Gomorra: la visibilità transessuale dove non te l’aspetti

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[ATTENZIONE! ATTENZIONE! ATTENZIONE! SPOILER! SPOILER OVUNQUE! ATTENZIONE, SPOILER!]

Prima ancora di iniziare, metto in chiaro che non prenderò sul serio nessuna considerazione di carattere meramente legalitarista che non tenga conto del fatto che stiamo parlando di una serie TV. Non sto sponsorizzando con questo apprezzamento le mafie, almeno non più di quanto non lo faccia il PD promuovendo le grandi opere: fatevene una ragione. Detto questo, è qualche tempo che seguo Gomorra – e devo dire che se il libro non mi è parsa cosa eccezionale, la fiction incontra decisamente il mio gusto. Oggi una novità: nella settima puntata di questa prima serie, c’è un ragazzo FTM.

Il padre di questo ragazzo ha un negozio di vestiti da sposa ed è nei pasticci perché deve dei soldi a uno strozzino. Va da questo  strozzino e gli chiede una proroga di un mese, ma si sente dare picche e di conseguenza, pressato dalla richiesta molto prossima di una ingente cifra, il padre si suicida. Questo ragazzo va a chiedere aiuto a Donna Imma – la capa mafiosa, per intenderci – e le chiede aiuto. Lei va dallo strozzino per fargli capire che deve smetterla, e gli chiede del padre del ragazzo: lo strozzino gli risponde che il ragazzo è una lesbica di merda e che suo padre è un poveraccio; il giorno dopo, per tutta risposta, fa pestare il ragazzo dai suoi scagnozzi. Donna Imma lo incontra e vedendolo con la faccia piena di sangue pesto decide di far ammazzare lo strozzino, che verrà liquidato con un paio di proiettili proprio di fronte a lui (non nascondo di aver provato estrema goduria nel vederlo crepare, alla luce della sua precedente affermazione omofoba, lesbofoba e transfobica). Con Donna Imma si recano poi a visitare il negozio del padre. Lei sottintende che lui potrebbe ereditare l’attività; lui risponde qualcosa di non troppo comprensibile ma che mirava a sottintendere che no, non è cosa per lui. Questo ragazzo insieme ad altri spaccia nel quartiere: in una sequenza successiva, lui porta il borsone di soldi da spartire con tutti coloro coinvolti nello spaccio. Qui succede una cosa interessante: gli altri gli chiedono se è maschio o femmina, come si chiama, e via dicendo. Lui risponde: Luca. Gli altri ridacchiano: tu Luca? ma non farmi ridere, ce l’hai il pesce? e Luca gli risponde: è sicuramente più piccolo il tuo, e subito dopo: …e comunque essere uomini è una cosa che hai nella testa, non è una questione di pesce. Più tardi ancora segue un’altra scena in cui vediamo Luca denudarsi (mostrando le fasce con cui si comprime il seno) e provarsi uno dei vestiti da sposa. Luca muore poco dopo, inseguito e poi ammazzato da alcuni malavitosi che non appartengono al giro di Donna Imma. Peccato.

Imma, peraltro, è un personaggio che mi ha colpito molto: suo figlio Gennaro, secondo le regole dell’ambito camorristico, dovrebbe tenere in salute, proseguendola, l’attività del padre che è costretto in carcere dal 41bis: ma almeno per quanto riguarda gli inizi della serie (più tardi non saprei) sembra evidente che Gennaro sia troppo immaturo per poter gestire in maniera ottimale gli affari dell’impero economico di famiglia. Così Imma prende de facto le redini, contro la volontà del marito, e di certo il suo eccezionale carisma e il suo polso la rendono adattissima al lavoro in questione. Gli occhiali viola che mi fanno vedere la realtà attraverso un’ottica irrimediabilmente femminista si sono ricoperti di brillantini per la gioia, devo dire.

Sono così stupito – è letteralmente la prima volta che vedo una rappresentazione in fiction di un ragazzo transessuale, almeno nel contesto specificatamente italiano. Spero soltanto che la serie continui su questi toni, continuando a mostrarci pezzi di realtà spesso ignorati (quella trans, non certo quella degli spacciatori trans!), continuando a dare un ruolo di spicco a Imma, e magari introducendo anche altre donne che abbiano un certo peso nello svolgersi della narrazione. La mia attesa sarà costellata di pop corn.

La maternità nella società capitalistica è lo schiavismo del 21° secolo

snowwhiteIl titolo del post è uscito un po’ allarmista, ma mi spiegherò meglio e mi capirete alla perfezione. Ho appena visto un video realizzato da un’azienda che produce biglietti d’auguri. Nel filmato un uomo d’affari offre un lavoro. I colloqui con le/i potenziali candidat@ si svolgono via skype. L’uomo comincia a descrivere il lavoro: bisogna essere reperibili 365 giorni l’anno, notti incluse. Disponibilità assoluta e altre amenità. La situazione si mette male quando spiega che non è prevista alcuna paga, la gente protesta e pensa si tratti di uno scherzo.

Allora il nostro amico ci comunica che il posto è già occupato da migliaia di persone in tutto il mondo: si tratta delle madri.

http://www.youtube.com/watch?v=ZD8yfyaeaxM

Mi sono messa a piangere quando alla fine il gruppo di persone ringrazia la propria mamma e vengono presentati alcuni di questi biglietti di auguri del tipo “per la migliore mamma del mondo.” Problema risolto ragazzi, eh? Tua madre ha lavorato come una schiava per anni senza ricevere nessuno stipendio, e la soluzione del problema è acquistare un merdoso biglietto per la festa della mamma.

Nelle società matriarcali come i Moso in Cina, o matrifocali, come i Minangkabau in Indonesia, le madri hanno una serie di privilegi che almeno non le lasciano completamente indifese, come avviene nel sistema patriarcale capitalista nel quale viviamo. Ad esempio, tra i Minangkabau le donne sono quelle che posseggono la terra, le madri e le/i figli@ sono quelli che hanno case e terreni fertili, di modo che una donna non si troverà mai sola, senza casa e senza un soldo con due bambin@ a carico come avviene qui, nel nostro popolo in-civile, giorno dopo giorno. Che ad ascoltare i telegiornali viene voglia di urlare.

I Moso semplicemente non hanno un’istituzione matrimoniale e si risparmiano i relativi sacrifici. I rapporti sessuali sono liberi e le/i figli@ fanno parte della famiglia della madre. Gli uomini assumono il ruolo di padri delle/i bambin@ delle sorelle. Se vi interessa l’argomento, potete visitare il mio archivio, dove ho pubblicato alcuni testi al riguardo e vi sono state più di due discussioni sulla questione. L’ultima di queste a Vienna, tra l’altro, in un discorso sul matriarcato queer che evidentemente non ho saputo affrontare, visto che mi sono saltat@ alla giugulare. La prossima settimana torno in Austria per un workshop e spero di risolvere il pasticcio.

La mia amata Alicia Murillo dice che la gente nelle proprie discussioni non ha problemi ad esigere un salario per i lavori domestici, ma far pagare le prestazioni sessuali è più complicato. Penso che il problema risieda nell’enorme tabù che la società ha con la prostituzione, e la questione ha a che fare con tutto quello di cui stiamo parlando. Mi spiego:

La ‘signora’ si sveglia alle 7 del mattino (al più tardi) dopo una notte intensa, i bambini si sono svegliati 5 volte, tanto che, tra biberon e latte, questa persona ha a malapena chiuso occhio. Fa un pompino al suo ‘signor’ marito, perché vada al lavoro contento, poi prepara la colazione per tutta la famiglia e le attività che seguono già le sappiamo: pulizie, spesa, medico, figli@, cucinare, lavare. Siamo tutt@ d’accordo che questa ‘signora’ lavora come una schiava e non è giusto che l’unico a lavorare “legalmente” qui sia l’uomo, che lavora otto ore scarse e poi corre a casa sul divano.

Va ancora peggio quando lei lavora anche fuori casa, perché allora fa un doppio lavoro e la situazione è già disperata. Questa è la realtà di milioni di donne da queste parti, in questa rabbiosa e frustrante attualità.

E siamo ancora lontan@, o forse non così tanto, dalla possibilità che questa persona ottenga uno stipendio per il lavoro che fa, e che si prenda in considerazione che tutto questo lavoro fisico eccessivo possa ottenere una compensazione economica in un mondo capitalistico. Questo o cambiamo mondo. E quel pompino o aprire le gambe senza desiderio alla fine di una giornata interminabile, anche questo è lavoro. Sono cure, così come sono cure le attenzioni dedicate ai bambini, cucinare, fare lavatrici, pulire la casa, alzarsi alle due, alle tre e alle cinque del mattino per rispondere al pianto di un bambino malato.

Basta perdio! Con tutto quello che si è detto del crowdfunding su Verkami del libro Maternidades Subversivas, l’attenzione si è concentrata sui parti e sugli allattamenti orgasmici, credo perché sono temi vistosi e mediatici. Ecco, una puttana che gode a partorire, se non è vero che il vizio non conosce limiti… Le donne in questa società non si comportano così, partoriscono, puliscono e crescono le/i figli@ col dolore e il sudore della fronte. Ovviamente, senza stipendio. Si chiama schiavitù. Spero che il libro venga pubblicato e che si dicano un paio di cose ben dette, con l’aiuto di un sacco di persone potenti e di tutti voi.

PS: Vi regalo il link a un bell’articolo sull’origine della festa della mamma e le parole sagge in merito a questo articolo di Rosario Hernández Catalán:
“Il figlicidio e il matricidio informano, purtroppo, la storia. Sicché la femminista Julia Ward convocò un’alleanza di madri contro la guerra, perché la guerra è il più grande figlicidio (uccisione delle/i giovani, delle/i figli@) e il più grande matricidio (sterminio dell’opera materna). La guerra è progettata dal Patrix, la gerontocrazia (il governo dei vecchi) patriarcale. E pensate a come è significativo che la fanteria,il corpo ammortizzatore di un esercito, si chiami così, dal termine infanti (giovani, ragazzi). La grande Victoria Sau nel suo Dizionario Ideologico Femminista, alla voce “guerra” vi illuminerà su questo tema.”

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente e Elena Zucchini (grazie!)

Una donna registra il proprio aborto per mostrare alle altre che la procedura è sicura

http://www.youtube.com/watch?v=OxPUKV-WlKw

Emily Letts è una 25enne, ex attrice professionista e attualmente consulente presso la New Jersey Women’s Clinic. Dopo aver scoperto la propria gravidanza indesiderata, ha deciso di registrare il suo aborto per mostrare alle altre donne che la procedura è sicura. Letts lavorava al Cherry Hill Women’s Center da un anno, al momento della scoperta. Ha raccontato la sua storia in un articolo di Cosmopolitan, spiegando di non sentirsi pronta a diventare genitore e di non essere impegnata in una relazione seria:
“Sentivo di non essere pronta a prendermi cura di un bambino”.

Letts ha dunque deciso di interrompere la gravidanza presso la clinica Cherry Hill, dove è consulente. Incinta da sole due o tre settimane, aveva cercato un video per rendersi conto di come avvenisse un aborto, senza trovarne nessuno. Perciò ha preso la decisione di filmare il proprio, allo scopo di aiutare tutte le altre donne che si trovino ad affrontare gravidanze indesiderate e che temono l’aborto.

Scrive Letts: “un’interruzione di gravidanza al primo trimestre dura dai tre ai cinque minuti. E’ più sicura del parto, non vengono praticati tagli operatori e il rischio di infertilità si attesta sotto all’1%. Ciononostante molte donne arrivano in clinica terrorizzate e convinte di venire macellate, e che non potranno più avere figli@ dopo l’aborto. La pessima informazione circolante è incredibile”.

Ha scelto l’aborto chirurgico in anestesia locale e non totale, proprio perché voleva sperimentare il tipo di procedura che più spaventa le donne che si rivolgono a lei per consigli. Voleva in tal modo capire meglio le donne angosciate che si trova di fronte e che deve aiutare, non far sentire le donne in colpa nello scegliere l’aborto ed anzi, essere loro d’esempio a non sentirsi in colpa riguardo alla decisione di interrompere la gravidanza.

“La nostra società alimenta questo senso di colpa, lo respiriamo dappertutto. Anche le donne che arrivano in clinica assolutamente convinte di volere l’aborto, si sentono in colpa per il fatto di non sentirsi in colpa! “Io non mi sono sentita in colpa…  e ringrazio di poter condividere la mia storia e ispirare altre donne per smontare quel senso di colpa.”

Su YouTube, Letts scrive:

Questa è la mia storia. SOLO la mia storia. Non immagino sia più o meno di questo. Non parlo per tutt@ in merito a questa questione delicata, e rispetto le opinioni di tutt@ fintantoché non vengono imposte per altr@.

La mia più grande speranza è che qualcun@, in qualche parte del mondo, veda il video e vi trovi guida, forza, supporto, o qualsiasi cosa quella persona stia cercando in quel momento. Voglio dire a quella persona “non sei sola”. Abortire non ti rende un mostro, una donna  per male, una cattiva madre.  Abortire non ti rende una colpevole. E’ soltanto un avvenimento della tua vita riproduttiva. Non sei sola. Sono qui per te. Siamo tutt@ qui per te.

Condividete questo video, PER FAVORE.  Aiutatemi a farlo girare in tutti gli angoli remoti della rete. Una donna ogni tre ha scelto, o sceglierà un ‘interruzione di gravidanza nel corso della propria vita riproduttiva. Questo video è per tutte noi.

Inutile sottolineare come i commenti negativi al video dei ‘difensori della vita’ si sprechino in parole di tolleranza quali, puttana, cagna, demone, speriamo che tu muoia/ti leghino le tube/ ti penta per tutta la vita/non abbia mai figli@, ecc.ecc.

Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

L’importanza dell’aborto, tra diritto negato e strumentalizzazioni

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Chi legge questo blog probabilmente già è al corrente del fatto che per promuovere il proprio libro Mario Adinolfi ha fondato, nel nome della mamma, dei circoli. Uno scritto e dei circoli contrari ai diritti umani, nello specifico contrari al diritto a un aborto in sicurezza, contrari al diritto a non subire discriminazioni in base al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, e contrari al diritto di poter morire senza subire accanimento terapeutico.
Le stesse idee misogine, omofobe e autoritarie espresse negli anni passati da Giuliano Ferrara, dalle destre (e pseudosinistre) più o meno organizzate in partiti, movimenti e associazioni, assieme a fanatici religiosi di ogni credo e credenza. In difesa di una presunta “famiglia naturale”. “Famiglia” significa “comunità umana” e, in quanto tale, non può essere “naturale”, con lo stesso significato che diamo all’aggettivo “naturale” quando lo usiamo per descrivere le piante; ormai non esiste neanche più il “paesaggio naturale”, dato che anche ciò che appare come frutto della natura è, in qualche modo, stato oggetto di modificazione da parte dell’essere umano; anche un prato è un paesaggio antropizzato. Il concetto stesso di paesaggio o di pianta è antropico, culturale. La famiglia è, unicamente, culturale. Essa assume forme diverse a seconda del momento storico, in base al quale può fondarsi su valori del tutto estranei alla contemporaneità di chi scrive. Siamo ai fondamentali del ragionamento attorno all’essere umano.

Purtroppo queste persone hanno già segnato punti a loro favore nel momento in cui ci occupiamo delle loro uscite populiste, della loro bassezza umana e pochezza culturale. In più, spararla grossa per creare scompiglio, è una tecnica di imbarbarimento del dibattito, in questi casi il dibattito non esiste nemmeno, siamo ben oltre.

Siamo oltre se una ragazza di diciannove anni se ne sta seduta nella sala di attesa del padiglione di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale San Martino di Genova, le è stato dato il farmaco per indurre l’aborto. Lei non lo sa ma il medico è obiettore, le infermiere non si interessano al suo caso e per le prossime ore sarà invisibile. A fine giornata dovrà chiamare la polizia per ottenere l’assistenza medica che le spetta di diritto dal Servizio Sanitario Nazionale.

Siamo oltre se una ragazza di venti anni, incinta di circa sette mesi, va ad abortire in una struttura non accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale. Lei forse non lo sa ma per la legge è infanticidio (o lo sapeva ma ha voluto rischiare lo stesso, perché se vuoi abortire lo fai e basta, a rischio della vita e della pena prevista dalla legge). Durante i prossimi mesi la sua vita sarà sotto il microscopio, verrà condanna a una pena detentiva, assieme ai complici, il medico e l’infermiere che le hanno interrotto la gravidanza, a chi ha occultato il fatto.

Due storie tra le tante. Mettiamo in discussione il Servizio Sanitario Nazionale, a cosa serve se non fornisce alcun servizio? Se quello che fornisce non è omogeneo sul territorio? Se è afflitto dalla piaga dei nullafacenti – come chiamare altrimenti una persona che percepisce uno stipendio ma non svolge le mansioni per cui è stata assunta? Qual è l’etica del Servizio Sanitario Nazionale? La strada intrapresa è quella di una sanità privata? Allora perché un ginecologo e un infermiere che “privatamente” hanno “aiutato” una donna in difficoltà devono subire una pena? Quale coscienza hanno tutte le persone che lavorano nella sanità? Qual è il compito di un medico? E di un@ infermier@? Che ce ne dobbiamo fare della Legge 194? Siete convinti che la vita si difenda obiettando? Siete convinti che gli aborti si riducano lasciando le donne in una corsia d’ospedale ad aspettare per ore un controllo? Di che cosa parlano queste persone? Dove vivono?
Il medico che si è rifiutato di seguire la ragazza a Genova è stato denunciato, ma la catena di responsabilità non sembra essere chiara.

La scelta di interrompere una gravidanza è oggetto di messa in discussione costante, un fatto scottante, più importante della mancanza di lavoro, della difficoltà ad avere relazioni di valore, della malattia, più importante della morte stessa di quella parte di umanità che chiamiamo donne.

Abortire è un peccato che non si può perdonare, ci fanno intendere. L’aborto “è sempre un dolore”, l’aborto “è una scelta difficile”, per altri l’aborto “è una scelta facile”, l’aborto “non può essere banalizzato”, l’aborto “deve essere regolamentato”, per fare un aborto “bisogna essere coscienti di ciò che si sta facendo”, per fare un aborto bisogna avere “una motivazione valida”, l’aborto è “la negazione della vita”. Ma un aborto è solo un aborto, cosa vi spinge a pensare che sia qualcosa di così importante e speciale, per voi che non lo state facendo? Credete che l’umanità finirà perché alcune donne abortiscono? Credete che i feti abortiti rimpiangano di non essere nati? Credete che le donne che abortiscono non siano vita?
Un aborto ha sempre un significato, per chi lo fa, ma non è detto che sia quello che vi immaginate. E, quale che sia quel significato, l’unica cosa importante è che si tratta di una pratica medica, che deve svolgersi in sicurezza perché, se per voi la vita è davvero importante, allora l’obbiettivo è ridurre il rischio che una donna entri in ospedale con i propri piedi e ne esca in una bara.

Parlare di aborto dovrebbe essere come parlare di colecisti. Come tutti gli interventi, dall’asportazione delle tonsille alla colecisti, prevede un rischio e quindi andrebbe evitato, ma se una persona si trova in ospedale è perché evidentemente è giunta al punto di dover effettuare l’intervento, da lì merita un’assistenza continua, rispetto e comprensione, esattamente come tutt@ gli/le altr@ degenti.

Non ci sono “mamme” come categoria a parte alle quali appellarsi. Le donne sono singole persone, alcune sono anche madri, alcune sono anche lesbiche, alcune sono anche trans.

Aborto. Una storia di scarsa importanza

La metropolitana era affollata come al solito. Alessandra raggiunse uno spazio rimasto miracolosamente vuoto tra una porta e un tubolare, vi si sistemò stringendo a sé la borsa con la biancheria e la copia della cartella clinica. Il day hospital era andato bene, non avvertiva nessun dolore particolare, era solo un po’ stanca. Si chiuse nei propri pensieri, girava attorno all’idea del prossimo viaggio all’estero, doveva scaricare la cartina della metro da quel sito così utile. Si sentì toccare un braccio.
Un ragazzino sui tredici anni, riccioluto e già afflitto dall’acne, le stava cedendo il posto, chiamandola “signora”, probabilmente costretto da sua madre, la donna che gli sedeva accanto e le faceva cenno di sì con il capo.
Ogni volta che qualcuno la chiamava signora si sentiva in imbarazzo. Quanti anni di differenza potremmo avere io e te ciccio? Sgusciò tra i passeggeri e si sedette ringraziando sia madre che figlio annoiato. E’ troppo grande d’età per sedersi sulle cosce di mamma e troppo giovane per darsi un contegno, pensò.

“Viene dall’ospedale?” le chiese la donna. “Ho abortito” disse Alessandra mentre si sedeva. La donna annuì sorridendo. “Anche io l’ho fatto un paio di volte, una prima di lui e una dopo. Abbiamo voluto solo questo” disse indicando il figlio.
“Avevo preso la pillola ma è andato storto qualcosa.”
“Purtroppo a volte succede, l’importante è che ora stia bene. ”
“Sì si, sono solo stanca, ma è andato tutto bene.”
“Mio marito ha fatto una vasectomia, non voleva che dovessi subire altri interventi, la chiusura delle tube è più complessa come procedura.”
“Me l’hanno detto.”

Due fermate più tardi la donna e il ragazzino scesero salutandola, la metro si stava svuotando rapidamente. Alessandra abitava quasi al capolinea.

Un elenco semiserio di ragioni per cui potresti essere bisessuale

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Se hai dovuto fare coming out più di una volta con la stessa persona, potresti essere bisessuale.

Se il tuo orientamento sessuale è quanto basta agli altri per poter dare per scontata la tua promiscuità, potresti essere bisessuale.

Se la tua reazione alla quantità assolutamente scarsa di attenzione che riceve la comunità trans dalle organizzazioni “lgbt” mainstream è disgusto… seguito da gelosia perché tu non hai nemmeno quella, potresti essere bisessuale. Se invece la tua reazione è disgusto e rabbia perché si prende in considerazione soltanto metà della tua identità, potresti essere bisessuale. E trans.

Se media, attivisti e via dicendo pensano che la migliore maniera di categorizzare l’arcobaleno sia di nominare tutte le parti di esso meno la tua, potresti essere bisessuale.

Se la locuzione “gay, lesbiche, trans” alle tue orecchie arriva come “gay di sicuro, lesbiche forse, trans solo formalmente… e io non esisto” potresti essere bisessuale.

Se ogni volta che presenti un/a nuovo/a partner agli amici devi ripetere che la tua sessualità è sempre quella di prima, potresti essere bisessuale.

Se chiunque pensa di poter definire la tua sessualità meglio di te, potresti essere bisessuale.

Se sei sottoposto/a all’accusa di essere velato/a nonostante tu faccia una quantità spropositata di coming out al giorno o addirittura nonostante tu sia attivista, potresti essere bisessuale.

Se il tuo superpotere è l’invisibilità ed è così potente da estendersi ad ogni eventuale rappresentazione artistica e mediatica della tua comunità, potresti essere bisessuale.

Se hai perso più amici gay e lesbiche che etero quando ti sei dichiarato/a, potresti essere bisessuale.

Se tu non sei gay o lesbica ma il/la tua partner sì, potresti essere bisessuale.

Se qualcuno pensa che il tuo orientamento sessuale vada di moda – la discriminazione è trendy? – potresti essere bisessuale.

Se fai volontariato per la tua comunità e gli altri ti ringraziano per essere un alleato/a (invece che parte integrante della comunità), potresti essere bisessuale.

Se ti cascano le braccia ogni volta che un attivista gay si lamenta della lunghezza della sigla LGBTQIA (perché tanto la sua appartenenza ad essa non è mai stata messa in dubbio), potresti essere bisessuale.

Se la tua identità è stata considerata “una fase” da qualcuno che quando hai fatto coming out era ancora uno zigote, potresti essere bisessuale.

Se sei una figura storica, letteraria, politica, sociale estremamente famosa e ultradichiarata e tuttavia gli altri continuano lo stesso a usare la definizione sbagliata, potresti essere bisessuale.

Se sei la persona più monogama del globo terracqueo eppure chiunque ti vede come potenziale cornificatrice, potresti essere bisessuale.

Se sei poliamoroso/a e non hai voglia di definire il tuo orientamento sessuale per non correre il rischio di confermare uno stereotipo, potresti essere bisessuale.

Se ti identifichi come gay o lesbica per non dover dare spiegazioni in giro, potresti essere bisessuale.

Se sei perverso/a e polimorfo/a, potresti essere bisessuale.

Se non ti senti a tuo agio né nella comunità gay né in quella etero, potresti essere bisessuale.

Se gli altri ti vedono come “metà qualcosa” e “metà qualcos’altro” ma tu ti senti tutto/a intero/a, potresti decisamente essere bisessuale.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

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(Aiko. Detail. Collage on canvas. Photo © Jaime Rojo).

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad. Traduzione di Serbilla Serpente revisione di feminoska, articolo originale qui.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

L’antropologa Dolores Juliano sostiene che, siccome “il modello di sposa e madre devota è davvero poco attraente, l’unico modo per ottenere che le donne vi si adeguino è assicurarsi che l’altra possibilità sia peggiore”.

Dolores Juliano (Necochea, Argentina, 1932) ha studiato a fondo le strategie culturali e di dominazione di genere contemporanee, così come i saperi e le pratiche delle collettività oppresse che le fronteggiano. El juego de las astucias. Mujer y construcción de mensajes sociales alternativos (1992); La prostitución: el espejo oscuro (2002); o Excluidas y marginales: una aproximación antropológica (2004) ce lo raccontano bene. Questa dottora in Antropologia e professora dell’Università di Barcellona ha fatto parte, fino al suo pensionamento, del progetto ‘Mujeres bajo sospecha. Memoria y sexualidad (1930-1980)’ condotto da Raquel Osborne. In esso, Juliano analizza i modelli di sessualità vigenti durante il franchismo e come l’omosessualità femminile fosse condannata al silenzio e all’invisibilizzazione.

I modelli di sessualità femminile sono cambiati rispetto a quelli dell’epoca della dittatura, oppure è cambiata la forma ma la sostanza è la stessa?

E’ cambiata la società. La chiesa cattolica mantiene i modelli sessuali tradizionali. L’idea di peccato o di devianza è molto presente in essa e nelle religioni monoteiste. Nel protestantesimo ci sono modelli puritani assolutamente fondamentalisti. Il dettato delle leggi religiose sembra ugualitario, ma nella pratica non è mai stato così.

Queste religioni sono più permissive con la sessualità maschile?

Sì, e ciò ha a che vedere con i modelli religiosi e l’organizzazione sociale. Le società patrilineari e patrilocali sono molto restrittive rispetto alla sessualità femminile.

Leggi tutto “Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone”

Il sonno del femminismo genera mostri: è ora di svegliarsi!

sleepingbeauty twins fairytale  La capacità del sistema di normalizzare le istanze radicali non è sicuramente una novità, e fa parte di quelle manovre biopolitiche volte a depotenziare e normare quelle soggettività che, perlomeno inizialmente, pongono la propria alterità come caratteristica fondante del proprio esistere e del proprio agire. Purtroppo, spesso, la fatica di trovarsi perennemente in lotta e il desiderio di potersi allontanare almeno parzialmente da quello che è per alcun* soggett* un vero campo di battaglia (che ha luogo sui propri corpi e sulle proprie vite) ha come amaro risultato che, a fronte di piccolissime concessioni dalla valenza apparentemente positiva, le istanze originarie e dunque la lotta in sé si snatura, non riconosce più il proprio obbiettivo, ed infine spesso rimane un vuoto involucro utilizzabile a mò di brand ogni volta si ambisca passare per rivoluzionarie le scelte più reazionarie che si possano immaginare. Per quanto riguarda il femminismo, avvicinandosi la ricorrenza dell’8 marzo e a seguito delle lodi sperticate al governo Renzi, definito in termini elogiativi come governo giovane e finalmente paritario, vorremmo fare una riflessione che possa restituire non solo quella che è la situazione reale, ma anche la necessità di una lotta femminista che ritrovi la sua radicalità, senza la quale anche il movimento delle donne si ritrova ad essere solo un marchio strumentalizzato a destra e a manca.

Le colpe di certo femminismo storico italiano il quale, ottenuti insperati successi oramai 40 anni fa, ha considerato la propria missione compiuta vivendo sugli allori di qualche battaglia vinta e diventando miope di fronte alle manovre del potere patriarcale, tutte volte a depotenziare quelle stesse vittorie (l’eterno braccio di ferro che si compie da 40 anni a questa parte sulla legge 194 ne è un chiaro esempio) o a dipingere, riuscendoci, il femminismo come fondamentalmente misantropo, superato, oramai relegato ad un passato remoto e appannaggio soltanto di donne brutte, indesiderabili e colme di odio per il maschio e desiderio di vendetta è cosa nota.

Negli ultimi anni poi, come se non bastasse, l’emergere di posizioni politiche femminicide propugnate da certo femminismo borghese ha dato il proprio imprimatur allo status quo, celebrando le quote rosa, l’italianità, la dignità delle donne da difendere ad ogni costo (anche calpestando l’autodeterminazione di altre donne) e il “diritto alla maternità” attraverso la conciliazione. Tutti ‘mostri’ nati dall’edulcorazione di un movimento le cui parole d’ordine erano quelle dell’autodeterminazione e della liberazione, non dell’emancipazione delle donne.

Il mostro del giorno è il governo Renzi, che, sdoganato da un discorso che preferisce di gran lunga il termine “femminile” – così moderato, così debolmente connotato, così maternamente accogliente e paziente –  a  “femminista”, è allo stato dell’arte per quanto concerne il pinkwashing, facendo bella mostra di donne che peraltro si prestano al gioco non solo adattandosi in maniera docile al loro ruolo di veline del solito uomo di potere, ma che, dalle prime dichiarazioni fatte, sono quanto e più sessiste di certi loro colleghi maschi; e il cui valore pare riassumersi in quella ‘donnità’ funzionale al riaffermare le solite politiche reazionarie che si realizzano sul corpo delle altre donne, quelle che ne fatti non rappresentano per nulla – anche se poi decidono per loro.

Giovani donne come Marianna Madia, che ricalcano visivamente e negli intenti l’immagine della ‘madonnina’ devota al Grande Padre Onnipotente, che col suo esempio – e purtroppo con le sue parole di fondamentalista cattolica che, senza alcuna vergogna, antepone con leggerezza alla laicità richiesta dal proprio ruolo istituzionale – rendono evidente che l’essere ‘donne’ in sè e per sè non presenta alcun valore aggiunto nè raggiunge alcun risultato positivo in un percorso il cui fine ultimo è quello della liberazione, non della concessione.

Mutuando un’immagine dall’attivismo antispecista: se, in quanto femministe, non desideriamo gabbie più grandi, ma gabbie vuote – e perciò donne libere e autodeterminate – non dobbiamo cadere nei tranelli che oramai sono sparsi a piene mani sul nostro cammino. E’ necessario e urgente pertanto ritrovare la radicalità del femminismo, che tuttora esiste e parla di intersezionalità, queer, non maternità, anticapitalismo, e soprattutto e sempre AUTODETERMINAZIONE.

E’ ora di svegliarsi da questo incubo dai colori pastello, rifiutare la conciliazione con questa Grande Madre e Madonna, felice e realizzata nel suo ruolo subalterno e vera propria kapò per tutte le soggettività non conformi… Altrimenti, continuando di questo passo, questo incubo diventerà il coma di un femminismo che si riconosce in tutto ciò che si ammanta di rosa.

Disegno di Sasha Foster.

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.

Te la farò pagare. Le classi sociali nell’esperienza trans e autonomia dei corpi

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Quando ho fatto coming out ai miei genitori, rivelando il rapporto un tantinello apocalitticamente e insanabilmente conflittuale tra la mia identità di genere e il mio corpo sessuato, la risposta non è stata delle migliori. La cosa curiosa è che la prima frase che è uscita dalla loro bocca non è stata quella che mi aspettavo: «come ce lo permettiamo?». Le fragilissime accuse di essere contronatura e voler sfuggire all’omosessualità sono arrivate dopo e sono crollate miseramente, perché fin dal principio erano soltanto puntelli per distogliere l’attenzione dal problema principale: la mancanza di soldi. Non a caso una volta stati dalla psicologa, hanno capito benissimo che non intendevo (o intendo, visto che questo per me è ancora un presente) fuggire proprio da nulla se non da una sofferenza che con le persone che amo e/o faccio sesso non ha nulla a che vedere. Accusare tuo figlio di voler fare il finto etero è abbastanza ridicolo, se tuo figlio è la stessa persona che spiattella in giro la sua bisessualità come se non ci fosse un domani; e soprattutto, è un’argomentazione potenzialmente valida solo per una persona trans attratta esclusivamente da generi diversi da quello a cui sente di appartenere (e al quale, pertanto, appartiene). Categoria della quale indubbiamente non faccio parte.

Il denaro è parte integrante della vita in questa società: basta pensare al conto in banca, all’avere un lavoro, acquistare prodotti e via dicendo; il proprio contributo alla società è misurato esclusivamente in termini economici, e questo stabilisce quanto si è degni di esistere. Quel mucchio di gente che si trova ad essere forza-lavoro, in questo mondo ha dignità d’esistenza solo perché produce il plusvalore che capi/padroni estraggono e di cui campano, come parassiti. E ci riescono perfettamente: il miglior parassita è quello che non si palesa, continuando a parassitare l’organismo in cui si trova; e infatti le colpe della società classista finiscono per essere patrimonio degli immigrati e di altri soggetti sfruttati e oppressi. Tra la contraddizione capitale/lavoro e l’esperienza transessuale e transgender c’è un legame fortissimo, anche se non troppo evidente ai più, proprio per la certosina opera di invisibilizzazione che si compie ai danni delle istanze che una volta messe sul tavolo pongono domande scomode e sfuggono al disegno assimilazionista, eterocisnormativo e normalizzatore dell’attuale politica gay e lesbica mainstream. È un legame che si palesa in tanti aspetti.

Una persona transessuale e transgender in una condizione economica privilegiata, può sopperire più facilmente ai costi notevoli della transizione e compierla nei tempi che desidera, possibilmente molto rapidi, sperimentando per molto meno tempo l’incongruenza tra i propri documenti e la propria presentazione di genere. Può permettersi di transizionare nonostante la privatizzazione della sanità e i limiti della stessa. Può permettersi di fare percorsi di studio che gli/le consentono di avere i requisiti necessari per rientrare nelle politiche di diversity management e quindi lavorare, potendo quindi fare affidamento, in futuro, sul reddito che percepirà. Può sfuggire più facilmente alla casta dei gatekeepers, coloro che impongono rigide norme riguardo chi può o non può transizionare: norme che si possono tenere a bada, avendo soldi per poter pagare specialisti privati, o viaggiare per raggiungerli. Norme che le persone trans appartenenti al proletariato e al sottoproletariato hanno dovuto sapientemente aggirare (e devono continuare a farlo, ove necessario) tramite l’adozione di tecniche quali le trans narratives, cioè le narrazioni standardizzate preconfezionate sulla propria storia, la propria infanzia e via dicendo su misura per psicologi e psichiatri, allo scopo di poter passare tra le maglie di un sistema eteronormativo e cisnormativo; e in minor misura in Italia (ma discretamente presente altrove), vi sono altre pratiche come l’autosomministrazione di ormoni, che sono parte di transiti aventi luogo al di fuori del percorso di transizione ufficiale.

Il bypassamento dei gatekeepers risulta essere un fenomeno interessante, in termini storici, di resistenza trans al dominio cissessista; ma a parte questo, il gatekeeping presenta somiglianze con quanto si verifica per contraccezione, protezione dalle malattie sessualmente trasmissibili e aborto. Si negano servizi di sanità pubblica non alle donne in genere, ma esplicitamente alle donne cis lavoratrici, precarie, migranti; non si tolgono diritti a tutte quante, ma si rendono i diritti riproduttivi esclusivamente a portata delle donne cis, bianche e borghesi, le quali avrebbero comunque modo di accedervi. Sono entrambe parte, infatti, di un disegno più ampio: quello neoliberista. Non è un caso che la regressione dei vari diritti ci sia proprio in fase di austerity: le politiche di austerità rappresentano la scusa per acuire con politiche economiche terribilmente antiproletarie la differenza tra ricchi e poveri e per asservire chiunque al capitale ancora più di prima. Quello che si fa è spostare l’asticella dell’autonomia del corpo trans dalla parte di chi pretende di regolamentarlo rigidamente (nello specifico, l’istituzione medica – in particolar modo nella sua variante psichiatrica – e quella statale) e dare legittimità al suo transitare soltanto se al termine della transizione, questo andrà a posizionarsi nel mondo esclusivamente come maschio maschile o come femmina femminile, entrambi votati al binarismo sessuale e di genere e all’eterosessualità senza via d’uscita. Se non vuoi essere obbligatoriamente madre/padre, sei contronatura. Sei vuoi esserlo nei termini che decidi tu, sei contronatura lo stesso, perché cos’è natura lo decide la cultura: quella dominante, quella borghese. Se nasci intersex, dimostri che il binarismo sessuale è pura idiozia, quindi devi essere sottoposto/a a chirurgie che non hanno nessuno scopo, se non quello di adeguarti agli standard di una norma socialmente costruita.

Donne e uomini transessuali, persone transgender e favolosità affini sperimentano la corporeità in maniera differente e sfuggono dai loro percorsi prestabiliti, o si situano in toto al di fuori di questi percorsi; tutte/i quante/i pretendono di modificare i propri genitali oppure mantenerli, ma in una configurazione sessuata nuova, rimappata; sono persone spesso sterili, oppure genitori, sì, ma poco utili, perché con la loro stessa esistenza rappresentano l’atto di privilegiare il proprio desiderio e il proprio benessere sulla normatività di un mondo cisgender e sulle necessità dell’economia, produttiva e riproduttiva. Sono bombe a grappolo sul terreno della biopolitica, perché svelano l’inganno: i nostri corpi non appartengono a noi, ma all’ordine sociale capitalista che pretende di avere l’esclusiva non solo sui mezzi di produzione, ma anche su quelli di riproduzione, poiché ne garantiscono la perpetuazione. Se la riflessione femminista ha messo a nudo tutto ciò, una riflessione transfemminista come può non rilevare dell’altro? una donna transessuale non è vista come donna non perché la sua identità non sia quella e lei non si viva come tale, ma perché agli occhi del capitalismo donna è esclusivamente quell’incubatrice che si fa carico di generare futuri lavoratori e lavoratrici: in altre parole, il corpo trans è denaturalizzato perché non risponde alle necessità della creazione di valore, e nell’incapacità del corpo trans alla riproduzione, non vedo quella che per molti è una mancanza, ma qualcosa che andrebbe valorizzata: la potenzialità sovversiva dello sciopero umano.  La lotta  contro gli ingranaggi dell’oppressione di e del genere nelle nostre vite, è una forma di sabotaggio della macchina del capitale: materializziamola, festeggiamola.

Hackeriamo i fondamentalisti misogini contro la maternità obbligatoria

ph eldiario.es

Ieri, attorno alle 19.30, un hacker parte del movimento #Anonymous, ha avuto l’idea di hackerare il sito dell’Arcivescovo di Granada, inserendo nel sito il video dell’artista e attivista colombiana Nadia Granados, in arte La Fulminante Roja, nella performance Maternidad Obligatoria [Maternità obbligatoria], accompagnandolo all’hashtag #NiDevotaNiSumisa.
Nel video, realizzato nel 2011 e recentemente rimosso da youtube, La Fulminante interpreta un monologo sulla libertà sessuale e di aborto, giocando con un preservativo pieno di sperma.

L’azione di #Anonimous è una risposta diretta alle posizioni antiabortiste e misogine dell’arcivescovo Martínez, diventato famoso, in novembre, per aver promosso la pubblicazione in Spagna del libro di Costanza Miriano “Sposati e sii sottomessa” (in spagnolo “Casate y sé sumisa”) e noto per le sue dichiarazioni su aborto e stupro. Secondo l’arcivescovo Martínez quando abortisci non puoi lamentarti se qualcuno ti stupra: “no podían quejarse si abusaban de ellas”. L’azione è diretta anche al PP di Gallardón, il Partito Popolare spagnolo che ha modificato la legge sull’aborto, rendendola molto più restrittiva e riportando il paese alla condizione degli anni Settanta, cancellando il diritto all’autodeterminazione delle donne. L’anonim@ hacker mette in relazione le alte sfere del PP con la setta cattolica dell’ Opus Dei.

MATERNIDAD OBLIGATORIA di LaFulminanteRoja

http://www.dailymotion.com/video/xl1bm0_maternidad-obligatoria_webcam

Maternità Obbligatoria di La Fulminante Roja, traduzione di Serbilla.

La copula ci permette di trascendere i limiti del nostro corpo fisico. Necessario incontro orgasmico e libertario!! Fonte illimitata di forza emancipata!! Ci sono milioni di ragioni per voler copulare, sono personali e intime e tanto diverse per quante persone sono sulla terra. Di solito godiamo senza fine riproduttivo, piacere fine a sé stesso.

Prendere una gravidanza accidentale e trasformarla in maternità è un diritto e non un obbligo, come dovrebbe esserlo interromperla nel caso in cui non la si possa accettare. Quando i moralisti affermano che “La vita inizia con il concepimento” stanno mettendo sullo stesso piano l’ovulo fecondato e una persona con diritti e libertà. Agli spermatozoi con cinque ore di vita dentro questo preservativo non è stato permesso di fecondare ma, se questo cappuccio si fosse rotto, tutto questo seme sarebbe dentro il mio grembo fertile e potrebbe essere un piccolo zigote “Figlio di Dio” e, nel caso volessi tirarlo fuori dal mio corpo, si direbbe che questo è un delitto, perché è mio obbligo trasformarlo in bambino.

La “voce” di questi anziani cattolici e misogini, che mai correranno il rischio di restare incinti senza desiderarlo, incide maggiormente sulle leggi della voce di milioni di donne in età riproduttiva molte volte obbligate a procreare, soprattutto le più povere, le più indifese. Perché, nonostante si dica che è “illegale”, se una donna lo può pagare, può procurarsi un aborto, può prendere del Cytotec. E se vuole abortire ma non ha soldi? Se non ha nemmeno di che mangiare? Allora questa donna, che non ha alcuna garanzia di vita degna, come la si può obbligare a essere madre? A essere madre?

La maternità non può essere considerata un dovere, è una decisione personale.
Mai più crocifissi nei nostri uteri!!
Vogliamo il diritto a decidere sul corso delle nostre vite!!