Nuovo requiem per un camion di maiali

pigGuardo i loro volti agonizzanti sull’asfalto, la bocca aperta per un ultimo, ansimante respiro. In altre immagini, i corpi ormai immobili sono caricati su di un camion con un argano, issati per i piedi, materia senza più vita. Parole di crudeltà mi feriscono nel profondo: “merce”, “carico”. Le vittime contabilizzate sono molte più di quelle dichiarate sui giornali, loro però non fanno parte del computo del lutto, perché non ne sono degni: del resto erano nati per morire. Ed è inspiegabile la tristezza, e la stanchezza. Dover spiegare ogni volta perché quelle vite SONO degne di lutto. Doversi giustificare, trovare motivazioni filosofiche, sociologiche, energetiche, ecologiche, per vedersi riconosciuto il diritto alla compassione, ad una vita il più possibile gentile, il meno possibile crudele. Perché siamo diventat* quello che siamo? Interrogo quel poco che so, ma fatico a trovare una risposta.

E non ho più voglia, davvero nessuna, di dover argomentare attraverso lunghe digressioni quello che sento essere l’unico modo giusto, o perlomeno il più giusto per me, di stare al mondo. Si può fare? Sì. E allora si deve fare. Perché se davvero essere “umani” significa qualcosa – io non lo credo, ma va tanto di moda, da qualche secolo a questa parte, appellarsi all’eccezionalità della nostra supposta umanità  – dovrebbe aver a che fare con l’essere compassionevoli, quando in verità a me pare che l’umanità sia, in realtà, l’esatto opposto.

L’essere umano è, per la maggior parte del tempo, assai crudele.

Animale umano di sesso femminile catapultato in questo mondo non per mia volontà,  non mi ci è voluto molto a capire che, per quanti privilegi potessi avere (perché sono bianca, perché sono cisgender, perché sono di classe più o meno media, perché ho potuto studiare, perché non ho disabilità *troppo* evidenti) erano altrettante le oppressioni che avrei dovuto affrontare su base quotidiana. E così è stato, e contro quelle oppressioni lotto tuttora, ogni giorno.

Ma ancora prima di tutto questo, ancor prima di sentirmi – e pertanto dichiararmi –  femminista, ho sentito in maniera inequivocabile dentro di me uno sdegno intollerabile per quello che viene fatto agli altri animali. E’ stato più semplice e più immediato, perché – ora ne sono certa – non ho mai perso contatto con l’animale che dunque sono. E quell’animale, mai disprezzato, a volte stupito e confuso, non ha mai smesso di com-patire, di sentire e farsi attraversare dall’altr*.

Come si può ridere della sofferenza altrui? Come si può agire con crudeltà, come si può restare indifferenti? Cosa vedono gli occhi distaccati e freddi, quando altri occhi li fissano vitrei ma ancora mobili, ancora in cerca di un altro sguardo a cui aggrapparsi, perché questo è quello che qualunque vivente fa quando sta per morire?

Dove sta nascosta la tanto millantata umanità in quei momenti? E qual’è quel momento in cui, da splendidi bruchi pieni di stupore per la vita crescendo diventiamo farfalle orrende, velenose e assassine? Per quale motivo ci assoggettiamo ad una “realtà” cucitaci addosso con brutalità, invece di lottare, ribellarci e rivendicare la nostra libertà, il nostro desiderio, la nostra felicità? Un cavallo, un’orca, persino un esile merlo hanno più coraggio di noi, e tutti sono disposti a pagare, persino con la vita, quel bene che sanno supremo e non vogliono perdere.

Siamo i più addomesticati tra gli animali, più delle tanto vituperate pecore, delle galline tanto ingiustamente tacciate di stupidità. Siamo codardi e feroci e conformist*. A guardarci con onestà, a fissarci nudi, di fronte ad uno specchio, facciamo davvero paura.

Questo non voglio per me, e spero che nessun* lo desideri. Mi voglio strappare di dosso questa pelle non mia, questa pelle che han cercato di cucirmi addosso e che soffoca l’animale che è in me, in ognun* di noi, rendendolo noncurante e insensibile. Fa molto male, indubbiamente, ed espone ad un continuo e rinnovato dolore. Quella che resta è una pelle sensibile, porosa, che non riesce a proteggere, o almeno non del tutto, dal dolore che permea il mondo e di cui noi, così “umani”, siamo tanta parte. Parrebbe quasi un esercizio masochistico, non fosse che l’alternativa è ancora più agghiacciante, ed è non riconoscere l’altr*, non sentirne le gioie e i tormenti, e in questa distanza invisibile ma incolmabile perdere se stess*, diventare comparse inutili in un copione scritto da altr*.

“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two,
Advise the prince; no doubt, an easy tool,
Deferential, glad to be of use,
Politic, cautious, and meticulous;
Full of high sentence, but a bit obtuse;
At times, indeed, almost ridiculous—
Almost, at times, the Fool.”

E’ questo il motivo, e quasi riguarda più me di loro: perché non voglio perdermi, e voglio poter chiudere gli occhi ogni giorno con il cuore, se non altro, un pò meno pesante.

Ed è perché, assieme al dolore, si ricomincia ad essere attraversat* anche dalla felicità degli animali, che sono capace di soffrire per un camion di maiali.

Ps: Questo era il primo requiem.

Non perché sono in grado di soffrire, ma perché sanno essere felici!

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Proprio oggi leggevo un articolo di Nathan Runkle –  fondatore e Presidente di Mercy for Animals – intitolato “il nostro sdegno per il Festival della carne di cane di Yulin rivela un’ipocrisia disgustosa”. Il pezzo in questione argomentava in modo non troppo dissimile dall’articolo pubblicato pochi giorni fa, intitolato Del Mangiar Cani, e chiudeva con questa riflessione, già sentita in diverse occasioni:

“Certo, hanno aspetti diversi. Mucche e maiali adulti non sono esattamente i più adatti per accoccolarsi assieme sul divano (se è per questo nemmeno i cavalli, eppure poche persone li mangiano). Potrebbe essere una sfida portare un pollo a fare una passeggiata, data la sua capacità di volare (ma anche in questo caso, avete mai provato a mettere il vostro gatto al guinzaglio?).

In termini di intelligenza, nessuno di questi animali si differenzia notevolmente dagli altri – anche se i maiali sono in realtà più intelligenti dei cani. Quando si tratta di personalità, ogni animale ha la sua – ma, in generale, sono tutti socievoli e stare in compagnia degli umani gli piace quando vengono trattati con gentilezza. E tutti amano una bella grattata dietro le orecchie.

Anche quando delle differenze esistono – nell’aspetto, nelle capacità intellettive, nella personalità – queste non bastano a giustificare il trattamento differente riservato ai diversi animali, così come non bastano a giustificare il trattamento differente riservato alle diverse tipologie di umani. Che la nostra relazione con mucche, maiali e polli sia stata, storicamente, di sfruttamento, piuttosto che di compagnia, non ci scagiona: per secoli i bianchi hanno sfruttato i neri e gli uomini hanno sfruttato le donne.

Ciò che veramente conta è la capacità di soffrire e provare dolore. Da questo punto di vista, e gli scienziati su questo sono concordi, gli animali che amiamo e quelli che mangiamo sono uguali.

La crudeltà è crudeltà, e la sofferenza è sofferenza. Tutto il resto è arbitrario. E’ giusto provare sdegno – persino rabbia – per il Festival di carne di cane in Cina. Ma non dovremmo sentirci meno inorriditi da quello che succede nel nostro paese, proprio sotto il nostro naso”.

Subito dopo aver letto questo articolo – in una fase di masochismo evidente – mi allietavo con un altro post pubblicato questa volta su di una rivista online dedicata all’allevamento (!) sulla quale è presente una categoria chiamata “il confessionale dell’allevatore”, nella quale chi si guadagna da vivere sulla pelle degli altri animali può, rigorosamente nell’anonimato, svuotarsi la coscienza e condividere pensieri e riflessioni sulla sublime arte di togliere la vita.

Ebbene, in molte delle confessioni,  uno degli aspetti più consolatori era, unanimemente, la rapidità di una morte QUASI indolore. A prescindere dal fatto che il termine “quasi” potrebbe già da solo dar adito a moltissimi interrogativi, leggere questo articolo in coda al primo mi ha fatto realizzare un punto importante: per la maggior parte degli esseri umani, il fatto di poter vivere la propria vita è qualcosa di così scontato da farci preoccupare, quando si tratta di animali non umani, quasi esclusivamente di fargli ottenere una buona morte, ovvero una morte veloce, indolore, quasi inconsapevole.

In questo senso ambedue gli articoli, sia quello scritto da un attivista animalista, che quello di un’allevatrice, avevano dei punti in comune: ambedue non negavano la sofferenza che provano gli animali, e ambedue sottolineavano come sia eticamente imprescindibile evitare questa sofferenza. Eppure, tutti questi occhi puntati sulla sofferenza degli animali sembrano non notare qualcosa di ancor più fondamentale: ovvero, la capacità degli animali di essere felici!

Preoccuparsi della morte degli animali, e pensare che basti una morte “indolore”, “dolce”, “umana” per sentire di aver risolto il problema è nella migliore delle ipotesi naif, nella peggiore decisamente ipocrita.

Gli animali si sono evoluti, esattamente come noi anche se ognuno in modo peculiare, per vivere su questa terra, e per viverla liberi. Da questo punto di vista la morte è, per loro come per noi, l’ultimo dei problemi, o quantomeno, l’unico insormontabile. Ma al di là della morte, esiste la vita da vivere: una vita libera, in cui esplorare l’ambiente, relazionarsi con i propri simili e con altri esseri senzienti, vivere affetti e antipatie, divertirsi, provare fame ma anche sazietà, giocare e poltrire, scoprire e scopare, imparare e tramandare.

E fare ognuna di queste cose, per tanto tempo, o per lo meno per il maggior tempo possibile.

Sfruttare gli animali non umani significa privarli della vita: non soltanto perchè li uccidiamo, ma perché li alieniamo da una vita che sia degna di questo nome. In questo senso, la carne felice non esiste. Non esiste felicità nell’essere imprigionati contro la propria volontà, nel non potersi muovere liberamente, nell’essere stuprate se femmine per far nascere una prole che verrà allontanata e massacrata al momento stesso della nascita, o poco dopo. Non c’è felicità in luoghi bui e sporchi, o in mezzo a recinti elettrificati, tra compagni di sventura che non si sono scelti, e giusto per il lasso di tempo necessario a diventare abbastanza grassi – o abbastanza improduttive – per finire, al massimo adolescenti, al mattatoio. Avremmo mai il coraggio di dire, di un dodicenne allontanato dalla famiglia, tenuto in prigionia, torturato e ammazzato con un colpo in testa, che “in fondo, ha avuto una morte dolce?”

Eticamente sarebbe accettabile?  In A chi spetta una buona vita, Judith Butler affronta il difficile tema della vulnerabilità delle vite, della loro precarietà e delle forme di resistenza che si oppongono a questo ordine prestabilito che decide il valore della vita di ognun*.

Parlando delle vite umane, in un ragionamento che già si presta ad estendersi senza sforzo al non umano, sostiene che “La comprensione delle modalità di attribuzione di valori differenziali alle vite umane non può che passare anche per la comprensione di come alcune vite siano considerate non-vite – vite “già morte” – molto prima della morte.” Questa non-vita dei non umani assoggettati al nostro sfruttamento è il vero nodo gordiano per il quale l’unica soluzione non può essere e non sarà mai l’utopia e l’inutilità di una “buona morte”, ma che al contrario richiede un taglio netto con quello specismo che ci è stato insegnato fin dalla culla: un passo più semplice a compiersi di quanto si possa credere, e che risponde affermativamente alla semplice domanda (che risuona sulle pagine del rifugio per animali australiano Edgar’s Mission🙂 “Se potessimo vivere in salute e felicemente senza far del male ad alcuno…perché non dovremmo farlo?”

 

Paralipomeni di etica canina

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* Il post che segue scaturisce dalla lettura di questo articolo. Grazie a Gabri Disordine per avermelo fatto notare!

Un dilemma etico di proporzioni inaudite ha luogo ogni giorno nel profondo dell’animo canino, e suona più o meno così: “Posso io lasciarmi alle spalle l’abietta alimentazione carnivora specie-specifica che mi contraddistingue, facendomi blandire da quelle crocchettine vegane con contorno di legumi così profumate ed invitanti, o devo io esprimere malcelato disprezzo di fronte ad una proposta alimentare che snatura in maniera così evidente le mie caratteristiche tassonomiche?

Del resto, non sono forse io un discendente diretto del nobile lupo? Certo, dicono che da allora le cose siano un po’ cambiate: non solo esistono cani di tutte le taglie e forme possibili, ma millenni al fianco dei bipedi chiassosi ci hanno fatto apprezzare altre forme e sapori; cereali e verdura cotti ed anche i legumi non sono proprio male,  la frutta dolce e succosa d’estate è così buona! Biscotti, pane, pasta e riso – ahhh, quanto vorrei arrivare allo scaffale alto della dispensa… e le patatine fritte… beh, sì, forse le patatine fritte sono un azzardo, ma quando capita, che golosità!

Non so, a pensarci bene questa convivenza va ben soppesata, ha i suoi pro e i suoi contro: il divano di casa figura sicuramente tra i pro, guinzaglio e collare un po’ meno. Ancor meno apprezzo di andare in quel posto dove il bipede in bianco mi mette su un tavolo lucido che mi spaventa, sul quale a volte mi addormento per svegliarmi dolorante e intontito: ma pare che siamo troppi su questa terra, anche se nessuno ci ha mai chiesto che ne pensiamo in merito. Non posso mangiare quando voglio (sempre), ma non mi devo più preoccupare di cosa mangerò domani; insomma, la vita in comune con questa scimmia schizofrenica richiede compromessi, e io con l’ottimismo che in quanto cane mi contraddistingue, ho imparato a gestirla in maniera egregia.

La natura, quella primigenia, un po’ me la sono dimenticata a dire il vero: mi piace tanto correre sfrenatamente nel bosco, ma allo stesso modo abbandonarmi stanco e pasciuto di fronte alla stufa la sera. Se piove, guardo fuori dalla porta e spesso e volentieri, mi giro e torno sul tappeto (ahhh, che bello il tappeto, lode a chi lo ha inventato!).

Insomma, non so: davvero il problema sta in quello che ho nel piatto? Che poi dipendesse da me, quando mai mangerei merluzzo? Di cani pescatori ancora non ne ho conosciuti! Certo  è che, potendo scegliere, non mangerei di sicuro quelle palline puzzolenti di scarti scadenti, che come cortigiani ottocenteschi, sono in realtà laide e fetide ma piene di profumo per dissimularlo!

Su una cosa non transigo: il mio piatto deve essere pieno: rispettata questa condizione credo di poter affermare che, insomma, della carne posso anche farne a meno (della pancia piena giammai!).

Sono altre le mie preoccupazioni: quando vedo altri cani imprigionati a catena, picchiati, spaventati, e dimenticati in un angolo. Quando in strada devo stare tutto il tempo legato, senza potermi muovere come più mi aggrada, e le persone intorno gridano e si spostano al mio passare; quando il bipede esce e mi lascia da solo, ore ed ore di nulla condito da noia che il mio animo di cane non può tollerare. Ma basta un amico cane con cui giocare e arrotolarsi vicini la sera, del tempo insieme al bipede per farmi accarezzare… passeggiate interminabili d’estate, magari condite da qualche nuotata, un cuscino caldo d’inverno quando fuori piove e fa freddo. Certo sì, lo so che non è “naturale”, di sicuro morire di stenti lo è… ma davvero, potendo, è quello che vorrei?

Il bipede ha mille ambizioni, si immagina come un dio, ma quando pensa ai cani ci vuole ancora lupi: forse rimpiange la sua animalità perduta, chissà! Io per me so bene quel che voglio, e sono anche abile e capace di ottenerlo… senza indugio perciò divorerò quella scodella di lenticchie, o quel riso profumato con le verdure… Al solo pensiero ho l’acquolina in bocca, e non rimpiango carcasse e interiora.

Solo su una cosa non transigo: ora mangio ma dopo… c’è una pancia da grattare!”

Il privilegio di non riconoscere il proprio privilegio

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“Il privilegio è insidioso”, afferma pattrice jones nel corso dell’intervento a cui questo articolo vuole essere una sorta di introduzione o riflessione. La trappola in cui cadono molt*, e particolarmente chi si dedica all’attivismo, umano o non umano, è quello di identificarsi con chi si trova in una, o all’incrocio di più condizioni di oppressione.

Questo accade per svariati motivi: sicuramente perché ognun* di noi ha vissuto delle oppressioni da cui ha desiderato ardentemente liberarsi, o ha visto agite su altr* dinamiche di potere, e in cuor suo ne ha magari preso sinceramente le distanze. L’intersezionalità, anche in questo caso, si rivela un utile strumento di critica e, ancor di più, di autocritica: perché esiste un rischio assolutamente reale e da non sottovalutare, che è quello di sottostimare il proprio privilegio e di sovradeterminare coloro delle/i quali vogliamo supportare le rivendicazioni nella – più o meno autentica – convinzione di sapere cosa sia meglio per loro.

Riconoscere il proprio privilegio è un primo, fondamentale passo: essere consapevoli di non poter, in tutta onestà, sapere cosa significhi essere una scrofa in una gabbia da gestazione, una persona di colore (qualsiasi colore eccetto il bianco) in un mondo razzista, una persona transessuale in un mondo rigidamente binario, una persona povera che  – per quanti sforzi faccia –  non riesce a risollevarsi dalla propria condizione di indigenza in un mondo che monetizza qualunque cosa, persino gli affetti e le relazioni… ci mette nelle condizioni di poter “gestire” il privilegio, rinunciandoci per quanto possibile, assumendo un atteggiamento critico e consapevole nei confronti di qualsiasi vantaggio che noi consideriamo scontato (di muoversi, di poter esprimere i propri pensieri ed emozioni, di vivere e di vivere dignitosamente, di poter godere in ogni caso di maggiore libertà rispetto ad altr*, perché anche poter dichiarare il proprio attivismo politico o la propria “devianza” rispetto alla norma stabilita non è un privilegio da prendere con leggerezza) e sostenendo con il nostro privilegio chi ne è priv*.

Il sistema ci opprime tutt*? Vero, ma assolutamente non allo stesso modo. E questa consapevolezza ci deve far capire che una delle fatiche più grandi di chi fa attivismo è quella di comprendere come poter essere alleat* efficaci ed evitare di sovradeterminare le lotte, anche quelle nelle quali, per un motivo o per l’altro, ci sentiamo protagonist*.

E’ quello che succede nel femminismo quando alcune, che non riconoscono i propri privilegi (ad esempio quelli di classe e razza, ma non solo) arrivano a privare altre donne della propria agency (le sex worker, le donne trans o le musulmane ad esempio) dichiarandole inconsapevolmente colluse col sistema patriarcale, e pertanto vittimizzandole e togliendo loro autorevolezza e autodeterminazione; nell’antirazzismo, ogni volta che l’agenda è dettata non da chi la discriminazione la subisce in prima persona, ma da chi si riconosce nel ruolo di ‘salvator* degli oppressi’ e cala dall’alto strategie buone in altri contesti evitando il confronto, a volte perché scomodo o difficile, con le persone alle quali si vorrebbe dimostrare solidarietà; nell’antispecismo, quando ci si dipinge come ammantati di ogni virtù nella convinzione di essere il non plus ultra dell’attivismo, o peggio quando ci si riconosce così tanto nei soggetti non umani oppressi da dimenticare di far invece sicuramente parte della categoria umana e di poter quindi agire il proprio privilegio su altri (animali), umani e non.

Tenendo ben presente che tutt*, volenti o nolenti, colludiamo e siamo allo stesso tempo vittime del sistema che vorremmo rovesciare, quello che ci resta da fare è sforzarci di dare voce a chi non ne è privo, ma è  – consapevolmente o meno – tacitato da chi ha maggior possibilità di esprimersi, o viene maggiormente ascoltato. Buona visione!

Negli occhi delle madri

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Non sono madre, non lo sono mai stata e mai lo sarò letteralmente: e dunque questo dovrebbe togliermi la parola? L’amore e la compassione sono forse caratteristiche esclusive del mio utero messo a servizio del lavoro riproduttivo?

Vuoi sapere come mi sento a fissare gli occhi degli agnelli a Pasqua?
E non solo i loro, e non solo a Pasqua. Eppure è vero, in questo periodo dell’anno l’orrore mi si fa più intollerabile, perchè è primavera, ed in primavera tutto rinasce, tutto risorge, tranne dio, quello no: rinasce l’erba, e i fiori, e i canti degli uccelli indaffarati a costruire nidi, risorge il sole dal sonno invernale e la nostra voglia di mondo – sopita dal freddo che ci costringeva chius@ in casa in inverno. Condividiamo con qualsiasi altro essere vivente la gioia del sole caldo sulla nostra pelle. Dell’aria pungente al mattino e del tepore di mezzogiorno.

Vorrei scrivere un articolo politico, ma in questi giorni è il cuore che prende il sopravvento, e l’orrore che mi perseguita mi toglie il sonno e la lucidità necessaria. E allora prendo di pancia una decisione, scrivere di getto, con i brividi addosso, scrivere a partire dal mio corpo di animale, il mio corpo attraversato dal dolore di quelle madri, dalla paura di quei figli@. Scrivere di milioni di gole tagliate per i nostri festeggiamenti, di migliaia di sguardi di cuccioli terrorizzati e di madri circondate dal silenzio, in attesa di un ritorno che mai avverrà, più realisticamente del prossimo stupro, del prossimo parto, del prossimo strappo.

Ma io non ho mai voluto essere madre, e quindi mi mancano quelle qualità che mi rendono un’interlocutrice credibile. Il mio corpo non ha registrato ogni piccolo cambiamento della gravidanza, perciò cosa ne posso capire io? Rispondo: con che coraggio essere madre radiosa quando si è circondate di tante madri a cui i figli sono stati rapiti e uccisi? Con che coraggio rubare il latte, i corpi e le vite ad altri madri, ad altri cuccioli per nutrirsene? E come Antigone, conosco la pietà che va contro la legge.

Non sarò madre perchè non lo desidero, ma anche perchè mi vergognerei ad esserlo. Perchè quando vedo una madre umana fissare negli occhi il proprio figlio in estasi, sento i muggiti disperati delle mucche separate dai vitelli, lo sguardo triste delle scrofe nelle gabbie gestazionali e vedo le pecore inseguire il pastore che ruba loro l’agnello. Lo sguardo dell’inerme mi fissa, e a quello sguardo io devo una risposta. Una risposta che scrivo nella mia carne, nella mia mente, nel mio cuore, nella mia politica. E nella mia politica di femminista soprattutto, a cui non serve sentire il proprio ventre gonfiarsi per comprendere il dolore delle madri.

E non voglio nè posso distogliere lo sguardo; i miei occhi sono saldi in quelli degli altri animali, la cui fine violenta è tenuta ben nascosta per limitare al minimo indispensabile l’occasione di farci vergognare, codard@ che non siamo altro; e le mie orecchie percepiscono, in lontananza ma chiaramente, le loro voci inascoltate e i loro lamenti soffocati dalla violenza rumorosa e indifferente delle macchine del mattatoio; ferraglia sporca di sangue azionata da altre macchine, umane, che hanno perso ogni empatia, ogni compassione. Perché per ogni boccone di carne ingurgitato, c’è un essere umano spogliato di qualsivoglia (retorica e inesistente) ‘umanità’, che meccanicamente taglia una gola, poi un’altra, poi un’altra, con le mani sporche del sangue di migliaia.

E in questi giorni, mentre si fanno gli scongiuri augurandosi che il meteo sia clemente, mentre vengono preparate le tovaglie e le coperte per stendersi sui prati e felicemente, gioiosamente festeggiare la bella stagione, quanti avvertono il silenzio che ci circonda, il silenzio delle madri?

Quel silenzio io lo sento nel mio cuore, il silenzio del dolore del più debole che soccombe al capriccio del più forte, anche quando quest’ultim@ lascia che siano altr@ a sporcarsi le mani. E gli occhi delle madri mi guardano, mi interrogano, mi chiedono di rispondere a una domanda implacabile… perché, potendo scegliere la compassione, scegliamo sempre la violenza brutale?

Perché possiamo? Non è una risposta che possa bastare.

Così cerco di dare voce allo strazio di quelle madri di figli@ desaparecidi, immolat@ per il piacere di fauci mai sazie. E decido di condividere il loro dolore in tutto e per tutto, diventando incapace di festeggiare, io che amo la primavera sopra ogni cosa. E ascolto quel silenzio, il silenzio del lutto. Il silenzio che segue alle grida del mattatoio.

Aprile è il mese più crudele.

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

L’umano e il selvatico

cinghiali-branco1L’animale umano ha l’incessante bisogno di rimodellare tutto ciò che lo circonda in modo da renderlo affrontabile, e superabile. La visione antropocentrica è talmente connaturata in noi da non permetterci di accettare, se non con grande sforzo, un mondo che spazi oltre la nostra vista.

Cerchiamo di plasmare l’ambiente che ci circonda in modo rassicurante, contenuto, limitato. E là dove non riusciamo ad arrivare erigiamo un muro, un confine che segni quello che è controllabile da quello che non lo è, e che il più delle volte non reputiamo degno di esistere.

In questa nostro incessante ossessione incontriamo un ostacolo faticosamente aggirabile, ma non abbattibile. Sarebbe così semplice accettare l’ineluttabilità del nostro essere animali invece che arroccarci sull’indispensabilità del nostro essere Umani.

Il mondo che ci circonda non è a nostra misura.

E’ triste, avvilente, assistere ai raccapriccianti tentativi che l’animale umano fa per piegare il mondo al suo volere, quasi sempre, per fortuna, fallimentari.

Ciò che sgomenta è la scia di vittime collaterali della nostra ossessione, che ci lasciamo le spalle in numeri inconcepibili; e ogni giorno tentiamo e ogni giorno falliamo.

Eppure siamo ancora capaci di stupirci, di sorprenderci di qualcosa che inaspettatamente si presenta ai nostri occhi, salvo poi, il più delle volte, attuare in modo automatico meccanismi che ci portano a trasformare la sorpresa in paura, la paura in rabbia e quest’ultima in morte, sterminio.

Gli animali rompono il confine del ‘nostro’ ingombrante, rumoroso e avvelenato spazio: sempre più animali definiti ‘nocivi’ si affacciano alle nostre porte, così come i vegetali rompono il confine del nostro tempo, abbattendo i muri che lentamente ci sforziamo di ricreare. Questo è inaccettabile, e va combattuto con ogni mezzo, fino all’estinzione. Eppure eccoli lì, che ritornano in un’invasione silenziosa, ad incalzarci nel nostro annaspante controllo, fragili ma allo stesso tempo invincibili. E allora perché non arrenderci all’evidenza ed imparare quanto il mondo che ci circonda può insegnarci?

Ma soprattutto, come possiamo continuare ad imporre al mondo che ci circonda i nostri confini, i nostri muri sempre più alti? Voliere, gabbie, recinti indorati da una falsa compassione e ‘amore’. L’animale umano ha alzato il proprio sguardo e si è illuso di riuscire a vedere più lontano, ma non potrà mai osservare il mondo con gli occhi dell’aquila, capire cosa significa librarsi sulle correnti ascensionali a centinaia di metri d’altezza. Non potrà mai vivere l’acqua come sa fare un pinguino, un’orca o un delfino. Percepire la foresta come può farlo un cinghiale o una volpe.

Quando accetteremo i nostri limiti forse cominceremo a non imporli a chi non li ha, privandoli della libertà.

 

 

Prima froci, ora anche vegan: Satana è fra noi?

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Articolo originariamente apparso su Liberazioni e Antispecismo, ripubblicato per gentil concessione di Grazia Didio.

La pubblicazione in Italia del Manifesto Queer Vegan di Rasmus Rahbek Simonsen rappresenta, credo, un piccolo sforzo utile ad avviare riflessioni con ripercussioni sia teoriche che a livello di attivismo politico. Ma l’aspetto più sintomatico del fatto che Simonsen qualche cosa di significativo l’abbia effettivamente detto è rappresentato, paradossalmente, da una recensione firmata da tale Lupo Glori, alias Rodolfo De Mattei (un vero anti-identitario!), pubblicata di recente su un sito di ispirazione cattolica tradizionalista, diretto nientepopodimeno che da un ex vice-Presidente del CNR, Roberto De Mattei.

Lupo Glori sembra sinceramente spaventato dalla pubblicazione di questo librettino rosa. In effetti, l’”ideologia del gender” è già abbastanza destabilizzante di per sè per chi parla di famiglia “naturale”; l’antispecismo è già di per sè una “delirante visione”, “finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie” (sic). Figuriamoci se provano a dialogare fra loro…

“Cosa hanno in comune la teoria queer e l’animalismo vegano”? chiede Lupo. Molto semplice rispondere: sono entrambi fumo negli occhi per l’ortodossia cattolica. Ma se fosse solo questo non sarebbe molto interessante accostare le due parole, queer e vegan, in un saggio, come fa Simonsen. Per fortuna, qualche idea in più su cosa abbiano in comune questi due termini, Simonsen sembra averla.

De Mattei mostra di aver compreso bene quali siano questi elementi sottolineati dall’autore del Manifesto. Veganismo e femminismo queer condividono un’“orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo”, una critica radicale all’identitarismo, una “resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante”. Entrambi attaccano le istanze essenzializzanti condensate nell’idea di “contronatura”, un’idea non a caso applicata sia all’omosessualità che al veganismo. Entrambi sono oggetti di pratiche di discriminazione (De Mattei denuncia – pardon, cita – l’omofobia e la vegefobia).

Insomma, Satana è fra noi… vegetariano e frocio. Un vero finocchio.

E non poteva certo lasciare indifferente un giornale diretto da un vice-Presidente del CNR contestato perchè ha detto che il terremoto in Giappone è stato un segno della bontà di Dio o che la caduta dell’Impero Romano è stata causata dagli omosessuali.

A dare retta a gente come Simonsen, dice Glori, non si sa dove si va a finire. Si comincia con la dissoluzione della famiglia tradizionale, per arrivare alla morte della società e della specie umana, passando per un’allegra orgia interspecifica. Eh sì, perchè alla fine della sua invettiva, il Nostro evoca lo spettro della zoorastia: umani che sodomizzano animali e – orrore ancor più grande – animali che sodomizzano umani. In effetti, su un sito di De Mattei (Roberto…) l’allarme era già stato lanciato da tempo: i rapporti sessuali con animali dilagano ed è “davvero sorprendente la faccia tosta degli animalisti che anziché sdegnarsi per il fatto in sé rivendicano ancora una volta i pseudo diritti degli animali e ne denunciano la violazione”.

Insomma, Glori-De Mattei-Lupo-Rodolfo è davvero terrorizzato. Anche se, a leggere la sua fedele descrizione degli spunti di Simonsen, il suo appassionato riassunto dei temi più originali del libro, la sua padronanza delle tesi più ardite di Lee Edelman, sembra quasi che ne sia affascinato. Forse, questo “queer vegan” sotto sotto attrae anche gente insospettabile…

 

Grazia Didio

Daniza, cronaca di una morte annunciata

daniza01…E alla fine ce l’hanno fatta. Come ogni volta.

Daniza, la mamma orsa che a Ferragosto aveva osato ferire un umano per difendere i propri cuccioli, è stata uccisa dalla dose di anestetico impiegato per catturarla. I cuccioli separati, uno catturato e da adesso ‘monitorato’, l’altro chissà dove, solo, indifeso, disperso.

A nulla sono valsi gli appelli, perché  in un mondo intriso di specismo fino al midollo, quando un animale non umano osa reagire, o ferire (ancorché non gravemente, come in questo caso) un umano, esiste una sola, fascistissima risposta: la morte, o nel ‘migliore’ dei casi, il confino a vita in gabbie anguste.

Questo è lo specismo, la prima, più pesante e pervasiva forma di discriminazione di chi è percepito come irrimediabilmente altro. Lo specismo che ci viene insegnato da quando siamo in fasce, e che diventa efficace  modello su cui plasmare altre discriminazioni, come quelle intraspecifiche quali sessismo e razzismo. Lo specismo che non concede attenuanti, né pietà alcuna e non guarda in faccia a madri, piccoli, legami familiari e affettivi – da tanta parte dell’umanità dichiarati sacri ed intoccabili valori (quanta ipocrisia, quanta ingiustizia!)

Questo è quello contro cui combattiamo e ci ribelliamo: eppure mentre noi, sempre in poch*,  sempre con fatica – anche nell’ambito dell’attivismo militante – ragioniamo di come il concetto di umanità sia da mettere pesantemente in discussione, mentre pensatori visionari immaginano di rinnovare la meraviglia nel mondo reintroducendo i selvatici, quello che realmente succede è che gli animali non umani hanno due possibilità di esistenza: o schiavi – se domestici – a cui sottrarre la vita, torturabili, spendibili, sacrificabili a miliardi, numeri senza volto; o fuggiaschi, apolidi, clandestini braccati, fantasmi sempre sotto assedio, in territori spogliati delle risorse necessarie a garantirne il sostentamento, perché comunque, quel poco che c’è, devono spartirlo con l’umano padrone del globo terracqueo.

Gli animali non umani dovrebbero divenire tutti peluches: morbidosi, senza esigenze, senza corpo, anima, volontà e desideri.

Avete ucciso una madre che ha protetto i suoi cuccioli da un altro animale potenzialmente pericoloso, avete lasciato due orfani disperati e sperduti, e parlate ancora di tutela, protezione, reintroduzione? Come si possono reintrodurre orsi, o lupi, se a questi ultimi non vengono dedicati spazi adeguati per vivere, se al primo allevatore che piange i suoi poveri capi (che avrebbe poi macellato lui stesso nel giro di poco tempo)… tutti pronti con le armi in pugno? Se gli animali reintrodotti si trovano poi, loro malgrado, nel selvaggio west, perchè lo specismo, l’ignoranza e la grettezza  – anche di chi sarebbe in teoria incaricato di tutelarli – è senza fondo?

Restare uman*? E perchè, a quale scopo? Riconoscersi animali – quello che siamo! – è l’unica strada percorribile per molt* di noi. E io spero di vedere sempre più animali umani alzare la testa e ribellarsi, e trovare la forza di smascherare la verità dell’umano: l’orrore che siamo diventati.

L’orrore… l’orrore. 

 

Basta aggiungere una “M” e lo Zoo va giù…

Room with a ZooPremessa necessaria: Gli zoo pubblici, per come li conosciamo oggi, affondano le proprie radici nel periodo di espansione coloniale europea. Storicamente, gli zoo di animali sono nati insieme agli zoo umani. Gli zoo umani erano una componente chiave delle fiere ed esposizioni mondiali, nelle quali le potenze coloniali mostravano la loro ricchezza e tecnologia avanzata accanto ai “selvaggi” conquistati. Venivano pertanto costruiti villaggi di popolazioni indigene come replica del loro supposto “habitat naturale”,  di modo che il pubblico potesse vederli nei loro supposti  “costumi tradizionali”. Questi individui erano spesso schiavi. Per lungo tempo i “selvaggi” vennero mostrati a fianco della fauna selvatica, a rafforzare la pretesa dei conquistatori che gli indigeni fossero l’anello mancante tra  animali ed esseri umani.  

Nel libro Metamorphoses of the zoo: Animal encounter after Noah, Ralph Acampora, citando la famosa e triste storia di Ota Benga, giovane guerriero pigmeo recluso nello Zoo del Bronx nel 1906, afferma:  “A prescindere dall’indignazione che ci suscita la prigionia di Ota Benga, la questione cruciale è quella posta da Hari Jagannathan Balasubramanian: Per quale motivo la maggior parte di noi non condanna, oggi, quello che nel 2107 sarà percepito come davvero vergognoso? Forse, nel 2107, gli zoo saranno visti come una vergogna.”

Immagino di trovarmi in una prigione di nuova concezione: al suo interno non ci sono sbarre.  Le celle non sono tutte bianche e uguali ma arredate con mobilio e svaghi. Le guardie sembrano persino un po’ più ‘umane’… Eppure, sono in prigione. Non esistono sbarre, eppure ci sono confini ben definiti; i volumi della libreria che arredano il mio spazio sono in realtà copertine ripiene di polistirolo; non posso scegliere di andarmene di lì, né chi frequentare – sono costretta a condividere i miei spazi con sconosciut*, o magari mi trovo sola – e soprattutto sono continuamente osservata.

Occhi che mi controllano, perché di lì non me ne posso andare. Occhi che definiscono le mie giornate – quando e quanto devo mangiare e bere, ad esempio – scandendole come un metronomo, indipendentemente dai miei desideri. Occhi che, soprattutto, spiano voyeuristicamente ogni centimetro del mio corpo e ogni mio movimento… perché io per quegli occhi sono intrattenimento, non un individuo.

Un posto del genere esiste, anzi ne esistono tanti. In questi posti, oggi, sono prigionieri animali non umani, catturati e reclusi al solo scopo di lucro. Vite rubate ai propri habitat, alle proprie famiglie, alle proprie relazioni, alla propria indipendenza, libertà e autodeterminazione: vite a perdere destinate alla dipendenza dagli umani con la scusa della “conservazione” – mentre al di fuori di questi spazi, la distruzione di habitat e biodiversità procede spedita e senza rimpianti. Vite alla mercé di persone spregevoli, che così tramanderanno, a persone in divenire (i bambini e le bambine la cui spontanea attrazione per il non umano e il selvatico diventa ottima occasione di guadagno), l’idea che i non umani sono a disposizione dei nostri capricci, che dal momento che possiamo disporne sono davvero inferiori agli umani… anche se in fondo fanno simpatia, e meritano un po’ della nostra benevolenza.  Quando fa comodo e ce ne avanza un po’, naturalmente.

Solo un essere umano potrebbe cadere nella trappola di una passata di marketing che, con un po’ di belletto pubblicitario e qualche escamotage, tenta di far passare il concetto che un bioparco sia qualcosa di differente dall’ormai screditato zoo. Come se la forma avesse la capacità di cambiare la sostanza. Come se 4 scenografie di resina, un sito web colorato e dalle foto accattivanti – neanche si trattasse di un villaggio vacanze – rendesse più accettabile la deprivazione degli spazi naturali che si tenta pateticamente di riprodurre, il trauma della cattura dei selvatici e l’abominio della cattività. Come se una M, aggiunta ad una parola che ora non va più di moda (zoo non si usa più, è politically uncorrect, e le sbarre, oramai si è capito, è meglio che non si vedano), cambiasse una realtà di sfruttamento e prigionia, isolamento e sradicamento.

Gli animali non umani non si fanno fregare così facilmente, nemmeno noi dovremmo essere così miopi.

“Le insegne luminose attirano gli allocchi” diceva una canzone che ascoltavo molti anni fa, ma gli allocchi a cui si riferiva non erano sicuramente rapaci. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare da quei luoghi di prigionia che sono i bioparchi, è non accettare di essere anche noi prigionieri di scenari falsi, aguzzini sorridenti e occhi perennemente puntati su di noi. Anche il nostro mondo, quello popolato perlopiù da esseri umani, assomiglia sempre più ad un bioparco. Nel quale siamo costantemente controllat*, nel quale non siamo liber* di dissentire, nel quale altr* decidono che cosa è meglio per noi e ci danno tanti nuovi giocattoli per farci dimenticare quanta libertà abbiamo perduto.

Ribellarsi a tutto questo, solidarizzare con chi è prigioniero –  indipendentemente dalla propria specie di appartenenza – non dimenticare mai che la libertà e l’autodeterminazione sono irrinunciabili per tutti gli individui e che non esiste giocattolo in grado di risarcirne la perdita. Lottare per la libertà di tutti e tutte: ma proprio TUTTI E TUTTE, indipendentemente da razza, specie, genere.

Questo è quello in cui, come attivist*, dobbiamo impegnarci senza sosta se davvero vogliamo abbattere un sistema che si alimenta dell’altrui sfruttamento … E che si tengano le loro cortecce di pino!