Femminicidi. Così li chiamano i giornali quando non sono omicidi passionali.
Avrei potuto inserire qui il nome di una vittima e scrivere un lungo piagnisteo ricco di morbosità sulla vita della lei di turno. Perché per saziare la voglia di morbosità di chi apre il giornale per sbraitare e chiedere repressioni a casaccio, è importantissimo parlare degli hobbies, dei calzini, delle gonne e delle relazioni di quella lì. E invece no, perché a me non interessa stuzzicare le più basse voglie narrative dell’italiano medio.
Un sacco di persone vedono la stampa come qualcosa di più o meno neutrale, o perlomeno non prettamente politico, ma così non è. La stampa ha la precisa funzione politica di fornire pornografia emotiva di massa. Non mi aspetto che si forniscano grandi analisi sul tema della violenza di genere: non l’otterrò mai e se anche l’ottenessi, sarebbe inevitabilmente sbagliata, perché i complici di una lunga serie di nefandezze non confessano, e se lo fanno, sono pentiti; non innocenti. Cosa ci si può aspettare di buono da chi piazza la vittima nel corteo funebre mediatico dei fatti di cronaca? Già trattarlo come un fatto casuale e non come questione politica nasconde una visione dei fatti ben precisa. Per non parlare del fatto che probabilmente quello stesso giornale annovera nella sua sezione scientifica mille pseudoricerche neurosessiste atte a giustificare ruoli di genere, nonché banner pubblicitari che strabordano maschilismo da ogni pixel.
Il padre lacrimante dice: non volevo che frequentasse quel tipo lì. Smania di controllo, ma molti la leggeranno come premurosità genitoriale e come tentativo di garantire sicurezza alla vittima – sì, ma a che prezzo, aggiungo io. Del fidanzato mi dicono che è geloso da morire. Che non le concedeva nessun tipo di libertà, che la picchiava a sangue. Quella doveva chiedere il permesso perfino per un gelato. Per avere un profilo facebook. E tutti sanno, proprio tutti. Ma nessuno s’è degnato di far qualcosa. Padri, padroni, padreterni: mi rintontiscono col paparino possessivo che piange, col moroso possessivo che però in fondo è un ragazzino, oppure è giustificato perché quella era una poco di buono e anche se non lo era sticazzi: le giustificazioni si sprecano. Ecco il prete che benedice quella povera donna uccisa, perché la violenza sulle donne dev’essere una sorta di piaga divina per non si sa cosa. E poi frotte di poliziotti, a difesa delle italiche femmine, gli stessi che stuprano le migranti nei CIE. Chissà che sicurezza possono offrire dei soggetti simili.
E io sono incazzato. Non indignato: gli indignati sono quelli che dopo la chiusura del browser o la cestinazione del quotidiano vivono un tabula rasa che consente loro di vivere più o meno serenamente e sbattersene. In fondo riguarda loro? No. E si sentono giustificati nell’ignorare. Salvo poi riaprire il browser/quotidiano. Indignarsi. E ovviamente lasciar stare tutto quanto di nuovo.
Gli indignati sono quelli che non ti guardano nemmeno se ti stanno spaccando la faccia, ma che hanno sempre le energie per richiedere forche a gran voce.
C’è chi li chiama femminicidi, per poter dare adito a politiche emergenziali e securitarie in nome di un termine che racchiude soltanto donne bianche, cisgender, quelle che non sono lavoratrici sessuali e quelle dalle vite più o meno regolari e racchiudibili nel modello dell’angioletto del focolare inoffensivo, della schiava uccisa per sbaglio (e i vari padroni s’arrabbiano, certo. Per spreco).
C’è chi toglie i fondi ai centri antiviolenza e toglie reddito alle donne, per poi meravigliarsi del fatto che queste non riescano a ottenere indipendenza per scappare dall’aguzzino-del-mulino-bianco.
C’è chi ne fa una battaglia politica propria. Col sangue altrui sulle mani.
C’è chi nega l’esistenza stessa di una violenza di genere.
C’è chi semplicemente non si pone il problema.
E poi c’è chi si incazza. Si prende le denunce. Fa le slutwalk e protesta per tutte, ma proprie tutte, senza esclusioni.
Non chiede permesso proprio a nessuno, non mendica e lotta. Ma quella gente si incazza.
Mica si indigna.
Una risposta a “Di violenza di genere e media. Basta indignazione, incominciamo con la rabbia!”
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