Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.

Deconstructing l’istinto naturale

19bisCapita raramente che un commento a un post sia particolarmente interessante, perché in genere chi vuole argomentare bene in risposta a qualcuno sceglie di farlo o sul proprio blog o su un social network; i commenti intelligenti sono sempre più rari, ma quelli lunghi, argomentati e completamente idioti sono ancora più rari. Quindi quando ne capita uno, va immortalato.

Premessa: non importa se l’anonimo commentatore è un troll in vena di fini ragionamenti. Importa – ecco perché ce lo rileggiamo – che questi siano i ragionamenti di una maggioranza di bei maschioni. Quindi non sarà inutile dargli una spolveratina, e fregarsene se poi l’autore legge, risponde, ricommenta, e così via.
Spero che tutti voi conosciate già il blog
Ci riprovo, che vi consiglio di frequentare spesso e volentieri. Sotto questo post – che necessariamente dovete leggere prima di continuare – è apparso un commento notevole, che sarà un piacere rileggere insieme a voi.

Lola, non te la prendere per il mio modo provocatorio di affrontare la questione. [E’ sempre carino cominciare così, è la versione retorica di “io non sono razzista ma” – predispone alla gioia, proprio]. Premesso che non so nemmeno come ci sono capitato qui [figurati noi, ma grazie lo stesso]: in genere mi occupo di discussioni di tutt’altro tipo [attenzione: ha premesso lui che non se ne occupa di certe cose, eh, ricordiamocene], sono stato catturato [il linguaggio già denuncia l’atteggiamento giusto: lui se ne andava per fatti suoi nel web ed è stato catturato. Sempre per continuare a predisporre Lola alla gioia] dalla tua tesi sulla necessità di educare i maschi [lo avete letto il post, vero? Ce l’avete trovata questa tesi sulla necessità di educare i maschi? Io no, e manco Lola, ma lui, che in genere si occupa di discussioni di tutt’altro tipo, sì]. Dove per “educare” sembra che tu voglia intendere “addestrare”, o “ammaestrare” [sembra solo a chi non sa leggere o a chi ha dei pregiudizi grossi come la galassia, ma vabbè], secondo una concezione pseudofemminista di concepire i rapporti tra i sessi [ma non era uno che si occupava di discussioni di tutt’altro tipo? Se già è in grado di riconoscere ciò che sarebbe pseudofemminista, allora ne sa. Che giocherellone].

Una concezione che fondamentalmente si regge sulla negazione, o sulla diminuzione, di una verità fondamentale [attenti, arriva la verità fondamentale! Pronti?]: noi umani siamo animali [e fin qui c’ero arrivato pure io], siamo organismi soggetti all’imperativo naturale della riproduzione [e che sarebbe un imperativo naturale? Non c’è su Wikipedia, mannaggia, e adesso come facciamo? Pure quel filosofo, come se chiamava, Kant, non poteva metterci questo, tra gli altri imperativi?], come tutti i viventi. L’istinto riproduttivo è talmente primitivo e fondamentale che ci accomuna ai lombrichi e con altri viventi ancora meno evoluti di loro [condividiamo anche lo stesso pianeta e siamo entrambi soggetti alla forza di gravità – e potrei continuare all’infinito a trovare comunanze a cacchio con i lombrichi: rimane il fatto che non hai detto cosa sarebbe un imperativo naturale. Perché se fosse l’istinto riproduttivo, diciamo che tra l’avercelo – sempre tutto da dimostrare – e il come usarlo, qualche differenza tra i vari animali io la vedo. Per esempio, se fosse tanto imperativo, a che scopo i diversi, complicati e spesso fallibilissimi “rituali di corteggiamento”? (Grazie Volpe.) Oppure perché scegliere il partner invece di riprodursi con qualunque esemplare femminile fertile? Tipo, che ne so: tua madre, tua sorella… no, quelle l’imperativo naturale le dichiara off limits, almeno per te. Lo hai detto alle sorelle dei tuoi amici? Provaci, magari in presenza dei fratelli, vedi se sono d’accordo anche loro co’ st’imperativo naturale].

Guarda che carini…

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/f/f6/Mating_earthworms.jpg/1024px-Mating_earthworms.jpg [illustrazione a uso e consumo, evidentemente, di chi vi trova somiglianze nell’imperativo naturale.]

Questo per dire che il richiamo sessuale in sé non è per nulla educato, anzi: è maleducatissimo e, a volte, anche violento [attenzione, adesso parla del richiamo sessuale, non più dell’imperativo naturale. E questo che sarà? Ce lo spiegherà? Proseguiamo fiduciosi, dopo aver assistito a “come ti spiego lo stupro con cause naturali”. E’ proprio una gioia leggerlo]. Gli individui di alcune specie (qualche volta anche gli umani lo fanno) mettono a repentaglio la loro stessa vita per seguire questo istinto [ah, qualche volta, quindi non sempre e non tutti, e non di tutte le specie. Ma non era imperativo, non era violento? E come mai qualcuno se ne sottrae? E scusa, ma individui di tutti i sessi o solo di uno? Così, per sapere].

Certo, noi umani siamo evoluti [ah, ecco]: abbiamo imbozzolato questo istinto selvaggio in una serie di condizionamenti che ci consentono di vivere in società anche molto complesse [come? Quando? Il nostro etologo non ce lo dice, continua a fidarsi dell’evidenza di ciò che dice. Che non è evidente per niente: per esempio, perché ci sarebbero questi condizionamenti? Paragonandolo all’istinto di nutrirsi – oh, mi pare fondamentale e imperativo pure questo – com’è che invece non è poi tanto selvaggio e non fa incazzare la sorella del tuo amico? E poi, quale sarebbe il motivo di avere società anche molto complesse? L’imperativo naturale è scopare, mica costruire automobili]. Ma bisogna fare attenzione, perché a volte la necessità di dominare l’istinto con norme e condizionamenti di vario genere può spingersi fino alla sua negazione, e allora saltano fuori le nevrosi e talvolta le psicosi [ma perché c’è questa necessità, se c’è l’istinto? Intanto avete assistito anche a “lo psicologo dilettante”, gioco in voga da quando il pòro Freud pensò di pubblicare le sue cose e farle leggere a tutti. Da quel giorno, tutti pensano di poterle capire al volo]. E la negazione può diventare violenza brutale [di chi? Io mi nego le cose e poi divento brutale? Verso chi? Com’è che divento brutale verso l’altro sesso e non contro il mio, visto che i condizionamenti me li sono negati da solo? Oh, l’ha detto lui eh].

L’istinto lo si può e lo si deve controllare [e allora che istinto è? Perché chiamarlo così? Chiamarlo bisogno no?], ma negarlo è ipocrita e controproducente [io trovo ipocrita parlare a vanvera di cose che non si sanno e non si capiscono, e pure usare apposta un termine per avallare senza ragionamenti né prove i propri deliri. Se quello sessuale fosse stato chiamato un bisogno e non un istinto sarebbe un errore lo stesso, ma intanto tutta la costruzione pippologica sulla violenza e sull’imperativo crollerebbe].

Per dire: puoi essere certa che il tuo ragazzo, o marito, guarderà il culo o le tette di qualunque bonazza gli passi a tiro [comportamento dovuto all’istinto imperativo? E perché – tanto per fare la prima obiezione facile – se è tipico della nostra specie tante altre culture non danno alcuna importanza allo sguardo, a ciò che si vede? E ancora: perché, se c’è un istinto, in anni diversi, in luoghi diversi, tra gruppi diversi le caratteristiche tipiche della bonazza cambiano?]. Senza darlo a vedere, ovviamente: per non offenderti, perché il sesso è una cosa e l’amore è un’altra cosa [e adesso chi lo dice a Venditti?], ma lo farà [lui ne è certo, perché tutti i maschi di tutte le specie sono uguali: hanno l’imperativo naturale, no?].

E lo stesso farai anche tu, in modo diverso, meno esplicito, più complesso: perché sei femmina, e la missione biologica delle femmine è più complessa [CALMA, fermi tutti, facciamo ordine. Allora: c’è l’istinto naturale, il richiamo sessuale e adesso la missione biologica. CHE CACCHIO SONO? DOVE LE HAI PESCATE QUESTE SCEMENZE? Un link, un cognome… niente, tutta scienza infusa]. Ad iniziare [qui due parole sulla d eufonica] dalla scelta del maschio più adatto per finire al parto e alla cura della prole [traiamone le conseguenze: se una donna vuole vivere per cavoli suoi e senza avere figli, tradisce la sua missione biologica. E le suore? No, dico: E LE SUORE?].

I maschi hanno una missione biologica molto più semplice [ma guarda un po’, che culo]: possedere e inseminare quante più femmine possibile [deve averlo digitato usando il glande, a giudicare dal pacato climax retorico]. E anche nelle specie monogamiche come la nostra [ecco, qui basta Wikipedia per svelare la scemenza: la nostra non è affatto una specie monogamica, è solo un’opzione culturale di alcuni gruppi sociali] permane questo istinto primitivo alla promiscuità [ah, ecco, c’è un altro istinto: quello alla promiscuità. Ma sono due o è sempre quello di prima, meglio definito? Boh]. Anche nelle donne, eh? [oh, meno male, me stavo a preoccupa’.]

Dunque non ha senso proporre una educazione dei maschi [Lola non l’ha fatto, dovrebbe bastare saper leggere], e anche delle femmine [questo ancora meno], a partire dalla negazione di una realtà istintiva primaria [definizione del tutto personale: non c’è uno straccio di prova scientifica che lo sia, anzi che ne esista una] come l’attrazione sessuale [NO! Ma come l’attrazione? Ma hai parlato finora di riproduzione, promiscuità, sesso, violenza, e adesso te ne esci con una cosa moscia come l’attrazione?]: è ipocrita, nevrotizzante, controproducente [se gli effetti sono scrivere ‘ste cose, comincio a crederti].

Ha invece senso farlo a partire dal riconoscimento pieno della natura profonda di maschi e femmine [con buona pace degli altri generi – a proposito, ma come fanno a esistere tutti quei generi se c’è un istinto primitivo?], perché solo in questo modo uomini e donne possono rispettarsi per ciò che sono [belve inevitabilmente assetate di sesso i primi, e creature vòlte al parto e alla cura della prole le seconde. Però, complimenti per la scienza infusa].

Il pistolotto mi è uscito un po’ lungo [grazie anche per aver evitato il doppio senso]. E prima che parta la strigliata farò bene ad allontanarmi [tranquillo, Lola pensa solo al al parto e alla cura della prole, è il suo istinto, non hai nulla da temere]. Ciao. [Ciaone proprio.]

Igiene del decostruttore #2

DeconHarry2

«Mai mi sarebbe venuto in mente di scrivere una cosa del genere senza la compagnia continua di tutto il collettivo Femminismo a Sud, del quale, come capita in certe storie d’amore un po’ melense, mi sembra di far parte da sempre. Il fatto che oltre all’amore ci sia anche la politica non fa che rendere il collettivo folle abbastanza da, per esempio, mettere in giro roba come questa. Dàje così».

Così scrivevo qualche anno fa, e la sostanza non è cambiata. È cambiato il collettivo, ma non sono passati né il coinvolgimento personale né voglia di fare politica in questo paese pare che bastino per sembrare già un pericolo sociale. Bene. Dàje così.

Vi ripropongo quindi quello stesso testo, un po’ modificato grazie alle critiche di molti, e un po’ aggiornato. Ho visto che in questi anni la parola deconstructing ha fatto un po’ di strada – bene – e tanti altri si sono divertiti in questa attività – meglio ancora.

Cos’è il deconstructing?

Ho chiamato in questo modo, rifacendomi al titolo di un vecchio film di Woody Allen (Deconstructing Harry, 1997) una mia serie di post pubblicati sul blog di Femminismo a Sud e poi su Intersezioni, nei quali ho praticato un lavoro di critica, destrutturazione, ribaltamento di un testo atto a svelarne contenuti e intenzioni nascoste, provocatorie, o semplicemente politicamente sgradevoli; oltre a errori, omissioni, riferimenti sbagliati, pregiudizi. E’ anche successo che qualcuno, io no eh, ha osato accostare questa pratica – forse, con le dovute riserve – al significato del termine “decostruzione” com’è nato tra le parole di Jacques Derrida, ma tutto sommato la storia della sua origine, o dei suoi possibili accostamenti nobili, non conta poi molto. Tipicamente è stato oggetto di questi miei divertimenti analitici la presenza di pregiudizi sessisti più o meno occulti in alcuni testi, ma è anche capitato di trovare fascismi, patriarchismi, e altre meraviglie di questo genere; è uno sfizio che può funzionare bene per qualunque altro tipo d’indagine testuale.

Perché è tanto divertente?

Il divertimento consiste non tanto nel dileggiare l’autore del testo che si è scelto di decostruire – questo non è lo scopo e non è neanche un’attività politicamente rilevante – quanto il suo linguaggio. Mostrando “l’altro lato” delle parole scelte (le intenzioni di chi scrive, le costruzioni del suo linguaggio), o anche la struttura tipografica nella quale il testo si presenta, è inevitabile svelare quei meccanismi di consenso che, una volta esibiti, fanno risultare ridicolo il loro funzionamento e la loro pretesa di ragione. Spegnendo la forza – a volte la violenza – che anima quei testi, ci si accorge che molto della loro potenza suggestiva o della loro capacità di convincere risiedeva in realtà in giochi retorici privi di qualsiasi consistenza razionale, o per lo meno reale.

Dice Treccani che l’ipocrisia è“simulazione di virtù, di devozione religiosa, e in genere di buoni sentimenti, di buone qualità e disposizioni, per guadagnarsi la simpatia o i favori di una o più persone, ingannandole”. Tantissima informazione giornalistica fa un uso spregiudicato di un un linguaggio ipocrita, simulando qualunque qualità pur di avere più lettori, attirare sponsor o clic, far parlare di sé e/o della propria testata. Smascherarlo distrugge queste possibilità ingannatorie e allena a non farsi più ingannare, in futuro.

E tutto questo fa ridere, ovviamente. Almeno all’inizio.

Di quale testo parliamo?

I testi che meglio si prestano alla decostruzione – almeno per come finora l’ho attuata io – sono quelli che tipicamente occupano una pagina web: articoli di giornale online, post di blog, interviste riportate in rete, brevi saggi o recensioni. Il perché sarà chiaro più avanti, ma è importante premettere che nessun testo può essere immune dall’essere decostruito: anche immagini e video potrebbero tranquillamente essere decostruiti, l’importante è trovare una tecnica che ne smonti l’impianto retorico, che permetta cioè di interrompere – per criticarla – la logica che ne tiene insieme le parti (sui video ha realizzato un ottimo lavoro Lorella Zanardo). Quindi la prima e unica caratteristica che deve avere un testo per essere decostruito è l’essere divisibile in parti: parole o frasi per il linguaggio, zone o elementi per le immagini, scene, sequenze, gesti per i video.

L’importante è che queste parti nelle quali si divide il testo sul quale fare deconstructing abbiano un senso autonomamente dal resto. Nel caso di alcune poesie, o di un breve lancio d’agenzia, o di un paragrafo che espone i dati di una tabelle, conviene lasciare il testo unito e mostrarne i lati oscuri come un tutto, nella sua interezza. Questo perché il deconstructing non deve funzionare come una messa in questione della singola parola, una ricerca di un “lessico” migliore, bensì lo svelamento di un’intenzione di forzare il consenso del lettore.

Unità di senso, premesse e conclusioni

La divisione in parti è necessaria, credo, per individuare le intenzioni alla base del testo. Cioè per comprendere cosa “tiene insieme” tutte le parti del testo, qual è il suo scopo dichiarato – e anche quello occulto, se è possibile accorgersene leggendolo. In questo modo è facile stilare una breve lista – meglio appuntarsela da qualche parte – delle premesse e delle conclusioni inerenti al testo da decostruire. Non è detto che siano tutte immediatamente chiare entrambe: il lavoro di decostruzione serve anche a far emergere questioni non esplicite o non immediatamente avvertibili, ed è quindi da intendere non tanto come una mera analisi per avverare tesi contestatorie già pronte, ma una ricerca di quei mezzi coercitivi e/o logicamente scorretti (siano essi argomentativi o formali) che possono inquinare la comunicazione, principalmente quella politica. Quasi sempre è possibile individuare dei momenti precisi, nella costruzione argomentativa del testo: la ricerca di fonti a sostegno delle proprie idee, la messa in questione delle opinioni opposte, l’esposizione dei loro difetti o contraddizioni, la deduzione delle proprie posizioni come logica, ovvia, naturale, giusta.

Perché decostruire?

Decostruire è una pratica politica di libertà – almeno così la intendo io. E’ un gioco non solo per affinare l’intuito in lettura e comprensione, ma per condividere i propri dubbi e le proprie perplessità, per diffondere un atteggiamento critico verso ogni messaggio strutturato, per smascherare gli strumenti di oppressione mediatica in genere. Decostruire non è interpretare, nel senso di “dare una propria versione di qualcosa”: è una critica, cioè un’azione volta a demolire una catena monolitica di espressioni e significati inserendovi un’altra voce, così che il monologo possa farsi, in un certo senso, dialogo e che in questo dialogo si possa svelare quello che nel monologo rimaneva non detto, nascosto, camuffato. La decostruzione, quindi, non serve tanto a opporsi, a dire “il contrario” del testo decostruito: è utile piuttosto per quello che svela, che mostra mentre esercita una critica sulle parole, sulle frasi, sulla forma tipografica del testo originario. Così che quel testo che era stato pensato e scritto solo per essere letto, viene portato a “parlare” esso stesso di ciò che invece ha taciuto, aggiungendovi una voce critica.

Decostruire si fa con tutto il corpo

Per questi motivi ci tengo a sottolineare che la decostruzione non è tanto guidata da una lucida scansione delle ragioni, delle implicazioni logiche, delle conseguenze di certe assunzioni, quanto dalla sensibilità nei confronti del linguaggio. E’ un lavoro che nasce da un senso, non da una conoscenza, ed è guidato dal “fastidio” di aver sentito in azione nel testo da decostruire una violenza, una prepotenza che va smantellata, scardinata, mostrata nel suo ipocrita tentativo di creare una soggezione inesistente nei fatti. Finché questo fastidio è ancora avvertibile, la decostruzione non è finita. E questo fastidio si manifesta spesso con dolori, pruriti, giramenti di genitali e rodimenti di culo.

Deconstructing contro cosa

L’attività di decostruzione è una lotta contro i poteri della logica e della grammatica in azione in un testo. Il potere delle espressioni, per esempio, è spesso racchiuso in convenzioni, luoghi comuni, stereotipi che assumono come veritiero uno stato di cose frutto di pregiudizi e impressioni del tutto immotivate e non dimostrate. Il potere del lessico sta nella scelta della parola più coercitiva e meno liberatoria per guidare il lettore al concetto che interessa l’autore, le sue intenzioni spasso non dichiarate. Il potere della struttura testuale racchiude in paragrafi separati piccoli nuclei di senso che in realtà non sono affatto autonomi e ben fondati; infatti spesso quei paragrafi “chiedono” surrettiziamente al lettore di essere confermati per il loro essere semplicemente staccati dal resto. Il potere dell’abitudine passiva della lettura, al quale spesso si appella un discorso zoppicante e poco fondato, presume in chi legge fiducia totale nel testo scritto in sé.

Questi poteri vanno identificati, ne va compreso il raggio d’azione e vanno resi inoffensivi. Allora tutti i sensi possibili del testo – e le sue mancanze – potranno emergere senza difficoltà.

Deconstructing con che cosa

Non è necessaria alcuna preparazione per decostruire un testo, servono solo fantasia, determinazione, e le parole. Decostruire è fare i conti con il lessico e con la sintassi: c’è da sconfiggere l’ambiguità delle parole altrui e da lavorare sulla chiarezza delle proprie.

Le parole tendono ad amalgamarsi, a contaminarsi, e bisogna resistere all’adeguazione delle parole tra loro, nella tentazione di rendere ogni discorso liscio, pulito, senza intoppi. Se vogliamo dire così, decostruire è mettere bastoni tra le ruote, inceppare dei meccanismi, ostacolare il procedere delle frasi così com’erano progettate inizialmente. Provate a volgere le negazioni come fossero ammissioni: anche trasformare banalmente un “non credo che non” in un “io credo che” potrebbe sconvolgere l’ordine precostituito dall’autore. Oppure potreste ottenere effetti insperati dal trasformare le frasi ipotetiche/condizionali, rovesciandole: un “se A allora B” suona molto diverso da un “c’è B dove c’è A”, pure se le due formulazioni sembrano logicamente equivalenti. Ancora più interessante è giocare con i sinonimi: per esempio sostituire i verbi. Usare dei loro sinonimi, per poi rileggere le frasi, può far sorgere delle ipotesi di lettura che forse l’autore voleva occultare, quando ha scelto quella parola e non il sinonimo che avete messo alla prova.

Deconstructing da dove

Decostruire è, inevitabilmente, indagare le condizioni di possibilità di un testo, cioè ricostruire anche la sua storia, ciò che lo ha preceduto e che ha generato, nell’autore, la necessità di scriverlo. Quindi si tratta anche di domandare alle parole da dove vengono, quale necessità ha spinto qualcuno a usarle in quell’ordine, e non in un altro, per esprimere quel senso e non un altro. Le parole hanno una storia, nessuno le inventa lì per lì tanto per essere compreso o per esprimersi, perciò le scelte lessicali denunciano un passato, un’impronta originaria che l’autore sceglie perché la preferisce ad altre per i suoi scopi. E’ il caso, prendendo ad esempio i testi che ho decostruito, dell’uso del linguaggio militare da parte di commentatori politici. Se un autore scrive che tra i generi c’è “battaglia” e non “scontro” o “opposizione”, non è la stessa cosa. Per esempio, in una “battaglia” può esserci facilmente un “eroe”, il “sacrificio” e un “onore”, mentre a una “opposizione” sarebbe più difficile accostare quelle tre parole. Ecco che un testo viene caratterizzato da determinate scelte che colorano il discorso con aloni, presenze, atmosfere che non sono elementi da trascurare ma entrano a far parte della lettura, s’insinuano con i loro sensi multipli negli spazi bianchi tra le parole. Quindi vanno decostruite anch’esse, in qualche modo. Per questo usare l’ironia può essere, oltre che divertente, funzionale: l’ironia permette di evitare il condizionamento dovuto a elementi non puramente testuali, spazzando via le “arie”, gli odori e i sapori che determinate scelte lessicali introducono nel discorso.

Deconstructing chi

Decostruire è mettere se stessi in gioco, inevitabilmente, perché il lettore non è neutrale, mentre legge. Forse lo si vorrebbe così, ma ciò non è possibile, perché leggere è anche comprendere – o tentare di comprendere – e questo comporta distendere tutte le proprie convinzioni e conoscenze personali per entrare in ciò che il testo dice. Decostruire è quindi anche far emergere le sollecitazioni che il testo promuove in noi (nella memoria, nel corpo, nei sensi, nella cultura che abbiamo interiorizzato) e metterle alla prova facendole scontare con le parole scritte. Il risultato dovrebbero essere domande, interrogativi, questioni che il testo ha sollevato ma al quale non risponde o preferisce non rispondere, e c’è da chiedersi il perché.

Non è necessario però spostare il fuoco del lavoro decostruttivo dal testo al suo autore. Si dovrebbe sempre cercare di “rimanere sul pezzo”, perché si decostruiscono i testi ma non le persone. Per quanto chi le ha scritte possa avere un carattere spregevole o malevoli intenzioni, sono le parole lo strumento usato per veicolare violenza, costrizione, falsità o ipocrisie; sono loro a dover essere disinnescate. Dopo questo lavoro di decostruzione, l’autore non conterà assolutamente più niente.

Deconstructing come

Certo un PC è più comodo da usare, ma anche sulla carta si può fare un deconstructing. Il primo lavoro da fare è una accurata frammentazione dei paragrafi originali, spezzando tutte le frasi al punto (o dove la punteggiatura suggerisce di farlo) e scrivendole distanziate di una riga – su carta si possono usare evidenziatori a colori alternati, per esempio.

In questo modo le frasi posso essere lette in maniera “assoluta”, sciolte dal discorso precedente o successivo, e si possono riconoscere più facilmente le loro inconsistenze o incoerenze. Provate, oltre ai giochi lessicali già descritti, a immaginare di pronunciarle a una persona che non sta leggendo tutto il testo: hanno ancora un senso? Di cosa avrebbero bisogno per essere comprensibili? E nel resto del discorso sono presenti questi altri elementi? Tutte le espressioni sono chiare, sono definite? Questo lavoro permette di passare a una fase successiva, cioè individuare i legami nel testo tra le parti significanti. Ci sono sicuramente concetti che vengono premessi per definirne altri, oppure concessioni fatte per poter poi confutare una opinione. E’ bene segnare con evidenza questi legami, perché sono quelli che tengono insieme i vari argomenti e rendono il testo un “tutto” unito – e potrebbero essere, in realtà, del tutto arbitrari. Nel caso di una intervista, per esempio, l’ordine delle domande potrebbe essere stato scelto per meglio agevolare l’intervistato a dire ciò che gli fa piacere, e per evitare di dire cose a lui scomode; in un articolo di cronaca, alcuni fatti apparentemente slegati con la notizia principale potrebbero essere inseriti, all’inizio o alla fine, per mostrare come la notizia faccia parte di un insieme di circostanze che invece sono solamente create da chi ha scritto.

Una piccola accortezza ulteriore, che probabilmente porta a scoprire insospettati intrecci di senso, è il conteggio delle parole, ossia contare quante volte una parola viene ripetuta, anche nei suoi sinonimi. Può essere utile a rintracciare l’intenzione dell’autore di usarla come “veicolo” di un concetto non chiaro, oppure per rafforzare nel lettore l’idea che quella parola o espressione siano chiare e definite – ma nel testo la definizione non c’è.

Non è mai inutile raccomandare di distinguere, in ogni tipo di testo, “i fatti dalle opinioni”. Spesso opinioni personali dell’autore sono spacciate per evidenze, ovvietà, caratteristiche di ciò che viene descritto – ma non è così. E’ sempre necessario avere la mente pronta a cogliere atteggiamenti giudicanti, moralistici o comunque privi del giusto distacco necessario a una esposizione obiettiva, appunto, sia dei fatti che delle opinioni.

Sarà facile che emergano, nel lavoro di decostruzione, altri sensi possibili per il testo e anche altri attori coinvolti. Se ci sono, ad esempio, formule linguistiche che richiamano alla mente le espressioni tipiche di una persona che non è l’autore, si deve chiedere conto di questa “presenza”; oppure potrebbero esserci altri significati possibili, altri sensi per una frase o un’espressione, la cui ambiguitàè fonte di fraintendimento oppure di ricercata vaghezza.

La domanda che dovrebbe sempre alimentare il lavoro di decostruzione è: che cosa manca? Che cosa non mi fa sentire a mio agio quando leggo questo testo? E perché non c’è?

Link 

Qui di seguito la lista dei link ai “deconstructing” pubblicati finora da me, dal meno recente al più attuale – sono link anche quelli non colorati, cliccate con fiducia e buone risate, spero 🙂

Deconstructing SNOQ (SNOQ a pezzi) – 21/11/2011

Deconstructing “Liste. E femministe” – 22/12/2011

Deconstructing “Casapound spiazza tutti” – 13/2/2012

Storie di un padre NON separato #6 (parte prima: Deconstructing Giacomo) – 19/3/2012

Deconstructing “Che cos’è il patto di genere” – 19/2/2012

Deconstructing Clio Napolitano – “Morti rosa” – 2/5/2012

Deconstructing “Il recensore misogino” – Come non si fa una recensione – 25/6/2012

Cosa vogliono le donne? (deconstructing Gramellini) – 30/6/2012

Deconstructing “Pussy Riot, le giovani punk a processo” – 1/8/2012

Deconstructing Elasti – 14/9/2012

Deconstructing allievo e maestro – 21/9/2012

Il genocidio dei padri, ma siamo sicuri che esista? (Deconstructing Mazzola) – 25/10/2012

Io sono Tempesta (Deconstructing Mazzola bis) – 4/11/2012

La politica di Fonzie (Deconstructing la beta-solidarietà) – 7/11/2012

Decontructing SNOQ #2 – lo spot – 24/12/2012

Deconstructing ANSA – 8/1/2013

Deconstructing “i casalinghi” – 7/2/2013

Deconstructing l’ottomarzomaschio – 14/3/2013

Deconstructing le vergini violate – 10/04/2013

Deconstructing la vanvera – 10/04/2013

Deconstructing le poesie? – 19/04/2013

Deconstructing la censura –  19/04/2013
Deconstructing Don Riccardo – 02/05/2013

Deconstructing il moralismo – 13/05/2013

Deconstructing lo scienziato – 05/06/2013

Deconstructing il progetto di Dio – 05/06/2013

Deconstructing il direttore – 10/06/2013

Deconstructing le avances – 24/06/2013

Deconstructing l’amor cortese, i cavalieri, i parolieri, i giocolieri, gli uomini di ieri  – 08/07/2013

Deconstructing l’ignoranza (o Dell’anti-omofobia) – 30/07/2013

Deconstructing la cronaca stretta – 16/09/2013

Deconstructing “la tua opinione” – 02/10/2013

Deconstructing l’impressione – 16/10/2013

Deconstructing lo yin e lo yang – 21/10/2013

Deconstructing il sogno e l’incubo – 24/10/2013

Deconstructing l’ideologia totalitaria – 05/11/2013

Deconstructing la redazione – 25/11/2013

Deconstructing il Queer Bilderberg – 02/12/2013

Deconstructing “il sesso con sentimento” – 16/12/2013

Deconstructing la costanza (di Miriano) – 13/01/2014

Deconstructing il collaborazionismo sessista – 28/01/2014

Basta il pensiero (deconstructing il Metodo Scanzi) – 10/02/2014

Deconstructing quello (il giornalista) che ci prova – 18/02/2014

Deconstructing la zappa sui piedi – 25/02/2014

Deconstructing il genio della lobby rosa – 31/03/2014

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra – 08/04/2014

Deconstructing una certa idea di maschio etero – 28/04/2014

Deconstructing la frittata – 11/06/2014

Letture per l’estate (Deconstructing il ridicolo sessismo linguistico) – 30/07/2014

 

L’archivio della Primavera Queer 2014

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Ci raccontavamo in quei giorni a Chieti, con Laura Corradi, che in Italia una cosa come la Primavera Queer non s’è mai vista.

Un gruppo autonomo di studenti e studentesse (alcun* dei quali già attivisti nei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion) ha promosso a Chieti la Primavera Queer come momento di autoformazione, incontro e discussione intorno alla teoria queer. Il progetto è stato presentato al bando 2013 per le attività socio-culturali degli studenti dell’Università d’Annunzio, selezionato e finanziato. Docenti, autori e autrici, noti anche a livello internazionale, si alterneranno in sei giorni di seminari e laboratori.

Non nel senso che in Italia non s’è mai fatto nulla di queer, ci mancherebbe: ma non ci ricordavamo di nulla che durasse una settimana, che sia stato voluto e costruito dagli studenti e finanziato da un ateneo italiano. Speriamo di essere smentiti, ovviamente.

Adesso in questa pagina stanno raccogliendo tutti i materiali completi di quei giorni, per costruire un archivio più che utile in un paese che ha difficoltà anche solo a sapere che esiste la parola “queer”. E’ importante diffondere il più possibile le parole di tutti quelli che sono intervenuti, in presenza o connessi dalle loro sedi, e conservarli, perché in giro su questi argomenti c’è ancora molto poco; e perché realtà molto efficaci sul territorio ancora conoscono poco di quello che si fa di buono anche a pochi chilometri di distanza.

Il video del mio intervento, Il linguaggio sessista: riconoscerlo, neutralizzarlo, decostruirlo dura quasi un’ora e venti quindi vi consiglio di non sorbirvelo tutto insieme perché potrebbe farvi male 🙂 aggiungo però il file ODP con le slide che ho usato; questo invece è l’abstract del mio discorso. Qualsiasi domanda o commento vogliate fare mi sarà molto utile e ve ne ringrazio fin da adesso.

Spero che ci siano presto altre Primavere Queer in tante altre città.

Deconstructing la frittata

320px-Frittata2La colpa è, probabilmente, dei numerosi programmi televisivi dedicati alla cucina, agli chef, all’assaggio e ai fornelli, ma è evidente che sempre più parti politiche hanno assimilato come tecnica di comunicazione politica il gesto che migliaia di cuoch@ e casalingh@ fanno in cucina: rivoltare la frittata.

Che lo facciano con l’aiuto di un piatto o del coperchio della padella, che lo facciano con un colpo di polso degno di Henri Leconte, rigirare la frittata è uno dei più straordinari casi in cui una innocente e necessaria pratica culinaria si è trasformata nella moda politico-retorica del momento. Il rivoltamento è usato ormai sia da poteri ben consolidati che da poveracci che non se li fila nessuno; o perché inefficaci i tradizionali metodi di oppressione, o per avere un po’ di visibilità tramite discorsi fantasiosi, entrambi tentano di colpire l’avversario politico facendolo passare per oppressore, maligno, insidioso, brutto&cattivo – mentre loro sono tranquilli paciosi a vogliono solo parlare.

Proveremo a fare un deconstructing un po’ diverso dal solito, tanto per capire di che stiamo parlando; anche senza occuparci nel dettaglio di tutti, è importante riportare qualche esempio, raggruppato per comodità in grandi categorie. Il resto starebbe a voi – “e mica posso fa’ tutto io!” (cit.)

1) Ai cattolici viene limitata la libertà d’espressione.

Questa splendida frittatona gira alla grande da quando Ivan Scalfarotto ha fatto la sua proposta di legge, per ora approvata dalla Camera, che introduce un’estensione alla cosiddetta “Legge Mancino“, estensione che a leggerla per intero è una pippa notevole ma che nella sostanza consta di queste due frasette due:

a. istigare a commettere o commettere atti di discriminazione per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro
b. istigare a commettere atti di violenza per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia: punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni

Ci vedete qualche accenno alla libertà d’espressione, alla libertà d’opinione, e altre cose del genere? No, dovrebbe bastare saper leggere. Ma i nostri ipocricattolici son partiti armati di fede speranza e carità per l’ennesima crociata a difesa del loro(?) pensiero, minacciato dalle forze del male: gli omosessuali. Ed ecco che da quel giorno battono il tamburo della libertà minacciata, una colossale panzana che solo in un paese dove una suora vince un reality show musicale poteva attecchire così bene. Leggete qua (un esempio qualunque, preso a caso tra gli ultimi usciti) di che stronzate colossali sono capaci:

«È utile ricordare – affermano le Sentinelle in Piedi in una nota – che se tale proposta dovesse diventare legge chiunque affermi che un bambino per crescere ha bisogno di una mamma e un papà potrebbe essere accusato di omofobia e rischiare di essere condannato ad un anno e sei mesi di carcere. Lo scorso 15 marzo a Piacenza eravamo 350 Sentinelle in Piedi, un successo straordinario, ma è tempo di far sentire di nuovo il nostro silenzio, perché impedire a qualcuno di esprimere la propria opinione è il primo passo verso la dittatura. Diverse volte negli ultimi mesi, le veglie delle Sentinelle in Piedi sono state fortemente contestate e accusate di omofobia. Non è che la conferma di quanto sia urgente la nostra mobilitazione, infatti, se oggi solo stando in silenzio nelle piazze si viene additati come omofobi, cosa accadrà domani, se e quando la legge sarà approvata?»

Carissime sentinelle, ma che andate dicendo? E’ una vera e propria falsità, una balla, una sciocchezza, una stuipidaggine. Ma chissenefrega – e chi se n’è mai fregato – delle cose che pensate e andate dicendo: so’ problemi vostri. Quella legge, c’è scritto sopra, non serve per i pensieri né per le espressioni, serve proprio per tutt’altro, c’è scritto: atti di discriminazione o atti di violenza, e le vostre idee circa l’omosessualità, finché rimangono idee, non danno alcun problema – al massimo schifo o pena, tutto lì. Però fare le vittime fa comodo, e adesso vorreste passare per paladini della libertà invece che per ipocriti; i quali vorrebbero addirittura sentirsi chiedere scusa per aver anche solo paventato la possibilità di avere una legge che punisce gli atti omofobi. E attenzione, amici cattomofobi: se ne sono accorti anche personaggi molto preparati di questi trucchetti retorici sulle questioni di genere. Sarà sempre più difficile farci cadere la vostra amatissima “opinione pubblica”, in piedi o seduta che sia. Complimenti per la frittata, davvero.

2) Le vere vittime sono gli uomini, altro che “violenza sulle donne”.

Beh, questa invece è una specialità della casa (patriarcale) che va avanti da un pezzo, sempre in nuove versioni e fantasie elaborate dagli chef professionisti come dagli smaneggiatori di fornelli occasionali. Ce n’è per tutti: potete trovare il dotto maschione che legge tanti libroni e li studia e fonda gruppi chiamandosi con lettere greche (quello che ama presentarsi come corretto, forbito e gentile), del quale recentemente ho letto questa meraviglia, in un aggregatore:

Tutto ciò che gli uomini avrebbero fatto nel corso della storia, quindi anche le grandi rivoluzioni, le grandi lotte per l’emancipazione umana, i diritti, la libertà, la democrazia, l’eguaglianza, il socialismo che li hanno visti protagonisti, e poi il lavoro disumano, lo sfruttamento e le immense sofferenze a cui sono stati sottoposti, così come le scoperte scientifiche, la produzione filosofica e letteraria, l’arte (per non parlare delle religioni), sarebbe stato fatto con il proposito di opprimere le donne.
Questa è l’operazione filosofica/ideologica che sta alle fondamenta del femminismo in tutte le sue correnti e sottocorrenti, nessuna esclusa. La criminalizzazione del maschile è ciò che accomuna tutte le diverse determinazioni del femminismo, oggi declinato nella sua versione ancora più aggressiva, che è quella detta appunto del genderismo.

Fantastico, sublime, mirabile produttore di stronzate galatticohegelianmarxiste, il quale crea mostri a suo uso e consumo per parlare dei poveri ometti che non ce la fanno più a sopravvivere, sempre più angustiati dalle brutte donnacce (e da altri uomini che beneficiano della loro preziosissima arma, l’alphavulva). Questi girafrittate esistono anche nella versione statistico-sociale: certamente ricorderete il mitico avvocato “Tempesta” Mazzola (qui uno e due esempi dei suoi fallodeliri) il quale meno di due anni fa ci propinava paternalismi di questa levatura:

Ho perplessità sui numeri sparati a vanvera. Nessuno ad oggi mi ha difatti indicato una fonte ufficiale da cui trarli e la causa precisa delle morti e per mano di chi. Il “cianciare” era riferito al giornalismo pressapochista. Ho contrapposto numeri ufficiali che smentiscono l’allarme, anche se è giusto che vadano letti più nel profondo, dal generale al particolare. Un lettore ha ben citato la fonte del ministero dell’Interno che nega qualsivoglia allarme al riguardo. Dunque si stanno enfatizzando alcune morti per destare allarme e, come scritto prima, per imporre un femminismo d’assalto. Egemonizzante. Aggressivo come il tono usato nei commenti, vera cartina di tornasole del femminismo d’avanguardia (presunta).

Capito? Il problema è che non ci sono i numeri perché nessuno si occupa del fenomeno, ma il nostro fa finta di capire il problema e bea sé e il suo maschio cervellone dei “dati ufficiali”. Geniale, a modo suo. E tu, che ti sbatti per registrarli e diffonderli correttamente, quei numeri, tu sei il cattivo perché enfatizzi, strumentalizzi, aggredisci, imponi; sei brutt@ e cattiv@ femminist@, pussa via! Non c’è nessun allarme: com’è giusto per il loro virilissimo destino, muoiono sono i maschi per mano delle donne, eh.
Dite che è roba vecchia? Ma la frittata è sempre quella: quella dei poveri masculazzi ai quali sentirsi dire “puzzi forte, lavati almeno” significa che il femminismo gl’impedisce di scopare; quelli che le donne si approfittano della loro alphavulva per fare carriera e ottenere vantaggi, come se i vantaggi e le carriere venissero dati in cambio di sesso da un distributore automatico, non da un uomo come loro; quelli che le donne c’hanno tutti i vantaggi sociali ed economici, di che si lamentano? Però mai che facessero a cambio di vita, anche solo per un giorno (qui è riportato qualche discorso come esempio di tutto ciò, non vi aspettate link a quello schifo, basta usare Google); e poi i mitici articoli, che spopolano nei ghetti rosa, nei quali le conseguenze del sessismo – i pregiudizi sul “sesso forte” – vengono usate come prove che la società è più cattiva con i (tantissimi!) maschi che subiscono violenza.

Capito come funziona la frittata? A parte le letture ignoranti e mistificanti, il trucco è: quello che succede ai maschi lo descrivo come simmetrico di quello che succede alle donne, et voilà! la frittata è girata. L’avete sentita, questa frittata, anche nella versione più generalista “il femminismo è il contrario del maschilismo”: la considerazione del fatto che forse non si tratti di un rapporto simmetrico – perché quello tra oppressori e oppressi non è mai un rapporto simmetrico – non li sfiora proprio a ‘sti bei soggetti e soggette – guarda caso. E che quindi leggere i fenomeni di violenza di genere come fossero lo stesso fenomeno – solo con soggetti diversi – è manifestazione d’ignoranza quando non di malafede. Calda la padella, eh?

3) I genitori non possono decidere cosa studiano i figli.

Notoriamente della scuola pubblica non frega niente a nessuno (parlo della maggior parte dei politici di professione, stante ciò che ne hanno fatto dal dopoguerra a oggi) e la maggior parte dei genitori continua a pensare che la scuola debba fare qualunque cosa soprattutto perché maestri e professori sono una casta che si gode tre mesi di vacanze all’anno (stronzo luogo comune dal dopoguerra a oggi). Il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi: i genitori devo comprare pure la carta igienica e va bene così, ma se qualche docente illuminato – o qualche studente autorganizzato – porta dentro la scuola argomenti di genere, allora protestiamo! A scuola si porta di tutto da casa, compresi i pregiudizi.

Il caso degli studenti di Modena lo ricorderete, è un esempio perfetto. Ecco come si esprime l’associazione di genitori che lo ha contestato:

L’intervento di Luxuria al ‘Muratori’ non rispetta questa esigenza di pluralismo e rappresenta invece una vittoria del pensiero unico nella forma della cosiddetta ideologia del gender e una negazione della liberta’ di espressione e del contraddittorio.

Capito? Applicando il principio – stupido e distorto – divulgato da quella ridicola e ipocrita norma italiana della par condicio, “i genitori” (ma quali? Di chi? Indovina!) assumono che la sola presenza di una transgender a parlare sia la violazione di un supposto contraddittorio. E sì, perché lei è lì per fare propaganda politica, no? Lei è lì per trasformare tutti i virgulti italici in transgaypornozozzoni come lei, no? E così, salto mortale carpiato per la frittata: non c’è il contraddittorio – senza spiegare perché ci dovrebbe essere – e quindi quella è un’imposizione della potentissima lobby gaytransfrociazozza, che come sapete governa il mondo tramite il commercio dei boa di struzzo. Il contraddittorio, secondo questa gente ubriaca dei propri pregiudizi, dovrebbe esserci tra chi tenta di parlare di cose da sempre nascoste e marginalizzate con violenza, e tra chi tradizionalmente segue la mentalità oppressiva e distorcente che vige. Proprio un confronto alla pari, sì.

E giustamente l’attuale ministra dell’istruzione si accoda a questa propaganda meschina, e invece di ascoltare chi fa il lavoro di educatore da anni rispondendo a richieste di educazione sessuale che vengono dalle scuole stesse, pensa bene di aspettare ancora un po’ promettendo linee guida di concerto con le associazioni dei genitori, le quali infatti esultano. Esultano perché si tratta solo di alcuni e particolari genitori – voglio proprio vedere se e come Giannini sentirà in proposito il parere di Agedo, per esempio. Per ora, la frittata è girata: i genitori cattolici passano per quelli zittiti e messi in minoranza, ignorati e anzi ingannati da chi vuole sapere le cose senza contraddittorio. Complimenti.

La realtà, come sanno bene al di fuori da questo cattostivale, è che prima si comincia meglio è, perché i risultati, come spiegava ad esempio Lanfranco, sono a lungo termine:

Non si aspettano miracoli dal progetto educativo francese, perché ci vuole tempo, e molto lavoro, sulle persone adulte in primo luogo e poi sulle giovani generazioni affinché la mentalità, il linguaggio e la pratica quotidiana nelle relazioni tra i generi evolva in una direzione non sessista, paritaria e nonviolenta. Ma iniziare a farne anche una questione di come ci si esprime, come si gioca, come si vestono bambine e bambini è un buon inizio.

Qui, nel frattempo, gente sedicente di sinistra s’è vantata di essersi opposta al rapporto Estrela. Così, per dire, eh.

Oh, allora? Zucchine, porri, patate, spinaci… che ci mettiamo? L’importante è rivoltarla, ricordatevelo.

 

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

santabarbara

Traduzione dell’articolo An open letter to privileged people who play devil’s advocate di Juliana Britto dal sito feministing.com. La traduzione è della mia amica Floriana, che ringrazio. Come dico sempre, se qualcuno lo dice meglio di me, è il caso di citarlo.

Lettera aperta alle persone privilegiate che fanno l’avvocato del diavolo

Lo sai chi sei. Sei il tizio bianco nel corso di Studi Etnici che sta esplorando il concetto che i poveri possano fare bambini per continuare ad avere i sussidi. O, sei quello che argomenta sorseggiando un drink che forse un sacco di donne in effetti simulano uno stupro per ricevere attenzione. O, più di recente, sei quello che insiste che io debba considerare la possibilità che Elliot Rodger [perpetratore della strage di Isla Vista, ndt] possa essere stato un pazzo, e un’anomalia, e non il prodotto della supremazia bianca e della società misogina.
Molto spesso è chiaro che tu in effetti credi a quello che sostieni pensare giusto per. Tuttavia, lo sai che queste cose che pensi non sono popolari, se non altro perché ti fanno sembrare egoista e privilegiato, e quindi ecco che dai la colpa al “diavolo”. Ti svelo un segreto: il diavolo non ha bisogno di altri avvocati. Ha già un sacco di potere senza che lo aiuti tu.
Queste discussioni possono sembrare un gioco per te, ma per molte persone intorno a te, sono le loro vite quello con cui stai giocando. Il motivo per cui sembra un gioco per te è perché queste questioni molto probabilmente non ti toccano. Se sei un uomo, non importa che la maggior parte delle sparatorie di massa siano dirette a donne che hanno rifiutato il killer – anche se dovrebbe importarti, visto che misoginia uccide anche gli uomini. Se sei bianco, non importa che le persone di colore siano stereotipate o meno. Puoi attaccare fili da burattino ai tuoi dialoghi sulle questioni reali, perché alla fine della fiera, tu puoi semplicemente alzarti e andartene da questo caos intricato che hai esacerbato.
Ad onor del vero, ci sono molti avvocati del diavolo privilegiati che davvero tentano di capire le cose. Conosco persone che pensano meglio se ad alta voce, che mi gettano addosso le loro idee per capire quelle che più si addicono alla “amica femminista”. Il tuo tipo ama aggirare un concetto da ogni angolo prima di decidere cosa pensa. Tu chiedi a quelli informati di noi di spiegarti la cosa più e più volte, perché in questo mondo è più difficile per te credere che forse la mano di carte ti è favorevole, piuttosto che pensare che noi siamo pigre, lagnose, o bugiarde.
E’ estenuante, fisicamente ed emozionalmente, essere costantemente chiamata a dimostrare che questi sistemi di potere esistono. Per molte di noi, semplicemente lottare contro di essi è abbastanza – e tu vuoi anche che te li spieghiamo? Immagina di avere dei pesi legati ai piedi e un bavaglio alla bocca, e di dover spiegare perché pensi che questa cosa ti sia svantaggiosa. Immagina di guardare un video in cui un ragazzo promette di uccidere tutte le donne che non vanno a letto con lui e poi essere costretto a elaborare sul fatto che forse tu non sei una femminista isterica che vede misoginia dappertutto. E’ incredibilmente doloroso rendersi conto che, per far si che tu abbia a cuore la mia sicurezza, io debba continuare a vincere questa competizione oratoria che tu hai messo su “per gioco”.
A quegli avvocati del diavolo che stanno cercando di imparare, io suggerisco di provare nuove strade. Considerate che non state pagando i vostri amici per spiegarvi certi concetti che sono per loro spesso dolorosamente vissuti, e siate consapevoli del loro tempo e delle loro energie. Siate grati (e dimostratelo) e ascoltate attentamente e con considerazione quando sono così generosi da parlare delle loro esperienze con voi.
Alcuni possono sostenere che io mi stia zittendo da sola, e censurando importanti momenti di scambio e crescita. Ma queste idee che mi state forzando a “considerare” non sono affatto nuove. Provengono da secoli di diseguaglianza, e il vostro disperato tentativo di mantenerle rilevanti si basa sul fatto che in effetti a voi fa comodo che esistano. Lasciate perdere. Queste teorie razziste e misogine NON le avete inventate voi, noi le abbiamo sentite già, e siamo stanche, cazzo, che ci chiediate di provare a considerarle. Ancora. Una. Volta.
Quindi, cari avvocati del diavolo, parlate per voi, non per il “diavolo”. Educatevi. Imparate. Considerate che la vostra parte in causa è stata già ascoltata per secoli, quindi sedetevi. Ora tocca a noi parlare.

Deconstructing una certa idea di maschio etero

real-doll-02Scusate se in questo caso non mi applicherò su un testo preciso, ma su un aspetto credo non secondario di una recente vicenda di media, generi, televisione e sessismo.
Premessa importante: non ho una opinione su Belen Rodriguez in quanto donna, perché non la conosco e non ho avuto occasione di ascoltare o leggere nulla che la riguardi o la esprima personalmente in qualche suo ambito privato; inoltre, so benissimo che il fatto che lei presenti un programma non significa certo che quello è un ‘suo’ programma – ci sono autori, produttori, e altri. Ne parlo come personaggio televisivo: come tale, è solo la mia opinione, lei definisce l’immagine di se stessa in una maniera penosa (“Fisicamente non ho difetti” è una lapide più che una frase), ed è difficile immaginare che davvero qualcun@ possa fare una tale confusione tra personaggio televisivo e vita reale – ma tant’è, c’è poco da fare. Questa sua “versatilità” per il facile mercato dei media è stata anche ribadita nella coincidenza, rimarcata ovunque nel mainstream, tra la presentazione del suo libro fotografico e il compleanno del figlio.

Immagino quindi che la notizia dell’esistenza del programma televisivo “Come mi vorrei”, sul canale Italia1, vi sia già nota; forse però non sapete che si presenta al pubblico con queste parole inquietanti:

Vi è mai capitato di vivere un momento della vostra vita in cui volevate cambiare TUTTO, dalla pettinatura al modo di fare? Ricominciare da capo si può! Un nuovo programma di make over non solo estetico: Belen Rodriguez consiglia il protagonista di puntata su come piacersi di più e risolvere problemi relazionali con fidanzati, parenti o colleghi di lavoro. Hai tra i 18 e i 26 anni e hai bisogno di aiuto per migliorare te stessa e cambiare il tuo look? Partecipa a COME MI VORREI!

Parole che già basterebbero da sole per farsi un’idea e formulare un giudizio, ma se volete proprio continuare a farvi del male qui ci sono un riassunto e poi un altro riassunto di due puntate.

Le critiche non sono mancate: televisivamente la conduttrice è apparsa inadeguata se non impreparata; e poi giustamente c’è chi rifiuta una rapprensentazione di questo tipo dei rapporti tra generi, e lo dice apertamente. E indubbiamente, come dice Zanardo, questo ottimo segno di presa di coscienza è sempre più diffuso e quantitativamente rilevante – perché la banale risposta “basta cambiare canale” non serve per quelle migliaia di persone che invece non lo cambiano, e che rappresenteranno prima o poi un problema per quell@ che invece cambiano canale o non hanno la televisione. Altrettanto indiscutibile appare il fatto che un tale tipo di programmi è destinato a vivere poco (anche prima che funzionino le petizioni) perché è fatto davvero troppo male.
Tutto giusto e adeguato, in toto o in parte, ma credo ci sia ancora una cosa da dire, che da qualcuno è stata accennata, ma non nei toni più adatti.

Questo programma televisivo produce non solo una immagine precisa di cosa e come una giovane donna “normale” dovrebbe essere secondo i canoni della moda e della vita sociale più comuni e diffusi – cioè secondo un’ignobile accozzaglia di pregiudizi, sessismi, volgarità, adeguamenti alla moda commerciale più triviale, ignoranze multiple. Dice anche qualcosa di ben preciso – per forza di cose, senza farlo espressamente –  su cosa dovrebbe essere un uomo eterosessuale “normale”; e dice sostanzialmente che un uomo eterosessuale “normale” cerca solamente una donna capace di compiacerlo.

Secondo questo programma televisivo, io (maschio eterosessuale) desidero una donna addestrata a obbedire, ad adeguarsi ai miei gusti, a non sollevare obiezioni né tantomeno a esprimere idee o concetti per me ignoti o incomprensibili. Il tutto presentandosi agghindata e truccata secondo uno standard pornocommerciale più o meno assimilabile alla categoria “secretary xxx” (cercate su Google, togliete i filtri e buon viaggio). Vengo scambiato, letteralmente, per una testa di cazzo: uno che ragiona col glande – e un glande anche molto insicuro, parecchio ignorante e poco fantasioso.

Ecco, questo è il motivo per cui la sola esistenza di un programma così dovrebbe far scattare nella maggioranza degli uomini eterosessuali indignazione e rabbia, a prescindere da quello che viene espresso come idee e convinzioni riguardo le donne; perché è evidente che queste assurde idee e convinzioni riguardo l’uomo eterosessuale medio sono cose molto diffuse, eh.

(Per esempio: qui in Italia Belen Rodriguez e il suo team di produttori e autori dà per scontato che il mio gusto e il mio pisello possano e debbano essere adeguatamente compiaciuti da una specie di “Barbie ufficio” semovente e disponibile, meanwhile altrove un festival di musica classica pensa bene di farsi pubblicità creativa mettendo giovani mangagirls a ballare ammiccanti una musica di Dvorak. Così, per dire, un esempio a caso.)

Questo tipo di comunicazione, che in questo momento è felicemente rappresentata dal programma condotto da Belen Rodriguez – ma è stato e sarà ancora per un pezzo rappresentato da tante altre produzioni – mi sta dicendo che il desiderio sessuale maschile standardizzato e appiattito sul modello “lobotomizzata in lingerie” è il più normale e regolare, e che sarebbe il caso che le donne che non si sentono adeguate vengano normate a tale livello, perché l’origine dei loro problemi personali e sociali è tutto lì. E mi dice inoltre che tutto questo mi dovrebbe stare bene, ne dovrei essere soddisfatto e beato.

Cosa ha ridotto milioni di uomini eterosessuali (i numeri sono questi) a pensarla così?
A farsi ritrarre in questo modo ridicolo?
A permettere che il proprio desiderio, la propria immaginazione sessuale siano questa miseria?
A costringere la conoscenza di una donna ad avere la forma di un colloquio di lavoro?
A trovare sicurezza nell’adeguarsi a un modello preconfezionato?
A far manovrare il proprio sesso da mode, tendenze e luoghi comuni?
E’ sempre e solo un problema mio, questo?

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra

tomas-milian2Ci sono tanti modi per far passare come rispettabile un’opinione politica che ha il valore di una banale stronzata. Uno di questi è fraintendere fin da subito i termini in gioco, usandoli come se il significato di essi fosse comunemente accettato nel modo di chi scrive. Nella realtà dei fatti, però, non è così – ma se non ve ne accorgete subito, argomentazioni anche coerenti ma del tutto fuori luogo possono essere usate per dimostrare qualunque cosa. Questo articolo è un ottimo esempio di come una ben congegnata stupidaggine può risultare credibile e addirittura ragionevole, soprattutto se si parte dall’assunto che il movente di un assassinio non conta, non conta perché qualcuno viene ucciso, conta solo che un essere umano è morto. Cosa che si può facilmente constatare, mentre invece io vorrei sapere perché, in modo da evitare che succeda ancora. E sempre più spesso questo motivo è semplicemente che la vittima era una donna che ha detto un no a un uomo.

Invece dice che non importa che muoia un uomo o una donna, come se in questione ci fosse quello. Così si dice, negando che esistano i femminicidi e i motivi i quei corpi morti. Invece i mortacci vostra esistono sicuramente, e allora li usiamo per far sembrare il femminicidio un alibi politico.

10/03/2014 06:06

IL LAMENTO DELLA SINISTRA

L’alibi (culturale) del femminicidio

Le donne subiscono più violenze di quante ne commettono [e fino a qui, sembra quasi normale…]
Ma la discriminazione di genere nell’omicidio è ancora più pericolosa […ma ecco la formula che non vuol dire niente pronta a scattare: se distingui il sesso dei morti, sei tu che discrimini. Non conta che tu vuoi sapere i motivi per cui quell@ è stat@ uccis@, se distingui allora discrimini. Complimenti]

La «parità di genere» e il «femminicidio» sono due termini ai quali ci stiamo abituando rapidamente [eh, che vuoi farci, “sarà ‘sto buco daa azzòto” (cit.)]. Sono termini “di sinistra” [eh?], nel senso che descrivono fatti e fenomeni che esistono da sempre [però, hai capito] ma che, come avviene periodicamente in molti settori, la sinistra fa finta di scoprire per prima [ma per prima rispetto a chi? C’è chi lo dice dagli anni ’70. Vabbè], gli dà un bel nome, ci costruisce intorno campagne mediatiche [mah, campagne mediatiche mi pare un po’ esagerato], e alla fine le cose rimangono come erano prima [insomma, su, qualche cosa s’è fatta, dài] o, non sarebbe la prima volta, peggio di prima [eh ma come sei acida però]. L’assunto di base è semplice: le donne subirebbero molte più ingiustizie e/o violenze di quante ne subirebbero gli uomini [no, calma. Perché il condizionale? E poi, assunto di base di cosa? Non è questo l’assunto di base di la «parità di genere» e il «femminicidio». Infatti ci sarebbe da dire, per esempio, del tipo di ingiustizie e/o violenze; mica stiamo parlando di reati fiscali o scippi di borsette]. Questo dato non è vero in assoluto [e te credo], perché gli uomini, intesi come maschi, da sempre prediligono uccidere altri uomini, non importa se in guerra o in contese di altro tipo [EH? I maschi prediligono cosa? Beh, per certi versi è ovvio, dato che solo a loro viene insegnato che è “da maschi” risolvere le cose con la violenza. Ma non è che c’hanno il cromosoma del killer, eh]. È vero invece un altro dato: le donne subiscono più violenze di quante non ne commettano [ma no. Ma dài. Guarda, mi pare incredibile. E comunque: ma di che violenze parliamo? E per quali motivazioni?]. Ma questo dato è molto controverso [eh, mi pareva troppo bello – e comunque lo è per forza controverso, dato che non hai spiegato di che violenza parli, e del suo movente]. È controverso perché subiscono violenze quelle donne che in qualche misura si sottraggono alla «protezione maschile» [SCUSA? E dimmi, c’è disponibile il dato su cosa sarebbe la qualche misura? Oppure quello su cosa caspita intendere come «protezione maschile»?]. Laddove ancora oggi la donna accetta un ruolo subalterno rispetto a quello maschile [Laddove? E perché non dire dove? Accetta? Cioè il ruolo subalterno le viene gentilmente proposto? Ha delle alternative?], nelle culture tribali, nell’Islam, nell’Induismo, nelle varie forme di fondamentalismo religioso (anche ebraico e cristiano), la donna vive sottomessa ma sicura [SICURA? Cioè in quelle società – ammesso che si capisca quali sono, data la descrizione sommaria – non esiste la violenza di genere? Ma stiamo scherzando? E la sottomissione che sarebbe?]. Là dove la donna lascia i suoi ruoli tradizionali e chiede la sacrosanta parità di diritti, lì nasce lo spaesamento, la confusione, e subito dopo la violenza [quest’ultima frase è da manuale. Notate come, scritta così, faccia sembrare che la violenza subita dalla donna nasca dalla sua volontà di pretendere la sacrosanta parità. Non si nomina chi agisce quella violenza. Fantastico]. Ma le femministe occidentali, quelle vere, quelle che hanno studiato e militato, non quelle improvvisate dei salotti televisivi, alla parità di genere non ci credono e non la vogliono [nomi delle femministe occidentali, quelle vere? Nessuno. Link, riferimenti? Niente. Parole al vento, così, tanto per]. E non vogliono, quindi, nemmeno sentir parlare di “femminicidio” [ma quindi che cosa, che non hai messo uno straccio di riferimento? Che fai, deduci dalle tue stesse invenzioni? Ma come si fa a pensare di essere creduti argomentando in maniera così sfacciatamente ipocrita?]. Perché maschi e femmine sono diversi, diversissimi, e quello che si deve fare è rispettare questa diversità, non negarla, e men che mai omologare tutti [notate: è una frase talmente vaga che è ottima anche per pubblicizzare una fashion week]. Ma se per le femministe intelligenti [dopo quelle occidentali e quelle vere ci sono anche loro, quelle intelligenti – anche loro anonime, si vede che sono pure timide] il femminicidio è un falso problema [tornate qualche riga indietro e notate: non ha detto il perché sarebbe un falso problema, manco ha provato a inventarselo], per alcuni osservatori è addirittura un modo pericoloso di affrontare il problema più generale della violenza, chiunque possa essere la vittima [ci sono le femministe occidentali, vere e intelligenti e ci sono gli osservatori – alcuni, non tutti. Tutti e tutte anonim@, dev’essere una specie di gruppo di auto-aiuto, chissà]. Chiedere pene più alte per chi uccida una donna può sembrare che si possa invece fare uno sconto a chi uccide un uomo [nessuno ha proposto una cosa simile, che può sembrare verosimile solo a un@ deficiente, imho], creare procure o corpi di polizia specializzati [e chi l’avrebbe proposto?] può dare l’idea che altre forma di violenza siano meno gravi [di nuovo: nessuno l’ha detto], dedicare migliaia di progetti e di onlus nella speranza che mariti squilibrati smettano di picchiare o di uccidere le mogli può far sembrare che l’ignoranza o la pazzia si curino con le chiacchiere [cioè i progetti e le onlus sarebbero pensate per chiacchierare con vittime e violenti? Va bene dire stupidaggini, ma adesso cominciamo a offendere la professionalità di parecchi, eh], invece che con servizi sociali e sanitari efficienti e soprattutto non ideologizzati [quindi i problemi di genere sono patologie? Interessante. E per “curarli” servirebbero servizi sociali e sanitari efficienti, notoriamente il fiore all’occhiello della politica italiana; e poi, quale sarebbe l’ideologia di cui si parla? Altre parole al vento, altre ipotesi senza fondamento e prese di posizione campate in aria. Ma l’importante è dire che il problema è un altro]. Aprire tutti i telegiornali, come l’altro giorno, con l’omicidio di una donna, e confinare alle scritte che scorrono sotto il video la notizia di 3 morti a Napoli e in Calabria dà l’idea che ci dobbiamo rassegnare a un certo razzismo “di sinistra” [COSA? Le scelte editoriali di una testata giornalistica televisiva sarebbero razzistiche perché mettono una donna morta “davanti” a tre uomini morti? Ma cosa c’entra?], per cui i meridionali (che non a caso votano Berlusconi) sono animali e non ci si può fare niente [ma che paragone è? Che senso ha, a parte indignare il lettore già prevenuto e pieno di pregiudizi? E poi, questo sarebbe pensato sempre da tutti i telegiornali? Anche quelli di Berlusconi?]. Soprattutto, diciamocelo, parlare troppo di femminicidio è pericoloso là dove dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari [EEEEEEH? Fossi una donna: io sento tutti i giorni che una donna come me viene ammazzata perché moglie, madre, donna che ha detto un “no”, e dovrei sentirmi sicura di poter godere di protezioni particolari? Da parte di chi, della Feniof?]. No, qualcuno dovrà avere il coraggio di ricominciare a raccontare alle nostre figlie che, poiché non si può mettere un poliziotto in tutte le discoteche e in tutte le auto dei loro fidanzati [che a questo punto non si capisce perché non si può: tanto siamo in là con la fantasia, perché non militarizzare il territorio e gli spazi privati? Ma sì, dài, che ce frega], sarà il caso che alcune precauzioni le prendono da sole [certo, invece adesso le donne escono tutte sicure e tranquille, no? Meno male che glielo dici tu, ché a sentire ‘ste cose di femminicidio dormono tutte sonni beati]. Perché l’imprevisto è sempre in agguato [tranquillizzare è sbagliato, il femminicidio è un’invenzione della sinistra, teniamoci il sano terrore sparso della destra]. Perché la natura non è buona [è il 2014, qualche sospetto l’abbiamo già avuto, sa?]. Perché il male esiste [questa l’ha presa da una locandina cinematografica, l’ho riconosciuta]. Perché la stupidità esiste [su questo siamo d’accordissimo]. Checché ne dica la facile propaganda di troppi sciagurati in cerca di consenso un tanto al chilo [i quali quindi direbbero che va tutto bene perché esiste il femminicidio? Ma che canali guarda, scusi? Ah, sì, quelli dove parlare troppo di femminicidio è pericoloso perché dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari. Boh, forse stanno sul satellite, mi farò regolare l’antenna parabolica].

Francesca Mariani [casomai voleste essere sicure uscendo di casa, contattatela; c’ha sicuramente dei buoni consigli da darvi, amiche mie]

Così, per ribadire: distinguere non è discriminare. Voler sapere un movente non significa considerarlo “migliore” di un altro. Voler agire culturalmente per impedire a quel movente di esistere nella società non significa progettare momenti di chiacchiera. Mortacci vostra.

Deconstructing il genio della lobby rosa

l43-india-donne-rosa-120731155613_big2 E’ da molto tempo che girano pseudo difensori del machismo – pseudo perché certo il machismo non ha bisogno di difensori, dato che purtroppo se la passa benissimo – i quali usano argomenti abbastanza comici; se non fosse che molti li prendono sul serio, o per specularci e ottenere visibilità, o per trovare confermate le proprie ipocrite certezze di maschione. Questo pezzo è un po’ vecchiotto ma ha il pregio di riassumere quasi tutte le posizioni “difensive” di questo particolare tipo di sessista, che non si può tanto tacciare di ignoranza perché ha evidentemente studiato, né di ipocrisia perché in fondo è molto coerente. E’ che proprio non ci arriva, perché tutto fa tranne che mettere in dubbio il piedistallo sul quale l’ha messo il patriarcato. E da lì si mette pure a fare il difensore della “questione maschile” – per come la intende lui: cioè gli uomini soffrono tanto perché tutto trama contro di loro, poverini. Statene a sentire la genialità.

Parità per gli uomini. Dentro il tabù della questione maschile [quando si dice che il titolo è tutto un programma…]

di Marco Faraci

Ideologia femminista e paternalismo maschile, gli alleati che non ti aspetti [effettivamente ci vuole una certa dose di coraggio. Me costui ce l’ha, state a vedere]. Così la “questione maschile” resta un territorio inesplorato dall’analisi politica; di più, la sensazione è che si tratti di un argomento intoccabile per chiunque intenda fare politica “sul serio” [una bella dichiarazione di modestia, che traduce in termini più aulici il classico del Marchese del Grillo: “io so’ io e voi nun sète un c…”. E vedrete che tanta presunzione non è spesa invano].

Nei fatti, dietro all’apparente neutralità del termine “pari opportunità”, si nasconde una visione unilaterale ed escludente dei temi di genere che troppe volte si riconduce a un mero sindacalismo femminile [Nei fatti: vedremo quanti ce ne saranno, di qui in poi. Ah, è chiaro che già questa frase contiene parecchie cosucce sbagliate a bella posta: pari opportunità non si capisce come potrebbe essere un termine neutrale, in una società smaccatamente patriarcale come questa; né si capisce come potrebbero essere escludenti, se sono pari, le opportunità. Poi, che caspita è il sindacalismo femminile? Ah, sì,  quella visione maschilista per cui le donne sono tutte unite contro l’uomo, per cui non ci sono differenze nel pensiero femminista, nelle organizzazioni femministe, nelle azioni politiche delle donne. Cose che, ammettiamolo, solo un uomo può arrivare a concepire.]. Non è solo sudditanza al politically correct [ah, beh, in Italia, noto avamposto della correctness politica, c’è proprio questa sudditanza, come no]; c’è anche quello naturalmente, ma da solo non basterebbe a giustificare l’unanimismo e il trasversalismo [ma sì, perché usare due banali aggettivi quando posso sostantivarli e trasformarli in un mostro? Non una cosa unanime, ma l’unanimismo; non una cosa trasversale, ma il trasversalismo. Manco Rambaldi li faceva, effetti così speciali] che si riscontrano sulla maggior parte delle “soluzioni” invocate dalla “lobby rosa” [la famosa, unica, potentissima, riconosciuta e universalmente nota lobby rosa. Chissà, forse pensa a Peppa Pig]. Probabilmente questa assenza di contraddittorio [AHAHAHAHAHAH, certo, la nota assenza di contraddittorio alla lobby rosa, che infatti in Italia spadroneggia e decide tutto lei, no? AHAHAHAH] si spiega con il fatto che, nello specifico della questione di genere, entrano in gioco fattori inibitori profondi, in qualche modo legati all’atavico dovere maschile di proteggere le donne [sì, avete letto bene: secondo questo genio della sociologia, la fantomatica lobby rosa comanda incontrastata perché gli uomini sono inibiti dalla loro devozione al ruolo di difensori delle donne. Quanta fantasia sprecata]. Si crea così, all’atto pratico [all’atto pratico, infatti finora il nostro ha snocciolato esempi, numeri, dati, ricerche, no?], una sostanziale convergenza tra ideologia femminista e paternalismo maschile [mi permetto: costui – tra le altre cose – non ha idea di cosa significhi paternalismo] verso esiti politici che istituiscono nella legge o nella prassi speciali tutele a favore del sesso femminile [eh beh, sì, ammettiamolo, di queste speciali tutele a favore del sesso femminile non se ne può più. Le donne sono le più occupate, hanno i lavori migliori, hanno pensioni superiori, hanno ospedali più efficienti, strade più pulite, quartieri più sicuri, automobili più veloci e tutti gli orgasmi che vogliono –  nella legge o nella prassi, sia chiaro].

Rispetto ad altri ambiti dove se ne percepisce l’obsolescenza [quali? Non ci viene detto, ovviamente], sui “temi di genere” resiste una lettura paramarxista dei rapporti sociali in termini di contrapposizione di classe [fosse pure vero, ma da parte di chi? Di tutti/e? Tutti/e paramarxisti/e? Sicuro sicuro sicuro?]. Gli uomini sono visti come la classe dominante e le donne come la classe subalterna [davvero? Spiegalo a questi altri geni qui, dài, voglio proprio vedere come fai] e si ritiene, pertanto, che una condizione di “giustizia” possa essere conseguita solo attraverso l’intervento dello Stato per forzare un riequilibrio di potere politico, economico e sociale [non so di cosa sia definizione quest’ultima frase, ma certo non delle famigerate “quote rosa”].  In realtà questa lettura dei rapporti tra i generi come oppressione di un sesso sull’altro appare molto artificiosa [certo, come no – sulla base di cosa appare molto artificiosa? Non viene detto, non sapremo neanche questo, però diciamolo lo stesso, macheccefréga]; obiettivamente è più ragionevole pensare che uomini e donne abbiano contribuito a sviluppare e a consolidare i ruoli sessuali tradizionali – entrambi al di là di tutto con vantaggi e svantaggi [certo, alle donne piacciono tanto i vantaggi decisi dall’uomo per loro. Capita che se si ribellano a questo schema rischiano di venire ammazzate; e vabbè, al di là di tutto la vita è un rischio, si sa] – semplicemente perché probabilmente per lungo tempo essi erano gli unici compatibili con la sopravvivenza della specie [ah, “quello che non è la natura!” (cit.). E’ così che il maschio medio si spiega lo status quo: è stata la natura, l’evoluzione della specie a decidere che il mio sesso conta di più, mentre l’altro sesso ha barattato il suo ruolo politico, economico e sociale per stare al sicuro a casa a lavare i piatti. Beh, sì, solo un bel maschione può arrivare a pensare che tutto ciò sia naturalmente conveniente per tutti e due i sessi].

La verità è che il game changer [lo ammetto, ho dovuto usare Google per sapere che vuol dire, però ci sono arrivato da solo a capire che ‘sto parolone sta lì solo per bellezza] nel rapporto tra uomini e donne – quello che poi ha dato il la a tutte le speculazioni teoriche successive – è stato il progresso tecnologico che nell’ultimo secolo e mezzo ha reso la produttività umana sempre meno dipendente dalla forza fisica e di conseguenza ha aperto la strada a una modifica sostanziale di equilibri che erano rimasti stabili nei secoli [capito che scherzo abbiamo combinato alla natura? Lei aveva fatto il maschio forte e la femmina debole, e andava benissimo così a tutti; noi con la tecnologia ci siamo permessi di scombinare questo equilibrio così perfetto. Perfetto per quello forte, ovviamente, ma questo il nostro genio ben si guarda dal dirlo]. È in questo contesto che si inseriscono la straordinaria evoluzione della condizione femminile, ma necessariamente anche molte importanti trasformazioni che riguardano gli uomini e il concetto di maschilità. Limitare l’analisi sociologica e politica alla questione dell’avanzamento delle donne è un approccio parziale che non fornisce una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso [lo sta dicendo uno che finora non ha avallato le sue panzane con un dato che sia uno, una ricerca che sia una, un minimo di base teorica o scientifica. Per ora ha solo detto che l’òmo c’ha più muscoli della donna e la tecnologia ha fatto un casino, cosa questa che quindi non sarebbe parziale ma una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso. L’importante è crederci].

Certo, non si può negare che le donne, nella società di oggi, sperimentino particolari difficoltà o che si riscontri una presenza relativamente inferiore di donne – rispetto agli uomini – in posizioni normalmente associate ai concetti di prestigio e di potere sociale [non si può negare, eh, quindi bisogna spiegarlo – oppure sostenere che non vuol dire niente. Secondo voi che farà il nostro genio?]. Tuttavia, ritenere che questi fattori rappresentino la misura di una condizione di complessiva minorità femminile, da contrastare attraverso l’azione politica, potrebbe essere un errore di valutazione [bravi, c’avete preso, “la seconda che hai detto” (cit.)]. In effetti per inquadrare correttamente le statistiche di genere su cui riposa la strategia offensiva del femminismo [il femminismo è notoriamente offensivo, si sa, nasce proprio come tattica politica offensiva, basta chiedere in giro che tutti lo sanno] è necessario fare due tipi di considerazioni [pensavate che si fermasse lì, eh? Ve l’ho detto che è un genio. Sentite qua].

In primo luogo, in molti casi la minore presenza femminile in determinate aree ha più a che fare con l’espressione delle preferenze personali delle stesse donne che con quello che a molti piace chiamare “discriminazione”. Basta osservare la demografia di genere delle varie facoltà universitarie (Ingegneria contro Psicologia, Lettere o Scienze della Formazione), i sondaggi sui lavori ideali sognati dalle neolaureate o le preferenze delle donne in termini di conciliazione famiglia-lavoro, per spiegare perché abbiamo più dirigenti di azienda uomini che donne. Naturalmente determinati comportamenti femminili sono correlati a determinati sottostanti culturali e sociali, ma non si può pensare di correggere a tavolino l’esito di una miriade di scelte individuali imponendo un’uguaglianza statistica dei punti di arrivo [Non ho voluto interrompere cotanta esibizione di sfrontata ipocrisia – o di evidente limitatezza di comprendonio, non so decidermi. Rimane il fatto che questo paragrafo è il classico esempio di come si scambia la causa per l’effetto. Lo fa apposta? Non se ne rende conto? Non lo so, né me ne po’ frega’ di meno. Comunque sì, avete letto bene: le donne non comandano perché non gli va di farlo, altrimenti avrebbero da tempo preferito altri studi, altri lavori. E’ fantastico, davvero].

La seconda considerazione riguarda il fatto che le statistiche di genere utilizzate dalla lobby rosa [la quale quindi, oltre a esistere, fornisce statistiche univoche, capito?] sono fortemente selettive e si concentrano solamente su quegli ambiti dove i numeri confermano la premessa ideologica. In realtà se, anziché guardare alla presenza nei consigli di amministrazione, esaminassimo una serie diversa di fattori potremmo addivenire a conclusioni molto diverse [Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il serait encore en vie“; ma aspettate, adesso viene il meglio, perché adesso finalmente fa un esempio]. Ad esempio se prendessimo in considerazione indicatori come il numero di carcerati, di morti sul lavoro, di suicidi, di vittime di incidenti o di persone senza dimora fissa, vedremmo come semmai risultino proprio i maschi – e non le donne – a conformarsi al tipico canone di classe subordinata [certo, perché carcerati, morti sul lavoro, suicidi, vittime di incidenti o persone senza dimora fissa sono in quella situazione per motivi di genere, no? Ma veramente ancora gira qualcuno che fa finta di non sapere che il femminicidio serve a identificare un preciso movente, e non il sesso della vittima?]. Gli uomini, a quanto pare, prevalgono numericamente sia nella parte più alta della società, che nella parte più bassa. Sono al tempo stesso i primi, ma anche gli ultimi [A parte che questo non dimostra niente sul femminicidio, come già detto, rimane il fatto che, appunto, le donne nelle statistiche non ci sono. Che sarebbe una delle cose che dovresti evitare di dire, se vuoi difendere il punto di vista maschilista. “Ci sei? Ce la fai? Sei connesso?” (cit.)]. In altre parole, la condizione maschile più che essere banalmente una posizione di maggior privilegio, è una posizione di maggiore esposizione sociale. [Eh, appunto: hai appena detto che, nei fatti, ci sono solo loro, ci sono solo gli uomini. E questo alle donne dovrebbe stare bene?] Sugli uomini grava una forte pressione sociale, legata al modello di ruolo tradizionale di breadwinner. Questo li induce alla competizione e al rischio e li conduce – secondo i casi della vita – al successo oppure al fallimento [sì, appunto, infatti è proprio il modello del breadwinner che non funziona, e molti femminismi lo dicono da un pezzo. Se continui a credere all’esistenza della lobby rosa, lo dimostri da solo che dici sciocchezze, amico mio, e manco te ne accorgi].

Ritenere un problema politico l’affermazione professionale di alcuni (troppi?) uomini e non le difficoltà e le tragedie di altri è evidentemente ingiusto [peccato che finora lo stia dicendo solo tu e la tua fantomatica lobby rosa. Guarda che la maggior parte dei femminismi ha ottime spiegazioni sociali per le difficoltà e le tragedie di altri, e indovina un po’ da chi mai potrebbero dipendere?]. È ormai tempo di rapportarci alla questione di genere in un’ottica finalmente inclusiva, riconoscendo la complessità e la vulnerabilità della condizione maschile e quanto essa sia profondamente influenzata dalle aspettative sociali e culturali [amore mio, molti femminismi lo fanno da parecchi decenni, ma tu che ne sai? Tu credi alla lobby rosa]. Porre l’attenzione sulla questione maschile non deve essere visto come una “reazione”; non si tratta di contestare il processo di emancipazione femminile, né di riportare indietro l’orologio della storia a un qualche passato perduto. Si tratta piuttosto di considerare che solo un percorso inclusivo può condurre al superamento del sessismo e che tale percorso richiede anche il riconoscimento e il superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni contro gli uomini [sì, tutto molto bello, ma per esempio: smettere di credere alla lobby rosa? Che dici, cominciamo con questo, di pregiudizio?]. I fronti su cui sarebbe necessario muoversi sono molti; qui se ne citeranno solamente alcuni che presentano, in questo momento, una particolare valenza politica, culturale ed istituzionale [ancora esempi? Aiuto…].

Di particolare centralità appare la lotta alle quote e alle azioni positive, che sono uno dei pilastri del femminismo ideologico [ma quale cacchio sarebbe mai il femminismo ideologico? Basta, siamo nel 2014, lo vogliamo capire che “il” femminismo non esiste e non è mai esistito? Lo vogliamo capire che è un’etichetta per definire tantissime storie e pensieri diversi, spesso opposti, sulle questioni di genere?] ma allo stesso tempo rappresentano un vulnus alla concezione liberale del diritto. Non è accettabile che la politica possa permettersi di usare qualsiasi mezzo per perseguire un fine definito a priori. Ci sono dei valori e dei princìpi che dovrebbero essere ritenuti “pre-politici” e non negoziabili [certo, come la natura che ha fatto l’òmo forte e la donna debole, no?] – tra questi il principio della neutralità della legge rispetto a caratteristiche quali la razza o il sesso. Il fatto che il potere imponga che una persona ne scavalchi un’altra solo perché questo serve a soddisfare delle statistiche generali è un’offesa alla dignità dell’individuo [a me pare un’offesa all’intelligenza dell’individuo interpretare in questo modo le leggi che prevedono quote di genere, che invece dicono tutt’altro. Dovrebbe bastare saper leggere, ma non so se tra i “liberali” questa pratica è diffusa: basta usare Google tre secondi per arrivare a un buon materiale didattico universitario che spiega la faccenda. Ne cito un brano: “Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato. In questa prospettiva, le quote non sarebbero una discriminazione nei confronti degli uomini, ma piuttosto una compensazione per le barriere strutturali che le donne incontrano nel processo elettivo. Questo sistema pone l’onere del reclutamento non sulla singola donna, ma su coloro che controllano il processo di reclutamento politico”. Ovviamente si tratta di un file PPT prodotto dalla lobby rosa].

Ma anche leggi scritte in maniera neutra possono essere viziate in fase applicativa da un sessismo anti-maschile [Fase applicativa che sarebbe anche questa in mano alla lobby rosa, immagino]. Uno dei casi più rilevanti è quello delle norme sull’affidamento dei figli, in particolare in virtù del sostanziale tradimento, a livello di prassi applicativa, dello spirito della legge del 2006 sull’affido condiviso. Nelle condizioni attuali una separazione può comportare conseguenze distruttive per un padre, sia dal punto di vista del rapporto con i figli che dal punto di vista economico. Lo strabismo dei nostri tribunali è tale che è solo grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che esiti di totale abuso nei confronti degli uomini non diventano la norma [non mi ci spreco neanche a parlare delle norme sull’affidamento dei figli perché c’è chi lo fa onestamente e senza ipocrisia da prima e meglio di me. Ma notate che è grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che… Allora? ‘Sta lobby rosa funziona o no? Ma per favore].

Infine, particolare importanza ha la necessità di contrastare, con forza, politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile [io ho sentito sempre e solo i maschilisti ripetere questa solfa che qualcuno accusa tutto il genere maschile. Anche qui dovrebbe bastare saper leggere per notare che non esiste alcuna corrente femminista – tra quelle seriamente proposte, ovviamente – che s’è mai sognata di accusare indistintamente tutto il genere maschile. Figuriamoci se esistono addirittura politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile. Da parte di quale partito, di quale organizzazione? Un esempio, un link? Niente]. Se si ripete spesso, specie a sinistra, che “la violenza non ha razza”, allora non è in alcun modo accettabile che si attribuisca alla violenza un sesso e che le campagne di sensibilizzazione sul tema siano espresse in termini sessuati e generalizzanti [e capirai, a sinistra s’è arrivati a dire che i morti fascisti sono uguali ai morti partigiani, figuriamoci. Notate che questa seconda frase passa dalle “cose” alla “comunicazione delle cose”, come se fossero termini equivalenti. E’ che gli serve per sparare la prossima].  In questo senso la campagna mediatica di questi mesi sul “femminicidio” è una campagna profondamente sessista [certo, come una campagna contro le frodi fiscali è discriminante nei confronti dei commercianti, no?], che rinfocola gli stereotipi di genere – anziché combatterli – quelli dell’uomo violento e prevaricatore e della donna innocente e naturaliter buona [di nuovo, questo è un noto stereotipo usato dai maschilisti: nessun femminismo s’è mai sognato manco di dire che la donna è innocente e naturaliter buona. Ma perché informarsi? Io sono maschio, quindi lo so, si sarà detto il genio]. È dunque una campagna moralmente sbagliata e culturalmente pericolosa [e certo, quella è culturalmente pericolosa; quella contro la fantomatica lobby rosa invece va bene], che deve essere confutata se ci stanno a cuore basilari princìpi di rispetto del diritto e delle persone.

In definitiva la sfida di portare il tema della “parità per gli uomini” nel dibattito è ambiziosa [no, è ipocrita, ma se tu c’hai quest’ambizione, fai pure], ma politicamente necessaria – la questione maschile è, prima di tutto, una questione di equità sociale e di diritti civili [che agli uomini sono da sempre negati, come voi tutti sapete bene]. Se non saremo in grado di coglierla pagheremo un prezzo molto alto nei prossimi anni in termini di disagio sociale degli uomini [porèlli, che brutta fine dopo secoli di sofferenze] e più in generale di avvelenamento dei rapporti tra i sessi [che invece da secoli vanno benissimo, no? Ma guarda tu ‘sta brutta lobby rosa che va a rovinare una tradizione tanto naturale e rispettosa: l’òmo comanda e protegge la donna, la quale obbedisce e si prende tutte le comodità di questa situazione].

Ve l’avevo detto, che è un genio.

Un bicchiere e una risata per Riccardo

Pieter Bruegel il Vecchio, "Paese della cuccagna" (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.
Pieter Bruegel il Vecchio, “Paese della cuccagna” (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.

La notizia, immagino, la sappiate: Riccardo Venturi, tra pochi giorni, avrà l’udienza preliminare per il reato di “Attentato all’onore e al prestigio del Capo dello Stato”.

Le sue parole che raccontano fatti e pensieri sono qui. L’attentato che ha scatenato l’apparato di potere e i suoi kafkiani meccanismi lo potete leggere qui.

Ho avuto il piacere di incontrare Riccardo due volte – che considerando la sua socialità e la mia pigrizia è un record del quale andare fiero. Entrambe le volte in occasioni libere, antifasciste, comuni; momenti felici e intensi per i quali non ci sono parole.

Non posso che invitarvi a leggere tutto il possibile dal suo blog, tutte le sue parole, più che potete: salvatele, diffondetele, conservatele. Non lasciate che si attenti alla vostra libertà: scatenate la sua, e mi raccomando, oggi bevete e ridete pensando a lui, come faremo noi.

A presto, Riccardo, da tutt@ di Intersezioni. Come vuoi tu: verið þið öll blessuð og sæl.