Distruggendo l’Arca

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Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti,
e si direbbe proprio compiaciuti!
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano!

Giorgio Gaber, Io se fossi Dio

Mi è difficile scrivere qualcosa dopo aver visto quei corpi galleggiare. Ancora più difficile dopo aver assistito allo scaricabarile dei politicanti sugli scafisti, comodi capri espiatori di responsabilità politiche da togliere per sempre il sonno, nonché alle aberranti dichiarazioni di quella fetta di popolino incline all’adozione di slogan d’odio, che non vede per nulla in conflitto con la contemporanea dichiarazione di fede, religiosa o laica poco importa, intrisa d’amore per l’Uomo, quello con la U maiuscola.

E’ proprio questo mondo umano, troppo umano, che pone le condizioni per le infinite tragedie di cui siamo, nostro malgrado, complici e testimoni. L’antropocentrismo è ciò che ci condanna inesorabilmente, umani e non, a questa eterna lotta per la dignità di esistere. Se l’Uomo è misura di tutte le cose, qual è questo “Uomo” che ha diritto di esistenza, di desiderio, di consolazione, di lutto?
Se possiamo uccidere il Capro, se esiste qualcuno che si può privare di ogni cosa, degli affetti, della libertà, della stessa vita, chi ci può ragionevolmente assicurare che non si tratti di chiunque, umano o non umano, uomo o donna, bianco o non bianco… La logica dell’eccezionalità umana spiana la strada alla banalità del male.

E’ un aspetto che appare evidente ogni qual volta accade una tragedia di queste proporzioni, e sul quale è fondamentale aprire una riflessione che sia seria, e onesta: davvero ha senso appellarsi all’umanità di chi non c’è più, per avere la speranza di salvare chi sicuramente verrà dopo, sugli stessi barconi, a reclamare il proprio diritto alla vita?

“L’indifferenza riduce l’Altro a un’astrazione… in un certo senso, essere indifferente alla sofferenza rende l’essere umano inumano” sosteneva Elie Wiesel. Un’affermazione rivelatrice, suo malgrado, poiché la grande verità che porta in sé è celata in un fraintendimento di fondo del suo senso profondo. Che non è, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale, la necessità della presa di coscienza del valore intrinseco dell’ “umanità” ma il suo esatto opposto, ovvero: fino a quando sarà consentito uccidere un capro e si potranno “stipare bestie nella stiva”, fintantoché esisterà un Uomo misura di tutte le cose e si potrà essere indifferenti alla sofferenza tout court – ogni qual volta si eviti, consapevolmente o meno, di identificarsi con chi quella sofferenza la vive (ovvero quando non è quella provata dall’Essere Umano certificato con la U maiuscola…) – fino a quel dannato giorno, nessun essere senziente, che sia uomo o donna o cagna o vacca o altra favolosità, potrà essere al sicuro dal rischio di diventare numero spendibile, sacrificabile sull’altare delle “necessità Umane”, o peggio delle sue casualità.

Quei corpi dunque, quei corpi che galleggiano sul mare, sono lì dove sono anche grazie a noi. A noi, ogni volta che invochiamo l’umanità come ‘conditio sine qua non’ della dignità di esistere. A noi, e alla nostra perenne infatuazione per l’uomo vitruviano. A noi, che abbiamo paura di chiunque superi i confini di genere, classe, specie, e non solo quelli nazionali.

Svestire i panni di quell’Uomo “simile a un dio” indifferente e irraggiungibile, riscoprirsi capaci di com-patire la sofferenza altrui, piangere la morte di una lucertola sul ciglio di una strada e non trovare le parole per l’ennesimo naufragio del sogno di un mondo diverso in cui vivere. Decostruire la favola orrenda che ci hanno cucito addosso, e ricostruirci esseri chimerici e contaminabili.

Soprattutto, lasciar vivere: abbandonare l’indifferenza che uccide e smetterla di ragionare sulle dimensioni dell’arca, sempre troppo piccola di fronte ad un eterno diluvio universale.

Wild, il film

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Wild

Le due parole che immediatamente si associano a un film come Wild sono “redenzione” e “rinascita”, ma quella raccontata è anche la storia di due donne, madre e figlia, che si parlano attraverso percorsi di emancipazione diversi e contigui.
Il testo che segue anticipa trama e finale.
Diretto da Jean-Marc Vallée e sceneggiato da Nick Hornby, il film è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Cheryl Strayed, e racconta la “parentesi” che una giovane donna, Cheryl interpretata da Reese Witherspoon (anche produttrice del film), si ritaglia dalla sua vita, per elaborare il lutto che l’ha portata a un passo dal distruggere sé stessa. Il percorso di rinascita segue le vie del Pacific Crest Trail, un sentiero che attraversa in verticale gli Stati Uniti, dal confine con il Messico in California, attraverso l’Oregon, a Washington, fino al Canada.

Il piano della memoria è continuamente intrecciato al presente, in un costante rimando tra strappi e ferite, naturali ed emotive, a ciò che è stato e a ciò che è. Un po’ alla volta scopriamo una madre, Bobbi interpretata da Laura Dern, che pur partendo da una condizione di fragilità economica e culturale, libera sé stessa e i figli dalla violenza. Bobbi, infatti, sottraendosi al marito e padre dei suoi figli, alcolizzato e violento, costruisce secondo le possibilità di una cameriera di caffetteria senza diploma, un ambiente in cui regnano l’amore e la curiosità verso la vita. Si iscrive al college con Cheryl e con lei discute continuamente di musica e libri, piena di voglia di vivere e di crescere una figlia che sia una donna forte e migliore di quanto pensa di essere stata lei. Lo strappo violento della sua morte, a soli 45 anni, spinge Cheryl in un vortice di autodistruzione, che comporta anche la fine del proprio matrimonio, tra sesso vuoto ed eroina. A 24 anni Cheryl si ritrova senza legami, perduto anche quello con suo fratello minore, e senza speranze.
Nell’estate del 1995 decide di mettersi alla prova con il durissimo PCT, pur non avendo esperienza di trekking, con uno zaino troppo pesante, scarponi troppo stretti, dormendo in tenda nei boschi e nel deserto, esposta alle intemperie e a qualsiasi tipo di incontro casuale. Ma gli incontri sul cammino non sembrano essere particolarmente importanti, perché il cammino reale di Cheryl è dentro sé stessa.

aLa realtà sfuma in una dimensione onirica, i flashback invadono il presente, fino alla conquista di un nuovo significato della vita.
Il finale del film ha un sapore un po’ retorico e certamente conciliante. L’autrice del libro è oggi una scrittrice e saggista che, dopo alcuni anni dal PCT, si è sposata e ha avuto dei figli. Non ho letto il libro e non posso dire quante e quali differenze ci siano, ma il film vale la pena. Wild vale la pena non solo per le spettacolari immagini della natura, vale la pena proprio per la messa in scena di quella dinamica d’amore tra madre e figlia che permette alla donna più giovane di rispondere con semplicità, a un inetto giornalista che la scambia per una senza tetto, “certo, sono una femminista“.

Il femminismo non è un aspetto di secondo piano, né nel film né nella vita di Cheryl Strayed, che fin da giovane è stata un’attivista. Oggi secondo Strayed il femminismo, pur essendo ancora oggetto di denigrazione e tentativi di marginalizzazione, viaggia in ogni direzione, anche grazie ai social media e ai personaggi pubblici.

Sono felice che finalmente più e più persone – cantanti, attrici e celebrità – dicano pubblicamente “Sai cosa? anche io sono femminista”. Ce ne sono sempre stat*, ma oggi il numero è in crescita. Penso che i social media aiutino, creando un senso di comunità, così non ti senti come una persona sola nel vento.

Non so dire quanto fossi felice del fatto che Nick [Hornby] avesse incluso lo scambio tra Charyl, cioè io, e il reporter, in cui dico che sono femminista. Lo adoro.

(…)

“Trendy” sembra sempre essere un termine sminuente. Implica che si tratti di qualcosa alla moda e passeggero, di persone che ora sono sul carro [del femminismo n.d.t.] e dopo non ci saranno più. Ma non credo che sia così. Penso che stia accadendo qualcosa di simile agli anni ’70, quando un’intera generazione di donne ha avuto una specie di presa di coscienza. Penso che oggi stia accadendo questo. Molte donne che in passato hanno detto “Oh, no. Non mi sento discriminata. Oh, no. Il sessismo è una cosa del passato”, cominciano a capire che non è così, che ci sono dei chiari indicatori che il sessismo è vivo e vegeto, e ne sono affetti. Molte persone cresciute pensando che il femminismo non fosse necessario, adesso si rendono conto che lo è. Una volta che hai preso coscienza, questa non è più una “moda”, diventa un modo diverso di pensare al mondo.

Charyl racconta dei timori che aveva all’idea che il film fosse realizzato a Hollywood, uno dei luoghi più sessisti del pianeta.

Abbiamo avuto un lungo colloquio e lei [Reese Witherspoon n.d.t.] era irremovibile sul fatto di essere fedele al libro e onorare sia il libro che la mia vita, così ho sentito che potevo fidarmi di lei. Poi, subito dopo, ho incontrato Bruna Papandrea, socia di produzione di Reese, e abbiamo fatto una lunga colazione. Sono delle donne fantastiche ed eravamo così in sintonia che ho subito capito che non avrebbero fatto accadere cose brutte.

(…)

Wilde è un film indipendente. Molte persone non lo immaginano perché vedono Reese Witherspoon sul cartellone, e pensano “Og è un filmone di Hollywood”, ma in realtà si tratta di un film indipendente realizzato con un budget molto modesto, proprio per proteggerlo. (…) Ho letto la sceneggiatura prima che fosse tutto pronto, ho dato dei feedback, ho espresso le mie opinioni e il film è stato realizzato molto bene. Nick Hornby e Jean-Marc Vallee sono entrambi uomini intelligenti e sensibili con una coscienza femminista.

Tra vita, scrittura, cinema e racconto, Wild sembra proprio un film adatto al nutrimento di un immaginario, femminista, che prendendo spunto dalla realtà, ritorna a essa rafforzato.
Le parti tradotte e adattate all’italiano sono tratte dall’intervista rilasciata a Bitch Magazine.

Chi ha paura dell’asterisco?

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Non raramente capita, negli ultimi tempi, di sentire messa in discussione l’opportunità e l’importanza dell’uso dell’asterisco o dell’@, al posto delle declinazioni di genere nella scrittura; abbiamo così deciso di esplicitare i motivi per i quali noi,  invece, ne promuoviamo e incoraggiamo l’uso. 

***

“Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambi peccati d’orgoglio”,  dalla prefazione al Dizionario di S. Johnson, 1755.

Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.

Un asterisco moltiplica le possibilità, invece di frazionarle come fa una barretta (i/e) – esplicita la variabile alla norma duale, sottolinea l’obbligatorietà di fermarsi a riflettere: perché salutando un gruppo di donne in cui è presente un solo uomo, si dice “ciao a tutti”   – e questo è ‘normale’ – ma se si dice allo stesso gruppo “ciao a tutte” l’uomo in questione terrà a rimarcare la sua estraneità alla desinenza femminile? E che dire di tutte le favolosità che non sentono di rientrare nelle i e nelle e? O di rientrare in entrambe? L’asterisco non fa distinzioni, abbraccia tutt* con lo stesso entusiasmo, e da tutt* può essere abbracciato!

Un asterisco non è leggibile, obiettano poi molt*, e allora che si fa? Già, che si fa? E perché mai l’asterisco dovrebbe essere la soluzione al problema? L’asterisco evidenzia il problema, e nella forma scritta è inclusivo di qualsivoglia soggettività, perciò dal canto suo ha già fatto tanto sporco lavoro.  E quando poi ci si trova a doverlo pronunciare, ci si sente spiazzat*: si comincia a farfugliare, a mescolare maschile e femminile, ad evitare le desinenze.

Ben venga il turbamento causato dall’asterisco, e fintantoché non si palesi anche nella lingua parlata una svolta davvero antisessista, ogni regola vale: i maschili universali allora saranno affiancati ai femminili universali senza che nessun* debba risentirsi! Potremo decidere di usare la -u, che non ha connotazioni di genere (fa strano dire “Ciao a tuttu?” Solo perchè nessunu ci è abituatu!), di passare fluidamente da un genere all’altro senza considerarlo un errore grammaticale.

La lingua è plastica per definizione, è uno strumento di descrizione della realtà e in sé non ha forma perché la sua forma è dettata dalla sua sostanza in perenne evoluzione; e proprio per questo il mutamento linguistico non è questione di poco conto, poiché la lingua dialoga con la realtà: ciò che non può essere nominato, non esiste, e il successo di una lingua o di determinate forme linguistiche hanno tutto a che vedere con il potere di chi la parla. A questo punto occorre domandarsi: chi esiste e chi non esiste nell’italiano con la I maiuscola? Chi detiene il potere prescrittivo, regolamentare e sanzionatorio delle desinenze?

La lingua deve fare gli interessi di coloro che la parlano,  e chi la parla è una vasta gamma di soggettività che hanno tutte egualmente diritto ad esistere, nel mondo come nelle sue parole;  non certo gli interessi culturali e politici di chi per malcelato conservatorismo, di destra o di sinistra, vorrebbe proteggere e coccolare l’idea, estremamente elitaria, di una lingua italiana ufficiale e perfetta elevata a divinità – etichettando di conseguenza qualsiasi sua variante meticcia e plebea  come peggiore dei mali possibili.

Il concetto di prescrittivismo grammaticale è innatamente reazionario, visto che predica il ritorno a uno ‘stato precedente’ di presunta correttezza grammaticale universale di fronte al trasformarsi (o, secondo la prospettiva dei suoi sostenitori, all’imbastardirsi) di una lingua. Riesce difficile pensare come chiunque si posizioni genuinamente contro lo stato di cose presenti possa voler sostenere una visione simile, senza contare che – non esistendo un modo oggettivo di stabilire cosa suoni bene e cosa no – le critiche, quand’anche presentate come puramente fonetiche, sono critiche politiche. Se una lingua è allora riformata sempre in senso ideologico, che sia l’ideologia di chi costruisce la libertà, non quella di chi la nega.

L’asterisco è una modifica grammaticale accettabile e coerente nel paradigma corrente di approccio normativo al linguaggio? Probabilmente no. Il problema è proprio questo, non l’uso atipico della punteggiatura e men che meno altre proposte di riforma linguistica in direzione antisessista. A chi è più cruschista della Crusca, la quale circa l’utilizzo di forme linguistiche più aperte e rispettose dei passi in avanti li sta compiendo, non rimane che accaparrarsi la tessera di Forza Nuova.

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* l’immagine usata nell’articolo (addizionata di immancabile asterisco) è di Araki, Tokyo Lucky Hole.

Negli occhi delle madri

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Non sono madre, non lo sono mai stata e mai lo sarò letteralmente: e dunque questo dovrebbe togliermi la parola? L’amore e la compassione sono forse caratteristiche esclusive del mio utero messo a servizio del lavoro riproduttivo?

Vuoi sapere come mi sento a fissare gli occhi degli agnelli a Pasqua?
E non solo i loro, e non solo a Pasqua. Eppure è vero, in questo periodo dell’anno l’orrore mi si fa più intollerabile, perchè è primavera, ed in primavera tutto rinasce, tutto risorge, tranne dio, quello no: rinasce l’erba, e i fiori, e i canti degli uccelli indaffarati a costruire nidi, risorge il sole dal sonno invernale e la nostra voglia di mondo – sopita dal freddo che ci costringeva chius@ in casa in inverno. Condividiamo con qualsiasi altro essere vivente la gioia del sole caldo sulla nostra pelle. Dell’aria pungente al mattino e del tepore di mezzogiorno.

Vorrei scrivere un articolo politico, ma in questi giorni è il cuore che prende il sopravvento, e l’orrore che mi perseguita mi toglie il sonno e la lucidità necessaria. E allora prendo di pancia una decisione, scrivere di getto, con i brividi addosso, scrivere a partire dal mio corpo di animale, il mio corpo attraversato dal dolore di quelle madri, dalla paura di quei figli@. Scrivere di milioni di gole tagliate per i nostri festeggiamenti, di migliaia di sguardi di cuccioli terrorizzati e di madri circondate dal silenzio, in attesa di un ritorno che mai avverrà, più realisticamente del prossimo stupro, del prossimo parto, del prossimo strappo.

Ma io non ho mai voluto essere madre, e quindi mi mancano quelle qualità che mi rendono un’interlocutrice credibile. Il mio corpo non ha registrato ogni piccolo cambiamento della gravidanza, perciò cosa ne posso capire io? Rispondo: con che coraggio essere madre radiosa quando si è circondate di tante madri a cui i figli sono stati rapiti e uccisi? Con che coraggio rubare il latte, i corpi e le vite ad altri madri, ad altri cuccioli per nutrirsene? E come Antigone, conosco la pietà che va contro la legge.

Non sarò madre perchè non lo desidero, ma anche perchè mi vergognerei ad esserlo. Perchè quando vedo una madre umana fissare negli occhi il proprio figlio in estasi, sento i muggiti disperati delle mucche separate dai vitelli, lo sguardo triste delle scrofe nelle gabbie gestazionali e vedo le pecore inseguire il pastore che ruba loro l’agnello. Lo sguardo dell’inerme mi fissa, e a quello sguardo io devo una risposta. Una risposta che scrivo nella mia carne, nella mia mente, nel mio cuore, nella mia politica. E nella mia politica di femminista soprattutto, a cui non serve sentire il proprio ventre gonfiarsi per comprendere il dolore delle madri.

E non voglio nè posso distogliere lo sguardo; i miei occhi sono saldi in quelli degli altri animali, la cui fine violenta è tenuta ben nascosta per limitare al minimo indispensabile l’occasione di farci vergognare, codard@ che non siamo altro; e le mie orecchie percepiscono, in lontananza ma chiaramente, le loro voci inascoltate e i loro lamenti soffocati dalla violenza rumorosa e indifferente delle macchine del mattatoio; ferraglia sporca di sangue azionata da altre macchine, umane, che hanno perso ogni empatia, ogni compassione. Perché per ogni boccone di carne ingurgitato, c’è un essere umano spogliato di qualsivoglia (retorica e inesistente) ‘umanità’, che meccanicamente taglia una gola, poi un’altra, poi un’altra, con le mani sporche del sangue di migliaia.

E in questi giorni, mentre si fanno gli scongiuri augurandosi che il meteo sia clemente, mentre vengono preparate le tovaglie e le coperte per stendersi sui prati e felicemente, gioiosamente festeggiare la bella stagione, quanti avvertono il silenzio che ci circonda, il silenzio delle madri?

Quel silenzio io lo sento nel mio cuore, il silenzio del dolore del più debole che soccombe al capriccio del più forte, anche quando quest’ultim@ lascia che siano altr@ a sporcarsi le mani. E gli occhi delle madri mi guardano, mi interrogano, mi chiedono di rispondere a una domanda implacabile… perché, potendo scegliere la compassione, scegliamo sempre la violenza brutale?

Perché possiamo? Non è una risposta che possa bastare.

Così cerco di dare voce allo strazio di quelle madri di figli@ desaparecidi, immolat@ per il piacere di fauci mai sazie. E decido di condividere il loro dolore in tutto e per tutto, diventando incapace di festeggiare, io che amo la primavera sopra ogni cosa. E ascolto quel silenzio, il silenzio del lutto. Il silenzio che segue alle grida del mattatoio.

Aprile è il mese più crudele.

Il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche borghesi

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Questa è la trascrizione del discorso tenuto da Myriam Francois-Cerrah in occasione di un dibattito tenuto alla Oxford Union il 12 febbraio, in cui ha sostenuto la mozione approvata “Questa Camera è persuasa che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi“.

Myriam Francois-Cerrah, ricercatrice alla Oxford University, studia i movimenti islamici in Marocco e si occupa di Medio Oriente e di attualità in Francia. E’ giornalista, anche televisiva e  radiofonica, ed oltre a collaborare con testate quali  The Guardian, New Statesman, The Independent, Middle East Eye e Al Jazeera English, anima dibattiti televisivi su Sky News, BBC Newsnight, Channel 4 news, etc.

L’originale del suo intervento qui. Traduzione collettiva con La Pantàfika e Jinny Dalloway.

Signore e signori, è un piacere essere qui con voi stasera.
Lo so, lo so – l’apparente ironia della mia condizione di donna bianca borghese che ritiene che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi non vi sfuggirà, ne sono certa. Ma è sotto molto punti di vista una rivendicazione della mia condizione. Dopotutto, rappresento una minoranza nella mia comunità di appartenenza – non rappresentativa delle donne musulmane, né qui, né nel sud del mondo, né dal punto di vista del mio profilo socio-economico o etnico – nonostante molto spesso io venga chiamata a parlare proprio a partire da tale soggettività.

Prima di presenziare oggi, ho riflettuto a lungo e duramente se fosse il caso di lasciare il mio posto ad una delle mie molte eroine, donne di colore le cui voci sono spesso zittite non solo dalla narrazione bianca, ma anche dal privilegio bianco che, per quanto sia mitigato, per certi aspetti, dal velo che porto sulla testa, cionondimeno incarno. Alla fine ho deciso di partecipare per un motivo fondamentale, e cioè per sottolineare che la critica al femminismo bianco – o, in senso più ampio, alla cultura bianca – non è una discussione in merito alla razza – ma ad una categoria politica, che implica uno squilibrio di potere tra la cultura bianca dominante e le identità subalterne.

L’espressione “le/i bianch@” non si riferisce al colore della pelle delle persone, quanto piuttosto all’identificazione di queste ultime con le relazioni di potere dominanti che continuano ad assoggettare le persone di colore in una condizione di seconda classe, e a relegare le donne di colore proprio al punto più basso della piramide sociale. Non posso e mi rifiuto di parlare per le donne musulmane – io parlo solamente in quanto donna, femminista e musulmana, la cui solidarietà va in primo luogo al sud del mondo. E parlo in quanto femminista intersezionale che crede che la razza, la classe e il genere siano cruciali per il dibattito femminista.

Arundhati Roy ha affermato in un’occasione: “Non esiste chi è ‘senza voce’, solo chi è deliberatamente zittit@ e preferibilmente inascoltat@.” Quando si tratta di concezioni alternative di femminismo, il movimento femminista oppone una resistenza ostinata all’inclusione di voci altre. E per inclusione non intendo il mero riconoscimento che ai margini esistano voci “altre”, un cenno di benevolenza a chi non si conforma pienamente alle “nostre modalità”. Non intendo nemmeno l’epidermica molteplicità di visi differenti – ma la sostanziale differenza nelle svariate concezioni della “realizzazione femminile”. Mi riferisco all’accettazione del fatto che la cornice concettuale bianca, laica e liberale, non è l’unica prospettiva dalla quale le donne possano esprimere le proprie battaglie.

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Al posto di avallare l’assunto predominante secondo il quale le voci femministe alternative stanno cercando di raggiungere il più “avanzato” femminismo occidentale, intendo far comprendere che femminismo non significa “salvare” le donne del sud del mondo, ma imparare da loro, in quanto pari in una battaglia condivisa. Sebbene questo riconoscimento stia lentamente facendosi strada, spesso è troppo simbolico e alle volte profondamente condiscendente.

Il mio dottorato di ricerca riguarda il Marocco, paese nel quale molte delle donne che ho intervistato si identificano come credenti religiose impegnate: nella loro società, rappresentano l’avanguardia nella battaglia per la reinterpretazione dei testi religiosi in una luce egualitaria e combattono l’idea di supremazia maschile o di somma autorità, ma allo stesso modo – in molti casi – rigettano il termine “femminismo” in quanto concetto occidentale che mal si adatta ai loro bisogni di donne marocchine musulmane, un’idea d’importazione che una donna ha descritto come “un’altra forma di imperialismo culturale, concepito per alienare le donne native dalla reale fonte del proprio potere”, cioè la propria cultura di appartenenza.

Mentre, in quanto femminista musulmana, sono ben consapevole delle battaglie per l’uguaglianza nell’ambito della mia fede, riconosco anche che il problema della disuguaglianza di genere non è responsabilità esclusiva della religione. Infatti, la povertà e l’autoritarismo – condizioni non esclusive del mondo islamico, e derivanti dalle interconnessioni globali che implicano anche l’occidente – sono spesso le più decisive.

Il femminismo di cui mi sento parte, il femminismo a cui mi ispiro, è il femminismo di donne che resistono all’imperialismo, allo sfruttamento, alla guerra e al patriarcato – è il femminismo delle donne indiane che lottano contro la cultura dello stupro, delle palestinesi che resistono all’occupazione israeliana, delle bengalesi che reclamano condizioni minime di sicurezza nelle fabbriche dove producono vestiti per le false femministe alla moda – le innumerevoli donne delle primavera araba e la loro resistenza ancora in corso!

Quando affermo che il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche, intendo dire che la cultura bianca continua a dominare la narrazione in tutti i campi e riduce i punti di vista alternativi a pittoreschi contributi, funzionali alla conferma dell’eterna verità della supremazia bianca. Mi riferisco alla strumentalizzazione delle Malala Yousafzais del mondo, eroine locali trasformate in pedine politiche usate per giustificare le guerre e le occupazioni in corso, che alla fine colpiscono le donne ancor più duramente. La questione dell’educazione delle donne viene rielaborata allo scopo di giustificare l’imperialismo occidentale.L’esempio di Malala è solamente utile a ratificare le priorità del femminismo bianco e la percezione delle donne ‘altre’ quali bisognose di aiuto, come grate destinatarie di interventi esterni.

Malgrado tutte le giustificazioni femministe del saccheggio dell’Afghanistan, il tasso di morte delle madri afgane oggi è fra i più alti del mondo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite individua la causa nei decenni di conflitti laceranti che si sommano alle attitudini repressive verso le donne.

Lo stesso schema viene replicato altrove: quando in Nigeria 200 studentesse vengono rapite da Boko Haram, piuttosto che focalizzare l’attenzione sulla ricerca delle ragazze, la storia è usata per giustificare la ‘guerra globale al terrore’ in corso. Una guerra che, tra l’altro, non sembra sia ancora servita a far ritornare le ragazze. Esistono molte ricerche sull’impatto della guerra sulle donne, che sono annoverate tra le vittime principali, non solo in termini di vittime effettive di guerra, ma anche nella propria lotta per l’autonomia, perché ciò che in realtà avviene in caso di conflitto è la polarizzazione dei ruoli di genere: la mascolinità diventa più aggressiva e le donne vengono idealizzate quali “vestali di un’identità culturale” – e i corpi delle donne diventano campi di battaglia. Questo avviene sia nella Repubblica democratica del Congo che in Afghanistan.

Ed è qui che il femminismo bianco continua a non rispondere al richiamo di una reale solidarietà femminista, non facendosi carico delle critiche che gli arrivano dai margini. C’è, da sempre, troppo poca autocritica, troppa reticenza a mettere in discussione la supremazia bianca. Le bianche hanno partecipato attivamente al sistema schiavistico americano, di cui sono state proponenti e beneficiarie, così come degli imperi coloniali, e verosimilmente continuano a essere beneficiarie dell’imperialismo e dello sfruttamento.
I vestiti che compriamo a basso costo, il petrolio con cui riforniamo le nostre macchine, i diamanti che desideriamo, sono tutti legati alla lotta femminista perché, per parafrasare bell hooks, se il femminismo cerca di rendere le donne pari agli uomini, allora ciò è impossibile perché la società occidentale non considera gli uomini tutti uguali.

Non ci può essere parità fra uomini e donne fino a quando non ci sarà una compensazione della inequità globale che pone la bianchezza all’apice della gerarchia umana e conseguentemente fa delle donne bianche borghesi lo standard per l’emancipazione femminile.
Ed è per questo motivo che gruppi come Femen sono parte del problema – quando fanno affermazioni quali “come società, non siamo stat* in grado di sradicare la nostra mentalità araba nei confronti delle donne”, perché è idea comune che TUTTI gli Arabi odino le donne, vero?

In risposta alla campagna delle donne musulmane per denunciare le Femen come razziste e paternaliste, Inna Shevchenko – che ci onora della sua presenza stasera, ha risposto: “Scrivono nei loro manifesti che non hanno bisogno di essere liberate, ma nei loro occhi c’è scritto ‘aiutatemi’.” Qualcun@ soffre del complesso della salvatrice bianca?
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Questa specie di pseudofemminismo che perpetua l’idea delle donne di colore quali passive, senza voce e bisognose di essere salvate dai propri uomini, se non da loro stesse, non è un femminismo che riconosco. Le donne del sud del mondo combattono contro i problemi portati dal patriarcato?

Certo che sì! Oltre a tutti gli altri problemi alimentati da un sistema capitalista fondato sulla disuguaglianza, combattono anche contro le varianti locali del problema virtualmente universale del patriarcato. Coloro che si sforzano di proclamare una solidarietà femminile onnicomprensiva devono cominciare ad affrontare la complicità continua di molte donne bianche nelle più generali condizioni di assoggettamento – militare ed economico – che opprimono le loro cosiddette “sorelle” del sud del mondo.

Un’attivista sudafricana ha detto una volta: “Entra nel mio spazio, rispetta le persone che ci vivono (…) non venire a sovradeterminare”.
Se il mio privilegio bianco è necessario per amplificare questo messaggio, almeno sarà servito ad un fine positivo nella più ampia lotta per l’uguaglianza dell’umanità.

Auguri, Intersezioni!

queer-your-tech-header_FINAL_640webL’intersezionalità non è una teoria perfetta.

L’intersezionalità è una teoria – e una pratica – che ci permette di affrontare questioni stringenti quali il privilegio, che ci riguarda tutt@ e funziona, come sottolinea pattrice jones, perchè si rende invisibile ai nostri stessi occhi.

L’intersezionalità rende visibili le connessioni, non solo tra le teorie o tra le lotte, ma quelle esistenti fra tutti gli esseri appartenenti al vivente. Avere un approccio intersezionale significa fare spazio all’altr@, a ciò che per l’altr@ è importante, fare spazio ai dolori, alle fragilità, alle difficoltà vissute dagli altri animali, umani e non; fare spazio ai desideri, non avere paura di sé stess@, nè sentire di aver già capito ogni cosa…tutto questo è intersezionalità.

Intersezionalità è confronto, rapporto, inclusione. E’ partecipazione, comunione, ascolto.

L’intersezionalità esiste nell’esperienza vissuta dall’altr@, dai suoi desideri frustrati, dalle sue speranze, dalla sua ricerca di spazio, fisico, mentale, di esistenza, di agibilità politica; nell’autocritica che ci spinge a svestirci dei nostri comodi panni per indossare quelli altrui, che ci spinge ad andare oltre ai nostri limiti, oltre alla nostra visione ristretta delle cose del mondo e alle nostre convinzioni.

L’ottica intersezionale (e queer, e transgender e…) supera i confini di spazio, di pelle, del dato una volta per tutte; rimescola le carte e il dna, amplia orizzonti togliendoci i paraocchi, ed è questa la sua potenza,  questa la sua qualità, questa la sua insopprimibile speranza: smascherare le nostre fragilità, i nostri attaccamenti, i privilegi che ognun@ di noi ha e che detestiamo dover guardare, per scoprire che quotidianamente agiamo le stesse dinamiche di sopraffazione che siamo così pront@ a criticare in quell@ che identifichiamo come “nemici”.

L’intersezionalità ci fa scoprire di essere meglio inserit@ nel sistema di quanto credessimo. Ci fa scoprire di essere confus@ e contraddittori@, ci mette di fronte ai nostri limiti e ci costringe ad accettarli, ma anche a volerli superare, in uno sforzo e una tensione estrema, e non abbassare mai la guardia. Perché in qualsiasi momento l’oppressor@ che è in noi può prendere il sopravvento, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

L’intersezionalità è uno strumento prezioso, e sicuramente ne verranno di migliori, ma oggi, nella nostra pratica di femministe, antispeciste, di persone che stanno cercando di smascherare un sistema di sfruttamento totale, l’intersezionalità è necessaria.

Vogliamo tutto, dicevamo un tempo: ma siamo anche disposte a rinunciare a tutto*?

 

* Quantomeno, a tutto il privilegio che riduce l’altr@ a …niente?

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

Compagn@ è una parola vuota

hypocrite

I compagni, le compagne, siamo compagn@… compagn@ è una parola vuota, anzi una parola svuotata, però fa molto figo usarla per definirsi in rapporto alle/agli altr@ attivist@.

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, siamo così compagn@ che non solo non ci poniamo alcun problema a sbranare costolette di fronte alle/ai compagn@ antispecist@, prendendol@ pure, e nemmeno velatamente, per i fondelli, ‘st@ sensibilon@, ‘st@ mollaccion@, ma soprattutto ‘st@ cagacazzi! O magari usiamo l’approccio ‘politicamente corretto’, quello del “ohmaguardachenoic’abbiamol’alternativavegana”, che ci fa sentire taaanto comprensiv@ nei confronti dei pover@ disagiat@, che insomma oh, ma fossero questi i problemi del mondo… che poi di ascoltare una volta tanto, di ragionare, di metterci il cuore e tutta la bella compagnitudine non ci passa per l’anticamera del cervello – che forse forse quel privilegio che ci stanno facendo notare, quello per cui maciulliamo vite tra i denti senza rimorso, mentre ci sentiamo taaanto virtuos@, taaanto militant@, un pò ci infastidisce, eh, ma giusto poco poco…

Alla fin fine, per quale motivo ci dovremmo rinunciare? Tanto quegli esseri inferiori che sono gli altri animali non ce li ammazzano davanti  (occhio non vede, cuore non duole!). E anzi quando possiamo e ci sentiamo particolarmente ispirat@ una bella battutona acida su faccialibro, a ‘st@ spocchios@ gentrificat@ veg non ce la facciamo mai mancare! Poi beh, ovvio che anche i veg anticapitalist@ che si dedicano all’autoproduzione sono sciroccat@, ma ti pare che con tutta la militanza che c’è da fare c’abbiamo il tempo di farci il tofu? Essù, eddai!

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, e siamo taaaanto antisessist@, così tanto che quando le compagne ci propongono la serata postporno ah, sì che siam d’accordo, w il postporno! Alla fin fine lo sappiamo, si vede la fica no, quello mica ci spiace, poi va be’,  siamo tutt@ poliamoros@, però lo sai che quella ci prova con quell’altro mentre ‘sta con il terzo, beh chiaramente è una “gran troia”, però insomma, siamo antisessist@, certo, guarda io al corteo mi vesto pure di ROSA, adooooro il bike smut. Oh, però, scusa mi viene da parlarti al maschile anche se ti fai chiamare Anna, cioè, va bé, mica è un problema no, mica sei suscettibile come ‘sti finocchi…

Siamo compagn@, eccome no!? E’ perchè siamo compagn@, tanto compagn@, che se non ti presenti agli appuntamenti militonti con un’altr@ compagn@ certificat@ non sei un cazzo di nessun@, cioè magari sì, ti ho visto ogni tanto ai cortei o alle serate,  beh anche più di qualche volta, anzi, forse avevamo pure fatto un volantino insieme, che era venuto figo, sì sì ricordo…sì ma alla fine…CHI CAZZO SEI? E come cazzo ti permetti di dire la tua, cioè forse ti sei fatt@ delle idee, ma non sei NESSUNO. Perché per essere qualcun@ devi mangiare tanta merda, un pò di sano nonnismo militante tempra gli animi e seleziona solo i più puri, quell@ che saranno davvero compagn@, senza se e senza ma.

Car@ compagn@, che pronunciate più voi la parola ‘compagn@’ che le/i quindicenn@ la parola ‘cioè’, voi siete tutto tranne che compagn@: poi vi chiedete, ogni tanto, in un barlume di coscienza, come mai si è sempre in 4 stronz@ alle iniziative… beh, fatevi una domanda e datevi una risposta.

Anzi, oggi la risposta ve la suggerisco io: perché siete davvero tanto stronz@ e ipocrit@.

 

‘Yes, we fuck!’: la rivoluzione dei corpi dissidenti

Immagine tratta da Yes we fuck!
Immagine tratta da Yes we fuck!
Articolo pubblicato su Pikara, traduzione di Lafra, revisione di feminoska.
Avete dato una possibilità a persone, spesso considerate asessuate o al contrario ipersessuali – comunque sempre posizionate in un luogo quasi inverosimile rispetto alla sessualità – di vedersi rappresentate e di essere protagoniste. State introducendo una questione importante, quella della sessualità nelle persone diversamente abili, attraverso alleanze non sempre così evidenti come quelle con la sessualità non normativa, la critica alla grassofobia, la dissidenza sessuale e il genere. Antonio, come nasce questo progetto dal nome così arrapante?
Il  titolo è una parodia dello slogan della campagna di Obama “Yes, We  can”. Volevamo usare un linguaggio esplicito e un tono divertente, ci sembrava un modo particolarmente appropriato di gettare le basi per un documentario sulla sessualità e la diversabilità. Siamo partiti alla fine del 2012 con l’idea di fare qualcosa che contribuisse a cambiare l’immaginario collettivo sulle persone diversamente abili, rendendo visibile la loro condizione di esseri sessuali e  sessuati, mostrando i loro corpi come desiderabili e desideranti.
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Avete collaborato non solo con collettivi di attivismo critico, ma anche con gruppi che fanno postporno, come Post-Op, o con progetti femministi che rivendicano, per esempio, l’eiaculazione femminile. Come sono andate queste alleanze?
Si sono rivelate esperienze inaspettate, e al tempo stesso ricche ed emozionanti. Andrea García-Santesmases, collaboratora di Yes, We  Fuck!, si è messa in contatto con Diana Pornoterrorista, che ha inserito nel libro Pornoterrorismo un capitolo sulle e sui “diversamente abili” e ci ha condotto da Post-Op, che si è offerto di realizzare un workshop di postporno e diversabilità che costituisce la prima storia del documentario. Ha rappresentato una sorta di  inaugurazione, dato che in questo incontro si è confermato quello che avevamo già intuito rispetto ai discorsi dei diversi collettivi: che condividevamo la stessa lotta per il diritto alla differenza e contro l’idea di normalità. A partire da questa esperienza, che si è rinsaldata con il workshop di eiaculazione femminile, Yes, We Fuck! si è costituito come spazio di incontro e alleanza tra differenti attivismi che fanno politica sul corpo. Mi piacerebbe evidenziare che questa visione sul vincolo tra il crip e il queer, con il quale si è arricchito moltissimo il documentario, è stata possibile solo grazie al lavoro di Andrea García-Santesmases, che oltre a realizzare i due workshop (oltre al tema della diversità intellettuale) è stato colei che ci ha costantemente orientati nella linea ideologica che avrebbe potuto renderlo possibile.

Cosa vi ha portato a privilegiare la forma del documentario invece di creare una associazione o un progetto sociale?
Non avevamo l’intenzione di essere particolarmente pedagogic@, quanto piuttosto quella di scuotere l’immaginario collettivo riguardo la sessualità e la diversabilità, e nulla risulta così potente come l’immagine esplicita. Nella nostra cultura, ciò che non si vede difficilmente si immagina.
Ripetiamo  spesso che il linguaggio è uno strumento per pensare, però come è possibile che non si conosca il termine “abilismo” allo stesso modo di altri termini quali razzismo, xenofobia, sessismo o classismo? Per chiarire, l'”abilismo” è la convinzione che alcune capacità siano intrinsecamente migliori, e che chi le possiede sia migliore del resto delle persone.
Questa assenza nel linguaggio è il segno inequivocabile di quanto questa forma d’oppressione basata sulla differenza corporea sia stata naturalizzata, per giustificare la disuguaglianza sociale che ci colpisce da tempo immemore. Siamo forse l’ultima roccaforte nella quale continua a sembrare naturale che la biologia giustifichi la disuguaglianza sociale, al contrario di quello che succede con le questioni di genere o di razza.
Sappiamo che avete all’attivo anche un crowdfunding, che cosa sperate di ottenere?
L’idea del crowdfunding è  di poter finanziare la produzione e la diffusione del documentario senza dover ricorrere a una casa di produzione classica, che quasi certamente significherebbe la perdita di un certo margine di libertà per esprimere le questioni più spinose. Una volta terminato il documentario e passata la fase di diffusione nei festival, in televisione, su internet e gli altri media, abbiamo intenzione di mantenere il sito, nel quale sia possibile continuare con la visibilizzazione dei temi relativi alle sessualità diversamente abili attraverso video amatoriali, fotografie, articoli, notizie…
Il vostro progetto vuole stimolare modi nuovi di intendere la sessualità fuori dai confini eteronormativi,  che includono –  tra le varie riflessioni emancipatorie e chiaramente generatrici di autodeterminazione – il godimento con le protesi, la degenitalizzazione e la ricerca di nuove forme di raggiungimento del piacere. Come viene accolto il vostro lavoro da parte dei movimenti di persone diversamente abili più generalisti? State incontrando resistenze?
Fino ad ora il progetto ha avuto più diffusione negli ambienti affini, come il Movimiento de Vida Independiente (Movimento per la Vita Indipendente) e altri spazi di attivismo, e li è sempre stato ben accolto. Rimane da scoprire come verrà accolto su terreni più tradizionali e di carattere maggiormente istituzionale.  Ad ogni modo, se andrà bene, ipotizziamo che entusiasmerà molt*, irriterà diverse persone e non lascerà indifferente quasi nessuno.
 Puoi saperne di più su ‘Yes, we fuck!’ visitando il sito, il canale Vimeo e appoggiando il crowdfunding.

L’umano e il selvatico

cinghiali-branco1L’animale umano ha l’incessante bisogno di rimodellare tutto ciò che lo circonda in modo da renderlo affrontabile, e superabile. La visione antropocentrica è talmente connaturata in noi da non permetterci di accettare, se non con grande sforzo, un mondo che spazi oltre la nostra vista.

Cerchiamo di plasmare l’ambiente che ci circonda in modo rassicurante, contenuto, limitato. E là dove non riusciamo ad arrivare erigiamo un muro, un confine che segni quello che è controllabile da quello che non lo è, e che il più delle volte non reputiamo degno di esistere.

In questa nostro incessante ossessione incontriamo un ostacolo faticosamente aggirabile, ma non abbattibile. Sarebbe così semplice accettare l’ineluttabilità del nostro essere animali invece che arroccarci sull’indispensabilità del nostro essere Umani.

Il mondo che ci circonda non è a nostra misura.

E’ triste, avvilente, assistere ai raccapriccianti tentativi che l’animale umano fa per piegare il mondo al suo volere, quasi sempre, per fortuna, fallimentari.

Ciò che sgomenta è la scia di vittime collaterali della nostra ossessione, che ci lasciamo le spalle in numeri inconcepibili; e ogni giorno tentiamo e ogni giorno falliamo.

Eppure siamo ancora capaci di stupirci, di sorprenderci di qualcosa che inaspettatamente si presenta ai nostri occhi, salvo poi, il più delle volte, attuare in modo automatico meccanismi che ci portano a trasformare la sorpresa in paura, la paura in rabbia e quest’ultima in morte, sterminio.

Gli animali rompono il confine del ‘nostro’ ingombrante, rumoroso e avvelenato spazio: sempre più animali definiti ‘nocivi’ si affacciano alle nostre porte, così come i vegetali rompono il confine del nostro tempo, abbattendo i muri che lentamente ci sforziamo di ricreare. Questo è inaccettabile, e va combattuto con ogni mezzo, fino all’estinzione. Eppure eccoli lì, che ritornano in un’invasione silenziosa, ad incalzarci nel nostro annaspante controllo, fragili ma allo stesso tempo invincibili. E allora perché non arrenderci all’evidenza ed imparare quanto il mondo che ci circonda può insegnarci?

Ma soprattutto, come possiamo continuare ad imporre al mondo che ci circonda i nostri confini, i nostri muri sempre più alti? Voliere, gabbie, recinti indorati da una falsa compassione e ‘amore’. L’animale umano ha alzato il proprio sguardo e si è illuso di riuscire a vedere più lontano, ma non potrà mai osservare il mondo con gli occhi dell’aquila, capire cosa significa librarsi sulle correnti ascensionali a centinaia di metri d’altezza. Non potrà mai vivere l’acqua come sa fare un pinguino, un’orca o un delfino. Percepire la foresta come può farlo un cinghiale o una volpe.

Quando accetteremo i nostri limiti forse cominceremo a non imporli a chi non li ha, privandoli della libertà.