Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.

24 risposte a “Costruendo un discorso antimaterno”

  1. grazie per aver pubblicato questa traduzione! Mi fa davvero piacere che ci sia il desiderio di continuare il discorso sull’anti-maternità.
    A me piace molto questo “Anti”. Faccio infatti sempre molta fatica a spiegare la mia posizione di assoluta disponibilità come ADULTA DI RIFERIMENTO e totale contrarietà al discorso sul materno e sul genitoriale diffuso. Questo “anti” è importante.
    Sono contraria al fatto che si mettano al mondo altr* figl*, occupiamoci di quelli che ci sono già! senza maternalismi, senza genitorialismi, ma cercando di capire cosa significa essere dei “buoni adulti” per i ragazzini che circondano le nostre vite. Io sono un ottima adulta per fare i compiti, pessima per le escursioni in natura. Valorizzateci, senza sfruttarci e smettetela di chiederci “quando lo fai?”. Per me è sempre bello insegnare a lavarsi i denti o i piedi nel modo giusto o a mettermi li a tagliare le unghie delle marmocchie, ma non ho voglia di fare il salame di cioccolato o i biscotti, non ho voglia di coprire tutti i ruoli del genitoriale.
    Sono contraria all’inseminazione artificiale, qualche settimana fa leggevo di questa coppia che si vergognava di dire agli amici che andavano in svizzera a “provarci per l’ennesima volta”, poi ho sentito la notizia della donna morta di parto tri-gemellare, inseminata per bene, quanti ovuli le avevano impiantato? Questa fissa per la scienza che “ci rende libere di essere madri” è una roba folle e si accompagna alla depressione che spesso vedo nelle donne che non possono averne. La notizia di non poter avere figli le fa sentire delle castrate anche a livello sociale e psicologico.
    Ho visto compagne avere figli xché erano stanche (della solitudine, della precarietà), oppure farne perché “sono ancora giovane” salvo poi andare in menopausa quando la bamboccia ha 5 anni. Di mamme felici ne conosco giusto un paio (che davvero se la godono) La mia sensazione è che molte di noi figliano per paura di rimanere da sole in vecchiaia. Ma che ne sai che magari incontri un uomo o una donna che di figlie ne ha già e che ti ameranno come non mai?! Si, ci vuoi le un discorso anti-materno, un discorso contro la paura di non essere amate. C’è poi anche una questione di eredità che gli anti-mater si devono porre. A chi lascio tutta sta roba? Risposta: al* ragazzett* più simpatic e visp tra i bamboz che popolano e che popoleranno la mia vita. I miei nipoti naturali potrebbero pure essere degli stronzi, non c’hanno mica la garanzia solo perché hanno i geni di una famiglia “fichissima” come la nostra.
    Altro tabù, i bambini sono tutt* belli e simpatici. Ma anche no, care mamme, alle volte avete dei figli che sono davvero sgradevoli. Solo che non lo ammetterete mai.
    Dal mio piccolo fronte anti-materico (bella l’anti-materia!) sono disponibile ad esserci, contrattiamo il come, i ruoli e le funzioni, ma l’ora dell’aperitivo deve rimanere sacra quanto il sonnellino delle 14.00. E poi aiutateci a spingere il fronte del No, come fa la Gimeno. Non abbiamo bisogno di altr* mamm*, ma di adulti migliori che non abbiano paura di rimanere soli.

  2. “Essere madre è il massimo del femminismo: nessun uomo può essere madre” (…) “Essere madre dunque non è “solo” essere madre, ma essere se stesse fino in fondo” … brr, brividi… Quindi se non mettessi al mondo un pargolo o non ne adottassi uno non avrei mai la possibilità di “essere me stessa fino in fondo”? E’ l’avere un figlio che mi identifica in quanto persona xy di genere femminile e come femminista?! Senza filiare non avrei significato? Chi non ha figli è meno donna delle altre? La capacità di essere una (buona) madre è quindi innata in tutti gli individui di sesso femminile?

    Essere madre anche nella nostra modernissima e “civilissima” società sembra rappresentare un destino ineluttabile, un fato che ti porti appresso da quando nasci con genitali femminili. Un discorso antimaterno è di fatto necessario, soprattutto in un contesto di sovrappopolamento e sfruttamento umano, animale e ambientale quale è la realtà in cui viviamo oggi.
    Ci deve essere libertà di scelta e una consapevolezza maggiore sia per chi vuole avere figli e sia per chi non ne desidera affatto. E’ difficile abbattere il muro della rappresentazione univoca che ci circonda, la propaganda mainstream ci esibisce la madre come un essere perfetto, felice, che elargisce amore incondizionato, figura a cui tutte dovremmo aspirare. Le coppie felici sono quelle con figli, o almeno così ci ripetono i film, i giornali, gli/le altr*: se non vuoi un figlio sei un immatur*, o hai problemi, o sei un* stronz* in carriera, o sei semplicemente un* ingrat*, un* gran egoista e non sai cosa ti perdi! Come se la semplice possibilità biologica di poter dare alla luce nuova vita mi costringesse a farlo e mi togliesse ogni altra alternativa.
    Sembrerebbe quasi che non fosse contemplata la possibilità di vivere una vita piena, soddisfacente, ricca di interessi e significato anche senza diventare madre. Anzi per lo più vengono sottaciuti e nascosti i lati negativi della genitorialità come lo stress derivante da maggiori responsabilità e preoccupazioni, il minor tempo da poter dedicare a sè stessi, i sacrifici economici, l’abbandono (o il mettere in stand-by) di molti obiettivi personali, il senso di inadeguatezza e di fallimento che spesso si provano (alcun*) al manifestarsi dei primi problemi .
    Concordo pienamente infatti con chi prima lamentava la necessità di nuove narrazioni, sia di coppie/singoli/trii (ecc.) felici senza figli, ma sia anche di storie di genitorialità con tutti i suoi pro e contro, sia di infrangere il tabù delle madri “pentite”: solo allora saremo in grado di compiere scelte davvero LIBERE da preconcetti, sensi di colpa indotti (da parenti, amici, modelli di riferimento, ecc) e pregiudizi.

    Nb. Un libro piuttosto argomentato, a proposito di genitorialità, è quello di Laura Carrol “The Baby Matrix”, che cerca di svelare i condizionamenti occulti che ci spingono più o meno inconsapevolmente verso la riproduzione e il divenire genitori. L’autora definisce questo insieme di influenze come “pronatalismo”: ovvero la credenza che avere figli dovrebbe costituire il fulcro della vita di ogni adulto. Lei si spinge oltre il discorso antimaterno, fino a sostenere la necessità di corsi e “patentini” per chiunque volesse avere figli, in modo da formare (nel senso di educare, plasmare) neogenitori capaci, soddisfatti e ben consapevoli della loro scelta e di tutte le sue conseguenze.

  3. leggo sempre con molto interesse i discorsi che tematizzano lo stigma sociale verso le persone che, pur essendo dotate di ovaie e utero, scelgono di non metterli in moto allo scopo di generare figli. ad attirare la mia attenzione è soprattutto il fatto che questo presupposto sia dato per scontato, perché la mia esperienza personale è quella di una che non ha mai provato la sensazione di essere sottoposta a una simile pressione ideologica, e anzi semmai, al contrario, può vantare una nutrita collezione di commenti di segno opposto su quanto i figli siano una scocciatura e sia tanto più bello invece vivere senza accollarsi un tale peso. da madre, poi, ho sperimentato sulla mia pelle quanto le esigenze connesse alla genitorialità siano poco compatibili con i modi della produzione, perciò tendo a considerare del tutto campato in aria e fuori luogo un discorso che connoti l’esperienza della maternità come «partecipazione consumistica di derivazione capitalista». anche l’industria dell’intrattenimento qui in italia non mi pare affatto attrezzata per rispondere alle esigenze di combriccole composte da adulti con bambini al seguito: locali e ristoranti sono tutt’altro che child-friendly, e lo stesso dicasi per la programmazione di spettacoli, concerti ed eventi culturali. la presenza di minori in situazioni finalizzate all’intrattenimento è ampiamente considerata inappropriata e disturbante, come se i minori, quando fanno la loro apparizione in un contesto diverso dal pacchetto-vacanza offerto dalla pensione di un lido adriatico, fossero quasi-cittadini che possono tutt’al più guadagnarsi la tolleranza di una società che non esiterei a definire pedofoba.

detto questo, il fatto che molte persone in grado per semplici questioni di hardware di accedere come me all’esperienza della maternità affermino di sentirsi discriminate per avere scelto di non avere figli è un dato del quale prendo atto molto seriamente. la mia esperienza di madre mi conferma continuamente quanto i discorsi sulla maternità siano mistificatori e fuorvianti rispetto alle condizioni concrete in cui essa si dispiega, e come sia considerato tabù dare voce a vissuti e sentimenti negativi al riguardo. su questo mi trovo completamente d’accordo con il contenuto dell’articolo.

    trovo perciò molto opportuna una riflessione intorno alla costruzione dei significati. costruzione di significato è anche circoscrivere quella della non-maternità come un’esperienza, in contrapposizione a quella della maternità. ma dove va a parare un discorso che si prefigge di fare questo? io, per esempio, non ho esperienza di molte cose: non ho esperienza di professione manageriale, non ho esperienza di sorellanza o fratellanza, di scalate in montagna, di suonare la chitarra, di essere il papa e di un’infinità di altre cose la cui lista è naturalmente molto più lunga di quella delle cose di cui ho esperienza. il non-essere tutta questa serie di cose si può definire come “esperienza”? ogni persona che a un certo punto della sua vita sia diventata madre ha vissuto anche, prima, l’esperienza di non esserlo: io ho smesso di essere una che non voleva avere figli quando sono diventata una che voleva averne. perciò mi chiedo: che cosa intendiamo quando parliamo della “scelta di non avere figli”? se scelgo di laurearmi in filosofia si può descrivere questa scelta come la scelta di non laurearsi in ingegneria spaziale? quando parliamo di antimaternità non ci stiamo cioè muovendo sempre all’interno del paradigma nel quale la possibilità di essere madri è posta come imprescindibile, se non altro come eventualità con la quale confrontarsi perlomeno in linea teorica? non è lo stesso che definire una persona “a-tea” in quanto non pone l’esistenza di un’entità metafisica superiore, quando in un’ottica non teocentrica sarebbe molto più sensato definire “teista” chi la pone? o definire “single” una persona che non è sentimentalmente in relazione con un’altra, sebbene (come diceva mae west: “i am single because i was born this way”) tutti nasciamo e stiamo nel mondo prima di tutto come individui singoli, solo perché nella nostra cultura gli adulti associati in relazioni (per carità, rigorosamente di coppia) godono di alcuni privilegi?
    perché continuare a tematizzare la maternità come una questione femminile, cioè come una condizione “naturalmente” alla portata di mano di qualsiasi essere umano che esprima il proprio genere al femminile, quando disponiamo di mezzi contraccettivi in grado di tramutare un destino anatomico in una semplice possibilità tra le altre, e soprattutto quando sappiamo che non tutte quelle che chiamiamo “donne” sono, di fatto, anatomicamente e geneticamente attrezzate per generare figli? non è, questo, un ulteriore contributo a una costruzione di significati mistificatoria intorno al concetto di “donna”?

  4. Questo tema è molto interessante e va affrontato e discusso. È effettivamente un tabù “l’antimaternità” o come preferiamo definirla anche se in parte qualcuno già ne sta parlando, vedi l’ultimo film di Alina Marazzi.
    L’unica cosa sulla quale mi sento di dissentire è quando si scrive che non si amano i figli per istinto. Questo non è vero. I figli si possono amare per istinto, magari non capita a tutti ed è anche di queste persone che l’articolo vuole parlare ma non è giusto dire che non è possibile amare i figli per istinto.
    Marta 3 figli

  5. “probabilmente il termine “antimaterno” non aiuta”

    Sono giunta alla conclusione che questo termine sia stato una scelta infelice già nel testo originale, per una pura e semplice questione di “percezione semantica”. “Antimaternal” si trova nell’originale in castigliano e, quando l’ho tradotto, ho anche pensato di farlo con un “contro-materno”, forse il discorso sarebbe apparso meno “oppositivo” con questa parola. La decisione di mantenere il prefisso “anti” deriva dal fatto che in esso contiene già, anche, l’informazione di “il contrario di”, che sarebbe stato palese in “contro-materno”, cioé un discorso che sovverte quello imperante della maternità, non che si oppone alle persone che generano figli. Così non mi è sembrato necessario cambiarlo, visto che lo usa anche l’autrice.
    Per il significato di “anti”: http://www.accademiadellacrusca.it/en/italian-language/language-consulting/questions-answers/prefisso-prefissi-anti
    Questo termine è stato all’origine di alcune violente reazioni anche nel contesto linguistico di partenza.
    La scelta era tra mediare il significato generale del testo, tradendo la scelta linguistica dell’autrice, e tenere il registro e il lessico della stessa, mantenendo il medesimo rischio di fraintendimento. Ho scelto la seconda perché non me la sentivo di fare l’esegeta, mi sembrava e sembra sbagliato.

    🙂 volevo specificarlo.

  6. Ah! Per inciso mi trovo molto d’accordo con Baba nel dire:
    «(…) troverai migliaia di anni di oppressione patriarcale a promuovere la maternità e a fondare la denigrazione delle donne esattamente su quella, allo stesso modo in cui promuove la seduttività per poi chiamare tutte “puttane”(…)».

    E credo che “femminismo” sia proprio ragionare contemporaneamente sulle diverse forme di oppressione: dall’imposizione della maternità all’ imposizione di seduttività passando per qualsiasi “desiderio imporsto” (termine usato già dal primo femminismo proprio in relazione alla matrernità se non sbaglio, ma come dicevo la teoria arriva fino ad un certo punto).

    Ripeto, per me lo strumento migliore non è “schierarsi contro” ma promuovere narrazioni diverse, mettere a tema la “naturalità” presunta e rideclinare il tutto in direzione dell’autodeterminazione consapevole di ogni scelta. (…)
    😉

  7. =) feminoska probabilmente il termine “antimaterno” non aiuta. Poi magari dipende dal contesto in cui si vive, ad esempio io probabilmente conosco molte più femministe che non scelgono la maternità e che sono piuttosto vicine alle posizioni dell’articolo qui. Non frequento molte femministe in fissa con la maternità. Ovviamente non è un caso che io frequenti più un ambito che un altro.
    Sicuramente ci sono femministe che “romanticizzano” la maternità, non saprei dire se sono maggioritarie, credo che dipenda anche dal tipo di femminismo vissuto.
    Ripeto: qui dalle mie parti -per fortuna- non è così.

    Per questo dico, che le “teorie” lasciano un pò il tempo che trovano. Su questi argomenti le teorie spostano poco, secondo me. Ritengo più efficaci le narrazioni, come ho detto. E non si tratta di far rientrare dalla finestra ciò che si butta fuori dalla porta, almeno non è quel che mi interessa fare.
    Proprio per niente e immagino che lo sai. Sai che la mia visione della maternità è critica, per usare un eufemismo.

    Quindi per me è pacifico non voler figli e l’allargamento della discussione lo propongo proprio per questo e perchè ritengo che problematicizzare “la naturalità” sia la cosa più utile anche per ridimensionare quella romanticizzazione di cui sopra.
    Proporre un “discorso antimaterno” porta a polarizzare, quando davvero serve un cambiamento concreto di prospettive, secondo me. Per questo non ritengo di andare OT spostando un pò la sguardo, anzi spero di offrire strumenti utili ad una critica radicale della “maternità” ripensando totalmente il suo significato legandolo alla concretezza delle esperienze e non ai miti che la sostengono.

  8. Ciao Rho, io noto che ogni volta che rimettiamo in giro questo articolo gli animi si scaldano… un po’ a sproposito. Quello che la Gimeno sostiene non è che le donne che scelgono la maternità vanno messe al rogo (anche perché lei stessa è madre, tra l’altro), ma solo e semplicemente che le donne che decidono di non avere figli@ non possono ancora vivere questa scelta serenamente, senza scontrarsi con giudizi e pregiudizi di lunga data. Non facciamo l’errore, come mi pare di leggere in qualche commento precedente, di scambiare i contesti protetti, femministi e transfemministi, per il contesto generale, che al di fuori di tali “isole” è ancora fortemente giudicante in merito alle scelte riproduttive di ognun@. In merito alle tue proposte di ripensamento delle pratiche politiche, mi pare assolutamente un discorso interessante e condivisibile, ma forse non in calce ad un post che chiede invece di non giudicare le persone che non hanno intenzione di dedicarsi alla cura di chicchessia. Insomma, ogni volta che parliamo di non-maternità siamo sommerse di commenti pro-maternità e pro-cura che fanno rientrare dalla finestra quello che abbiamo volutamente buttato fuori dalla porta… direi che bisognerebbe riflettere un bel po’ su queste dinamiche!

  9. Dopo di che, forse più che teoria sono utili narrazioni positive delle scelte childfree.
    Non è necessario contrapporsi. Ci si contrappone perchè ci si difende.
    Io ho smesso di “difendere” le mie scelte con chi non ci vuole sentire, è tempo perso.

    Passiamo oltre, andiamo fiere per la nostra strada anche insieme alle altre, che -come sapete- non tutte mozzicano o saltano su nel sentire che di figli non se ne vuole sapere. Per fortuna. Costruiamo alleanze femministe mothermonsterqueer con altre narrazioni e ridiscutendo la “naturalità” di concreto.

  10. Uno dei “problemi” è l’approccio “naturalistico”, credo.
    Se si fosse in grado di pensare la genitorialità con un progetto pedagogico, questo si potrebbe condividere, penso anche con molto piacere.
    Purtroppo rispetto all’educazione si danno per scontate molte cose, quindi spesso non si “pensa” prima a molti dettagli che sono poi dirimenti nella condivisione di un ruolo. Quale atteggiamento pedagogico assumere? Quale alimentazione? Quali scelte rispetto alla scuola, alla televisione, ai giochi. Quale esposizione e in che tempi rispetto al mondo, alle notizie? Chi si occupa di cosa? Quale tipo di responsabilità si prende? In che modo decidiamo di “filtrare”? Tutte questi aspetti sono spesso fonte di conflitto.
    La genitorialità condivisa è una roba complicata, se non si chiariscono i desideri e le aspettative reciproche, la divisione di compiti e ruoli. Soprattutto se si da per scontato che le cose “vengono da sè” “naturalmente”.
    E’ auspicabile in genere promuovere una progettualità di condivisone.
    E se non si parte certo non si arriva mai.
    E entrare consapevolmente “a corsa iniziata” è un’opportunità per tutti di mettersi in gioco, ripensare al percorso e calibrare il tiro.

  11. Il mio precedente commento non è ancora stato moderato…perciò aggiungo:
    Prendo posizione: l’Antimaterno a me suona come l’Antimateria.
    Non troverai mai una femminista che ti dica di fare figli e di non abortire. Ma troverai migliaia di anni di oppressione patriarcale a promuovere la maternità e a fondare la denigrazione delle donne esattamente su quella, allo stesso modo in cui promuove la seduttività per poi chiamare tutte “puttane”. Puttane o madri: se yodecido di essere entrambe sono la peggiore criminale (la madre single per eccellenza), insieme a tutte quelle che decidono di non fare figli. Servono alleanze, non rivendicazioni fondate su misunderstanding rispetto ai processi di soggettivazione delle “donne” (chiunque esse siano).

  12. Se non mi dovessi sorbire ogni volta interrogatori e prediche al fine di scoprire dove sono “rotta”, dato che non sono e non ho interesse a diventare madre, sarei più che felice di uscire da questa contrapposizione. Il discorso di Beatriz Gimeno evidenzia che anche per le femministe è un tabù ammettere di essere cattive madri, ammettere che sarebbe stato meglio non avere figli, è un indicibile. Dire “sto proprio bene senza figli, sono felice!, risveglia i mostri, ti becchi due tipi di atteggiamento o la compassione o il disprezzo.

    Posso mettere sul piatto il desiderio di non-maternità, mentre nella quotidianità non mi sottragggo né nella cura né nel sostegno. Ma siamo sicur@ che le mamme vogliono ripensare la genitorialità e vogliano condividere la responsabilità?

  13. Sull’argomento c’è molto da dire, ma non ho tempo ed energie ora.
    Quindi contribuisco in sintesi.

    Se iniziassimo a pensare noi in termini non di “maternità” ma di genitorialità o di cargivers, se preferite?

    Altro punto è: ovviamente mi sta più che bene la scelta di non riprodursi, anzi questo è un tema su cui non riesco di solito a “farmi i fatti miei” e sostengo fortemente tale scelta. Ma con quelle che hanno minori di cui prendersi cura come ci relazioniamo?
    Io credo sia importante mettere a tema la condivisione di responsabilità, ripensando radicalmente la questione. Forse riproporre una sorta di schieramento si/no è un pò “riduttivo” e sopratutto non si va molto lontan*.
    I minori ci sono, le figurre di riferimento pure, se l’unico discorso che si fa è “si vs no” ci perdiamo un territorio fondamentale per ripensare pratiche politiche a partire da sè che promuovono un cambiamento radicale.
    Allora mi viene da dire
    -maternità +solidarietà e inclusività

  14. si, certo, si può costruire anche un discorso anti-disabili o anti-donne. Si può essere anti-tutto. No problem…però, con i già tanti problemi che dobbiamo affrontare in una società che ti racconta di dover figliare, poi alla fine fa di tutto per gettare bastoni tra le ruote dei passeggini e lascia le donne sole, non venite a scassarci le ovaie. Il discorso maternità sì/maternità no non è affatto una novità come si dice in questo articolo, tacciando il “femminismo” (ma quale??) di imporre tabù sulla non-maternità. Io sto in un movimento transfemminista e queer in cui il tabù è esattamente il contrario, in cui si viene tagliat* fuori quando la realtà parentale diventa vita vera di donne, lesbiche, trans con bambin*. Io credo che essere Child Friendly non sia fare il “gioco del patriarcato”, perchè il patriarcato è poco friendly con mamm*, zie bio o meno…e soprattutto è poco friendly con i cuccioli di essere umano (e di altre specie). I problemi che si affrontano nel quotidiano quando sei mamm* queer ci avvicinano alla disabilità, alla vecchiaia e ad altre soggettività che non “funzionano” a pieno nella società capitalistica per quel che essa ritiene “funzionale”. Quando sei attivisti i tempi della politica ti si rivelano esattamente uguali a quelli del patriarcato…Allora, se il non avere figli è “privilegio” di poche, se ne tenga conto quando ci si chiede alle assemblee “dove sono le donne?”, “dove sono le donne migranti?”, senza, in fondo, tenere conto che la domanda stessa è IPERNORMATIVA, poiché si chiamano “donne” tutti i soggetti che allattano senza in realtà sapere di chi cavolo si sta parlando. E’ giustissimo incontrarsi tra amiche e discutere della propria condizione, ma non tutto può diventare rivendicazione, diamine. Queste amiche erano tutte bianche? Abili? dell’Ovest del Mondo? Di classe media? Perché non si rivendicano anche questo? E ancora: sono ANNI che lottiamo per il diritto all’ABORTO e all’AUTODETERMINAZIONE: che stiamo dicendo??? Di fare figli?? Eppure sono proprio le lotte del “femminismo”…

  15. Anch’io ringrazio per le parole di questo articolo. Ritengo che il contributo sulla maternità che il femminismo ci ha dato e continua a darci, sia più importante da una prospettiva filiale, alla relazione di onun* con sua madre; attenzione, imputare questa considerazione al mio corpo, sebbene possa essere una lettura anche fondata, potrebbe rivelarsi riduttivo. Sull’emersione del discorso normativo dalle omissioni evidenti condivido completamente su quanto scritto. Dal mio punto di vista posso dire che alla manifestazione un discorso antimaterno non può essere che strettamente legata anche un’ apertura nelle possibilità di concepirsi figl*.
    Leggere una prospettiva antimaterna mi impone di riflettere sul mio essere figlio.

  16. Maternità come tabù, ma sempre più contraddetto dalle scelte concrete delle donne, anche se in assenza di collante ideologico collettivo.
    Scusate, è imbarazzante autocitarsi ma qui ci sta, il contenuto di questo libro è appunto femminista e antimaterno dal punto di vista che dite voi cioè contro il “maternismo”: “Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte”

  17. io invece vi ringrazio per queste parole, che condivido pienamente. mi rendo conto infatti che vivo la mia scelta di nascosto, a volte con senso di colpa.

  18. L’analisi esposta nell’articolo è lucida ed equilibrata, eppure il commento dell’utente Tibi lascia intendere che si tratti di una posizione contraria alla maternità tout court e così non è.
    La libertà di scelta dovrebbe essere un legittimo diritto riservato a tutti, e, quindi, anche a quelle donne che scelgono liberamente di non declinare la propria femminilità attraverso l’essere madri.
    Forse siamo addirittura in ritardo rispetto ad un dibattito femminista che avrebbe dovuto, già da tempo, contemplare un’alternativa senza focalizzarsi troppo sulla maternità, come è stato fatto. Ma non è mai troppo tardi, si spera. Lucia R. Capuana

  19. Ecco: ogni volta che pubblichiamo un articolo che vuole mettere in luce quanto non avere figl* possa essere per alcune una scelta felice quanto averne, si palesano le/gli ultrà della maternità… chiariamo che nessun* mai dice a chi vive la maternità come la massima realizzazione umana di non sceglierla, ma solo di poter bilanciare un pò il discorso mammocentrico. Che dite, si può fare?

  20. Ho avuto una sgradevole impressione leggendo questo articolo: a un certo punto mi è sembrato che al di la delle infinite considerazioni, sotto sotto ci fosse un concetto di maternità che io non comprendo. Un concetto che mi sembra veda la donna più come una fattrice, per l’appunto una produttrice di un bene di consumo, e per questo soggetta a consumismo.
    Ma essere madre non è questo. Non lo è soprattutto se, come avviene per fortuna sempre più spesso, lo puoi fare consapevolmente. Ma non lo è anche nei casi peggiori comunque.
    Essere madre è il massimo del femminismo: nessun uomo può essere madre, neppure quando alleva un piccolo da solo subito dopo un parto. nessun uomo è scambiabile con la madre, e i tentativi negli ultimi anni di equiparare i due genitori, a me sono sempre sembrati un ennesimo tentativo maschile di cancellare e impossessarsi del femminile.
    I padri sono importanti, ma devono essere padri, anche quando lo sono per scelta e non per genetica.
    Essere madre non è partorire un figlio, ma crescere con lui per sempre, dal momento che è nato, dunque cambiare, trasformarsi, vivere e poi morire. Per questo il figlio può venire dal proprio grembo, ma anche da un altro.
    Essere madre dunque non è “solo” essere madre, ma essere se stesse fino in fondo, giocando con tutte le meravigliose possibilità che ci regala la nostra scelta sessuale.

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