistema funziona bene e impregna di miseria il nostro potenziale più grande: la capacità che abbiamo, dopo tutto, di amare.

La lunga notte dei secoli
La monogamia non esige da tutt@ allo stesso modo. Le più grandi limitazioni e l’esclusività sono toccate storicamente all’identità femminile. Silvia Federici in Calibano e la strega, parla del controllo del corpo e della sessualità come di un prerequisito per l’attuazione dello strumento del capitalismo durante il Medioevo europeo. Un controllo che viene esercitato su tutti i corpi, ma che ha riservato alle donne l’orrore della caccia alle streghe.

“I processi alle streghe forniscono un elenco che fa riflettere sulle forme di sessualità vietate nella misura in cui erano ‘non produttive’: l’omosessualità, il sesso tra giovani e anziani, il sesso tra persone di classi diverse, il rapporto anale, il rapporto da dietro (si credeva che risultasse in rapporti sterili), la nudità e la danza. Venne anche vietata la sessualità pubblica e collettiva che ha prevalso durante il Medio Evo, e nelle feste di primavera di origine pagana che, ancora nel XVI secolo, si celebravano in tutta Europa. (…) La caccia alle streghe – che condanna la sessualità femminile come fonte di tutti i mali – ha rappresentato anche il principale strumento per effettuare una ristrutturazione globale della vita sessuale che, adeguata alla nuova disciplina del lavoro capitalista, criminalizza qualsiasi attività sessuale che minaccia la procreazione, il trasferimento di proprietà all’interno della famiglia o sottragga tempo ed energia al lavoro.”

Ancora più anticamente, in Europa, la monogamia implicava un patto di fedeltà sessuale delle donne agli uomini, ma non necessariamente il contrario. Michel Foucault ne scrive nella sua ‘Storia della sessualità’, a partire dai tempi della Grecia antica: “L’uomo, in quanto uomo sposato, ha l’unico divieto di contrarre un altro matrimonio; nessuna relazione sessuale gli è vietata per il solo fatto di essersi sposato; può avere avventure, uscire con prostitute, essere l’amante di un ragazzo, senza contare gli schiavi, maschi o femmine, che ha in casa. Il matrimonio di un uomo non lo lega sessualmente. All’interno del sistema giuridico, ciò comporta che l’adulterio non è considerato una violazione del vincolo del matrimonio da parte di uno qualsiasi dei coniugi; Non è considerato una violazione se non nel caso di una donna sposata che fa sesso con un uomo che non è suo marito; è lo stato civile della donna, mai dell’uomo, che consente di definire una relazione come l’adulterio. E, secondo l’ordine morale, si comprende come non vi sia stata per i greci questa categoria della “fedeltà reciproca”, che sarebbe poi entrata più tardi nella vita coniugale come una sorta di “diritto sessuale” con valore morale, effetto giuridico e componente religiosa.”

Il principio di un doppio monopolio sessuale, che rende la coppia di sposi compagni esclusivi, non è richiesta in una relazione matrimoniale. Ma mentre lei appartiene a tutti gli effetti al marito, il marito appartiene solo a sé stesso. La doppia fedeltà sessuale, in quanto dovere, impegno e sentimento ripartito in parti uguali, non costituisce la garanzia necessaria né l’espressione più alta della vita coniugale.
Il modello diffuso di rapporto eterosessuale poliamoroso in cui l’uomo è molto più prolifico e promiscuo nei rapporti rispetto alla propria compagna è erede di questa disuguaglianza sistemica. Così come il pubblico disprezzo che ricevono gli uomini dissidenti di un sistema che li vuole tuttora “macho”. Un paio di anni fa, alla radio, un compagno affermò che l’uomo che accetta il poliamore è quello che definiremmo un povero succube. E proferì queste parole senza battere ciglio.

Il privilegio etero, il privilegio maschile, il privilegio cisgender e tutti gli altri contribuiscono al grande terno al lotto poliamoroso. Non è una questione di differenze personali, ma di categorie inscritte nelle persone. La libertà simmetrica di decidere sulle nostre vite è una rozza illusione utilitaristica, in un mondo in cui ogni dissenso paga il suo prezzo, e nel quale l’amore è attraversato dal genere e dalle sue manifestazioni identitarie: classe, razza, capacità, identità sessuale e tutte le altre categorie di oppressione che possiamo aggiungere. Veniamo, quindi, alla lunga notte dei secoli. La domanda è: Dove stiamo andando? Dove desideriamo andare?

La riproduzione delle dinamiche di oppressione
Possono gli strumenti del padrone smantellare la casa del padrone? Può essere smantellata un’imposizione imponendone una nuova? Cosa intendiamo quando parliamo di liberare i nostri corpi, i nostri piaceri, la nostra sessualità e i nostri amori? La libertà ha una forma specifica e definita o è un concetto che si riferisce alla molteplicità di opzioni equivalenti tra cui scegliere senza costrizione? Se la monogamia è un obbligo, la sovversione è contro la naturalezza dell’obbligo stesso, contro l’inevitabilità dell’ordine delle cose. Il lavoro fondamentale che dobbiamo compiere è contro l’imposizione di un sistema che definisce i nostri desideri, i nostri spazi corporali, le nostre possibilità e proiezioni emotive, e che ci costringe a rimanere ancorat@ ad una singola opzione. Se la rottura della monogamia ha qualcosa di sovversivo, è l’aprirsi della possibilità di alterare il sistema imposto, di ripensare come e perché amiamo come facciamo. Costruire nuove possibilità tra cui scegliere.

Avere più relazioni sessual-affettive contemporaneamente è solo un aspetto formale e visibile di una vasta trama che, se non smantellata, riproduce sempre lo stesso sistema, ma con un altro nome. Nel suo libro “Transessualità. Altri sguardi possibili”, Miquel Missé racconta un aneddoto personale. Parte da una riflessione sull’autenticità che esprime il personaggio di Agrado in ‘Tutto su mia madre’ di Pedro Almodovar. Scrive Missé: “Diversi anni fa, una delle mie zie, che non aveva capito molto di questa storia della transessualità, mi regalò una cartolina su cui era scritto: “La saggezza della vita è quella di accettare i limiti”. Ero veramente arrabbiato, sentivo che era un modo per dirmi che il mio problema è che non mi accetto come donna, che accettare i limiti implicava il vivere come non volevo. Ma un paio di mesi fa ho trovato di nuovo la cartolina, persa in un cassetto, e improvvisamente ho pensato ad Agrado e all’autenticità che proclama nel film, e ho compreso maggiormente la frase che mi aveva fatto male al momento. Ora, a mia zia, direi che la saggezza della vita è ugualmente quella di accettare che i limiti sono costruzioni sociali, ma che, probabilmente, aveva in gran parte ragione: ciò che ci rende autentic@ non ha nulla a che fare con l’evitarli, ma con l’essere consapevole di dove sono e a che servono.”

E’ ingenuo pensare che tutta questa vasta trama del sistema monogamico si possa risolvere avendo più di una relazione. Ed è violento costringere le/gli altr@ ad accettarlo perché si ‘liberino’ di tutta questa sovrastruttura, con argomenti che si rifanno ai massimi sistemi senza comprendere i dolori e le difficoltà. Predicare la liberazione altrui ignorandone volutamente il prezzo è un altro dei discorsi infiniti che usano la libertà a fini neoliberali. Ogni volta che qualcuno si vanta della propria modernità e libertà di avere più partner non è cosa da poco, perché muore un futuro possibile: nessun@ può uscire da un sistema oppressivo con un click, firmando una petizione o leggendo un libro. L’unica via di fuga è quella di boicottare le dinamiche oppressive. Dalla rottura formale dalla monogamia alla costruzione di relazioni non monogame c’è un abisso. Ed è in questo divario il potenziale del movimento: nei dubbi, nei limiti, nelle paure, nei piccoli passi avanti e salti all’indietro. La sua carica eversiva, se ne ha, verrà dai gesti quotidiani e non dalle grandi gesta eroiche che devono il proprio immaginario a tempi gerarchici e individualisti che vogliamo lasciarci alle spalle, che appartengono a un mondo in cui il dolore, la vulnerabilità, la cura, il legame, l’empatia, non esistono neppure. Ci hanno imposto per secoli tali modelli, con risultati deplorevoli. Sapere dove sono i nostri limiti, i nostri dolori, le nostre speranze, i nostri sogni, e sapere a cosa sono funzionali fa parte del mondo nuovo. Unitevi a noi sul nostro cammino, nei nostri piccoli passi e balzi in avanti, amateci a partire dai piccoli gesti e costruiamo duetti, trii, o reti verso altri luoghi che siano liberatori; spazi amorosi in cui possiamo permetterci di cadere, aver paura, soffrire e comprendere, trasformarci e costruirci: è forse la nostra scommessa più radicale.